Un caro saluto dal Congo. Vi spero bene in buona salute e sereni! […] È solo la forza che ci viene dallo Spirito Santo che ci spinge ad annunciare la Buona Novella di Gesù sapendo superare le diverse difficoltà che incontriamo nel nostro essere missionari nel Congo.
Repubblica Democratica del Congo: un grande e ricco paese, gente molto accogliente, allegra, ricca di fede e di sacrifici che continua a credere in un futuro più giusto e fraterno anche se il domani appare ancora incerto e insicuro… Le famose elezioni che dovevano realizzarsi l’anno scorso, poi quest’anno, saranno ancora rimandate al 2018 sperando che questo non provochi altri disordini, saccheggi, rivolte… la nostra gente è stanca.
Qui a Neisu c’è calma ma nello stesso territorio della diocesi le cose non sono tranquille, soprattutto i ribelli ugandesi Lra (Lord Resistance Army di Josef Koni) continuano devastazioni, saccheggi, uccisioni, …in altre regioni interi villaggi abbandonati, migliaia di persone in fuga. Fino a quando?
Arrivato in Congo nel 1991, non mi ricordo un anno tranquillo di pace su tutto il territorio di questa nostra nazione. Abbandonare il Congo, andare in un altro paese più tranquillo, ritornare a casa… pensieri che a volte arrivano alla testa ma non al cuore e allora, malgrado tutto, si continua, rinnovando il mio sì al Signore, che amandomi mi ha chiamato a vivere qui. La missione, lo sappiamo, non è mia ma sua! Il Vangelo è magnifico!
Continuate a essere missionari là dove il Signore vi ha chiamato e con tutta la Chiesa, in particolare con i missionari e le missionarie che amate, stimate, aiutate e per loro pregate tanto.
Da parte mia vi assicuro la mia preghiera, il mio grazie, il mio affetto. Con la Madonna continuiamo ad annunciare Gesù suo Figlio e nostro Salvatore. Un abbraccio fraterno,
padre Rinaldo Do Neisu, 03/10/2017
Trovare Neisu su una cartina geografica è molto difficile. Se provate con Google Earth o Map, non cercate Neisu, ma «Egbita», che è il nome del posto ai tempi coloniali. Lì c’era una piccola stazione della ferrovia a scartamento ridotto che arrivava fino a Isiro. L’ospedale si trova nel punto di incontro tra la curva del tracciato ferroviario e la strada che viene da Est. È riconoscibile per il profilo della torre dell’acquedotto e il grande edificio quadrato. Sulla cartina osservate la devastazione della foresta causata dallo sfruttamento illegale del legname e dalle miniere di coltan e altri minerali strategici.
Ho visitato il posto nel 1983, tanti anni fa, quando ancora era vivo padre Oscar Goapper e a Neisu c’era solo un dispensario vicino alla chiesa in costruzione. Allora era tutta foresta fittissima. Oggi alla devastazione dell’ambiente corrisponde il dramma di un popolo che vive da tanti anni nella precarietà e nell’insicurezza. Sono molti nel mondo i missionari come padre Rinaldo che condividono la sofferenza del popolo affidato loro.
Preghiera e Messaggi
Caro Direttore,
sto leggendo un libro di Saverio Gaeta: «Il veggente». Parla di Bruno Cornacchiola, devo spiegarle chi è? No vero, lo sa chi è (*). Ha trascritto un messaggio della Madonna datato, non è ben specificato, sembra il 9 gennaio 1986. «Vi dico che è realmente così: la vostra situazione è drammatica, è deleteria per le anime! Seguite la Chiesa di mio Figlio, perché essa non perderà mai la forza della verità, della salvezza, anche se gli uomini cercano di demolirla e indebolirla della sua forza divina: non riusciranno, i caparbi!».
E ancora: «Figli, ascoltate la Chiesa, autorità visibile, e con umile ubbidienza servitela nella verità! Contro di essa, Satana non può far nulla, perché è divina, ma contro le anime che vivono in essa può molto: anzi, presenterà il male sotto la veste morale, religiosa, politica e sociale! Verranno colpite le famiglie, specialmente trascinandole nell’indifferentismo e nell’incredulità, oppure a una forma esagerata di pietà devozionale rasentante l’idolatria! Questo è il male dei tempi in cui voi vivete, figli miei cari al nostro Cuore! È il male dilagante di ogni male nel tempo passato riunito nel tempo presente sotto ogni forma! Voi avete la terribile responsabilità di scegliere: o Dio o il mondo con tutte le sue mire ingannatrici!».
Una frase che ho sottolineato (evidenziata in corsivo, ndr) mi ha colpito. Conosco fratelli e sorelle che organizzano gruppi di preghiera dove si recitano rosario, coroncina, invocazioni a san Michele, a san Giuseppe, a santa Rita e altri santi. Chi partecipa anche più volte al giorno alla santa messa, digiuna, fa adorazione anche notturna. Tutto questo sarebbe «idolatria»? Perché non sta in famiglia, critica sovente il papa per le sue battute, si lamenta dei suoi familiari che non capiscono l’urgenza del momento – la battaglia finale – o solo perché manca l’atto d’amore? «Gesù ti amo!». Cordialmente saluto.
Emanuela Rossetto 08/06/2017
Abbiamo passato la lettera a don Paolo Farinella, ecco qui la sua risposta.
Gentile Emanuela,
lei porta un «nome» che è la sintesi di tutto e anche la risposta alla sua lettera: «Emanuela – Immànuel/Dio-con-noi» non nel senso blasfemo di Hitler (**), ma nel senso che egli è «con – tra – fra – dentro – in mezzo a noi».
Una delle parole più forti del Vangelo è: «Non abbiate paura». San Giovanni ci garantisce che «Io ho vinto il mondo». Se abbiamo più fede nel maligno che può distruggere le anime piuttosto che in Dio, il quale «vuole che nulla vada perduto», penso che abbiamo perso già in partenza. Mi dispiace deluderla, io non mi occupo di apparizioni, la mia vita è presa, vissuta e consumata dalla Parola di Dio «sulla» quale cerco di stare fermo, ma vivente, immerso e abbandonato.
