Una Pasqua oscurata?


Probabilmente quando leggerete queste righe il dramma di Cutro sarà sparito da un po’ dalle prime pagine, magari sarà ridotto a mero strumento per colpi bassi tra i partiti di governo e le opposizioni. Purtroppo, tragedie come questa finiscono troppo in fretta nel tritacarne dell’assuefazione, e vengono sostituite dal gossip e dalle vanità di turno.

Mi ha colpito un’insegnante che raccontava su Facebook come avesse chiesto ai suoi alunni delle medie del terremoto in Turchia e Siria e si fosse trovata davanti una scena muta. Quando invece aveva fatto il nome di due noti cantanti e influencer, si era trovata travolta da un fiume di particolari. Il suo racconto mi ha fatto pensare a quanto sperimento io stesso quando chiedo a dei ragazzi se hanno mai sentito parlare di Eswatini (troppo difficile) o dello Yemen. Per fortuna c’è sempre uno più sveglio che, magari con un piccolo aiutino, ti dà poi la risposta giusta.

La stessa ignoranza mi pare di trovarla in certi politici che di fronte ai problemi delle migrazioni danno risposte prefabbricate e dogmatiche, usando a volte a sproposito le parole del papa. Per loro è tutta colpa dei trafficanti di persone e delle Ong che si fanno loro complici. Una visione semplificata e di comodo che non tiene conto della complessità del problema, e delle responsabilità del «nostro» sistema economico che causa squilibri ecologici, instabilità politica o dittature, sfruttamento del lavoro, razzia di materie prime, guerre intestine e tanto altro ancora. Come non comprendere chi decide di tentare un’alternativa rispetto a una vita impossibile e indegna, aggravata dalla crisi climatica, che pure colpisce pesantemente anche il nostro mondo, e dalla diffusione di nuove pandemie, come il Covid-19.

Solo chi non vuole vedere, o chi sa di poterne trarre un tornaconto, riduce il problema delle migrazioni alla responsabilità dei trafficanti. Senza interventi radicali che promuovano la vita, il lavoro, la salute, la scuola e, anche, libertà e democrazia in tanti paesi impoveriti (e spesso i più ricchi di risorse naturali), la fuga dei disperati (o dei sognatori di una vita più dignitosa) continuerà a crescere.

Mentre leggete queste righe stiamo celebrando la Pasqua, il tempo che segue quello nel quale, dal Getsemani al Calvario, si intrecciano morte e vita, indifferenza e violenza, fanatismi e paure, fughe e pianti, silenzi e gesti di grande generosità, disperazione e coraggio, delusioni e speranze. Dopo oltre un anno di guerra folle in Ucraina, dopo i tre anni di pandemia che, oltre a troppi morti, hanno lasciato segni profondi nella vita di tanti, soprattutto giovani, e amari strascichi da caccia alle streghe, dopo una siccità (sia qui da noi che in tante parti del mondo) che sembra inarrestabile e di cui non comprendiamo ancora appieno le conseguenze, la tentazione è quella di domandarci: «In questa situazione, come si può celebrare la Pasqua che è risurrezione, cioè vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio, della gioia sul pianto?».

Mi ero fatto una domanda simile, tanti anni fa, a Maralal, in Kenya, quando, il Venerdì Santo, avevamo concluso la Via crucis vivente lasciando (chi impersonava) Gesù inchiodato alla croce. In quel momento, quell’immagine rappresentava le sofferenze di persone e animali attanagliati in tutta la regione da un lungo e doloroso periodo di siccità e fame.

La risposta, allora come oggi, è proprio la Pasqua: non una risoluzione magica di tutti i problemi, ma un cammino che porta dal buio alla luce, dalla morte alla vita. Un cammino da fare non da soli, ma con Lui, Gesù di Nazareth, per rinascere con Lui, per trovare in Lui la forza di vivere, lottare, amare, pagare di persona per un mondo nuovo, bello, fraterno e giusto.

