Clima, cibo, economia: dalla Cop26 al G20

testo di Chiara Giovetti |


La conferenza sul clima Cop26, il vertice Onu sui sistemi alimentari e il G20 si sono svolti o stanno per svolgersi in questo autunno 2021. Le decisioni e gli indirizzi che forse emergeranno da questi eventi potrebbero rivelarsi decisivi per il futuro del pianeta e del modo in cui affronteremo le crisi sanitarie, alimentari e ambientali che verranno.

Il 23 settembre si è tenuto a New York il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, uno degli eventi previsti nell’ambito del cosiddetto Decennio di azione sulla nutrizione@ che è iniziato nel 2016 e si concluderà nel 2025. Lo scorso luglio a Roma, presso la Fao, agenzia Onu per il cibo e l’agricoltura, si è svolto il prevertice, ospitato dal governo italiano.

Il 30 e 31 ottobre sarà la volta del G20@, il forum internazionale che riunisce i 19 paesi del mondo più industrializzati (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti) più l’Unione europea, che si svolgerà a Roma.

Infine, dal 31 ottobre al 12 novembre avrà luogo a Glasgow, in Scozia, la 26° Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o Cop26@. L’Italia organizza la Conferenza insieme al Regno Unito e ha ospitato a settembre gli eventi preparatori come il vertice pre-Cop@, l’ultimo incontro ministeriale prima dell’inizio dei lavori a Glasgow, con l’obiettivo di «fornire a un gruppo selezionato di paesi un ambiente informale per discutere e scambiare opinioni su alcuni aspetti politici chiave dei negoziati e offrire per questi ultimi una guida politica».

I tre eventi affrontano temi fra loro profondamente legati: clima, cibo, economia. Due degli incontri, la Cop26 e il G20, hanno anche il potenziale di definire accordi che determineranno davvero le successive azioni dei paesi partecipanti. Lo ha sottolineato lo scorso luglio il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, in occasione del prevertice sui sistemi alimentari alla Fao: «La presidenza italiana del G20 ha individuato le priorità per migliorare la sicurezza alimentare globale. Tra queste, l’impatto negativo dei cambiamenti climatici sarà al centro della Cop26 che l’Italia presiede con il Regno Unito. […] Alla Cop26, a Glasgow, vogliamo raggiungere un accordo ambizioso sul clima»@.

Disinfezione prima della messa a Tura Mission contro il Covid-19

Premesse: il fallimento della Cop25

L’ultima Conferenza sul clima, svolta a Madrid nel 2019, era stata un insuccesso. Marlowe Hood, corrispondente dell’agenzia Afp, ha individuato cinque possibili motivi del fallimento@: il primo era, a suo dire, la gestione amatoriale dei negoziati, dovuta alla non impeccabile leadership del paese organizzatore, il Cile, che non avrebbe svolto in modo efficace il ruolo di mediatore che è fondamentale in incontri diplomatici di questo tipo.

Il secondo motivo era la presenza ingombrante di lobbisti delle aziende che producono combustibili fossili (la volpe nel pollaio, rimarcava Marlowe), con le conseguenti interferenze in negoziazioni il cui scopo è in larga parte quello di ridurre la dipendenza del pianeta proprio da quei prodotti. Vi era stato poi il «corrosivo effetto-Trump», cioè il disimpegno – per non dire il boicottaggio – sulle questioni climatiche manifestato dagli Usa nel quadriennio della presidenza di Donald Trump. Infine, l’atteggiamento tiepido della Cina che, con il 29% di emissioni di CO2, «ha in mano il destino del pianeta»: alla Cop25 Pechino «ha puntato i piedi e, sostenuta dall’India, ha invocato il principio secondo cui i paesi ricchi devono assumere un ruolo guida nell’affrontare il cambiamento climatico, denunciando il loro fallimento nel mantenere le promesse fatte», vincolando poi al rispetto di queste ultime la propria disponibilità a prendere impegni. Secondo diversi esperti, infatti, la Cina adotterà delle misure significative solo se l’Unione europea confermerà il suo obiettivo di impatto zero entro metà secolo e si impegnerà a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Infine, concludeva Hood, il fallimento della Cop25 è stato probabilmente il sintomo di una più ampia crisi della cooperazione e del multilateralismo legata all’ascesa di nazionalismi e populismi e alla tendenza dei governi a contrarre la spesa pubblica.

Che cosa dovrà decidere la Cop26

La conferenza di Glasgow dovrà, dunque, riprendere le fila di un dialogo interrotto nel 2019 e puntare a decisioni più ambiziose possibile. A cominciare dall’impegno per mantenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo, che a sua volta richiede il raggiungimento dell’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 e maggior decisione e incisività nel promuovere le alternative ai combustibili fossili.

Se il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima, deciso dal presidente Joe Biden, e le alluvioni dello scorso agosto in Germania e Belgio@ sono elementi che suggeriscono un’aumentata sensibilità dei governi all’urgenza di reagire al cambiamento climatico, permangono comunque forti resistenze. Durante l’incontro del G20 a Napoli dello scorso luglio, il presidente della Cop26, Alok Sharma, ha riferito alla Bbc@ che il tema del cambiamento climatico è stato in effetti affrontato dalle venti principali economie del mondo – responsabili dell’80% delle emissioni – e si è visto un generale consenso circa la necessità di eliminare il carbone dalla produzione di energia. Purtroppo, Cina e India, due attori di primaria importanza nell’eventuale processo di decarbonizzazione, si sono opposte con decisione.

Altro elemento che rappresenta un’incognita è il ruolo della pandemia sui negoziati della Cop26. Se, da un lato, molte persone nel mondo sembrano aver recepito la pandemia come un motivo di riflessione sulla sostenibilità della presenza umana sul pianeta, dall’altro, opinioni pubbliche le cui economie sono provate da lockdown e restrizioni potrebbero mostrarsi restie ad accettare i costi degli investimenti richiesti per un’efficace transizione verso fonti di energia e stili di vita più sostenibili.

I negoziatori dovranno tenere conto di tutti questi aspetti e anche delle proposte e richieste emerse dal 28 al 30 settembre dallo Youth Summit@ il vertice che ha riunito a Milano 400 giovani, di età compresa fra i 18 e i 29 anni, da 197 paesi – in modo da includere il punto di vista delle generazioni che saranno più esposte alle conseguenze del cambiamento climatico.

Il G20 e la cooperazione

Il G20, o Gruppo dei 20, e gli incontri fra i leader e i ministri dei paesi che lo compongono, ha le sue origini nella necessità di coordinare gli sforzi delle principali economie del mondo per reagire alle crisi finanziarie della fine dello scorso millennio, a cominciare da quella del 1999 che interessò diversi paesi asiatici – Thailandia, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia – e si estese poi a Brasile e Russia@.

In quell’anno e per i successivi nove, alle riunioni del G20 parteciparono i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri. Con la crisi finanziaria del 2008, su iniziativa del presidente Usa George W. Bush cominciarono i vertici del G20 che coinvolgevano i capi di Stato e di governo. Dal 2010 questi incontri hanno cadenza annuale con il paese ospitante che cambia ogni anno@.

Le decisioni prese ai summit non sono vincolanti da un punto di vista giuridico, ma il loro peso politico e di indirizzo può essere molto elevato. Fra i temi connessi alla cooperazione e allo sviluppo che il vertice di Roma dovrà affrontare, vi è la ristrutturazione del debito per i paesi a basso e medio reddito. Nelle economie fragili, l’espansione della spesa pubblica e il maggior indebitamento imposti dalla pandemia rischiano di risultare insostenibili e così, già a novembre dell’anno scorso, i paesi del G20 avevano deciso di congelare il debito. Un provvedimento temporaneo e di emergenza che il summit di Roma dovrebbe tentare di sostituire con un accordo più articolato di riduzione o rinegoziazione@.

Altro tema che dovrebbe ricevere attenzione da parte dei leader del G20 è quello dell’accesso al cibo, dal momento che le persone in condizione di grave insicurezza alimentare sono aumentate dai 690 milioni del 2019 agli 820 milioni attuali, in larga parte a causa della pandemia@.

Il vertice Onu sui sistemi alimentari

Proprio del cruciale tema del cibo si è occupato il vertice Onu sui sistemi alimentari che si è svolto a New York il 23 settembre scorso. Il suo obiettivo, si legge sul sito istituzionale, era di suscitare la consapevolezza che occorre «lavorare insieme per trasformare il modo in cui il mondo produce, consuma e concepisce il cibo»@.

Per sistemi alimentari si intende tutta la «costellazione di attività coinvolte nella produzione, lavorazione, trasporto e consumo di alimenti». Uno dei principali problemi che il vertice intendeva affrontare era quello dei sistemi alimentari fragili e a rischio di collasso, «come milioni di persone in tutto il mondo hanno sperimentato in prima persona durante la crisi del Covid-19».

L’obiettivo era quello di individuare soluzioni e stabilire principi di riferimento che possano guidare il cambiamento di questi sistemi nella direzione di una maggior sostenibilità e garantire a tutti l’accesso al cibo. Alla chiusura di questo articolo (fine agosto 2021, nda) non è possibile dare conto dei risultati del vertice; certamente però le critiche che hanno preceduto il suo svolgimento sono state numerose e aspre.

Il prevertice di luglio e le critiche

Queste critiche sono emerse già in occasione del prevertice che si è svolto alla Fao nel luglio scorso, attraverso prese di posizione come quelle della piattaforma Csm (Civil society and indigenous peoples’ mechanism)@ che riunisce organizzazioni della società civile attive nella lotta all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione: nonostante affermi di essere un «vertice del popolo» e un «vertice delle soluzioni», è l’accusa del Csm, questo summit favorisce piuttosto una maggiore concentrazione nelle mani delle multinazionali, promuove catene del valore globalizzate insostenibili e rafforza l’influenza dell’agroindustria sulle istituzioni pubbliche. E lo fa proponendo «false soluzioni, come i modelli falliti degli schemi volontari per la sostenibilità aziendale, soluzioni “naturali” che includono tecnologie rischiose come gli organismi geneticamente modificati e la biotecnologia e l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura». Queste soluzioni, continua il Csm, non sono né sostenibili, né abbordabili per i produttori alimentari su piccola scala e non affrontano le ingiustizie strutturali come l’accaparramento di terre e risorse, l’abuso di potere da parte delle grandi aziende e la disuguaglianza economica.

Anche il Vaticano ha preso posizione nel dibattito. Nel suo intervento al prevertice, il cardinale Peter Kodwo Turkson, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ha ricordato che per individuare soluzioni davvero sostenibili è opportuno guardare ai popoli indigeni e alla loro capacità di adattare i metodi di coltivazione alle condizioni che via via si presentano, mentre occorre porre un freno all’opposto tentativo di spazzare via queste conoscenze: «L’utilizzo delle tecniche tradizionali si è dimostrato fondamentale per la vitalità e la resilienza delle colture e delle specie alimentari indigene, mentre l’introduzione di specie straniere, accompagnate da fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, “compromette gravemente questa vitalità, e l’agricoltura tradizionale locale in Africa lo dimostra”»@.

Chiara Giovetti




Cambierà il turismo dopo la pandemia?

testo di Chiara Giovetti | www.missioniconsolataonlus.it | foto del Campi ya Kanzi |


Il 2020 è stato l’anno più negativo di sempre per il turismo e, anche se ci sono segnali di ripresa, il 2021 non segnerà un ritorno ai volumi pre Covid. La contrazione del turismo ha avuto effetti nefasti per l’economia e per i lavoratori del settore, ma potrebbe anche offrire l’opportunità di correggere alcune storture.

Lo scorso 27 aprile, 250 guide dei parchi nazionali del Kenya hanno ricevuto a Nairobi@ il vaccino AstraZeneca: la stagione più propizia per visitare i parchi del paese e per vedere la spettacolare migrazione degli gnu e delle zebre@ al Maasai Mara si apre, infatti, fra maggio e giugno e le guide hanno voluto dare un segnale chiaro ai turisti, che mai come ora scelgono le proprie mete dando alla sicurezza sanitaria la più alta priorità.

Come tutti i paesi del mondo, il Kenya ha subito una pesante riduzione di arrivi internazionali nel 2020: secondo il Tourism research institute keniano, che ha confrontato i dati dei primi dieci mesi dell’anno scorso con lo stesso periodo dell’anno precedente, il calo è stato del 72%, con 470.971 ingressi nel 2020 contro 1.718.550 del 2019.

Alla riapertura dei voli, l’estate 2020, qualche segnale di ripresa dei flussi c’è stato, ma dei viaggiatori che entravano in Kenya solo uno su cinque arrivava per vacanza, contro i tre su cinque del 2019@.

Il settore turistico ha subito cercato di riadattarsi rivolgendosi di più al mercato interno, offrendo sconti ai visitatori keniani@; ma il comparto ha realizzato solo 37 miliardi di scellini contro i 147 miliardi attesi.