Non capisco queste apparizioni di Madonne che dicono sempre la stessa cosa, ormai da secoli solo per la soddisfazione di chi dice di avere avuto messaggi personali. Sto con la Chiesa che non mi obbliga a credere ad esse, nemmeno a quelle riconosciute come Fatima o Lourdes. Infatti un cattolico che affermasse: «Io non credo alle apparizioni della Madonna di Fatima o di Lourdes» non è meno cattolico di chi afferma di credervi.
Io penso che il ricorso continuo alle apparizioni nasca dalla poca frequentazione che si ha con la Bibbia, la Parola che fu «dal principio». Non basta una vita per assaporarla. Perché perdere tempo dietro ad aspetti secondari, per altro comuni a tutte le religioni (fatto che dovrebbe fare riflettere), e sottrarlo così al «mangiare il rotolo» per gustarne la dolcezza? (cf Ez 1).
Sono molto occupato a cercare di credere in Gesù Cristo, Dio incarnato, che non mi resta proprio tempo per preoccuparmi di chi è questo o quello. Non ho la pretesa di insegnare nulla, esprimo solo una via, un’esperienza, fondata sulla Parola di Dio e sulla mia serietà che è garantita dal mio totale disinteresse, sotto qualsiasi aspetto.
Lei sa che la Chiesa del secolo I-II scelse i nostri quattro vangeli tra il centinaio di apocrifi, per una sola ragione: erano e sono gli unici nei quali non vi è abbondanza di soprannaturale, mentre gli apocrifi abbondano di apparizioni, miracoli, straordinario. Ecco il criterio: la sobrietà.
Avere paura che il demonio possa avere il sopravvento significa non avere fede in Cristo risorto. A noi non è dato salvare il mondo, ma testimoniare Dio, Padre d’amore, che ci ama e non ci abbandona mai. Il resto, tutto il resto, anche le apparizioni, sì, possono venire dal maligno. «Preoccupatevi prima del Regno di Dio, il resto verrà da sé come un regalo» (cfr. Mt 6,33). Un caro saluto.
Paolo Farinella, prete
(*)Bruno Cornacchiola (1913-2001) di Roma, dal 1947 avrebbe avuto delle rivelazioni dalla «Vergine della Rivelazione» presso le Tre Fontane. È in corso la causa della sua beatificazione.
(**)Gott mit uns(in italiano: Dio con noi) era in origine il motto dell’Ordine Teutonico. Dopo la caduta dello stato dei Cavalieri Teutonici, divenne il motto dei re di Prussia, fino a divenire motto degli Imperatori tedeschi (da Wikipedia) e quindi dei loro soldati. Era il motto inciso nelle fibbie delle cinture dei soldati tedeschi e quindi anche di quelli nazisti.
Grazie
Ciao padre Gigi,
grazie per la fotostoria del XIII capitolo generale, non solo per le foto (belle e con opportuna didascalia) ma per la chiara e succinta informazione su ogni continente con statistiche problemi e proposte. Il tutto presentato in un clima di serenità e speranza, notando la novità e la continuità nella vita del nostro istituto. Che il Signore ci aiuti a portare nella nostra vita personale e comunitaria le «convergenze importanti».
Molto bello l’articolo sull’Isola «bella» col parroco africano. Anche questo rileva le novità. Opportuno anche il dossier sulla Corea del Nord. Grazie.
padre Mario Barbero 03/10/2017
Ciao
Preg.mo direttore, ciao.
A proposito dell’editoriale che lei ha definito poco originale e che invece è un autentico capolavoro di ricerca su un termine quanto mai originale e sale che da sapore a tutte le minestre (cfr. MC 8/9, 2017 pag. 3). Compiacimenti non solo per l’editoriale ma per tutta la rivista, con ricchi articoli di informazione e cultura tra cui la foto storia dal XIII Capitolo Generale, tanto necessaria per essere informati sul cuore pulsante della Missione Consolata.
Ho avuto occasione di leggerlo con interesse e tempo a disposizione perché costretto per un incidente a stare in casa. Non tutti i mali vengono per nuocere, in questo caso per apprezzare la vostra rivista. Esorto i lettori frettolosi che, come me un tempo, si riducono a una scorsa veloce, ad approfondire per apprezzarla.
Don Pietro Cioffi 27/09/2017
Parchi e uomini
Cari missionari,
credo abbiano ragione gli amici di Survival International quando, nel dossier pubblicato nel n.8/9 di MC, condannano un certo ambientalismo ipocrita e invitano a riflettere sul fatto che, in non pochi casi, proprio coloro che hanno ricevuto il compito di vigilare sull’integrità degli ecosistemi sono gli autori/complici degli abusi più gravi.
La denuncia di Survival mi ha fatto tornare in mente un libro letto una ventina d’anni fa, intitolato «Fight for the tiger» edito da Headline. Il suo autore, l’inglese Michael Day, raccontava le settimane trascorse nel Parco Nazionale di Khao Sok, nel Sud della Thailandia, e denunciava senza peli sulla lingua la cattiva gestione di quel parco, accusando i pezzi grossi, locali e nazionali, di essere responsabili della decimazione delle tigri nell’area, ben più di quanto fosse la gente del posto (***).
Ha ragione chi dice che gli uomini vengono prima dei parchi e che l’ambientalismo non può diventare il giustiziere delle popolazioni indigene. Ha ragione però anche chi ricorda che le accuse e le denunce devono essere il più possibile precise e circostanziate. Non si può far di tutta l’erba un fascio.
A me la dizione «Parchi Nazionali» non dispiace affatto. Dipendesse da me, ne istituirei anche degli altri, specialmente nei paesi dove vivono minoranze tribali, inserendoli nel programma Unesco «L’Uomo e la Biosfera» (****).
A fare la differenza non sono le etichette giuste ma le persone giuste. Tutti noi siamo chiamati a diventare giusti, non solo chi indossa una divisa o chi ha un certo titolo di studio e ha ricevuto una certa nomina.