Allora, nella Pasqua, ha senso pregare ogni giorno per la pace, non per convincere Dio, spossato dalle nostre richieste, a risolvere i nostri problemi, quanto piuttosto per riscoprire la nostra vera dignità e vocazione, e ritrovare il coraggio di assumerci la nostra responsabilità nel costruire la pace a cominciare da lì dove siamo: casa, lavoro, scuola, tempo libero, impegno sociale e politico.

Se davvero vivo la Pasqua, se davvero ascolto la Parola, non rimango seduto sul divano a guardare uno schermo nell’attesa di un miracolo, ma divento soggetto attivo di fraternità, costruttore di pace, operatore di giustizia. Giorno per giorno, passo dopo passo.

Allora sì, anche in mezzo alla violenza degli uomini e all’incontrollabile potenza degli avvenimenti naturali, terremo viva la luce della speranza, non lasceremo spegnere la nostra piccola candela accesa al fuoco di Cristo, e avremo la forza di lottare tenacemente per un mondo dove tutti gli uomini possano danzare insieme la gioia della vera pace.




Vivere a partire dalla Risurrezione


“Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede!” (1 Cor 15)

“Apparendo agli Apostoli, dopo la risurrezione, Gesù diede loro il saluto della pace. Gran cosa la pace! Bisogna quindi che ci sia la pace con Dio, compiendo la sua volontà; con noi stessi, evitando le distrazioni, regolando le passioni e liberandoci dai desideri inutili; e con il prossimo, soprattutto accettandone i limiti e trattando tutti bene. La pace può stare anche con il sacrificio e con la tribolazione, mentre non può stare con il peccato. Chiedetela a nostro Signore, che è il Principe della pace.” Beato Giuseppe Allamano

“Dunque, il grido che caratterizza la Pasqua cristiana, l’annuncio «Cristo è risorto» (quello che i nostri fratelli ortodossi si scambiano come augurio nel tempo di Pasqua, rispondendo «Cristo è veramente risorto»), è anche l’ultima parola sulla storia impietosa del cosmo e su tutte le tragiche vicende imposte dalla crudeltà dell’uomo.  Allora anche le catastrofi naturali ci spingono a far sì che la violenza che è nel cuore dell’uomo sia vinta da un senso più forte di compassione e di pietà.” Carlo Maria Martini


Carissimi Missionari, Missionarie,
Laici e Laiche missionarie,
Familiari, Benefattori,
Amici e fratelli e sorelle tutti,

con profonda emozione vi scrivo per dirvi che non c’è mattino più dolce del mattino di Pasqua, fatto di un’alba a lungo attesa, di una corsa trafelata, di un sepolcro vuoto, di un annuncio sconvolgente che passa di bocca in bocca e, prima ancora, di cuore in cuore: Cristo è risorto, è veramente risorto!

Quel sogno che l’uomo da sempre ha cullato e mai potuto realizzare è diventato realtà: la morte è stata sconfitta grazie al sacrificio dell’unigenito Figlio di Dio, Gesù Cristo, nel quale anche noi per grazia siamo diventati figli di Dio. La morte è stata vinta in Gesù e aspetta di essere vinta in ciascuno dei suoi fratelli e delle sue sorelle.

Con il cuore grondante di gioia desidero chiedere al Signore per ciascuno di noi la grazia di entrare in questo mistero di luce o nella luce di questo mistero, accogliendo nella nostra vita l’annuncio della Pasqua e facendone il cardine della nostra testimonianza tra le case degli uomini, in mezzo alle opere e ai giorni della nostra gente, spesso così affaccendata ma pur sempre alla ricerca di Luce nella notte che turba l’esistenza.

Penso particolarmente a quanti soffrono nel corpo e nello spirito nelle nostre missioni, ai malati a casa o negli ospedali; alle tante situazioni di disagio e sofferenza che molti fratelli e sorelle devono affrontare in questo periodo a causa della mancanza del lavoro o della casa; a quanti sono coinvolti nei molteplici fenomeni migratori.