I settori connessi al turismo, poi, hanno a loro volta subito un duro contraccolpo: Rose Ayuma, responsabile del marketing di Kazuri Beads, un’azienda che produce collane, braccialetti e vasellame in ceramica, riferiva lo scorso ottobre ad Africanews una drastica riduzione nel proprio personale, composto di madri single in condizioni di vulnerabilità che ricevono oltre allo stipendio anche assistenza medica: «Di solito ci sono 235 donne che lavorano in azienda, ora ne abbiamo solo 35»@.

Foto del Campi ya Kanzi sulle Chulu Hills ai piedi del Kilimanjaro in Kenya (Maasai.com).

I dati dell’annus horribilis

Quello del Kenya è solo un esempio, piuttosto in linea con il dato globale, del calo di ingressi dovuto alla pandemia e delle strategie adottate per farvi fronte.

Secondo il numero di maggio del Barometro del turismo mondiale, bollettino pubblicato dall’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite (Unwto), gli arrivi internazionali erano diminuiti dell’83% anche nel periodo gennaio-marzo 2021 rispetto all’anno precedente. Nel complesso il 2020 aveva fatto registrare un «calo senza precedenti del 73%» diventando così «l’anno peggiore mai registrato per il turismo internazionale@».

In termini economici, l’anno scorso le entrate derivanti dal turismo sono crollate di 930 miliardi di dollari, circa dieci volte tanto la perdita generata dalla crisi finanziaria del 2009. I visitatori internazionali hanno infatti speso l’anno scorso circa 536 miliardi di dollari, quasi un terzo rispetto ai 1.466 miliardi di dollari del 2019.

Secondo un’indagine effettuata dal gruppo di esperti della Unwto la scorsa primavera, la fiducia del settore stava lentamente aumentando per il periodo maggio-agosto 2021 anche grazie ai ritmi sostenuti con cui si effettuavano le vaccinazioni in alcuni mercati chiave – principalmente i paesi occidentali – e alle soluzioni allo studio per riavviare il turismo in sicurezza attraverso strumenti come la Green card della Ue.

Ma le incognite segnalate dall’agenzia Onu rimanevano tante, a cominciare «dall’emergere di nuove varianti, dalle restrizioni di viaggio ancora in vigore e dall’irregolare distribuzione dei vaccini».

Se nella precedente indagine di gennaio gli esperti della Unwto erano divisi esattamente a metà fra chi prevedeva una ripresa nel 2021 e chi la collocava invece nel 2022, i dati di maggio avevano fatto propendere più esperti (il 60%) per la seconda ipotesi. Inoltre, la percentuale che prevedeva per il 2023 un ristabilirsi dei flussi turistici ai livelli pre pandemia era passata dal 43% di gennaio al 37% di maggio, mentre circa la metà proiettava questo ritorno al 2024 o dopo.

I posti di lavoro persi l’anno scorso a livello mondiale sono stati 61,6 milioni, riportava in aprile il forum dell’industria del turismo e dei viaggi World travel and Tourism council (Wttc), passando da 334 milioni a 272 milioni e il contributo del turismo al Pil mondiale si è praticamente dimezzato, passando dal 10,4 al 5,5%@.

Pandemia e viaggi

Proprio questo ritorno al prima della pandemia è oggi al centro del dibattito perché, fa notare la coalizione Future of tourism, c’è un «crescente consenso sul fatto che tornare al cosiddetto business as usual non è possibile»@. La coalizione, costituita nel giugno 2020 da sei Ong con la partecipazione consultiva del Global sustainable tourism council (Gstc) – a sua volta espressione della Unwto, della Rainforest alliance e del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, Unep – ha individuato 13 principi guida per riorganizzare il turismo@.

L’epidemia da coronavirus ha contribuito a sviluppare alcune sensibilità riguardo ai temi promossi dalla coalizione e dall’iniziativa «sorella» e più concentrata sui problemi legati al clima Tourism declares@, almeno a giudicare da alcuni studi usciti in questi mesi.

Secondo il Rapporto sulla sostenibilità del portale Booking@, che ha raccolto le opinioni di oltre 29mila viaggiatori in trenta paesi, il 61% degli intervistati sostiene che la pandemia li ha spinti a desiderare di viaggiare in modo più sostenibile, e tre su quattro di loro si dichiarano più inclini a scegliere un alloggio se questo mette in atto pratiche che ne aumentino la sostenibilità.

Il 27% degli intervistati vorrebbe vedersi offrire la possibilità di rinunciare alla pulizia giornaliera della stanza per ridurre il consumo di acqua (nel 2020 era il 22% a esprimere questa volontà) e preferirebbe usare stoviglie e posate riutilizzabili per tutti i pasti, inclusi quelli in camera (+4% rispetto all’anno prima). Quattro viaggiatori su cinque si dicono poi desiderosi di spostarsi in modo più sostenibile, ad esempio a piedi, in bicicletta o con il trasporto pubblico, invece che con il taxi o con auto a noleggio.

Fra i cambiamenti che Unwto registra nel comportamento dei turisti a causa della pandemia, i principali si confermano l’aumento del turismo interno, la scelta di destinazioni che permettano di restare immersi nella natura, la preferenza per il turismo rurale e per i viaggi in auto, una maggiore preoccupazione per la salute e la sicurezza, un’aumentata attenzione verso le politiche sulla cancellazione delle prenotazioni applicate da strutture ricettive e vettori di trasporto e, infine, una maggiore tendenza a prenotare all’ultimo minuto@.

Turismo sostenibile

A questa aumentata sensibilità, tuttavia, ancora non corrisponde una risposta dal lato dell’offerta, innanzitutto nella comunicazione: sempre secondo il rapporto di Booking, le strutture non comunicano agli ospiti gli sforzi fatti per essere più sostenibili perché pensano che quello che fanno non sia sufficiente per essere interessante da comunicare (33%), perché ritengono che agli ospiti non interessi (32%) o perché temono di risultare paternalistiche.

Ma, sostengono diversi studiosi, il problema a volte è a monte e riguarda la comprensione da parte degli operatori del turismo dell’idea stessa di sostenibilità. Secondo C.B. Ramkumar, membro del consiglio e direttore per l’Asia meridionale del Gstc, «oltre il 95% dell’industria del turismo non comprende appieno la sostenibilità. E chi la comprende, la guarda attraverso la lente dell’essere green e dell’ambiente»@.

Si tratta, invece, di un approccio molto più ampio, che riguarda non solo l’ambito ambientale, ma anche quello economico e quello socioculturale@.

«Secondo gli esperti, sostenibilità è molto più che riutilizzare gli asciugamani nella nostra camera d’albergo o pagare una compensazione per il carbonio emesso dal nostro volo, anche se questi sono buoni punti di partenza», scrive@ Paige McClanahan, giornalista freelance che si occupa di turismo e viaggi per il New York Times. «La sostenibilità riguarda anche i salari e le condizioni di lavoro delle persone che servono ai tavoli sulla nave da crociera in cui viaggiamo o che trascinano la nostra valigia su un sentiero; riguarda la pressione aggiuntiva che la nostra presenza esercita su una città già affollata, su un sito del patrimonio storico o su un’area naturale; ha a che fare con la scelta da parte dell’hotel in cui soggiorniamo di acquistare i prodotti da un’azienda agricola in fondo alla strada o da un fornitore dall’altra parte del mondo, o con la possibilità che i soldi che spendiamo vadano alla comunità che stiamo visitando oppure nel remoto conto di una multinazionale». La mancanza di comprensione, osserva Ramkumar, deriva anche dal fatto che la sostenibilità per ora non rientra fra le conformità da ottenere per legge, come quelle sanitarie o della sicurezza, perciò le aziende del settore turistico – spesso già alle prese con certificazioni obbligatorie laboriose da ottenere – non avvertono la necessità di approfondire e capire meglio. Anche perché si tratta di indicazioni e raccomandazioni fornite da un’entità come l’Onu e spesso percepite come lontane e vaghe.

Ci sono poi alcuni malintesi sulla sostenibilità, che «a volte è equiparata alla frugalità. Non deve essere così per forza. Le persone vedono il fatto di concedersi qualche lusso come una ricompensa per il grande impegno che mettono nel loro lavoro e nella loro vita. E questo va bene, purché non consumi risorse sproporzionate, purché non sia dispendioso, purché non privi gli altri delle risorse che spettano loro. Davvero servono quindici cuscini e guanciali in una stanza per due persone?».

La stessa definizione di lusso sta cambiando: «Lusso ora è poter fare una lunga passeggiata in un posto sicuro!», conclude Ramkumar. «Penso che saranno i consumatori o i viaggiatori a imporre un cambio di rotta, se saremo capaci di ascoltarli. Il loro comportamento darà forma al cambiamento di mentalità per le imprese turistiche e per gli altri attori coinvolti».

Piccoli segnali di cambiamento

«Dobbiamo ripensare e rimodellare il nostro modo di fare le cose per poter così sopravvivere fino a quando il turismo non riprenderà», ha detto alla Cnn@ il ministro del turismo keniano Najib Balala. Il Kenya, approfittando dell’inattività forzata dovuta alla pandemia, ha avviato uno sforzo di tutela della fauna che comincia con il censimento di ogni animale e forma di vita marina in tutti i 58 parchi nazionali del paese e che sarà fondamentale per comprendere e proteggere le oltre mille specie originarie del paese, alcune delle quali hanno subito un preoccupante calo della popolazione negli ultimi decenni.

Elaine Glusac, anche lei giornalista del New York Times, segnala poi quella che potrebbe essere una nuova frontiera, il turismo rigenerativo@: secondo Jonathon Day, professore della Purdue University citato da Glusac, il turismo sostenibile corrisponde all’asticella bassa del non fare danni al luogo che si visita, mentre il turismo rigenerativo ha l’obiettivo più ambizioso di migliorare quel posto per le generazioni future. Un esempio pratico: il piccolo resort Playa Viva, nello stato di Guerrero, Messico, che fa parte delle soluzioni proposte dall’agenzia viaggi Regenerative travel@ specializzata appunto in questo tipo di turismo e che è stato esaminato da Regenesis@, un’azienda statunitense che si occupa di sviluppo rigenerativo, anche in ambito turistico, dal 1995.

La vicina cittadina di Juluchuca, ha constatato Regenesis, è diventata di fatto la porta di accesso a Playa Viva; un sistema agricolo biologico ha beneficiato sia la proprietà sia i residenti locali e una commissione del 2% aggiunta a tutti i soggiorni al resort finanzia un fondo fiduciario che investe nello sviluppo della comunità.

«Invece che fare un resort calato dall’alto e che occupa la terra», commenta il capo di Regenesis, Bill Reed, i responsabili hanno detto: “Noi siamo il villaggio”. È un cambio di paradigma».

Chiara Giovetti

 




Perché l’Oms non funziona come dovrebbe

testo di Chiara Giovetti | foto AfMC |


Gli stati membri collaborano solo se a loro conviene e la struttura burocratica dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è troppo lenta e inefficiente. La vicenda di Covax è solo il più recente esempio di mancanza di incisività per un’organizzazione nata con l’ambizione di coordinare la sanità a livello mondiale e oggi in evidente crisi.

Lo scarto fra paesi ricchi e paesi poveri nel numero di vaccini somministrati «cresce ogni giorno, e ogni giorno diventa più grottesco. Paesi che ora stanno vaccinando persone più giovani e sane a basso rischio lo fanno a spese delle vite del personale sanitario, degli anziani e dei gruppi a rischio in altri stati. I paesi più poveri del mondo si chiedono che cosa davvero intendano i paesi ricchi quando parlano di solidarietà»@.

Così Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha descritto durante una conferenza stampa dello scorso 22 marzo la situazione di disparità nell’accesso ai vaccini contro la Covid. A gennaio Tedros aveva detto che il mondo era sull’orlo di un catastrofico fallimento morale e che era necessario agire con urgenza per assicurare un’equa distribuzione dei vaccini. «Abbiamo i mezzi per scongiurare questo fallimento – ha poi ribadito il direttore dell’Oms a marzo – ma è scioccante quanto poco sia stato fatto per ridurre lo scarto».

Vaccini per tutti

Per tentare di garantire una più equa distribuzione dei test, degli strumenti terapeutici e dei vaccini per contrastare la pandemia, già dall’aprile dell’anno scorso, l’Oms ha avviato – insieme alla Banca mondiale, all’Alleanza globale per i vaccini (Gavi), e a diversi altri partner – l’iniziativa Act-A, che si propone di ampliare il più possibile l’accesso agli strumenti di lotta alla Covid (Access to Covid-19 tools accelerator).

La colonna portante dell’iniziativa Act-A per l’acquisto e la distribuzione dei vaccini si chiama Covax: secondo quanto si leggeva lo scorso marzo nel rapporto sul primo ciclo di assegnazioni@, l’obiettivo è quello di consegnare fra gennaio e maggio 2021 ai 142 partecipanti al programma 237 milioni di dosi di vaccino, per arrivare poi a due miliardi di dosi (1,8 miliardi secondo le proiezioni più recenti@) entro la fine dell’anno. Si tratta prevalentemente del vaccino AstraZeneca/Oxford – prodotto dal Serum Institute of India, che ha concluso con AstraZeneca un accordo per la licenza – e, in misura molto minore, del vaccino Pfizer Biontech.