Se un parco, o riserva, peggiora la sua condizione, è per colpa dei crimini di pochi, ma anche dell’indifferenza di molti. Se invece un parco migliora la sua condizione e anche le minoranze etniche che vivono all’interno di quel parco stanno meglio, è perché quell’indifferenza è stata combattuta, rintuzzata, superata, e anche coloro che prima abusavano, si sono ravveduti e hanno iniziato un nuovo percorso, una nuova carriera, una nuova vita. Una vita più gratificante, perché coltivare, custodire e conservare, anche sotto il profilo estetico, è meglio che abusare, depredare e distruggere. Cordialmente
Carlo Erminio Pace 08/09/2017
(***) Michael Day, Fight For The Tiger: One Man’s Fight To Save The Wild Tiger From Extinction, Trafalgar Square Publishing, Londra 1995.
(****) «Il Programma sull’uomo e la biosfera (o Programma Mab per l’uomo e la biosfera) è uno dei cinque programmi dell’Unesco nel quadro delle scienze esatte e naturali. […] Questo programma, iniziato nel 1968 e formalmente istituito nel 1971, mira a creare una base scientifica per migliorare i rapporti uomo-natura a livello globale» (Wikipedia).
«E prima di concludere un pensiero vorrei rivolgere alle sfide della Chiesa in Amazzonia, regione della quale siete giustamente orgogliosi, perché è parte essenziale della meravigliosa biodiversità di questo paese. L’Amazzonia è per tutti noi una prova decisiva per verificare se la nostra società, quasi sempre ridotta al materialismo e al pragmatismo, è in grado di custodire ciò che ha ricevuto gratuitamente, non per saccheggiarlo, ma per renderlo fecondo. Penso soprattutto all’arcana sapienza dei popoli indigeni dell’Amazzonia e mi domando se siamo ancora capaci di imparare da essi la sacralità della vita, il rispetto per la natura, la consapevolezza che la ragione strumentale non è sufficiente per colmare la vita dell’uomo e rispondere alla ricerca profonda che lo interpella.
Per questo vi invito a non abbandonare a sé stessa la Chiesa in Amazzonia. Il rafforzamento, il consolidamento di un volto amazzonico per la Chiesa che qui è pellegrina è una sfida di tutti voi, che dipende dal crescente e consapevole appoggio missionario di tutte le diocesi colombiane e di tutto il suo clero. Ho ascoltato che in alcune lingue native amazzoniche per riferirsi alla parola “amico” si usa l’espressione “l’altro mio braccio”. Siate pertanto l’altro braccio dell’Amazzonia. La Colombia non la può amputare senza essere mutilata nel suo volto e nella sua anima».
«Minga» Amazonica Trifronteriza
La situazione
Il Vicariato Apostolico di Puerto Leuguizamo Solano, nella Colombia Sud orientale, si estende su una vasta regione con caratteristiche particolari: il suo territorio infatti è distribuito tra tre dipartimenti, Caquetá, Putumayo e Amazonas, e sta a ridosso delle frontiere con Perù ed Ecuador. In esso avviene il 2,5% delle relazioni commerciali, sociali, culturali e politiche tra i tre paesi latinoamericani. Infine si trova al centro del 6% dell’Amazzonia colombiana.
Queste caratteristiche rendono il Vicariato un luogo di particolare interesse per il mondo intero, non solo perché in esso si incontrano diversi popoli, ciascuno con la propria visione ancestrale del mondo, ma soprattutto perché è il cuore di una grande biodiversità, ricchezza di acqua e di potenziale energia. Allo stesso tempo il suo territorio, compreso tra i fiumi Caquetá, Putumayo e loro affluenti, è segnato da una grande vulnerabilità, perché isolato e generalmente trascurato dallo stato. Il fatto che le uniche vie di comunicazione tra la zona del Vicariato e il resto del paese siano fluviale o aerea, comporta diversi problemi: l’alto costo della vita famigliare, lo spostamento di molti in altre regioni, il non soddisfacimento dei bisogni di base della popolazione, come l’alloggio, l’istruzione, la sanità, l’occupazione, e la presenza di gruppi armati che si spostano liberamente tra i dipartimenti e, in certi momenti, tra Perù, Colombia ed Ecuador.
Ad aggravare la situazione concorre anche l’attività di estrazione, sfruttamento e traffico delle risorse naturali. L’estrazione del caucciù all’inizio del XX secolo, per esempio, ha prodotto gravi danni ambientali e socioculturali, come la schiavitù a cui è stata sottoposta la popolazione indigena della zona e addirittura l’estinzione di vari gruppi etnici.
La proposta: «Minga», lavoriamo insieme
In questo contesto, gli incaricati della pastorale sociale, educativa e indigena del Vicariato hanno organizzato un incontro di studio e lavoro a inizio novembre allo scopo di incrementare l’impegno per il territorio e di renderlo maggiormente visibile, di promuovere una riflessione che permetta agli operatori pastorali di appropriarsi del contesto sentendosi parte di un popolo multietnico e di crescere nella capacità di custodire la Casa comune, senza sempre aspettare iniziative o proposte che vengano da fuori. L’incontro si chiama «Minga», un termine indigeno che indica il lavoro fatto insieme per il bene comune.
Parchi e Diritti Umani:
Conservazionismo vs Popoli Indigeni
La Conservazione della Natura versus i Diritti dei popoli
Quasi tutte le aree protette del mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel nome della «conservazione». Con questo termine si intende un’ideologia che auspica il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle risorse naturali, degli ecosistemi e della biodiversità a esso relazionati, tramite la creazione di aree protette e parchi naturali. Gli sfratti possono distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per generazioni.
Spesso le terre indigene sono erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta wilderness, governi, società, associazioni e altre componenti dell’«industria della conservazione» (nel senso che in molti paesi la conservazione è diventata un settore economico significativo) si adoperano per farne «zone inviolate», libere dalla presenza umana.
Per i popoli indigeni, lo sfratto può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza. E se prima prosperavano, dopo spesso si ritrovano a vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.
Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani indigeni, anche l’ambiente può finire per soffrire perché bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e grandi incendi aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.
L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terre indigene. Non è un caso.
Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che abitano e amano, i popoli tribali (o nativi) hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni.
Come disse Martin Saning’o Kariongi, un anziano Masai della Tanzania, al World Conservation Congress del 2004, «le nostre tecniche di coltivazione impollinano numerose specie di semi e mantengono canali di comunicazione tra gli ecosistemi. Noi eravamo i conservazionisti originari».