Un pensiero del tutto speciale e paterno vorrei rivolgere in questa Pasqua alle tante situazioni di violenza, ingiustizia, odio e morte che purtroppo abitano tanti nostri paesi dove siamo presenti come missionari. In particolare, vorrei porre alla vostra attenzione, solidarietà e preghiera, la passione del popolo Yanomami e la terribile situazione che vive da anni il Congo e il Sud Sudan, recentemente visitati da Papa Francesco.

Secondo le organizzazioni indigene, buona parte del popolo Yanomami “è spiritualmente morto a causa della distruzione della foresta, degli omicidi e degli attacchi di ogni genere che subisce, delle umiliazioni, degli stupri, del furto di bambini, dei suicidi” e, tutto ciò è il risultato dello sfruttamento minerario: “il cercatore d’oro è bagnato di sangue”. Stiamo vivendo una catastrofe umanitaria già ben nota in Brasile, anche se le cifre esatte siano arrivate solo ora. Negli ultimi quattro anni, ogni sessanta ora, un bambino Yanomami, sotto i cinque anni, è stato ucciso dalla fame, dalla dissenteria acuta o dalla malaria.

Come uomini e come missionari non possiamo rimanere a guardare davanti a queste ingiustizie, consapevoli che la sorte dell’Amazzonia deve preoccupare tutti perché è di tutti.

Papa Francesco, visitando recentemente la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan ha risvegliato l’attenzione verso l’Africa in generale e, in particolare, verso questi due paesi sofferenti da tempo: “Avverto il bisogno di sensibilizzare la comunità internazionale su un dramma silenzioso, che necessita dell’impegno di tutti per giungere a una soluzione che ponga fine al conflitto in corso”. “Disinteressarsi dei problemi dell’umanità, soprattutto in un contesto come quello che affligge il Congo e il Sud Sudan, significherebbe infatti dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso”. Senza dimenticare, certamente, tante altre situazioni di sofferenza, ingiustizie e violenza che viviamo e tocchiamo con mano ogni giorno nella nostra missione.

Che questa Pasqua ci aiuti ad essere testimoni instancabili della prossimità di Dio Padre verso i suoi figli più poveri, e che le nostre comunità e il nostro Istituto diventino autentica accoglienza in cui nella ferialità della vita si fa esperienza di speranza e di condivisione, promuovendo e animando concreti segni di carità evangelica.

Accogliere l’annuncio della Pasqua vuol dire esserne testimoni ed è quanto auguro a ciascuno di voi. Possa ognuno essere testimone audace e credibile del Crocifisso Risorto, dell’Innalzato Glorioso e possa passare il testimone a quanti incontra nel proprio cammino, sapendo che la fede si trasmette per contagio e che non è un tesoro da tenere nascosto, come spesso ci ricorda Papa Francesco invitandoci ad essere Chiesa in uscita. Vorrei che il nostro Istituto vivesse e agisse a partire dalla risurrezione di Cristo. A tal proposito, desidero far mie alcune espressioni di un autore a me molto caro: «A partire dalla risurrezione di Cristo può spirare un vento nuovo e purificante per il mondo d’oggi. Se due uomini credessero realmente a ciò e, nel loro agire sulla terra, si facessero muovere da questa fede, molte cose cambierebbero. Vivere a partire dalla risurrezione: questo significa Pasqua» (D. Bonhoeffer, A E. Bethge 27 marzo 1944).

Con questi sentimenti di profondo affetto e amore per ciascuno di voi, auguro a tutti di vivere la gioia sconvolgente della Pasqua. Il Crocifisso risorto continui a sedurre i nostri cuori perché possiamo continuare a spendere la nostra vita nel mondo e nella Chiesa nella misura del dono totale di sé.

Buona e Santa Pasqua a tutti!

A tutti e a ciascuno: coraggio e avanti in Domino!