Come spiegava l’amministratore delegato di Gavi, Seth Berkley@, Covax era nata per coinvolgere tutti i paesi del mondo, a prescindere dal loro reddito, in un unico sforzo per la negoziazione e l’acquisto dei vaccini, in modo da garantire la copertura vaccinale per il 3% della popolazione, corrispondente grosso modo al personale sanitario, su tutto il pianeta. La seconda fase sarebbe stata poi quella di arrivare a coprire il 20% della popolazione, con i paesi ad alto reddito che avrebbero comprato i vaccini autofinanziandosi e 92 paesi a basso reddito che avrebbero visto i costi coperti tramite le donazioni dei paesi più ricchi sotto forma di aiuto pubblico allo sviluppo.

Raggiunta la copertura vaccinale per il 20% della popolazione, Gavi prevedeva un meccanismo per cui, anche finanziandosi attraverso banche multilaterali, i paesi più poveri avrebbero ricevuto ulteriori vaccini sopportando una parte dei costi.

Bambino della Casa Hogar Estancia de Maria a Guadalajara, Messico

Promesse e realtà

Ad oggi, quasi nessuno dei paesi ad alto reddito utilizza la piattaforma Covax per negoziare e acquistare i vaccini. Pur con le eccezioni di Canada, Nuova Zelanda e Singapore, che comunque acquistano solo una porzione molto limitata di dosi tramite Covax, lo sfilarsi dei paesi ricchi dal meccanismo multilaterale ha contribuito a generare l’attuale situazione di stallo, in cui le principali economie mondiali usano i canali bilaterali e comprano direttamente dalle case farmaceutiche ritardando le spedizioni dei vaccini verso i paesi in via di sviluppo@.

Anche sul versante dell’appoggio da parte dei donatori, Covax fatica a decollare: secondo i dati dello scorso 21 marzo consultabili sul sito dell’Oms@, gli impegni a donare avevano raggiunto gli 11 miliardi di dollari: la Germania e gli Stati Uniti guidavano con 2,6 miliardi e altri 2,5 miliardi il gruppo dei primi dieci donatori, seguiti da Regno Unito, Canada, Commissione europea, Consorzio diagnostico per la Covid-19 (coordinato dall’Oms), Norvegia, Bill & Melinda Gates foundation, Arabia Saudita e Giappone.

L’Italia, che si era impegnata per 116 milioni di euro, si trovava al quindicesimo posto, mentre fra i donatori privati, oltre alla già citata Bill & Melinda Gates foundation, vi erano Reed Hastings e Patty Quilling, cioè il cofondatore e attuale amministratore delegato di Netflix e la moglie, che hanno promesso 30 milioni di dollari, seguiti dalla multinazionale di servizi finanziari Mastercard e dalla Chan Zuckerberg initiative del proprietario di Facebook e della moglie, solo per citarne alcuni.

Anche limitandosi solo alle promesse, il deficit di finanziamento a marzo restava di circa 22 miliardi di dollari, di cui 3,2 miliardi mancanti proprio a Covax. Quanto al lato degli esborsi effettivi, secondo una ricostruzione dell’Economist@ al 25 marzo per sostenere le attività di Act i donatori avevano effettivamente versato solo mezzo miliardo di dollari, di cui 300 milioni per i vaccini. La somministrazione è comunque iniziata il 1° marzo scorso, con il Ghana e la Costa d’Avorio come primi paesi beneficiari per l’Africa e la Colombia per l’America Latina, ma per i paesi a reddito basso e medio basso la strada sembra ancora molto in salita.

Alla data di chiusura di questo articolo, su 475 milioni di dosi somministrate nel mondo 126 milioni erano andate agli Stati Uniti, 60 milioni all’Unione europea e 30 milioni al Regno Unito: una frazione della popolazione mondiale pari a un decimo ha ricevuto poco meno della metà dei vaccini. In Africa, dove abita circa un sesto degli abitanti del pianeta, le dosi inoculate erano 8,5 milioni, il 2% del totale.

Quanto alle dosi acquistate, secondo il monitoraggio effettuato ogni due settimane dal centro studi statunitense Duke global health innovation center@, a metà marzo su 8,6 miliardi totali 4,6 erano dei paesi ad alto reddito (il 53,7%), 1,5 miliardi (17%) dei paesi a reddito medio alto, 703 milioni (8%) dei paesi a reddito medio basso e 670 milioni (7,8%) dei paesi a reddito basso, mentre l’iniziativa globale Covax aveva comprato il 13% delle dosi, pari a 1,1 miliardi di dosi.

Le numerose richieste, promosse da Ong come Medici senza frontiere e appoggiate dall’Oms, di sospendere i brevetti dei vaccini non hanno sortito ad oggi alcun effetto a causa principalmente delle resistenze di Usa, Ue, Svizzera e Regno Unito@.

Gesto simbolico di intercessione in tempi di Covid in Sud Corea

L’Oms e i ritardi della Cina

Le iniziative promosse dall’Oms per combattere il coronavirus non hanno ottenuto l’adesione e i risultati sperati anche a causa della scarsa collaborazione da parte delle principali economie mondiali e del prevalere della logica del bilateralismo.

La mancata collaborazione da parte della Cina è stata anche il motivo principale dei ritardi con cui nel gennaio del 2020 l’Oms ha allertato il mondo sul coronavirus e sulla gravità della situazione. Se pubblicamente l’Oms lodava la Cina per la gestione dell’epidemia, riportava nel giugno scorso Associated press (Ap)@, il dietro le quinte era però ben diverso: vi era notevole frustrazione tra i funzionari dell’Oms per i ritardi significativi con cui il governo cinese condivideva informazioni cruciali, ad esempio quelle sul genoma del virus, nonostante la rapidità con cui gli scienziati cinesi le avevano fornite a Pechino.

Le lodi pubbliche, continua Ap riportando il contenuto di alcune registrazioni degli incontri interni all’Oms in quelle settimane, erano parte di una strategia per invogliare il governo cinese a collaborare in una fase in cui – nelle parole del più alto funzionario dell’Organizzazione in Cina, Gauden Galea -, «ci danno le informazioni un quarto d’ora prima che vengano trasmesse su Cctv», la televisione pubblica cinese.

Burocrazia elefantiaca e immobilista

La scarsa collaborazione ricevuta non toglie, tuttavia, che l’organizzazione funzioni da anni in modo tutt’altro che impeccabile.

I ritardi dell’Oms nel dare l’allarme su un’epidemia non sono una novità: nel 2015 l’organizzazione fu duramente attaccata per aver aspettato due mesi prima di dichiarare emergenza globale l’epidemia di ebola in Africa occidentale l’anno prima. A trattenere l’Oms, nonostante i suoi funzionari sul campo inviassero a Ginevra numerose e accorate segnalazioni e richieste d’aiuto, fu il timore di danneggiare l’economia regionale e di compiere quello che i governi della zona avrebbero potuto leggere come un atto ostile@.

L’Oms condivide molte delle pecche del più ampio sistema di cui fa parte, le Nazioni Unite: in un articolo apparso nel 2016 sul New York Times dal titolo «Amo le Nazioni Unite, ma stanno fallendo»@, un funzionario Onu di lungo corso come Anthony Banbury individua i principali problemi della struttura nel suo sistema sclerotizzato di gestione del personale e nella tendenza a prendere decisioni basate sulla convenienza politica – ad esempio non scontentare gli stati membri – invece che sui valori fondanti dell’organizzazione o sulla realtà dei fatti sul campo.

Per quanto riguarda il primo ostacolo, spiega Banbury che, durante l’epidemia del 2014, era capo della missione Onu per la risposta di emergenza all’ebola, «troppo spesso, l’unico modo per accelerare le cose è infrangere le regole. È quello che ho fatto ad Accra [in Ghana] quando ho assunto un’antropologa come consulente indipendente. Si è rivelata qualcuno che valeva il proprio peso in oro. Le pratiche di sepoltura non sicure erano responsabili di circa la metà dei nuovi casi di ebola in alcune aree. Dovevamo capire queste tradizioni prima di poter persuadere le persone a cambiarle. Per quanto ne so, nessuna missione delle Nazioni Unite aveva mai avuto un antropologo nello staff prima di allora; quando io ho lasciato la missione, lei non è stata confermata».

Distribuzione di cibo ai più poveri in eSwatini.

«Un covo di squali»

I rapporti disfunzionali all’interno dell’agenzia sono anche l’oggetto delle critiche di Laurie Garrett, esperta di salute globale presso il centro di ricerca statunitense Council for foreign relations e giornalista scientifica. In una colorita intervista a Global health now, sito di informazione sulla sanità della Johns Hopkins Bloomberg school of public health, ha detto: «L’unico consiglio che ho dato a ogni direttore generale – e tutti lo ignorano, anche se poi, anni dopo, tutti mi dicono: “Come avevi ragione!” – è: cerca di ridurre al minimo i tuoi viaggi. Perché questo posto [il quartier generale dell’Oms] è un covo di squali». A detta di Garrett, sui programmi da realizzare ci sono grandi battaglie fra i dipartimenti, che si sabotano a vicenda per difendere il proprio territorio. Può succedere di veder «sparire improvvisamente interi programmi nei paesi poveri di tutto il mondo […] perché il direttore generale non era lì per dire “no”. E l’altro problema, con i direttori che viaggiano così tanto, è che si trovano in uno stato permanente di jet lag e iniziano a perdere la propria capacità di giudizio […] perché letteralmente non sanno in quale fuso orario si trovano»@.

Quella di Tedros è stata la prima elezione a scrutinio segreto estesa a tutti gli stati membri dell’Oms; prima, la decisione era presa a porte chiuse da una trentina di rappresentanti dei paesi ad alto reddito e da un gruppo di altri membri a rotazione. I casi di corruzione da parte dei paesi di provenienza dei candidati per assicurarsi i voti erano non solo numerosi, ma anche sfacciati.

L’Oms ha, storicamente, ottenuto diversi successi, come l’eradicazione del vaiolo e la realizzazione di grandi campagne vaccinali su tutto il pianeta. Molti esperti, specialmente alla luce dell’attuale crisi, invocano una profonda riforma dell’organizzazione per renderla più efficiente ma anche più indipendente dai condizionamenti politici@ per poter agire davvero come ente di coordinamento globale in un mondo in cui, ammonisce Gavi, nessuno vince finché non vincono tutti@.

Chiara Giovetti

 




L’uomo e il virus: non è finita

testi di Rosanna Novara Topino |


In Italia e in Europa la pandemia ha allentato la morsa. Sul terreno sono rimasti migliaia di morti e grandi macerie. Il futuro rimane ancora incerto e i pericoli incombenti.

Quali sono state le misure adottate per contenere la pandemia? Le misure di contenimento sono variate da paese a paese. Si è passati da quelle molto leggere della Svezia al completo lockdown di altri paesi, come l’Italia. Nel nostro paese, nella cosiddetta «fase 1», durata dal 23 febbraio al 17 maggio (introduzione delle misure di contenimento e della gestione dell’emergenza epidemiologica della Covid-19 con decreto legge del 23 febbraio 2020), si sono interrotte le normali attività lavorative, fatta eccezione per quelle che permettevano il rifornimento dei generi di prima necessità alla popolazione, e le possibilità di movimento dei cittadini sono state limitate al rifornimento di generi alimentari, di farmaci e alle visite mediche con il limite di una sola persona per famiglia fuori casa, per favorire il distanziamento sociale ed evitare assembramenti. I controlli sui movimenti di persone all’aperto si sono intensificati, fino ad arrivare all’utilizzo di droni e di elicotteri.

Dopo la «fase 2» (18 maggio – 14 giugno), con la riapertura delle attività produttive e il progressivo ritorno a una maggiore libertà di movimento, dal 15 giugno al 14 luglio, l’Italia è entrata nella «fase 3», che ha consentito spostamenti tra regioni diverse (già dal 3 giugno), la partecipazione ai funerali senza il limite di 15 persone, gli esami di maturità in presenza, mentre sono rimaste sospese fiere, congressi, processioni, manifestazioni sportive con pubblico e tutte le altre forme di assembramento.