In Amazzonia, ad esempio, studi scientifici* basati su immagini satellitari dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto dell’Amazzonia brasiliana, sono di vitale importanza per fermare disboscamento e incendi, e costituiscono la barriera più importante alla deforestazione. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie, e in Guatemala (venti volte minore). Il futuro successo della conservazione dipende quindi dai popoli indigeni.
Survival International
Quando i parchi «sfrattano» i popoli
Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»
Le aree protette sono pensate per conservare flora e fauna, ma spesso dimenticano gli uomini. Popoli, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’ecosistema, sono obbligati a lasciare le loro terre. Diventano così dei rifugiati, costretti a vivere di donazioni. E dietro a tutto questo ci sono una ideologia e una storia precisa.
Le aree protette, siano esse nella forma di parchi nazionali, aree di conservazione, riserve naturali o altro, sono create per tutelare flora e fauna, non gli uomini. Nel mondo esistono oggi oltre 120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa.
Le aree protette si differenziano per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli indigeni devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.
Oltre il 70% dei parchi tropicali sono abitati*. Una fetta ancor più grande dipende dalle comunità che li circondano. Eppure, quando questi popoli vengono cacciati dai loro territori, convertiti in parchi, è perché improvvisamente vengono considerati «nemici della conservazione», per usare le parole dell’anziano Masai Kariongi.
Il lato oscuro della conservazione
L’idea di preservare le aree di «wilderness» attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX secolo. Si fondava su una lettura arrogante del diritto alla terra che mancava completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmare e alimentare la stessa. La convinzione era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano.
A promuovere questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Theodore Roosevelt. Si adattava perfettamente alla sua visione: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti. È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».
Il primo parco nazionale della storia fu Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel 1872, ai nativi, che vi vivevano da secoli, fu inizialmente permesso di restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In una sola battaglia si dice morirono 300 persone*.
Dettagli storici come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del parco. Tuttavia tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non solo per i popoli indigeni ma anche per la natura.
Chi c’è dietro gli sfratti
Riportiamo una citazione del 2003 di Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society (Wcs), pubblicata dal giornalista Mark Dowie: «Teddy Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua [politica interna]… In pratica, il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa».
Il presidente Roosevelt aveva torto. Ciò nonostante, oggi, la sua teoria continua a influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti devastanti. Sfrattare intere popolazioni dalle zone protette comporta costi ingenti, sia in termini di denaro sia di reputazione. Quindi perché i governi lo fanno? Le principali ragioni sono le seguenti.
Paternalismo e razzismo: alcuni governi hanno sfrattato i popoli nativi dai parchi nel tentativo, paternalista e razzista, di costringerli ad assimilarsi al resto della società. La rimozione dei Boscimani dalla Central Kalahari Game Reserve del Botswana, ad esempio, è stata in parte dovuta a questo atteggiamento e all’accusa infondata rivolta ai Boscimani che cacciassero troppi animali.
Turismo: gli sfratti vengono giustificati anche nell’interesse del turismo – altamente lucrativo – e nella convinzione che i turisti vogliano vedere solo flora e fauna selvatica, non persone.
Controllo: molti governi aspirano al controllo supremo sia dei territori sia della popolazione; separando gli indigeni diventa più facile raggiungere l’obiettivo.
Le organizzazioni internazionali per la conservazione alimentano gli sfratti incoraggiando i governi a intensificare le operazioni di polizia e protezione. A volte i governi trasferiscono questi poteri alle organizzazioni stesse, che in tal modo acquisiscono il diritto di arrestare e sfrattare. Storicamente, la maggioranza di queste organizzazioni conservazioniste è stata gestita da biologi la cui preoccupazione per habitat e singole specie prevale sulla capacità di apprezzare il modo in cui interi ecosistemi sono stati alimentati e custoditi dai popoli indigeni, che dovrebbero quindi essere i partner principali nella loro conservazione.
Un esempio. Nel 1995, l’Ong World wildlife fund (Wwf) India presentò una mozione al governo indiano per rinforzare la legge Wildlife protection Act, allo scopo di proibire tutte le attività umane nei parchi. La Corte suprema acconsentì e ordinò alle autorità statali di rimuovere tutti i residenti dai parchi entro un anno. Una richiesta totalmente irrealistica. Non fu fatto alcun accenno ai diritti e ai bisogni dei circa quattro milioni di persone che abitavano la vasta rete di aree protette dell’India, per la maggior parte Adivasi (indigeni). Oggi queste comunità convivono con la minaccia costante di sfratto, sottoposti senza sosta a persecuzioni, minacce e pressioni affinché abbandonino i parchi.
Un problema mondiale
«L’istituzione di aree protette nei territori indigeni, fatta senza il nostro consenso né il nostro coinvolgimento, ha provocato la spoliazione e il reinsediamento dei nostri popoli, la violazione dei nostri diritti, lo sfratto delle nostre comunità, la perdita dei nostri luoghi sacri e il lento ma continuo sgretolarsi delle nostre culture, nonché l’impoverimento…», dalla «Dichiarazione dei delegati indigeni» al Congresso mondiale dei parchi del 2003. È estremamente difficile quantificare l’entità degli sfratti dai parchi perché in molte aree non esistono dati, mentre in altre non sono attendibili. Alcuni esempi danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema.
Africa: uno studio* sui parchi centroafricani stima che le persone sfrattate siano più di 50.000, molte delle quali sono popoli tribali. Altri studi parlano di milioni*.
India: nel 2009 vengono stimate* in 100.000 le persone sfrattate dai parchi, oltre a numerosi milioni privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali dell’India, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre e i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto.
Thailandia (situazione simile nel resto del Sud Est asiatico): le persone minacciate di sfratto nel nome della protezione di foreste e bacini idrografici sono mezzo milione*.
Anche se è impossibile dare numeri precisi, le persone sfrattate dalle loro case nel nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto, sono molti milioni nel mondo. La maggior parte sono indigeni.
Alla base ci sono presupposti non scientifici secondo cui i popoli tribali non sarebbero in grado di gestire le loro terre in modo sostenibile, perché cacciano, pascolano e utilizzano le risorse dei territori in modo eccessivo. Ma c’è anche la volontà, sostanzialmente razzista, dei governi di integrare, «modernizzare» e soprattutto controllare i popoli tribali dei loro paesi.