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P. Stefano Camerlengo, IMC
Superiore Generale




Mongolia: diventare cristiani in un paese buddista

Testo e foto di Giorgio Marengo |


Il Triduo pasquale

Nel silenzio di un pomeriggio stranamente grigio per la polvere sollevata dal vento primaverile ci siamo trovati a pregare nella gher-cappella, la tenda mongola della parrocchia di Arvaiheer. Comincia il Triduo. Non doveva essere tanto diverso quel giorno, mentre i discepoli andavano alla sala superiore dove il Maestro li aspettava. Lui sapeva già, loro erano ignari. E nel giro di poco si son visti lavare i piedi, specchiandosi in quell’acqua sporca che era l’amore allo stato puro. Poi la cena ebraica, che però assume un significato nuovo, inaudito. Anche i cristiani e i catecumeni di Arvaiheer erano stupiti. Dall’acqua del catino a quella del fonte che dopo due giorni avrebbe irrigato la vita per farvi germogliare un rapporto nuovo con Dio Padre…

Il giorno dopo abbiamo contemplato Cristo che non scende dalla croce come i supereroi, ma accetta fino in fondo la condizione umana, arrivando addirittura a morire di morte violente. Esperienza molto provocatoria per gente abituata a valutare il favore di Dio dal successo mondano e da una vita tranquilla, lontana da malattie e sofferenze. Il cielo era ancora grigio; non c’è venerdì santo che non lo sia.

Poi il ritiro di sabato mattina. Una bella tradizione per aiutare i catecumeni a prepararsi al rito che si svolgerà quella sera e per disporre i battezzati a rinnovare la propria fede e ad accogliere i nuovi membri della comunità. Arriviamo sempre a questo momento con carichi di debolezze e anche di tensioni; sembra quasi che il diavolo ci metta la coda. E nel pianto liberatorio delle confessioni (due ore, nonostante la comunità cristiana non raggiunga le 30 unità e i sacerdoti siano due!) il miracolo di quel perdono che poi ci scambiamo in cappella con un gesto il più possibile concreto. Quest’anno ognuno doveva andare da tutti gli altri e dirgli due parole, “scusami” e “grazie”, prima di abbracciare e farsi abbracciare dall’altro. Altre lacrime e singhiozzi: se la fede non passa anche da questa dimensione emotiva rimane astratta, mentre qui c’è bisogno di tanta concretezza. Persone che per screzi e incomprensioni si ammalano letteralmente (l’espressione che usano è “essere entrati nella bocca di un altro”), tentando il ricorso a lama buddisti e a sciamani perché risolvano “magicamente” quelle loro tensioni, scoprono una profonda liberazione quando riescono a guardarsi in faccia e a perdonarsi, nel nome di Colui che per primo si è fatto carico dei loro fardelli spirituali.

Pasqua, passaggio

Qui la Pasqua è davvero passaggio. Ognuno lo percepisce a modo suo. I 4 adolescenti (tra i 15 e i 18 anni) che hanno fedelmente seguito i due anni di preparazione prescritti dalle disposizioni della Chiesa locale lo vivono come coronamento di un cammino, ingresso nella comunità degli “adulti” credenti.

Chuluuntsetseg è una signora di 50 anni, che conosce da tempo la nostra comunità dove i suoi due figli sono cresciuti, prima di andare a cercare fortuna a Ulaanbaatar. Per lei è stato un avvicinamento lento e progressivo, finché alcuni mesi fa si è chiesta “cosa le mancasse” a diventare cristiana, proprio come succedeva nelle prime comunità cristiane del libro degli Atti.

Baterdene ha una storia tutta sua. Ha 28 anni, 8 dei quali trascorsi tra un ricovero e un’operazione chirurgica, prima per un tumore al cervello, poi (l’anno scorso) per una grave deformazione alla colonna vertebrale, risolta con un intervento molto delicato reso possibile da un ospedale cattolico di Seoul; adesso sono 8 mesi che non esce di casa, perché il decorso post-operatorio è molto lento e delicato. Lui ha incontrato il Signore nella sofferenza e ha capito che c’è qualcuno disposto ad alleviarla per amore di Lui, proprio come i missionari e i professionisti cattolici che ha conosciuto. Debito di riconoscenza? Non solo, ma profonda attrazione, maturata negli incontri individuali che una catechista della nostra comunità ha portato avanti andando a visitarlo frequentemente e nella condivisione personale con il missionario.