In questo momento (luglio 2020), in Italia è notevolmente diminuito il numero dei pazienti Covid in terapia intensiva e molti reparti dedicati sono stati chiusi. Inoltre, i nuovi casi positivi non presentano più i gravissimi quadri clinici riscontrati tra febbraio e aprile. Questo tuttavia non è il momento di abbassare la guardia, perché potrebbe esserci una recrudescenza dei contagi, come è già avvenuto a Singapore per la Covid e come avvenne a San Francisco (Stati Uniti) nel 1918 per la spagnola. Eppure una ripartenza è necessaria, perché mesi di sosta forzata hanno portato a un tracollo economico in diversi settori. Molte persone sono finite in cassa integrazione e qualcuno ha perso il posto di lavoro. Purtroppo, c’è chi si è già suicidato e molti sono coloro che sono diventati vulnerabili sotto il profilo psicologico. Inoltre, è necessario tornare quanto prima alle lezioni scolastiche e universitarie in presenza, perché le lezioni a distanza hanno portato ad acuire la disparità tra studenti con più risorse e quelli con meno (non solo con riferimento al digital divide, cioè alla maggiore o minore disponibilità di mezzi informatici).

La popolazione anziana ricoverata nelle Rsa è stata duramente colpita dalla pandemia. Foto: Sabine van Erp – Pixabay.

La strage degli anziani

Quello che è stato chiaro fin dall’inizio della pandemia è che la Covid-19, nelle persone altamente suscettibili, è così aggressiva da portare nel giro di una settimana o poco più il paziente in una situazione allarmante, se non critica, con necessità di ricovero in terapia intensiva e di ventilazione meccanica. L’elevata contagiosità del coronavirus ha portato nel giro di un mese o poco più al collasso delle strutture sanitarie in diverse città del Nord Italia, tra cui Bergamo e Brescia, e il numero dei deceduti è stato così elevato da rendersi necessario il trasporto delle bare in altre città per la cremazione con mezzi dell’esercito.

In molte famiglie è scomparsa almeno una persona, se non di più. E solo dopo due mesi dall’inizio della pandemia, a seguito di indagini della magistratura, in tutta Italia è emerso chiaramente che, nelle case di riposo per anziani e nelle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali), il numero degli ospiti e degli operatori sanitari positivi al coronavirus è stato elevatissimo. Secondo le stime dell’Iss (Istituto superiore di sanità), le morti per Covid nelle Rsa sono state tra 9mila e 10mila, ma il dato è approssimato per difetto, non essendo stato fatto il tampone a tutti. Peraltro lo stesso scenario si è presentato in tutta Europa: una strage di anziani. Inoltre, nella sola Italia sono morti sul campo 163 medici, 40 infermieri, 24 operatori socio sanitari e 14 farmacisti. E a loro si aggiungono 121 sacerdoti.

Farmaci e vaccini

A livello di prevenzione della Covid-19, sono allo studio diversi tipi di vaccini (preparati con virus attenuati o con parti di virus), ma nella migliore delle ipotesi ci vorranno non meno di 18 mesi prima di arrivare ad un vaccino, sempre che sia possibile realizzarne uno veramente efficace. Il fatto che, dopo 17 anni, non ci sia ancora un vaccino per la Sars del 2003, non è un buon segnale.

Per quanto riguarda le cure, anche in questo caso non ne esiste una specifica per la Covid-19. In alcuni ospedali stanno utilizzando con discreti risultati dei cocktail di farmaci antivirali già utilizzati nella cura di altre gravi malattie come l’Ebola. In alcuni casi in fase precoce sembra funzionare l’idrossiclorochina, un farmaco antimalarico, anche se c’è ancora disaccordo tra i vari studiosi sui suoi possibili effetti collaterali e sulla reale efficacia, mentre per la prevenzione delle tromboembolie, che possono portare a embolia polmonare, ischemia cardiaca o cerebrale si fa ricorso, quando il rapporto rischio/beneficio lo consente, all’uso di eparina.

Recentemente all’Università di Oxford hanno ottenuto buoni risultati con l’uso del desametasone, un antinfiammatorio steroideo della famiglia del cortisone in grado di ridurre la mortalità del 35% dei pazienti intubati. Un altro metodo di cura, che si sta rivelando molto efficace è quello del plasma iperimmune donato dai pazienti guariti da Covid e contenente quindi gli anticorpi efficaci nel contrastare la malattia. Questo metodo ha trovato inizialmente parecchi oppositori, poiché il plasma non è brevettabile, non essendo un farmaco, e la sua donazione è totalmente gratuita, quindi non consente alcun giro d’affari.

La lezione

A giugno abbiamo assistito a una ricomparsa della Covid in Cina, con un nuovo focolaio nel mercato dell’umido di Pechino. La situazione è diventata estremamente preoccupante nei paesi dell’America Latina, soprattutto in Brasile e Perù, dove intere comunità di popolazioni indigene stanno rischiando la loro sopravvivenza più di chiunque altro per le enormi difficoltà di raggiungere gli ospedali e per la continua esposizione al virus legata alla presenza dei cercatori illegali d’oro e di pietre preziose nella foresta amazzonica (si veda MC di luglio e questo numero a pp. 51-56). Altrettanta preoccupazione è data dall’aumento repentino dei casi e dei decessi in India. In Africa, gli stati maggiormente interessati dalla Covid attualmente sono l’Egitto, l’Algeria, il Sudafrica, il Marocco e la Nigeria, ma complessivamente questo continente sembra il meno colpito dopo l’Oceania, anche se le cifre sono sottostimate per la difficoltà di effettuare screening corretti in molti paesi. Tuttavia, qui l’epidemia è ancora in aumento e ciò che desta maggiore preoccupazione è la presenza di soli 5mila posti di terapia intensiva in tutto il continente (in Italia sono stati raggiunti 6.100 posti nel mese di marzo). Tutto questo dovrebbe almeno insegnarci che l’uomo non è al di sopra o al di fuori del regno animale, di cui fa parte, e che ogni sua azione contro di esso e più in generale contro l’ambiente può avere gravi ripercussioni e rivelarsi un boomerang dalle conseguenze incontrollabili. Proprio come l’attuale pandemia.

Rosanna Novara Topino
(terza parte – fine)


I test

Alla ricerca di anticorpi

Per quanto riguarda i controlli sanitari, il test più utilizzato è quello del tampone naso-faringeo, che permette una prima analisi della presenza del virus mediante tecnica Pcr (Polimerase chain reaction) per l’identificazione dell’Rna virale. Un test più accurato è quello della raccolta di campioni biologici dalle basse vie respiratorie (espettorato, aspirato endotracheale, lavaggio bronco-alveolare). Per monitorare la presenza del virus nei vari distretti corporei si effettua la raccolta di campioni biologici aggiuntivi quali sangue, urine e feci. L’analisi del siero consente – inoltre – di valutare la quantità di anticorpi per il Sars-CoV-2 e grazie ad essa è possibile osservare l’innalzamento dei valori di immunoglobuline M (IgM, indicanti un’infezione allo stato iniziale) e di immunoglobuline G (IgG, infezione in stato avanzato). Oltre al prelievo rapido di una goccia di sangue mediante il pungidito, metodo che dà un risultato istantaneo, ma non sempre attendibile, attualmente la raccolta del siero viene effettuata con prelievo di sangue in vena e l’analisi viene condotta con metodo Elisa, i cui risultati sono più attendibili, soprattutto perché alcuni kit diagnostici testano gli anticorpi diretti contro la proteina spike (dominio S1), la regione più specifica e meno conservata del coronavirus della Covid-19. Altri kit individuano gli anticorpi contro la proteina N del nucleocapside del virus, una proteina più duratura e comune anche ad altri coronavirus, che infettano comunemente l’uomo (come quello del raffreddore), quindi sono possibili delle cross-reattività che danno dei falsi positivi. Per ottenere un risultato il più possibile attendibile, in alcuni laboratori hanno iniziato a testare non solo le IgM e le IgG, ma anche le IgA, gli anticorpi presenti nelle secrezioni, che hanno un ruolo fondamentale nel creare una prima risposta immunitaria al virus a livello delle mucose, tra cui quella dell’apparato respiratorio.

(RNT)

Nuovo coronavirus. Foto: Leo2014-Pixabay.


Italia, 35mila morti: com’è stato possibile?

La catena degli errori

Sicuramente è stato un grave errore, commesso peraltro da moltissimi altri paesi, sottovalutare la pandemia e non preparare per tempo un adeguato numero di posti di terapia intensiva, nonostante la Covid fosse già presente in Cina da diversi giorni. E il ritardo da parte dell’Oms nel dichiarare la Covid-19 una pandemia non ha certo aiutato a prendere per tempo le necessarie contromisure. Si è arrivati alla sospensione dei viaggi da e per la Cina troppo tardi, quando ormai erano giunte nel nostro paese troppe persone contagiate, a cui non è stato fatto alcun controllo sanitario. In ogni caso un buon numero di cinesi (o di italiani di rientro) è comunque riuscito ad eludere la chiusura dei voli diretti in Italia, arrivando in altri aeroporti europei e raggiungendo il nostro paese per via di terra, dopo essere stati a festeggiare il capodanno cinese nelle loro città natali.

Per quanto riguarda i tamponi, poiché era impossibile farli a tutta la popolazione, per mancanza di reagenti e di laboratori, inizialmente sono state seguite le indicazioni dell’Oms, che dicevano di farli solo alle persone asintomatiche, paucisintomatiche o con sintomatologia compatibile con Covid, quindi febbre alta e difficoltà respiratorie, che avessero avuto rapporti con persone provenienti dalla Cina o che fossero esse stesse provenienti da località asiatiche. In tale modo sono stati esclusi molti casi positivi, che, inconsapevoli di esserlo, hanno continuato a circolare liberamente diffondendo il virus.

Per molto tempo, pur essendo chiaro che stava aumentando in modo anomalo, rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti, il numero di anziani deceduti nelle Rsa, nessuno ha mai pensato di fare i tamponi agli ospiti e al personale sanitario di queste strutture. Solo adesso si stanno facendo i tamponi in tutte le Rsa e case di riposo, quando ormai i loro ospiti sono deceduti in gran numero. Tra l’altro, tali decessi spesso non sono stati conteggiati come Covid, non essendo state compiute le analisi su queste persone prima della morte. E questo è uno degli elementi per i quali si ritiene che il numero totale dei decessi per Covid sia sottostimato. Sicuramente è stato un grave errore la decisione di trasferire dei pazienti Covid in terapia sub intensiva in alcune Rsa, per fare spazio negli ospedali, senza tenere conto del pericolo di contagio (circolare del ministero della Salute del 25/03/2020). Oltre a questo, agli operatori sanitari sono stati forniti i dispositivi di protezione individuale (Dpi) con grande ritardo, per non parlare del fatto che alcuni di loro hanno riferito di avere ricevuto pressioni per non indossare le mascherine in pubblico, allo scopo di non creare allarmismo.

La pressione a cui è stato sottoposto il sistema sanitario nel nostro paese per tentare di fare fronte all’epidemia, ha portato a mettere in secondo piano i malati di altre patologie, con interventi chirurgici già programmati rimandati, visite specialistiche spostate di mesi e così via. Tutto questo per alcuni pazienti può rappresentare un pericolo. Secondo uno studio dell’Università di Birmingham pubblicato sul British Journal of Surgery, a causa della Covid potrebbero essere stati cancellati finora oltre 28 milioni di interventi chirurgici programmati al mondo (3 su 4, cioè il 72,3%). In Italia, le nuove diagnosi di cancro, dall’inizio dell’emergenza, si sono ridotte del 52%, gli interventi chirurgici hanno subito ritardi nel 64% dei casi e le visite specialistiche sono diminuite del 57%. I tumori e le patologie cardiovascolari non sono certamente meno gravi della Covid e tutti questi ritardi nella diagnosi e nella cura rischiano di compromettere la possibilità di sopravvivenza di molte persone, che diventerebbero perciò vittime collaterali dell’epidemia.

Uno dei più gravi errori commessi dal nostro governo è stato quello di emanare una disposizione (circolare n. 15.280 del 2 maggio 2020 del ministero della Salute) secondo la quale, nei casi conclamati di Covid, non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie e riscontri diagnostici. Fortunatamente in alcuni ospedali come il Sacco di Milano e il Giovanni XXIII di Bergamo le autopsie sono comunque state eseguite e si è così compreso che il danno maggiore da Covid non è a carico dei polmoni, ma del sistema circolatorio con formazione di trombi, che rallentano la circolazione del sangue, il quale una volta giunto ai polmoni non consente più una ventilazione corretta. La Covid sarebbe così una malattia infiammatoria del sangue. Quindi, i farmaci che prevengono la formazione dei trombi, come l’eparina possono dare un valido aiuto. Il risultato ottenuto dalle autopsie ha pertanto evidenziato che è stato un errore prima di tutto ospedalizzare i pazienti solo quando ormai giunti alla situazione di «fame d’aria» e, quindi, intubarli per la ventilazione meccanica. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal basata sui dati del Ssn britannico, il 58,8% dei pazienti Covid intubati è morto. A New York risulta deceduto l’88% dei 320 pazienti sottoposti a ventilazione meccanica. Secondo uno studio del Policlinico di Milano pubblicato da Giacomo Grasselli sul Journal of American Medical Association quasi un paziente Covid intubato su due muore, questo perché la ventilazione meccanica può peggiorare il preesistente danno polmonare.