Vengono quindi varate politiche nazionali che implicano lo sfratto degli indigeni e forzano i popoli dipendenti dalle foreste a imparare modi diversi di vivere. Gli orticoltori a passare all’agricoltura intensiva, i nomadi a sedentarizzarsi e popoli che hanno sempre agito collettivamente ad accettare titoli personali di proprietà su piccoli appezzamenti di terra o «pacchetti di risarcimento». Tutto ciò equivale a trasformare popoli indipendenti e autosufficienti in «beneficiari» dipendenti che, si presume, si inseriranno nella società dominante.
Anziché celebrare e valorizzare il fatto che i popoli indigeni sono «gli occhi e le orecchie» della foresta, la loro diversità viene usata per giustificare sfratti e molestie. Quando gli habitat vengono degradati o alcune specie si estinguono, il dito viene spesso puntato contro i popoli indigeni invece che contro i veri colpevoli, politicamente più impegnativi: bracconieri, contrabbandieri di legname, minatori illegali, imprenditori turistici – tutti dotati di potenti alleati – o grandi infrastrutture come silvicolture, miniere e dighe.
Sfratti eccellenti
Tra i molti esempi possibili, significativo è quello della riserva delle tigri di Kanha, Madhya Pradesh, India.
Nel nome della conservazione della tigre, migliaia di Baiga e Gond sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalla riserva indiana di Kanha* (luogo in cui è ambientato il famoso «Libro della giungla» di Kipling). Le famiglie sono state perseguitate per anni affinché lasciassero la riserva. Nel 2014 centinaia di persone sono state sfrattate. Hanno ricevuto denaro, ma né terra né aiuto per ristabilire le loro vite all’esterno. Intere comunità sono state distrutte.
Altro caso è quello dei Boscimani della Central Kalahari Game Reserve, Botswana*. Nel 2002 ai Boscimani fu detto che sarebbero stati rimossi dalla riserva ai fini della «conservazione», ma prima ancora che gli sfratti avessero luogo furono attuati test di prospezione mineraria, e dopo il loro sfratto fu inaugurata una miniera di diamanti.
I Masai di Loliondo, Tanzania settentrionale erano stati minacciati di sfratto con il pretesto della necessità di creare un corridoio di collegamento tra i due parchi nazionali Serengeti e Maasai Mara. Poi, però, la terra fu data in locazione a una compagnia di safari di caccia.
Rifugiati a casa loro
Che si tratti di miniere, dighe o progetti di conservazione, sfrattare gli indigeni dalle loro terre ha sempre gli stessi devastanti effetti: da un giorno all’altro popoli prima autosufficienti si trasformano in rifugiati. Strappati dalle loro terre e dalle risorse che le sostentavano, si ritrovano all’improvviso a dover dipendere da sussidi ed elemosina. Le comunità sprofondano nella povertà: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.
I popoli indigeni non sono gli unici a essere sfrattati dalle aree protette, ma sono quelli che ne soffrono immensamente di più. La ragione è che per sopravvivere dipendono completamente dalla terra in cui vivono e dalle sue risorse, e non hanno fonti di reddito. Per loro, la terra è tutto e non può essere rimpiazzata anche in virtù del profondo legame storico e spirituale che li unisce a essa.
Nelle parole dell’antropologo Jerome Lewis: «Ai contadini che, da quando (fu ufficializzato il Mgahinga National Park, in Uganda) negli anni ’30, avevano distrutto parte della foresta per costruire le loro fattorie, furono riconosciuti i diritti territoriali e ricevettero gran parte dei risarcimenti disponibili. I Batwa, invece, che avevano posseduto quella foresta per generazioni senza danneggiarne flora e fauna, avrebbero potuto ottenere qualche indennizzo solo se avessero agito come quegli agricoltori, distruggendo appezzamenti di foresta per trasformarli in campi. Un classico caso di mancato riconoscimento dei diritti alla terra dei popoli cacciatori-raccoglitori».
Le famiglie tribali raramente ricevono compensi adeguati – se mai ne ricevono – per tre principali ragioni:
In quanto società non statali, spesso i popoli indigeni non compaiono nei censimenti ufficiali. Quando esistono dati demografici, nel migliore dei casi sono inattendibili. I governi spesso ignorano i diritti consuetudinari e informali dei popoli indigeni che fanno quindi molta fatica a difendersi ricorrendo ad azioni legali.
Nei confronti della caccia, della raccolta e della pastorizia nomade, spesso praticate dai popoli tribali, vige una diffusa forma di razzismo, che li dipinge come arretrati rispetto ai contadini stanziali. Dei coltivatori si dice che abbiano migliorato la terra e per questo viene riconosciuto loro un risarcimento se la perdono a causa di sfratti o trasferimenti. Al contrario, alle tribù che non hanno costruito strutture permanenti né coltivato cereali e ortaggi, non viene riconosciuta alcuna proprietà fisica da risarcire. Ironicamente, è proprio il fatto che non siano state «migliorate» a rendere le loro terre tanto appetibili agli occhi dei conservazionisti.
Non esiste risarcimento che possa compensare il legame che unisce i popoli indigeni alle loro terre. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», Jumanda Gakelebone, Boscimane, Botswana.
Survival International
Se i parchi violano la legge
Leggi nazionali versus trattati internazionali
Le leggi che istituiscono i parchi sono spesso in grave violazione di trattati e convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi. Questi spesso non hanno i titoli formali delle loro terre. Sono così facilmente espulsi e perdono ogni possibilità di sussistenza. Gli schemi alternativi proposti finiscono per creare un circolo di dipendenza.
Alcune leggi nazionali fanno riferimento alla creazione di aree protette «inviolabili». Tuttavia, la legge internazionale vieta esplicitamente a governi e altre organizzazioni di violare i diritti dei popoli, per qualsiasi motivo, anche la conservazione.
La maggior parte delle aree protette si trova in terre su cui i popoli indigeni hanno diritti consuetudinari o informali anziché titoli cartacei di proprietà registrati ufficialmente. Nonostante ciò, il loro rapporto con quelle terre è antico risalendo indietro nel tempo a un numero incalcolabile di generazioni e i legami economici, culturali e spirituali che hanno con esse sono molto profondi. Affinché i popoli indigeni possano sopravvivere è di cruciale importanza che i loro diritti territoriali siano rispettati, perché tutti i loro diritti umani derivano da questo. Se i loro diritti alla terra vengono violati, i popoli indigeni non possono godere nemmeno dei diritti umani fondamentali.