Infine, Otgonerdene e Sainzaya, rispettivamente di 10 e 13 anni, cresciuti praticamente alla missione, ultimi figli di Gantulga e Uurtsaikh, coppia diventata cristiana in questi anni e che pochi mesi fa ha avuto la tragedia di un figlio morto suicida a 17 anni di età. Ci sono pressioni nella loro famiglia che vorrebbero interrompere il loro cammino di fede, preferendogli il culto sciamanico; ma loro sentono di dover invece completare la propria adesione a Cristo come famiglia intera, anche per sottrarsi ai malevoli influssi degli spiriti, da loro percepiti come molto vicini e incombenti.

La veglia pasquale.

Nelle prime ore del pomeriggio il cielo si è tinto di ocra e tutto è rimasto avvolto dalla polvere di una tempesta primaverile; si fa fatica a stare in piedi e soprattutto a non mangiare la troppa sabbia che scricchiola tra i denti. Il vento cala, senza però cessare e decidiamo di predisporre il fuoco nel punto in cui il muro della casa offre un riparo. Le fiamme s’innalzano non dalla legna, ma dallo sterco secco che una signora della comunità ha comprato per misericordia a una povera donna al mercato. Usukhjargal, il simpatico bimbetto di 8 anni battezzato da piccolo, suggerisce al papà di disporre lo sterco a forma di croce. Così è e poco dopo la luce entra nella gher buia, prima che Gantulga, da buon poeta e cantastorie, declami l’Exultet come fosse una lode mongola. La liturgia scorre armoniosa nelle sue varie parti, fino a quando i catecumeni sono invitati ad avvicinarsi alla grande pietra scavata a forma di croce appesa al tondo centrale della gher, àncora perché la struttura non voli via col vento e insieme legame simbolico dei mongoli tra la loro terra e l’amato cielo. La famiglia cattolica che vive nella steppa al confine col deserto del Gobi ha adesso 8 nuovi membri, che alla fine della celebrazione s’intrattengono per foto-ricordo e per scambiarsi auguri e benedizioni. Il ruolo dei padrini e delle madrine è molto sentito: sono loro ad offrire doni ai neo-battezzati e a riceverne in segno di riconoscenza per aver accettato di fare da guide nella fede.

Pasqua

La Pasqua ad Arvaiheer è così. Ci sono tante cose perfettibili, noi missionari e la gente ci portiamo appresso tanti limiti; eppure è sempre un miracolo di fede che commuove. La domenica di risurrezione i neofiti vengono in chiesa con le loro camicie bianche (realizzate dalle donne del progetto cucito, in perfetto stile mongolo). Dopo messa ci fermiamo a bere il suutei tsai (tè salato con latte) e per l’occasione facciamo anche pranzo a base di khushuur (frittelle di carne) cucinate da una signora della comunità. La vita da queste parti è dura, non concede tanta poesia; nei due giorni di tempesta di terra, i pastori hanno continuato a vegliare le greggi nel delicato momento dei parti primaverili. Non si fanno tanti complimenti, ci sarà da “resistere” di nuovo a tante prove; ma adesso queste persone hanno nel cuore una speranza nuova e sanno che il “Dio del Cielo” è sceso per loro e li ha presi con sé per accompagnarli ogni giorno, fino dentro all’eternità.

Giorgio Marengo
missionario della Consolata ad Arvaiheer, Mongolia


Pubblicato la prima volta il 03/04/2018 su Asia News




Grandioso


Su Facebook ho trovato una storia scritta da una brillante giovane avvocata africana. L’ho tradotta liberamente dall’inglese, eccetto il nome del protagonista che è in italiano anche nell’originale.
«C’era una volta un uomo chiamato Grandioso. Era un ladro, di quelli d’alto bordo. Eppure tantissimi, affascinati dalla sua grande ricchezza, lo amavano e ne tessevano lodi sperticate. Grandioso era generoso con la sua “corte” e, furbescamente, condivideva il suo bottino con i più fedeli tra i suoi ammiratori diventati guardiani del suo tesoro. Non discriminava Grandioso. Derubava grandi e piccoli, uomini e donne, ricchi e poveri, senza guardare né religione né appartenenza etnica. Era imparziale. Rubava a tutti e faceva sparire i pochi che osavano opporsi al suo strapotere.