(RNT)

 




Brasile: Chico Mendes sfrattato

testi di Silvia Zaccaria e Paolo Moiola |


Nata nel 1994 per aiutare i figli dei caboclos del Rio Jauaperi, un affluente del Rio Negro, nell’Amazzonia brasiliana, la scuola di «Vivamazzonia» è stata costretta a chiudere a fine dicembre. Un’esperienza pedagogica e didattica di grande respiro ha dovuto cedere il passo al business e al momento storico.

Il dibattito sul futuro dell’Amazzonia e dei suoi popoli è recentemente tornato di drammatica attualità: deforestazione incontrollata, disconoscimento dei diritti costituzionali delle minoranze e un nuovo nemico sconosciuto e invisibile (il coronavirus) che penetra anche nei villaggi più remoti, rappresentano una minaccia non solo per i popoli indigeni ma anche per quelle popolazioni tradizionali – seringueiros, quilombolas e ribeirinhos (si veda glossario, ndr) – che da secoli dipendono dalla foresta per la propria sopravvivenza fisica e culturale.

La relazione privilegiata che intrattengono con essa ha permesso a questi gruppi umani di acquisire conoscenze sconfinate su animali e piante, comprese quelle medicinali, sul ritmo delle acque dei fiumi e sul regime delle piogge.

Senza un’educazione, incentrata sulla valorizzazione di questi saperi e sull’accesso alla cittadinanza, alle nuove generazioni nate e cresciute nella foresta – dove ormai vive appena il 26% della popolazione amazzonica – non resta che emigrare verso le città, nelle quali, persi i propri riferimenti socio spaziali, rischiano di diventare facili prede dei circuiti illegali.

Per provare ad arginare questo fenomeno apparentemente inarrestabile, una coppia di volontari venuti da lontano ha portato avanti per oltre vent’anni (1994-2020) un progetto educativo visionario nel cuore della foresta. Che ora è stato bruscamente interrotto.

Piccoli di tartaruga per una lezione di ecologia quotidiana degli alunni «caboclos» della scuola di Vivamazzonia. Foto di Sitah.

La scuola di Bianca e Paul

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, l’Amazzonia inizia ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e della comunità internazionale a causa del profondo disboscamento che già interessa ampie zone della foresta. Il leader indigeno Raoni Kayapò sta facendo conoscere al mondo il dramma del suo popolo e Chico Mendes, seringueiro e sindacalista, viene assassinato (22 dicembre 1988).

Dopo un primo viaggio al confine tra gli stati di Amazonas e Roraima, nel Nord del Brasile, una giovane toscana, Bianca Bencivenni e Paul Clark, scozzese, decidono di trasferirsi in un’area ancora poco esplorata del rio Jauaperi, un affluente del rio Negro, abitata solo dagli indigeni Waimiri-Atroari e dai caboclos, un misto di indigeni e persone immigrate dal Nord Est del paese, che vive in un isolamento geografico e culturale lungo i fiumi e gli igarapés (corsi d’acqua navigabili in canoa), da cui anche l’appellativo ribeirinhos.

Dopo qualche tempo, gli abitanti del posto chiedono a Bianca e Paul di insegnare a leggere e a scrivere ai loro figli, perché l’unica scuola pubblica esistente nella zona è quasi sempre chiusa visto che i professori, non venendo pagati, non si presentano per mesi.

Così, nel 1994 viene aperta una nuova scuola sul fiume: una maloca senza pareti, sul modello di quella dei vicini indigeni, dove realizzare un’educazione compenetrata con il contesto in cui, allo studio delle materie curricolari, si alternano uscite all’esterno, per fare esperienza diretta del mondo circostante, carico di significati.

Il libro e l’Italia

A seguito dei viaggi della coppia in Italia, dove fanno conoscere l’iniziativa soprattutto nelle scuole, alcune di esse avviano degli intensi scambi epistolari con la scuola nella foresta. Dai disegni colorati e dalle parole piene di poesia degli alunni del primo ciclo nasce      O livro da selva, libro bilingue italiano-portoghese.

Nel 1998 Paul e Bianca fondano, poco più a Sud, la scuola Vivamazzonia, dal nome dell’associazione omonima cui hanno dato vita con un gruppo di amici italiani.

La prima generazione di ragazze e ragazzi alfabetizzati spinge gli adulti della comunità ad imparare a leggere e a scrivere, per uscire dalla condizione di svantaggio che li rende facile preda di coloro che da sempre approfittano di una popolazione analfabeta e sottomessa.

La scuola avvia anche progetti di preservazione della natura e di sensibilizzazione contro la pesca predatoria e il bracconaggio di alcune specie di tartarughe a rischio di estinzione. Progetti che coinvolgono gli alunni in un’esperienza unica di educazione e attivismo ambientale.

Queste attività generano l’ostilità di una parte della popolazione. Bianca e Paul subiscono minacce e intimidazioni anche da parte del governo locale che non esita a mandare un contingente militare nella zona.

La «riserva estrattiva»

La copertina del libro bilingue sulla foresta amazzonica disegnato dagli alunni della scuola Vivamazzonia. Foto Paolo Moiola.

Sul fiume manca qualsiasi realtà organizzata che rappresenti le istanze degli abitanti e si opponga alle attività illecite portate avanti da una parte di questi.

A partire dal lavoro con i bambini, Paul e Bianca stimolano i genitori a costituirsi in associazione per generare una fonte di reddito alternativa e sostenibile a partire dal riscatto di antiche tecniche artigianali e, allo stesso tempo, agire assieme ai figli in difesa del proprio ambiente di vita.

Nasce l’Associazione degli artigiani del Rio Jauaperi (Aarj). Questa si impegna da subito per raggiungere un accordo intercomunitario che proibisca la pesca commerciale (la legge relativa è in vigore ancora oggi) e sostiene la creazione di una «riserva estrattiva» sul fiume.

Riconosciuta nel giugno 2018, dopo anni di lotte, la «Reserva extrativista baixo rio Branco-Jauaperi» è una delle 89 aree protette esistenti oggi in tutto il Brasile. Nelle riserve le risorse sono utilizzate solamente dalle popolazioni locali che da esse traggono il proprio sostentamento e di cui Chico Mendes fu strenuo sostenitore.

Nel gennaio 2020, dopo oltre vent’anni di attività, in gran parte prestata a titolo volontario, Bianca e Paul sospendono le lezioni per una scelta politica dell’amministrazione di Novo Airão, il municipio di appartenenza. E questo, malgrado il riconoscimento di tante madri, padri e dei loro figli, oltre che di personalità della cultura e dello spettacolo, tra cui il musicista e attivista per i diritti indigeni Milton Nascimento che aveva recentemente fatto visita alla scuola Vivamazzonia.

Caboclos di ieri e di oggi

Pescatori, piccoli agricoltori, artigiani, raccoglitori dei prodotti della foresta (extrativistas), levatrici tradizionali (parteiras) e guaritori: questi erano i caboclos quando li ho conosciuti al principio degli anni ’90.

Oggi alcuni partecipano a progetti di ecoturismo come guardie ecologiche e, di quella prima generazione di bambini alfabetizzati, alcuni sono diventati professori. Oggi hanno una legge che – teoricamente – tutela la lora terra e, con essa, la loro cultura.

Politiche contrarie alla protezione ambientale e ai popoli indigeni e tradizionali come quella dell’attuale governo brasiliano – che trova seguaci persino negli angoli più sperduti del paese tra coloro che si accaparrano voti approfittando dell’abitudine atavica dei più deboli di rinunciare ai propri diritti in cambio di qualche sacco di riso e pacco di zucchero – ostacolano la maturazione di una vera consapevolezza ecologica e di una coscienza politica anche alle latitudini amazzoniche.

Neanche il duro lavoro di persone come Paul e Bianca può determinare, da solo, quel cambiamento culturale dal basso necessario a contrastare la distruzione e l’abbandono della foresta e la perdurante situazione di esclusione socio-economica dei suoi abitanti.

Tra i caboclos, i rezadores e i pajé (sciamani), capaci di guarire e riparare i mali, sono praticamente scomparsi; il boto cor de rosa (un delfino di fiume, ritenuto in grado di trasformarsi in essere umano) è quasi estinto, mentre il mapinguari, il curupira e altri esseri fantastici non popolano più la foresta, né l’immaginario di piccoli e grandi.

Quando le risorse naturali saranno consumate definitivamente in nome dello «sviluppo», i caboclos di oggi si ritroveranno, come la generazione precedente, a vagare nelle metropoli amazzoniche, dimentichi della propria cultura e delle proprie radici, ma questa volta non sarà più possibile tornare indietro.

Silvia Zaccaria

Alunni caboclos della scuola Vivamazzonia. Foto di Sitah.


Il Brasile e la presidenza Bolsonaro

Senza freni, senza vergogna

All’alleanza tra Bolsonaro, militari, allevatori ed evangelici ora si è aggiunto anche il nuovo coronavirus. Un mix micidiale che sta devastando l’ambiente e mettendo a rischio la vita dei brasiliani e la stessa sopravvivenza dei popoli indigeni.

Uno Yanomami con mascherina protettiva durante una riunione a Boa Vista. Foto: Carlo Zacquini.

Difficile dire cosa stia procurando più danno ai popoli indigeni e all’Amazzonia: se le politiche poste in essere dal governo di Jair Messias Bolsonaro o il nuovo coronavirus. Di certo, la pandemia ha trovato maggiori possibilità di diffondersi e di uccidere a causa delle politiche governative. Nel corso di questo 2020, Bolsonaro, il Trump brasiliano – come viene giustamente soprannominato -, non ha modificato di un millimetro le proprie posizioni anti-indigene e anti-ambientaliste, forte dell’appoggio dei militari, degli allevatori e degli evangelici, tutti ben rappresentati nella compagine governativa.

Fin dall’inizio Bolsonaro ha ripetuto che con lui non ci sarebbero state altre demarcazioni di terre indigene. Il presidente non si è però limitato a bloccare questo processo, peraltro previsto dall’articolo 231 della Costituzione brasiliana del 1988. Ha addirittura iniziato un’operazione contraria sottraendo terre ai popoli indigeni. In qualsiasi modo. Sia non frenando le invasioni (come quelle dei garimpeiros nella terra degli Yanomami) che cercando di legalizzarle attraverso il riconoscimento formale delle terre invase e, di conseguenza, della pratica fraudolenta nota come «grilagem de terras» (falsificazione della proprietà fondiaria). Invasioni che, in questo periodo, hanno tra l’altro favorito la diffusione del nuovo coronavirus tra popolazioni più vulnerabili – lo certificano sia la scienza che la storia – ad alcune patologie rispetto ai Bianchi (si parla di «virgin soil epidemics»).

Cancellare la foresta e i popoli indigeni

La deriva di Bolsonaro coinvolge anche i suoi ministri. Abraham Weintraub, ministro dell’istruzione, ha dichiarato: «Odio il termine “popoli indigeni”» (22 aprile). Per parte sua, Ricardo Sales, ministro dell’ambiente, ha spiegato che è necessario approfittare della pandemia e della conseguente disattenzione dei mezzi d’informazione per cambiare le regole ambientali in senso meno restrittivo. Non si è fatto attendere il plauso delle potenti organizzazioni dell’agrobusiness.

La deriva è così sfacciata che un quotidiano conservatore e moderato come la Folha de S.Paulo è arrivato a scrivere, in un proprio editoriale (del 24 maggio), che «Per il governo di Bolsonaro, una buona foresta è una foresta morta» (Para o governo Bolsonaro, floresta boa é floresta morta). I dati confermano drammaticamente questa affermazione. Per esempio, lo scorso mese di aprile l’Amazzonia brasiliana ha perso 405,61 chilometri quadrati di foresta, segnando un incremento del 64% rispetto allo stesso mese dell’anno passato (dati ufficiali Inpe-sistema Deter). Stessa devastazione stanno subendo la Mata Atlantica e il Cerrado, gli altri due biomi brasiliani.

Chi si discosta dalla linea del presidente viene prontamente sostituito: è successo con il ministro della giustizia, Sérgio Moro (il controverso giudice che ha fatto condannare l’ex presidente Lula), e con ben due ministri della salute, entrambi medici, Luiz Mandetta e Nelson Teich. In piena pandemia il dicastero della salute è stato affidato a Eduardo Pazuello, un generale dell’esercito.

La religione come strumento

È più difficile che ci siano problemi con la ministra per la famiglia, la donna e i diritti umani, Damares Alves, pastora evangelica. Uno degli slogan preferiti di Bolsonaro è infatti «Brasil acima de tudo, Deus acima de todos» (il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti). In un tweet il presidente – come Trump, anche lui ha un utilizzo compulsivo di questo strumento di comunicazione – scrive: «Sono presidente perché la maggior parte delle persone si è fidata di me, così come sono vivo perché Dio lo ha permesso» (26 maggio).

Marcelo Augusto Xavier da Silva, nuovo Presidente della Funai / Foto Mario Vilela – FUNAI.