Convenzioni violate
Tra i diritti più spesso violati con la creazione dei parchi se ne conta una serie riconosciuta ai popoli indigeni dalla «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», in particolare:
all’autodeterminazione (articolo 1.1);
a non essere privati dei mezzi di sussistenza (articolo 1.2);
a non essere sottoposti a interferenze arbitrarie o illegittime nella propria casa (articolo 17.1);
alla libertà di religione (articolo 18.1);
a vivere la propria cultura in comune con gli altri membri del proprio gruppo (articolo 27).
In quanto popoli indigeni, essi hanno poi un’altra serie di diritti, individuali e collettivi, sanciti dal diritto internazionale: la «Convenzione 169» dell’Organizzazione internazionale del lavoro e la «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni» delle Nazioni Unite. Tra questi ci sono il diritto alla proprietà collettiva della terra e il diritto a dare o negare il consenso a progetti che hanno un impatto sulle loro terre.
Recinzioni, multe e intimidazioni
Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono improvvisamente negare l’accesso ai luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali necessarie e, in generale, ai mezzi di prima necessità, come cibo e combustibile per cuocere o prodotti della foresta da scambiare con altri gruppi.
Nel giro di qualche ora, perdono tutte le risorse che sostenevano la tribù da tempo immemorabile. Se cacciano, sono accusati di bracconaggio; se vengono sorpresi a raccogliere prodotti della foresta, rischiano multe o addirittura il carcere. La comunità si ritrova assoggettata ai capricci di guardaparco incuranti delle politiche ufficiali che magari le garantiscono il diritto a un «uso sostenibile» delle risorse.
In alcuni casi, vengono messe in atto iniziative speciali per cercare di compensare queste perdite attraverso «schemi alternativi di sussistenza» o «attività generanti reddito»*. Benché talvolta venga lasciata una possibilità di scelta, l’opzione di mantenere e potenziare ulteriormente la strategia tradizionale di sussistenza non viene praticamente mai presa in considerazione. Al contrario, questi progetti, molto spesso, non si curano di quali siano le vere necessità della tribù e impongono cambiamenti e integrazione. Spesso non offrono soluzioni a lungo termine in grado di compensare davvero la dipendenza sostenibile che la tribù aveva prima con la sua terra; al contrario, spingono le comunità verso un nuovo e insostenibile circolo di dipendenza dai meccanismi esterni.
Survival International
Contro il bracconaggio
(ma per i diritti umani)
Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana
I Pigmei Baka in Camerun
Nella guerra contro il bracconaggio, i Pigmei1 Baka del Camerun si trovano spesso nel mezzo di fuochi incrociati. E come loro i Pigmei Bayaka e decine di altri popoli della foresta, vengono trattati come bracconieri perché cacciano per nutrire le loro famiglie, come hanno fatto per generazioni, o semplicemente perché osano entrare nelle aree protette create nelle loro terre ancestrali. Subiscono arresti, pestaggi, torture e morte per mano dei guardaparco. Questi sono finanziati ed equipaggiati allo scopo di proteggere i parchi da organizzazioni come il World Wildlife Fund (Wwf) e la Wildlife Conservation Society (Wcs) che sono a conoscenza degli abusi da più di un decennio ma non li hanno fermati2.
Survival International ha ricevuto l’appello di molti indigeni da Camerun, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo che hanno denunciato gli abusi subiti. Un uomo Baka, ad esempio, ha raccontato a un ricercatore di Survival che i guardaparco lo hanno picchiato e poi hanno ribaltato il letto dove stava dormendo il figlio neonato, gettandolo violentemente a terra. Il bambino è morto poco dopo; i suoi genitori non avevano nemmeno avuto il tempo di dargli un nome.
Ma la violenza fisica è solo una parte degli abusi che i Pigmei e i loro vicini subiscono nel nome della conservazione. I guardaparco bruciano regolarmente gli accampamenti di caccia e raccolta, annientando in questo modo la forza vitale dei Baka, rubano la frutta e la verdura raccolte, il pesce pescato, le loro stoviglie e i loro attrezzi. I Baka vengono così sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali in cui non possono più vivere come prima, e molti denunciano che la loro salute sta peggiorando visibilmente a causa della malnutrizione, delle nuove malattie e della perdita di accesso alle medicine della foresta.
Nel febbraio 2016 Survival ha presentato un’istanza formale al Punto di contatto nazionale svizzero dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alle attività del Wwf in Camerun. Secondo Survival, il Wwf ha collaborato alla creazione di aree protette, anche se il governo aveva mancato di ottenere il consenso libero, previo e informato delle comunità sui progetti di conservazione avviati nelle loro terre ancestrali. A dicembre, con una decisione senza precedenti, il Punto di contatto ha ritenuto l’istanza meritevole di approfondimento. È la prima volta che un’organizzazione no profit come il Wwf viene esaminata in questo modo.
I cacciatori Boscimani del Botswana
«Mi siedo e mi guardo attorno. Dovunque ci siano i Boscimani, c’è selvaggina. Perché? Perché noi sappiamo come prenderci cura degli animali. Sappiamo come cacciare, non ogni giorno ma secondo le stagioni», Dauqoo Xukuri, Boscimane, Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette ad abbandonare questo stile di vita, ma la Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Ckgr) è ancora la casa dove gli ultimi Boscimani possono vivere in gran parte di caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta corte ha confermato il loro diritto a vivere e cacciare nella riserva.
Nonostante la sentenza, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della tribù nemmeno una licenza. La caccia di sussistenza praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro famiglie.
Survival riceve molte segnalazioni di Boscimani torturati fino dagli anni ‘90. Nel 2012, due Boscimani sopravvissero alle torture inflitte loro dalle guardie del parco perché avevano ucciso un’antilope.
Survival chiede al governo del Botswana di fermare i violenti abusi commessi contro i Boscimani e riconoscere il loro diritto di cacciare nella terra ancestrale.
Survival International
Note
1- «Pigmei» è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma viene utilizzato da altri come il nome più facile per riferirsi a se stessi.