2016_04 MC Hqsm_Pagina_03Più rubava, più lo applaudivano. Più lo celebravano, più gli offrivano occasioni di rubare. Certo, perfino lui si meravigliava della stupidità dei tanti che lo ammiravano anche quando, apertamente, svuotava le loro tasche. E nessuno osava alzare un dito contro di lui. Così continuava a rubare senza freni. Era davvero il “ladro” per eccellenza.

Tutti contenti, dunque? Non tutti. Ogni volta che lui si arricchiva rubando, i figli e le figlie dei suoi fan accumulavano un debito, perché ricadeva su di loro il dovere di risarcire i derubati. Così ogni bambino di quel paese veniva al mondo già indebitato. E non finiva mai. Appena un debito era ripagato, Grandioso rubava ancora di più …».

La storia finiva così, in sospeso, rimandando a una seconda puntata. Fin troppo facile vedervici l’allusione a tanti capi di stato africani, da Mugabe a Museveni, da Kabila e Nkurunziza – per fare solo pochi nomi – che «per il bene della nazione» perpetuano se stessi accumulando immense ricchezze di cui rendono partecipi solo una stretta cerchia di cortigiani privilegiati, mentre la maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà.

Non facciamo fatica nemmeno a riconoscervi i «nostri» grandiosi, nascosti sotto i volti noti della politica e anche dei carrieristi del mondo ecclesiale o tra i corrotti e i corruttori di ogni tipo che infestano il nostro paese. Grandiosi con i soldi degli altri, sempre pronti a cavalcare l’onda per una manciata di voti, maestri di trasformismo e manipolatori di opinione. L’abbiamo visto nei fiumi di parole per la legge Cirinnà, nell’ambiguità su Siria, Libia e migranti, nell’affare degli F-35, nei trucchi delle primarie, nei giochi di potere per Roma, nei fallimenti delle banche, nella gestione dei grandi temi che ci agitano come famiglia, eutanasia, coppie dello stesso sesso, utero in affitto e adozioni.

Il nostro patriottismo è gratificato quando vediamo italiani nelle classifiche dei più ricchi del mondo di Forbes e Fortune, ma ci dimentichiamo facilmente che quando la ricchezza è troppa, difficilmente si coniuga con l’onestà ed è spesso accumulata a prezzo di lacrime e sangue, quelli della gente comune, i nostri e quelli di tanti altri poveri sfruttati nel mondo. I Grandioso non ci sono solo in Africa.

Penso invece a un altro grande, Grandioso davvero. Uno che per pagare le tasse si è affidato alla fortuna di una moneta trovata nella bocca di un pesce. Un tale che non si è lasciato abbagliare dal tintinnare delle monete d’oro o d’argento dei ricconi e ha saputo invece vedere i centesimi donati da una povera vedova. Un uomo autentico che ha scelto di vivere da povero per essere libero, pur di non diventare schiavo di ricchezze accumulate sul dolore degli altri. Uno che è finito in croce e ha rivelato tutta la sua grandezza proprio quando i suoi uccisori pensavano di averlo spogliato di ogni dignità. Un grande che il nostro collaboratore don Mario Bandera chiamerebbe certo il «Perdente per eccellenza»: Gesù di Nazareth, figlio di Dio, figlio di Maria, figlio dell’uomo e prototipo di ogni uomo vero.