Da sempre Bolsonaro usa la religione in modo strumentale per legare (come peraltro suggerisce l’etimologia del termine: «religare», legare, appunto) a sé una parte della popolazione brasiliana, in particolare quella che segue le cosiddette Chiese neo-evangeliche, avamposto ideologico dell’individualismo e del capitalismo neoliberista.

In quest’ottica, una delle decisioni più spudorate riguarda la nomina di Ricardo Lopes Dias, già missionario nella regione Vale do Javari per conto della organizzazione evangelica Missão Novas Tribos do Brasil (Mntb, all’estero ribattezzata Ethnos 360), a coordinatore per i popoli isolati della Funai, l’organo federale deputato alla difesa dei diritti dei popoli indigeni. Mntb è conosciuta per il suo fondamentalismo e la mancanza di rispetto per le culture indigene. Per fortuna, al momento, la nomina di Dias è stata bloccata da un Tribunale federale perché metterebbe a rischio la politica di non contatto con i popoli in isolamento.

Un piccolo contrattempo in un processo di subordinazione in fase molto avanzata. La Funai, infatti, è già nelle mani di evangelici e latifondisti. Il ministro della giustizia da cui essa dipende è un pastore evangelico (André Mendonça, che dunque porta a due i pastori nel governo Bolsonaro), mentre il suo presidente è un membro della polizia contiguo ai latifondisti e in passato accusatore della stessa Funai (Marcelo Augusto Xavier da Silva).

Il coraggio del Cimi

In tutto questo, va dato merito a quasi tutta la Chiesa cattolica di aver seguito una linea opposta, contrastando in maniera chiara e coraggiosa tutte le politiche anti-indigene e anti-ambientaliste del presidente. In particolare, attraverso il Cimi (Consiglio indigenista missionario) e la Repam (Rete ecclesiale panamazzonica), convinti seguaci della linea segnata da papa Francesco con la Laudato si’ e il Sinodo panamazzonico.

Bolsonaro non considera l’Amazzonia un patrimonio comune dell’umanità. Lo ha detto chiaramente davanti all’assemblea delle Nazioni Unite (a settembre 2019, dopo mesi di incendi forestali estesissimi e devastanti) e lo ha ribadito lo scorso febbraio a papa Francesco il quale, in occasione della presentazione dell’esortazione apostolica «Querida Amazonia», si era azzardato a dire che essa «è anche “nostra”».

La morte è il destino di tutti

Fin dall’inizio il presidente brasiliano è stato un leader negazionista (dell’emergenza climatica e del problema amazzonico). Non poteva che mantenere questo suo atteggiamento anche davanti alla pandemia, prima definita una gripezinha (lieve influenza) poi contrastata con la clorochina (come Trump). In un crescendo di dichiarazioni stupefacenti: il 2 giugno Bolsonaro risponde a una sostenitrice che morire «è il destino di tutti»; il 5 attacca (identicamente a Trump) l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e ordina di divulgare il bollettino sulla pandemia soltanto nella notte perché così la Globo (la principale emittente del paese) smetterà di essere soltanto una «Tv funerária».

Peccato che il Brasile evidenzi numeri drammatici con oltre 800mila contagiati e più di 40mila morti (dati aggiornati al 11 giugno, anche se il sito ufficiale del Sus è semi oscurato per ordine del presidente). Tra i suoi popoli indigeni si contano 236 morti, 2.390 contagiati e 93 popoli coinvolti (Apib-Sesai, 6 giugno). Numeri che non debbono trarre in inganno facendo sottovalutare la pericolosità della situazione. Oltre alla maggiore vulnerabilità (tra gli indigeni il tasso di letalità arriva al 10%), non dimentichiamo che le aree indigene non sono attrezzate per affrontare emergenze sanitarie di alcun tipo, figuriamoci se lo sono per il nuovo coronavirus.

Via Bolsonaro (e Trump)

La speranza di molti (e nostra) è che, assieme al virus, se ne vada quanto prima anche il presidente Bolsonaro (ci sono molte richieste d’incriminazione nei suoi confronti) e, a novembre (in occasione delle elezioni), anche Donald Trump, il suo collega e sodale nordamericano.

Paolo Moiola

Tra terra e cielo, uno scorcio del fiume Jauaperi e della foresta amazzonica. Foto di Joao Couto.


Glossario

  • Caboclo: discendente da popolazioni indigene e popolazioni immigrate dal Nord Est del paese. Il rapporto dei caboclos con i popoli indigeni è stato sempre conflittuale. Fino a poco tempo fa, i caboclos non si consideravano di sangue indigeno e spesso negavano di avere una pur lontana ascendenza indigena. Vista l’accezione dispregiativa del termine «caboclo», usato dalla società dominante per descrivere una persona socialmente inferiore, che abita nelle zone più interne o nelle periferie urbane dell’Amazzonia, i caboclos hanno iniziato recentemente a rivendicare la propria «indianità».
  • Extrativistas: coloro la cui sussistenza dipende dalle risorse dell’ambiente in cui vivono. Gli extrativistas che abitano l’ambiente amazzonico possono essere: seringueiros se estraggono il caucciù dall’albero della seringa; castanheiros se raccolgono la noce del Brasile; quebradeiras se donne «che spaccano» il cocco della palma babaçu.
  • Igarapé: piccolo corso d’acqua percorribile con la igara (canoa).
  • Pajé: sciamano, il leader spirituale riconosciuto dalla comunità. Mantiene il contatto con gli spiriti. Svolge anche rituali di cura individuali.
  • Quilombolas: discendenti di schiavi fuggiti che, nella foresta, diedero vita a comunità autonome chiamate quilombos.
  • Rezador: persona che cura attraverso le preghiere e che conosce le piante medicinali. Si trova anche in contesti rurali e sincretici.
  • Ribeirinho: è il caboclo abitante lungo le sponde di fiumi, laghi e igarapés amazzonici, che vive di pesca, agricoltura e attività estrattive.
  • Si.Za.

Bianca e Paul, anima del progetto pedagogico Vivamazzonia, con materiale didattico di propria produzione. Foto di Sitah.

Meriti

Lo scorso febbraio la presidenza della Repubblica italiana ha conferito un’onorificenza a una nostra connazionale operante in Amazzonia a cui è stato attribuito il merito per «la prima generazione di bambini non analfabeti, il contrasto all’esodo urbano e alla povertà» sul fiume Jauaperi.

Un obiettivo che Paul e Bianca hanno perseguito proprio in quello stesso angolo di mondo, per oltre venticinque anni con un lavoro instancabile, portato avanti in solitudine e lontano dai riflettori. Un impegno che, purtroppo, non ha ottenuto il riconoscimento che meritava.

Si.Za.

 

 

 




La ricerca scientifica e lo stato dell’arte

testo di Rosanna Novara Topino |


È già trascorso metà 2020, ma la pandemia prodotta dal virus Sars-CoV-2 è ancora tra noi. Cerchiamo di capire a che punto siamo e cosa abbiamo imparato.

La probabilità di trasmissione e l’infettività del virus Sars-CoV-2 non sono modificabili in assenza di una terapia adeguata o di un vaccino, mentre una diagnosi tempestiva può servire a contenere il numero dei contatti. È chiaro che tale diagnosi può essere effettuata solo mediante un test di laboratorio detto Pcr (della «Reazione a catena della polimerasi» per lo studio dell’Rna virale a seguito di tampone naso-faringeo o di aspirato endo-tracheale o lavaggio bronco-alveolare), ma poiché risulta impossibile sottoporre tutta la popolazione a questi test, su indicazione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in un primo momento sono stati testati solo coloro che avevano avuto in qualche modo contatti con persone provenienti dalla Cina o da altri paesi asiatici, in cui si è manifestata inizialmente la pandemia. Successivamente, per mancanza dei reagenti necessari, in Italia (come già in Cina) è stato deciso di sottoporre a test solo coloro che presentavano, oltre ai sintomi, febbre elevata da più giorni senza avere beneficio dai comuni antipiretici. Infine, si è arrivati a casi di morte con sintomatologia compatibile con Covid-19, ma senza test, di persone anziane in «Residenze sanitarie per anziani» (Rsa) oppure di persone decedute in casa (senza avere ricevuto cure adeguate ed essere state sottoposte al tampone) o di persone che avevano lavorato a contatto con malati Covid.

Stando così le cose, è chiaro che il numero delle morti per Covid-19 nel nostro paese è ampiamente sottostimato. Secondo l’Inps («Analisi della mortalità nel periodo di epidemia da Covid-19» dello scorso 20 maggio), a fine aprile ci sono stati quasi 19mila decessi non conteggiati nelle morti da Covid-19.

È altrettanto chiaro che il sistema sanitario italiano in questa situazione ha rivelato tutti i suoi limiti, conseguenza dei tagli alla sanità pubblica degli ultimi decenni (si legga Gesualdi su MC giugno, ndr).

Un operatore sanitario mentre esegue un test. Foto di Dean Calma / IAEA.

Covid-19 e inquinamento atmosferico

Facendo un confronto tra l’andamento della Covid-19 e molte delle grandi pandemie del passato, come le influenze spagnola, asiatica, aviaria e suina, possiamo osservare che hanno avuto tutte origine in Asia, per poi diffondersi nel resto del mondo, passando prima per l’Europa, poi nelle Americhe e infine in Africa, Australia e Oceania.

Secondo uno studio condotto in Cina (Su, 2019), esisterebbe un’associazione tra l’inquinamento atmosferico e l’aumento del rischio di malattie infettive influenza-like (simil-influenzali). Al momento non sembra, tuttavia, essere plausibile che le particelle Pm2,5 e Pm10 siano capaci di veicolare il Sars-CoV-2, dal momento che l’essiccamento, i raggi UV e le temperature oltre i 25°C danneggiano l’involucro del virus.

In Italia, tuttavia, è stata fatta l’ipotesi di un possibile collegamento tra la diffusione del coronavirus e l’inquinamento atmosferico mettendo in relazione l’alta concentrazione del virus nella pianura Padana e l’inquinamento che la caratterizza, essendo quest’area riconosciuta come una delle più inquinate d’Europa. Probabilmente qui l’inquinamento atmosferico potrebbe agire sia come carrier (portatore), facilitando il trasporto del virus, sia come amplificatore dei suoi effetti sul polmone. Recentemente è uscito uno studio dei ricercatori di Harvard (Xiao Wu, 2020) negli Stati Uniti, che hanno evidenziato la relazione tra l’esposizione a lungo termine a Pm2,5 e il rischio di morte per Covid-19. Ci sarebbe un eccesso di mortalità del 15% sul totale della popolazione, per un aumento di 1g/m3 della concentrazione atmosferica di Pm2,5. Questo potrebbe spiegare la maggiore diffusione del virus nelle regioni settentrionali, rispetto al resto dell’Italia.

L’età e il genere dei malati

Finora il Covid-19 ha colpito con maggiore rischio di malattia grave e di morte le persone oltre i 60 anni di età, soprattutto se portatrici di altre patologie come diabete, ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie croniche e cancro. La fascia d’età più colpita in Italia è quella degli anziani tra gli 80 e 89 anni (39,7%). Tuttavia, ultimamente e un po’ ovunque nel mondo, si sono verificati decessi anche tra persone di età inferiore e senza patologie pregresse. Gli under 30 rappresentano il 5% dei malati nel nostro paese. Finora la mortalità è risultata più elevata (per tutte le fasce d’età, ad eccezione degli over 90) negli uomini, che nelle donne e questo dato non è solo relativo all’Italia, ma è rilevato su scala mondiale. Probabilmente questo fatto si spiega con l’interazione tra sistema endocrino e immunitario, essendo quest’ultimo modulato dagli ormoni sessuali. Gli estrogeni femminili potrebbero avere una funzione protettiva soprattutto contro le malattie cardiovascolari, che possono essere un fattore di rischio di mortalità da Covid. Inoltre, sul cromosoma X sono stati mappati circa un migliaio di geni, contro il centinaio del cromosoma Y e molti di questi sono correlati a funzioni immunitarie. Sebbene nella femmina uno dei due cromosomi X risulti inattivato, è possibile che qualche sua parte non lo sia del tutto, permettendo una risposta immunitaria maggiore di quella maschile. Questo fatto si spiegherebbe con una maggiore competenza del genere femminile nella protezione della specie e sarebbe dimostrato anche dal fatto che, nel corso di questa pandemia, al momento non è stato riscontrato il coronavirus nel liquido amniotico o nel latte materno.

Le possibili cause

Gabbie di animali in un «wet market» di Manila (Filippine). Foto di Wayne S. Grazio.