2- Prove e testimonianze sono contenute nell’Istanza formale che Survival ha presentato al Punto di contatto nazionale (Pcn) svizzero dell’Ocse.
I parchi hanno bisogno di loro
I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»
È verificato che i popoli indigeni sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni. Le loro pratiche ancestrali mantengono la biodiversità, controllano gli incendi e fermano la deforestazione. Ma nei parchi quasi sempre quello che fanno è proibito. Per questo sono arrestati. E le condizioni della biosfera dell’area peggiorano.
I popoli indigeni dipendono dall’ecosistema in cui vivono sia a livello pratico che spirituale e sono quindi fortemente motivati ed efficaci nel proteggerlo. Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione indigena della terra: nei secoli, i popoli tribali hanno sviluppato complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono in modo da assicurarsi abbondanza e sostenibilità nel tempo. Al contrario, una visione più ristretta della protezione della natura giudica questa modalità di utilizzo della terra e delle sue risorse inconciliabile con la conservazione.
Coloro che dipendono dalle loro terre per sopravvivere sono certamente più motivati a proteggere l’ambiente in cui vivono rispetto a guardie forestali malpagate, trasferite lontano dalle famiglie, spesso incapaci o riluttanti a perseguire i veri criminali e quindi inclini a concentrare le loro energie su obiettivi più facili: le popolazioni locali.
«Noi, i popoli indigeni, siamo stati parte integrante della biosfera dell’Amazzonia per millenni. Abbiamo usato e protetto le sue risorse con grande attenzione e rispetto, perché è la nostra casa e perché sappiamo che la nostra sopravvivenza e quella delle generazioni future dipendono da questo. La nostra profonda conoscenza dell’ecologia della nostra casa, il nostro modo di convivere con le peculiarità della biosfera, la riverenza e il rispetto che abbiamo per la foresta tropicale e i suoi abitanti, piante o animali che siano, sono la chiave per garantire il futuro del bacino amazzonico, non solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità», Coica, Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino dell’Amazzonia, 1989.
Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, sfrattare i popoli indigeni dalle loro case trasformate in aree protette, raramente contribuisce alla conservazione della natura. Anzi, è spesso controproducente perché circonda il territorio di persone risentite, che spesso continuano a dipendere dalle risorse del parco. Inoltre, nega un’evidenza sempre più palese: quando coloro che se ne sono sempre occupati in maniera sostenibile sono costretti ad andarsene, gli ecosistemi soffrono. Alcune recenti ricerche* stanno sconvolgendo la logica conservazionista. In seguito allo sfratto delle comunità indigene, gli incendi incontrollabili, il bracconaggio e le specie invasive spesso aumentano. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal* ha addirittura mostrato una minore densità di tigri nel cuore dell’area liberata dalla presenza umana. Sembra che il modo in cui le comunità gestivano le aree circostanti creasse un habitat migliore per le tigri stesse.
Incrementano la biodiversità
La coltivazione a rotazione, chiamata anche debbio, si riferisce a una tecnica di coltivazione a cicli, che prevede prima la pulizia del terreno da coltivare (di solito utilizzando il fuoco) e poi il suo abbandono per alcuni anni, per permettergli di rigenerarsi. In tutto il mondo, governi e gruppi ambientalisti hanno cercato a lungo di eliminare la coltivazione a rotazione, spesso definendola in termini peggiorativi «taglia e brucia».
Oggi gli scienziati hanno compreso che questa tecnica può «dare spazio a sorprendenti livelli di biodiversità»*. Le comunità che la utilizzano, come i Kayapò del Brasile, riescono a tenere sotto controllo le varie specie di piante che compongono la foresta. Ciò influisce positivamente sulla biodiversità e crea habitat di grande importanza. Contribuisce inoltre a incrementare la biodiversità disegnando un mosaico di habitat differenti.
Ricerche condotte sulle attività di sostentamento dei cacciatori-raccoglitori nel bacino del fiume Congo* dimostrano che le loro tecniche portano a un significativo miglioramento dell’ambiente come habitat di fauna selvatica, inclusi gli elefanti.
Eppure, nonostante i benefici ecologici del debbio siano sempre più riconosciuti, in molti altri casi questa pratica è bandita o le comunità che dipendono da essa vengono sfrattate. L’impatto sulle comunità indigene coinvolte è serio, anche dal punto di vista della salute.
Nelle riserve delle tigri dell’India, i villaggi che si trovano all’interno creano pascoli per animali che spesso si rivelano prede importanti per le tigri. Quando vengono rimossi, il Dipartimento Forestale deve trovare altri modi per mantenere floridi questi pascoli, pena una diminuzione della biodiversità.
Controllano gli incendi
«I danni che abbiamo oggi (a causa degli incendi devastanti), potrebbero essere limitati permettendo agli Aborigeni di fare quello che hanno perfezionato nel corso di migliaia di anni». Professor Bill Gammage, Australian National University.
Sia in Australia che in Nord America, i primi colonizzatori notarono l’aspetto insolito del territorio, più simile a un parco che a delle foreste: alberi distribuiti su pianure sterminate ma nessuna traccia di sottobosco. Un intrinseco pregiudizio impedì loro di capire che quei paesaggi erano il risultato di una cura del territorio molto sofisticata ed estesa. Bill Gammage, esperto di tecniche aborigene di gestione del territorio, ha dimostrato che quelle popolazioni avevano sviluppato un sistema di utilizzo del fuoco che permetteva loro di ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno.
In Australia ci si sta sempre più rendendo conto che i sistemi aborigeni limitavano il rischio di grandi e devastanti incendi. Negli ultimi novant’anni gli incendi boschivi sono costati al governo australiano quasi sette miliardi di dollari Usa. Allo stesso modo, in Amazzonia, l’incidenza di incendi è molto più bassa nei territori abitati dagli indigeni.
Ma, così come è accaduto per la coltivazione a rotazione, anche gli incendi controllati sono stati dichiarati illegali, e vengono persino criminalizzati.
Fermano la deforestazione
Le immagini satellitari* forniscono una prova evidente del ruolo che i territori indigeni giocano nel prevenire la deforestazione. Quando i popoli tribali vivono nelle loro terre con diritti pieni e riconosciuti, e la certezza che quelle terre rimarranno sempre nelle loro mani, usano le foreste in modo di gran lunga più sostenibile dei nuovi venuti: allevatori, taglialegna e contadini che abbattono gruppi di alberi in un colpo solo.