Un uomo che ha rovesciato i paradigmi del nostro pensare: il primo diventa l’ultimo, il servo è più grande del padrone, l’amore vince l’odio, il perdono è più forte della vendetta, il donare arricchisce e l’accumulare impoverisce e schiavizza, i bambini sono maestri di sapienza, i peccatori e le prostitute vengono prima dei ricchi e dei titolati, la misericordia è la più alta forma di giustizia, il timore di Dio è base della «Politica» e fonte di onestà, trasparenza, responsabilità civile…

Abbiamo appena celebrato la memoria della Pasqua del Signore, l’avvenimento centrale e discriminante della nostra vita cristiana. Viviamolo sul serio perché non resti una bella recita o uno spettacolo a lieto fine. Prendiamo coraggio, resistiamo all’appiattimento dell’indifferenza e dell’abitudine e poniamo concreti gesti d’amore, di gratuità e di sobrietà.




Una notizia incredibile per l’uomo

 

 

Un vecchio adagio popolare recita: “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi” facendo così risaltare il Natale come festa della famiglia mentre la Pasqua viene presentata come una festa un po’ più allargata con amici e parenti da trascorrere magari con la tradizionale gita “fuori porta”. Inutile aggiungere che per i cristiani la Pasqua è la Festa per eccellenza! Anzi a rigor di logica, ogni domenica (ma ancor più, sarebbe il caso di dire) ogni Eucaristia celebrata in un qualunque giorno feriale, è una Pasqua vissuta e celebrata dalla comunità (grande o piccola che sia) che si ritrova attorno all’altare.

La liturgia lungo i secoli ha elaborato, oltre al tempo di preparazione alla Pasqua, cioè la Quaresima, una settimana (definita per l’occasione Santa) ricca e piena di significati simbolici, tutti tesi a ricordare, valorizzare e celebrare il mistero della Passione, della Morte e Risurrezione di Cristo. Non solo la spiritualità cristiana, ma tutta la nostra cultura artistica, letteraria e musicale sarebbe molto più arida e povera, senza l’ispirazione che il Mistero Pasquale ha offerto lungo i secoli ai geni dell’arte, della poesia e della letteratura.

Ma oggi che significato ha la Pasqua? Per i credenti “dietetici” ovvero per coloro abituati ad accostarsi alle celebrazioni liturgiche con la mentalità della cura dimagrante, cioè prendere il minimo indispensabile per poi passare ad altre vivande più succulente, che senso ha la Pasqua? Per i cristiani “mordi e fuggi” cosa può significare una festa così pregnante dal punto di vista simbolico evocativo? Focalizzando ancor più la nostra attenzione sui tempi di crisi in cui ci troviamo a vivere, la Pasqua cosa può dirci? Può una ricorrenza così importante nel calendario annuale ridursi ad una domenica da cui ricavare qualche pia esortazione per vivere un po’ più morigeratamente o peggio ancora dedue un asettico “volemose bene” che si può adattare a Pasqua, a Natale, alla Festa della mamma, ecc. Per i credenti non dovrebbe essere molto difficile recuperare il senso più profondo della Croce, della Morte e della Resurrezione di Cristo, non limitandosi semplicemente a ricordare agli altri che è Pasqua, ma cercando di testimoniare la Resurrezione di Gesù nel concreto impegno di costruire una umanità nuova dove tutti possano partecipare al banchetto della Creazione.

Già gli ebrei celebravano la Pasqua ricordando la liberazione che JHWH aveva operato a favore d’Israele liberandolo dalla schiavitù dell’Egitto, una liberazione che non fu istantanea e immediata, ma che ebbe bisogno di passare dal crogiuolo del deserto, della prova, dell’abbandono, per poter alla fine approdare alla Terra Promessa. La Pasqua fu pertanto per il popolo ebraico un cammino verso la libertà, la stessa libertà che Cristo offre a chiunque decida di seguirlo cercando di vivere il messaggio di amore e tenerezza che Egli da sempre propone ad ogni persona, in ogni tempo, sotto ogni latitudine.

Scrive Sant’Agostino: “Tre sono le cose incredibili e tuttavia avvenute: è incredibile che Cristo sia risuscitato nella sua carne, è incredibile che il mondo abbia creduto ad una cosa tanto incredibile, è incredibile che pochi uomini, sconosciuti, inermi senza cultura, abbiano potuto far credere con tanto successo al mondo, e in esso anche ai dotti, una cosa tanto incredibile!” (Sant’Agostino – “La città di Dio” XXII, 5).