Cosa può avere provocato la pandemia? L’ipotesi più accreditata è legata alla presenza a Wuhan di un grande mercato del pesce e dell’umido, dove vengono venduti animali selvatici di ogni tipo, tra cui pipistrelli, serpenti, pangolini, zibetti, oltre che animali domestici come cani e gatti. Mercati come questo sono molto diffusi in Cina e rappresentano un giro d’affari plurimiliardario, dal momento che gli animali selvatici rappresentano una vera prelibatezza sulle tavole delle classi sociali più elevate e vengono, inoltre, utilizzati nella medicina tradizionale cinese. Il volume d’affari di questo commercio di animali, tra selvatici e d’allevamento, si aggira sui 18 miliardi di dollari e circa 6,3 milioni sono gli addetti negli allevamenti cinesi. Questo commercio è particolarmente diffuso nelle aree rurali. Uno dei principali problemi è che in questi mercati vengono venduti animali vivi (spesso stipati in grande numero nelle gabbie), che vengono scelti dall’acquirente e poi macellati sul posto in precarie condizioni igienico sanitarie e questo fatto potrebbe senz’altro essere alla base del salto di specie da animale a essere umano.

Non è un caso se le autorità cinesi a gennaio, dopo l’emergere dell’epidemia, abbiano deciso di chiudere il mercato di Wuhan, ripristinando le stesse misure restrittive già adottate ai tempi della Sars e successivamente revocate. Poi, lo scorso 20 maggio, l’amministrazione della metropoli cinese ha introdotto il divieto di cibarsi di animali selvatici (fonte Cbs News).

Le ipotesi sul laboratorio di Wuhan

Un’altra ipotesi su ciò che può avere provocato la pandemia è un incidente di laboratorio o meglio la fuga accidentale di pipistrelli infettati con il coronavirus dal National Biosafety Laboratory di Wuhan, certificato come conforme alle norme e ai criteri di Bsl-4 (biosicurezza di livello 4 per lo studio degli agenti patogeni più pericolosi al mondo e delle malattie emergenti). Si sa che nell’istituto di virologia di questo centro sono stati intrapresi esperimenti con coronavirus su pipistrelli catturati nelle grotte dello Yunnan, finanziati con una sovvenzione di 3,7 milioni di dollari da parte del governo degli Stati Uniti (fonte Daily Mail). Inoltre, secondo il Washington Post, alcuni diplomatici statunitensi a Pechino avevano scritto nel 2018 un dossier sul centro ricerche di Wuhan evidenziando la pericolosità degli studi condotti sui coronavirus di pipistrello e il rischio di pandemia.

Non sarebbe la prima volta che un’epidemia nasce da esperimenti di laboratorio (come nel caso della sindrome di Marburg), tuttavia è un’ipotesi che va verificata, altrimenti resta soltanto un’ipotesi.

Rosanna Novara Topino
(fine seconda parte)

L’infografica sintetizza bene le conseguenze della distruzione delle foreste; il Wwf chiama le foreste «il nostro antivirus». © Arimaslab per WWF Italia, 2020.


Il potenziale di trasmissibilità

Il parametro «Erre con zero»

Un parametro importante che ci permette di valutare l’andamento dell’infezione è l’R0, cioè il numero di riproduzione di base, che indica il dato di infezioni secondarie che un individuo infetto può trasmettere in una popolazione completamente suscettibile a un nuovo patogeno (in questo caso Sars-CoV-2). Esso misura la potenziale trasmissibilità della malattia, in assenza di misure di contenimento. Quanto maggiore è R0, tanto più facilmente può diffondersi la malattia infettiva: se R0 è pari o superiore a 2, significa che ogni positivo mediamente infetta due persone; un R0 inferiore a 1 indica che l’epidemia può essere contenuta. Secondo l’Oms, l’R0 di Covid-19 è compreso tra 1,3 e 3,8 sulla base dei dati raccolti da enti di ricerca di tutto il mondo. Quello della Sars era compreso tra 2 e 4 con una media di circa 3 e quello della Mers inferiore a 1. Questo parametro dipende dalla probabilità di trasmissione per singolo contatto tra una persona infetta ed una suscettibile, dal numero dei contatti della persona infetta e dalla durata dell’infettività (che, secondo studi cinesi, può arrivare fino a 50 giorni, mentre qui in Italia una ragazza bolognese è risultata positiva fino al giorno 75). Dopo l’introduzione delle misure di contenimento, si preferisce usare l’Rt, che indica il numero di infezioni secondarie che possono verificarsi, dopo che tali misure sono state introdotte in un determinato territorio. (R.N.T.)

Epidemie e pandemie

I fattori scatenanti

Quali sono i fattori che possono scatenare un’epidemia/pandemia? Uno di essi è sicuramente la colonizzazione di un nuovo ambiente, specialmente a seguito di deforestazione. Questa infatti porta l’uomo a contatto con animali selvatici potenziali serbatoio di virus che normalmente non si incontrerebbero. Altro fattore è l’urbanizzazione che porta spesso a una elevata densità di popolazione ed è caratterizzata da sacche di povertà nelle periferie delle grandi città. La scarsa igiene personale o dell’ambiente dovuta spesso alla mancanza di adeguati sistemi fognari e/o di acqua potabile. La perdita dell’immunità in una popolazione (l’«immunità di gregge») per la riduzione del numero delle vaccinazioni o per la mutazione degli agenti patogeni. L’abuso di antibiotici con la conseguente comparsa della resistenza ai medesimi. Il cambiamento negli stili di vita che possono comprendere l’abuso di droghe, nuove abitudini sessuali e/o alimentari. La globalizzazione degli scambi commerciali e dei viaggi in genere che rende raggiungibile in poche ore ogni parte del mondo, contribuendo alla diffusione ovunque dei vettori degli agenti eziologici. L’uso dei pesticidi, che ha eradicato determinate malattie in alcune aree del mondo, ma ne ha favorito la diffusione in altre, soprattutto in seguito alla comparsa di insetti vettori resistenti agli stessi pesticidi. Infine, i possibili incidenti di laboratorio.  (R.N.T.)




Apocalypse now?

testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |


Nel tempo dopo Pasqua il breviario offre a chi prega l’ufficio delle letture un testo estremamente intrigante: l’Apocalisse, con i suoi angeli, cavalieri e dragoni che riversano sulla terra pestilenze, terremoti e altri terrificanti disastri che falcidiano il mondo. Il tutto accompagnato da una constatazione ripetuta più volte: invece di ravvedersi, gli uomini «bestemmiarono il Dio del cielo».

Con questo non voglio avvallare le interpretazioni punitive di questi nostri giorni sostenute da visionari, predicatori e «influenzatori» più o meno credenti. Un dio che manda disastri per punire gli uomini, non è il mio Dio, perché non è quello di Gesù Cristo. Però Gesù ci ha ammoniti più volte e ci ha invitati a «leggere i segni dei tempi» (cfr. Mt 16,1-4) almeno quanto sappiamo interpretare le previsioni meteorologiche.

E di segni, in questi ultimi anni, ne abbiamo avuti molti. Due i più evidenti: il cambiamento climatico e, ora, questa pandemia che ha trovato tutti impreparati, anche i grandi «re nudi» della politica, dell’economia e della scienza.

In questi mesi molte voci, a cominciare da quella di papa Francesco, hanno incoraggiato con parole e gesti significativi a vivere questo tempo come tempo di grazia, come opportunità per ripensare il nostro modo di vivere e le nostre relazioni con noi stessi, con gli altri e con il creato. Creato che da tempo aspetta con impazienza che ci svegliamo e ritroviamo la nostra vera umanità (cfr. Rm 8,19).

Molti hanno colto questa opportunità e ovunque troviamo persone che hanno tirato fuori il meglio di sé mettendosi al servizio degli altri, a volte fino a sacrificare la vita.

Ma le notizie quotidiane ci hanno fatto vedere anche la faccia degli uomini che «bestemmiano». Dall’indifferenza e ostilità verso i migranti, ai traffici loschi su mascherine e forniture sanitarie; dalle speculazioni finanziarie al prospero traffico di armi; dalla violenza fanatica dei jihadisti a quella senza scrupoli dei mafiosi e dei narcos; dall’ininterroto traffico di persone allo sfruttamento dei poveri e degli impoveriti; dall’alienazione spirituale offerta dai moderni santoni all’uso massiccio dei social per alimentare sfiducia, menzogne e odio… una lista che potrebbe riempire tutta la pagina.

«Niente di nuovo sotto il sole», ma che tristezza vedere tante «bestemmie». Soprattutto ora che la situazione ci domanda una rinascita di autentica umanità, una nuova solidarietà, un «I care» che prediliga i più poveri e vulnerabili e tutto il creato.

Dall’Apocalisse di Giovanni, scritta per rivelare l’infinito amore di Dio alla comunità cristiana di fine I secolo perseguitata soprattutto a Roma, non ricaviamo un messaggio di paura, ma di speranza: la vittoria non è della «morte», ma della Vita, il futuro è di coloro che scelgono di vivere secondo lo stile dell’Agnello, Gesù, che ha «consegnato» la sua vita per noi, «servo per Amore».


Per i nostri cari, vittime del Covid-19

Carissimi missionari, parenti, amici e benefattori tutti,

in questi giorni di quarantena forzata, […]  mi fermo con l’immaginazione davanti alle bacheche delle nostre case dove sono esposti i necrologi dei nostri missionari morti qui in Italia a causa del coronavirus.

Un numero considerevole, un mistero doloroso, mai successo prima, un primato che ci spezza il cuore. Ci conforta il ricordo di questi missionari pienamente identificati con il carisma ad gentes, autori di pagine straordinarie di amore per la gente e di dedizione alla missione e all’Istituto. […]

Voglio ricordare anche tanti amici e benefattori che sono morti a causa della pandemia, uomini e donne che, con la preghiera e il sacrificio, hanno accompagnato e sostenuto l’Istituto nelle varie attività di evangelizzazione.

In questi giorni difficili, nel dolore per la perdita dei nostri cari, dobbiamo sostenerci a vicenda e trovare consolazione nella certezza della fede e nello spirito di famiglia che tanto voleva il nostro Fondatore.

Allora, in risposta al dolore per questi numerosi lutti e nello spirito di famiglia che ci caratterizza, voglio invitare tutte le nostre comunità a celebrare il 16 giugno 2020 (giorno in cui facciamo memoria del nostro amato padre Fondatore) una messa straordinaria con l’intenzione speciale di ricordare tutti i nostri cari […] vittime del coronavirus: missionari, missionarie, famigliari, amici e benefattori.
(sarà possibile seguire le celebrazione in streaming connettendosi a www.consolata.org)

La Consolata ci aiuti a vivere l’insegnamento del beato Allamano che diceva: «La comunità sarà sempre formata dai vivi e dai defunti, né questo vincolo si scioglierà più, neppure in paradiso».

A tutti e a ciascuno: coraggio e avanti in Domino!

padre Stefano Camerlengo
superiore generale Imc / Roma, 05/05/2020

1ª fila da sinistra: Mons Silas Njiru | p. Antonio Roberti | p. Fedele Crippa | p. Francesco Pavese | p. Gabriele Goletto
2ª fila: Giovanni Medri | p. Giovanni Viscardi | p. Lorenzo Cometto | p. Mario Baseggio | p. Silvestro Bettinsoli
3ª fila: p. Virgilio Panero | Suor Pier Giacomina Bagnati | Suor Giulia Vanzetto




«Capisco le paure, il dolore, la solitudine»

testo di Giuliana Chiorrini |


Giuliana Chiorrini è la moglie di Carlo Urbani, il medico di Castelplanio (Ancona) morto nel 2003, a 46 anni, a causa del virus Sars-CoV. In queste pagine ricorda quei giorni drammatici e li mette a confronto con quelli di oggi, dominati dalla pandemia del Sars-CoV-2, «fratello» del virus che Carlo aveva individuato e combattuto. Perdendo la battaglia, ma segnando per sempre la strada.

Ricordo che la notizia arrivò in casa, a Castelplanio, a gennaio del 2000. Carlo ci informò che era stato contattato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per seguire un progetto in Vietnam come infettivologo ed epidemiologo.

Accettò il prestigioso incarico divenendo così responsabile dell’Oms per le malattie parassitarie in alcuni paesi del Sudest asiatico: oltre al Vietnam, la Cambogia, il Laos, la Thailandia, la Cina e le Filippine. Nel suo nuovo ruolo Carlo avrebbe dovuto coordinare le numerose agenzie di cooperazione internazionale e i ministeri della Sanità dei vari paesi. Al tempo, io ero incinta per la terza volta. Feci in tempo a partorire Maddalena (il 3 maggio) e a battezzarla. Il 28 luglio del 2000 partimmo per Hanoi, capitale del Vietnam. Per Carlo, per me e per i nostri tre figli – Tommaso, Luca e Maddalena – aveva inizio una nuova esperienza.

Furono due anni ricchi di soddisfazioni. Nonostante le grandi responsabilità che lo trattenevano lunghe giornate in ufficio davanti al computer, o lo impegnavano in viaggi e riunioni internazionali, Carlo era rimasto un medico appassionato del contatto con i malati e, proprio per questo, privilegiava le missioni sul campo, nelle comunità più bisognose. Era contento quando, insieme ad altri colleghi, partiva per qualche missione, rimanendo lontano da Hanoi per giorni o anche per settimane.