Un’analisi su vasta scala* condotta sia sulle aree protette sia nelle foreste gestite dalle comunità indigene ha dimostrato che queste ultime resistono meglio alla deforestazione rispetto alle prime. E non sorprende se si pensa che le comunità hanno molti buoni motivi per proteggere e gestire efficacemente le foreste da cui dipendono per sopravvivere, mentre molte aree protette esistono solo sulla carta e vengono gestite miseramente da staff spesso sottopagato, immotivato e a volte corrotto.
«Abbiamo protetto le foreste per migliaia di anni, ora ci cacciano come animali. Ma ogni giorno, alberi immensi vengono tagliati di nascosto e venduti di contrabbando. I funzionari della foresta hanno deciso di mandarci via, così che queste attività possano continuare indisturbate», portavoce degli Adivasi Iruliga, Bangalore, India.
Fermano lo sfruttamento eccessivo
Prove storiche inconfutabili* dimostrano che ai popoli indigeni bastava cacciare un numero limitato di animali da branco per controllarne la popolazione e prevenire lo sfruttamento eccessivo dei pascoli. Studi condotti a Yellowstone*, ad esempio, mostrano che i loro metodi erano molto efficaci nel controllare la popolazione dei cervi e dei bisonti. Dopo lo sfratto delle tribù dal parco, invece, i guardaparco hanno dovuto sparare a 13.000 cervi nel tentativo di controllarne il numero. L’eliminazione selettiva dei bisonti a Yellowstone continua ancora oggi.
Controllano il bracconaggio
I popoli indigeni conoscono la loro terra intimamente. Nel corso di generazioni hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna autoctone e delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i più efficienti ed efficaci manager delle loro terre.
Sistemi complessi di controllo della caccia e della raccolta aiutano a mantenere l’ordine sociale della tribù, e allo stesso tempo proteggono le risorse da cui la comunità stessa dipende. In molte etnie è vietato uccidere animali giovani, gravidi o considerati totem; mentre eccedere nello sfruttamento delle specie, e caccia e pesca sono consentiti solo in alcuni periodi. Il risultato di questi tabù e pratiche è l’efficace razionamento delle risorse nel territorio, che arricchisce la biodiversità e dà a piante e animali il tempo e lo spazio necessari a prosperare.
Caccia di sussistenza e sostenibilità
I Boscimani del Kalahari vengono picchiati, torturati e arrestati se cacciano per sfamare le loro famiglie. Sebbene il governo li etichetti come bracconieri, non esistono prove che la loro caccia di sussistenza sia insostenibile. Al contrario, è perfettamente compatibile con la conservazione: i Boscimani sono motivati a proteggere la fauna selvatica dalla quale dipendono più di chiunque altro. Ma quando le iniziative di conservazione strappano ai popoli tribali il controllo di terre e risorse, la loro capacità di auto-sostentarsi viene compromessa. E quando questo accade, essi rischiano di diventare complici dei bracconieri piuttosto che dei conservazionisti verso i quali hanno imparato a nutrire risentimento.
In quanto «occhi e orecchie» della foresta, i popoli indigeni si trovano nella posizione migliore per prevenire, individuare e denunciare le attività di bracconaggio. Ma una volta rimossi dalle loro terre, perdono la possibilità e, forse, anche la motivazione a farlo. Per controllare il bracconaggio devono quindi essere investiti fondi ingenti in armi e guardie. Spesso queste misure sono inefficaci e portano a una crescente corsa agli armamenti tra bracconieri e guardiani. E perdono tutti, natura inclusa.
Un rapporto sullo sfratto dei Masai dalle terre di Ngorongoro (Tanzania) dello United Nations Environment Program (2009)* si chiude con questa constatazione: «L’allontanamento di questi guardiani naturali – e a basso costo – dalle loro terre, ha portato a un incremento dell’attività di bracconaggio e alla susseguente quasi totale estinzione dei rinoceronti».
Survival International
Natura: né vergine né selvaggia
La Campagna di Survival International
Per i popoli indigeni la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.
Alla base del concetto di «conservazione» c’è invece una concezione dualistica del rapporto uomo-natura che considera la natura come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane. Un luogo incontaminato in cui l’uomo si pone solo come una mera forza distruttiva finché non interviene a esercitare la sua giurisdizione per assicurarne la preservazione.
Ma secondo i popoli indigeni la natura non è «vergine» né «selvaggia», se non nell’immaginario occidentale. E a conferma della loro visione, oggi esistono prove scientifiche che dimostrano che la fisionomia della maggior parte delle regioni ecologicamente più importanti del pianeta, così come le conosciamo oggi, sono il prodotto culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna, operata da società umane a loro volta condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse.
L’approccio non potrebbe essere più distante. Da un lato un rapporto dell’uomo con la natura fondato su valori di uguaglianza, reciprocità ed equilibrio: la visione ecocentrica dei popoli indigeni, capaci di sfruttare le risorse dei loro ambienti senza mai alterarne i principi di funzionamento e i cicli di riproduzione. Dall’altra un movimento conservazionista radicale e razzista che a partire dagli Usa del XIX secolo si è espanso soprattutto in Africa e Asia sfrattando illegalmente milioni di indigeni dalle loro floride terre ancestrali per farne santuari inviolabili, liberi da qualsiasi presenza umana, con conseguenze drammatiche.
È tempo di fermare brutali violazioni dei diritti umani che danneggiano anche l’ambiente. Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni e ha lanciato una campagna per promuovere un nuovo modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni e riconosca il loro ruolo di migliori custodi del mondo naturale.
Survival lotta per una svolta radicale nelle politiche della conservazione: per lo smascheramento del suo “lato oscuro” e l’esplorazione di soluzioni innovative fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo il diritto alla proprietà collettiva della terra e a proteggere e alimentare le terre natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti come i migliori custodi delle loro terre e, di conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo.
Survival International– È il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del «progresso» e della «civilizzazione». La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati. A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, tema di questo dossier.
A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
foto: Le immagini di questo dossier sono state fornite da Survival International, www.survival.it.