Forse lo stupore di Agostino è la miglior chiave interpretativa per la festività della Pasqua ai nostri giorni in quanto da credente egli sottolinea un avvenimento straordinario che si è imposto all’attenzione del mondo romano ma allo stesso tempo, anche alle persone di buona volontà, coloro che sono in ricerca, coloro che non accettano di subire passivamente le crisi periodiche del modello economico imperante. I commenti dei personaggi della politica e dello spettacolo, possono trovare in questa “buona notizia” le radici di una speranza che non costringe l’uomo contemporaneo al grigiore di una esistenza passiva e senza senso, ma lo proietta verso il vasto orizzonte del futuro con la consapevolezza che solo sperando l’inimmaginabile e contro ogni speranza si può davvero gettare le fondamenta per una società più giusta e solidale in cui tutti possano vivere con carità fratea nella giustizia e nella pace.

Buona Pasqua a tutti.

Don Mario Bandera

PASQUA 2016




siè spento il sole

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Si è spento il sole. Era mezzogiorno quando si è eclissato, e ancora non torna. Il mondo è diventato cieco. Non vediamo più nulla. Nonostante qualche lume sia stato acceso dai centurioni lassù, sotto la tua croce, da questa distanza non riusciamo nemmeno a capire se sei ancora vivo.

E il terrore che le tenebre possano davvero avere vinto sulla luce ci sconvolge. Forse mai più toeremo a vedere?

Nell’angoscia che scuote le nostre viscere ci domandiamo perché hai permesso che ti prendessero? Perché non sei sceso dal patibolo? Perché non ha dimostrato a tutti che davvero eri il Figlio di Dio? E perché Dio non ha mandato i suoi angeli a salvarti? Quasi che fosse impotente.

Ci stringiamo gli uni agli altri nel buio, per sentirci meno persi, e percepiamo quanto siamo piccoli di fronte a tanta oscurità. Perché ci hai abbandonati, Signore? Quante cose ancora non avevamo capito, quante cose ancora dovevi insegnarci? Siamo solo creature fragili, fallaci. Con te ci sentivamo invincibili. Pensavamo che non avremmo più sofferto. Né fame, né malattia, né guerra, né tristezza, né morte. Invece sei proprio tu che muori, oggi. E le tenebre ci stringono per soffocarci.

Ma ecco che l’eclissi arretra. Non era definitiva, allora. La luce torna, e disegna impietosa la forma del tuo corpo inerme. Non sei più in vita. Ci sentiamo sconfitti, eppure sentiamo inspiegabilmente una piccola pace prendere posto in noi, in mezzo all’angoscia. Eri veramente Dio, eppure veramente uomo. Veramente capace di morire. Come noi. È come se il tuo morire ci dicesse che la nostra vita è così piena di dignità, per come è, da non avere bisogno di correttivi. Nemmeno per la morte.

Vediamo Maria. È lì, sotto il tuo corpo, Signore. Schiacciata dal peso della tua sofferenza, e della sofferenza del mondo intero. Eppure sta in piedi. Riusciamo a immaginare i suoi occhi, intensi come sempre, rapiti nella meditazione del tuo mistero. Accanto a lei c’è Giovanni. Ci fa un segno. Pare chiederci di aspettare qui, insieme. Poi sentiamo la voce di Pietro che ci si era avvicinato durante l’oscurità, dopo ore che non lo vedevamo più: «Non sia turbato il vostro cuore – sembra dire più a se stesso che a noi -. Abbiate fede, abbiate fede». Lo guardiamo, stupiti all’udire quelle parole che riportano alla memoria ciò che tu ci avevi detto, Gesù. Poi ci voltiamo di nuovo verso Maria. Sta venendo, in fretta, verso noi.

Buon cammino verso la Pasqua da amico.

Luca Lorusso