Poi, inaspettatamente e in pochi mesi, tutto cambiò. Ad Hanoi, arrivò un virus prima di allora sconosciuto, il Sars-CoV.

Carlo Urbani, amico e collaboratore di MC, all’ospedale pediatrico di Hanoi con un collega vietnamita. Foto: Carlo Scialdone.

Castelplanio, febbraio-maggio 2020. È arrivato un nuovo virus, «fratello» di quello che si è portato via Carlo, ma questa volta non si è fermato in Estremo Oriente: si è diffuso anche in Italia e in tutto il mondo.

Credo che a eventi come questo non si possa mai essere preparati, anche se l’esperienza di 17 anni fa forse – lo dico non da esperta ma da spettatrice – avrebbe dovuto insegnarci qualcosa di più. In queste settimane per me è stato un susseguirsi di ricordi, di sensazioni, di momenti vissuti con paura e angoscia. Nemmeno a farlo apposta, anche il periodo coincide.

Era il 26 febbraio 2003 quando, ad Hanoi, Carlo fu chiamato all’Ospedale francese (una struttura privata di piccole dimensioni, ndr) dove era ricoverato un paziente – un uomo d’affari americano di 48 anni – che aveva una patologia strana, sospetta. Carlo aveva già messo in atto tutte le procedure necessarie e adottato i provvedimenti e le precauzioni indispensabili, nel momento in cui si era reso conto che la situazione cominciava ad aggravarsi (come mostrano i messaggi inviati il 7 marzo 2003 all’Oms in cui descriveva in dettaglio ciò che stava accadendo in ospedale).

Quando lo scorso dicembre sono cominciate ad arrivare notizie dalla Cina di questo strano virus, il mio pensiero non poteva non tornare indietro nel tempo. Quando in televisione ho visto ospedali pieni di pazienti intubati che lottavano tra la vita e la morte, i medici e gli infermieri in prima linea ma spesso impotenti, sono stata invasa da tristezza, paura, angoscia.

Le stesse sensazioni provate 17 anni fa quando vissi l’esperienza in prima persona. Anche le parole sono spesso le stesse: ricordo che Carlo cercava di rassicurarci dicendo che tutto era sotto controllo, diceva che lui stesso era impegnato in prima linea nel tentativo di circoscrivere l’epidemia.

Oggi naturalmente vedo tutto con altri occhi, ma non per questo sono meno coinvolta, perché nelle ansie e nelle paure di persone e famiglie rivivo sensazioni e ricordi che al solo riemergere mi fanno rabbrividire.

Carlo Urbani a Oslo nel 1999 come presidente di «Medici senza frontiere»; in quell’anno all’organizzazione venne assegnato il Premio Nobel per la pace. Foto: archivio AICU.

Ripenso alle giornate frenetiche di Carlo, alle sue preoccupazioni, alle ore, alle notti trascorse in ospedale e negli uffici dell’Oms, per valutare e cercare di risolvere la grave situazione. Lui si era subito reso conto che qualcosa di strano stava accadendo e per questo motivo aveva allertato il sistema sanitario, il ministero della Salute vietnamita, il governo locale e la stessa Oms.

La sera tornava a casa stanco, sfinito e temeva di non riuscire più ad avere la situazione sotto controllo. Ricordo che una sera mi confidò: «Se non si riesce a fare qualcosa, a prendere provvedimenti, sarà una strage tra le persone che si ammaleranno. Sarà come la “spagnola” (l’influenza che fece tra i 50 e i 100 milioni di morti nel mondo tra il 1918 e il 1920, ndr)».

Nel frattempo, organizzava riunioni con l’ambasciatore italiano ad Hanoi, Luigi Solari, nel suo ufficio, con tutto il personale, per aggiornare sulla situazione. Le direttive erano quelle di oggi: stare assolutamente chiusi in casa. Passarono alcuni giorni e dopo essere riusciti a convincere il governo vietnamita a chiudere le frontiere e isolare il paese, l’11 marzo Carlo partì per Bangkok.

Durante il volo si manifestarono però i primi sintomi della malattia: febbre e tosse. Si rese subito conto della gravità della cosa, tanto da avvisare, al suo arrivo all’aeroporto, il personale medico: questo avrebbe dovuto stare distante e accompagnarlo in ospedale con le necessarie precauzioni.

Parlai con Carlo la sera, quando al telefono mi informò che – purtroppo – non stava bene ed era in ospedale.

Ricordo che ero fuori casa e che sentii mancare la terra sotto i piedi. Da quel momento cominciarono i giorni della preoccupazione, della paura e dell’impotenza. Stavo a casa con i miei figli pensando a cosa fare, a come si sarebbe potuta risolvere la situazione; alla salute di Carlo che sentivamo al telefono ogni giorno sempre più provato e affaticato, visto l’aggravarsi della malattia.

Comunque, a dispetto della situazione drammatica, Carlo ci rassicurava sempre. Ci diceva di non essere preoccupati, era sicuro che tutto si sarebbe risolto. I giorni trascorrevano, ma io non riuscivo più ad aspettare, perché, stando ad Hanoi, non potevo rendermi conto con esattezza della sua salute. Ero in contatto con la rappresentante dell’Oms, signora Pascale Brudon, che in quei giorni mi contattava cercando di rasserenarmi. A un certo punto le chiesi però di partire per raggiungere Carlo all’ospedale di Bangkok e, nel contempo, di mandare i miei figli in Italia, dato che essi non potevano vedere Carlo essendo lui in isolamento.

Deciso il piano, non ebbi il tempo di pensare a nulla. Né di salutare i tanti amici che avevamo nella capitale vietnamita e che anche dopo mi sarebbero stati molto vicini. In fretta e furia preparai le valigie mettendo dentro lo stretto necessario. In quel momento non sapevo che non saremmo più ritornati ad Hanoi.

Il solo desiderio era quello di poter vedere Carlo. I ragazzi ed io partimmo il 18 marzo, accompagnati in aeroporto dal personale dell’Oms. Arrivati a Bangkok, i miei figli sarebbero ripartiti il giorno dopo per l’Italia. Ricorderò sempre quel momento: la loro partenza da soli e io che li salutavo, con le lacrime agli occhi. Vedo ancora Tommaso, non ancora sedicenne, che si incammina con Maddalena, quasi tre anni, in braccio che piange, e Luca, tenuto per mano, disperato, che si gira a guardarmi mentre si allontanano. Una scena che rivedo spesso, soprattutto in questo periodo.

Un soldato vietnamita sparge disinfettante all’entrata dell’Ospedale Francese di Hanoi, considerato il focolaio della Sars in Vietnam (17 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.

I momenti successivi purtroppo non li ricordo molto bene. Troppo forti furono il dolore, la paura di non riuscire a farcela da sola. Il pensiero di dover raggiungere l’ospedale e vedere Carlo in brutte condizioni prendeva il sopravvento su tutto. Ma cercavo di farmi coraggio.

Sapevo che dovevo mettercela tutta, che Carlo sarebbe stato fiero di me, visto che mi incitava sempre a fare da sola e a non dipendere ogni volta da lui, come può capitare quando si vive in un paese straniero. I giorni successivi passarono tra l’ospedale e l’albergo dove alloggiavo. Quando andavo in ospedale, accompagnata dal personale dell’Oms di Bangkok, speravo di vedere Carlo migliorare, avere buone notizie dai medici. Purtroppo non era così.

Entravo nella sua stanza completamente protetta, ma la vestizione era sempre angosciante. Scoppiavo a piangere quando non ero sicura di aver eseguito tutte le procedure correttamente: dai calzari doppi, ai guanti, ai doppi camici, alla maschera, che mi faceva mancare l’aria. Ricordo che ero preoccupata di non riuscire a metterla nel modo corretto.

I medici non parlavano la mia lingua né il francese e, quindi, facevo fatica a capirli.

Una volta entrata, spesso chiedevo addirittura a Carlo di aiutarmi a sistemare quella maledetta maschera. Restavo poco tempo, anche perché negli ultimi giorni Carlo era molto affaticato. Si alzava sempre meno e la tosse era persistente. Durante quei giorni non mi fece mai capire la sua preoccupazione, mai mi parlò della paura di morire. Mi ripeteva solo che, piano piano, tutto si sarebbe sistemato. Voleva notizie dei figli, visto che non poteva più nemmeno parlarci. Poteva vederli in foto, che le infermiere avevano attaccato alla parete, su un cartellone. Erano giorni difficili e dolorosi. Poi la situazione peggiorò e i medici decisero di intubarlo. Mi spiegarono che era per farlo soffrire di meno e aiutarlo a superare quel momento. Era giovedì 27 marzo. Carlo era sedato e non si rendeva più conto di nulla.

Negli ultimi giorni della sua vita ebbi la fortuna di essergli al fianco, quando ancora riusciva a parlare, a collaborare con i medici. Ricordo che una volta lui chiese un bloc notes e una penna per scrivere alcune cose: consigli per i medici che erano in visita dentro la sua stanza. Spesso ebbi la chiara sensazione che lui si rendesse perfettamente conto di cosa lo aspettasse, perché aveva seguito i malati all’interno dell’Ospedale francese, aveva visto morire pazienti che facevano fatica a respirare e sapeva come si moriva in quelle circostanze, ma non disse mai nulla.

Soffriva molto per i dolori, ma anche per la consapevolezza che ormai era rimasto poco tempo. Quando un sacerdote si recò a trovarlo nella sua stanza, dopo un breve colloquio, gli disse: «Dalla vita ho avuto tutto, ho realizzato i miei sogni, ho fatto tanto, sono pronto… L’unica cosa che mi fa star male è dover lasciare i miei figli». Aveva capito che non ce l’avrebbe fatta a resistere ancora.

La mattina del 29 marzo, verso le 12, bussarono alla porta del mio albergo. Era il rappresentante dell’Oms di Bangkok. Capii subito cosa era successo.

Oggi, quando penso alle migliaia di malati costretti in ospedale da soli, senza avere un familiare accanto, mi rattristo subito perché i ricordi mi assalgono e perché ho provato sulla mia pelle cosa significa avere un proprio caro colpito da un virus come questo.

È terribile dover abbandonare qualcuno nella solitudine. È terribile la sensazione di sentirsi abbandonati dalle persone più care, non poter stringere la mano di chi, magari per una vita, ti è sempre stato accanto, il non poter scambiare una parola di conforto. Almeno in questo, Carlo ha avuto fortuna: prima di morire, ha potuto stringere la mano di qualcuno, scambiare due parole. Non è morto in solitudine.

Giuliana Chiorrini durante una celebrazione per la festa del Comitato di Castelplanio della Croce Rossa, di cui è presidente da otto anni. Foto: Vittorio Chiocca.

Subito dopo la sua morte, io ho cercato di reagire, ho avuto la forza di non mollare, ma di andare avanti nonostante le tante difficoltà. Inizialmente, ho trovato conforto anche nella fede, ma con il passare del tempo me ne sono allontanata. Con rabbia, in particolare nei momenti più difficili, di fronte a problemi che si presentavano più grandi delle mie capacità. Per un lungo periodo la mia fede è stata assente e io ho cercato conforto in altre cose.

La morte di Carlo ha avuto un’attenzione mediatica che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. È servita ad affrontare il dolore della perdita, ci ha aiutati a continuare, ad andare avanti. Per due anni è stato un susseguirsi di eventi, cerimonie, inviti, premiazioni, libri. La famiglia era chiamata un po’ ovunque.

Allo stesso tempo, quell’attenzione ci ha forse troppo distratti, facendoci mancare i momenti della riflessione per capire davvero, per renderci conto che Carlo non era più con noi. C’è

stato poco tempo per elaborare il lutto e le conseguenze si sono viste a distanza di anni, quando si è fatta sentire, nella crescita della famiglia, la mancanza di un padre e anche di un marito.

Oggi, a distanza di 17 anni dagli eventi che hanno travolto la mia vita e quella dei miei figli,

davanti alla diffusione di questo nuovo virus, ho capito ancora meglio il ruolo avuto da Carlo, come medico, marito, padre. Ho capito quanto sia giusto ricordarlo attraverso Aicu (Associazione italiana Carlo Urbani, ndr), l’associazione nata dopo la sua morte e oggi presieduta da Tommaso.

È assieme ai miei figli e ad Aicu che da anni cerchiamo di far camminare i progetti di Carlo nel campo della prevenzione e cura delle malattie infettive e parassitarie e dell’accesso ai farmaci essenziali. Quanto i suoi sogni fossero giustificati lo stiamo vedendo con chiarezza in questi mesi.

Giuliana Chiorrini

Un ritratto di Carlo Urbani davanti al luogo dove il personale delle Nazioni Unite di Hanoi ha commemorato il medico italiano (8 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.




I virus e noi, convivenza inevitabile

testo di Rosanna Novara Topino |


Questa pandemia ha portato morti, malati, crisi generalizzate. E non è finita. Viste le caratteristiche del virus Sars-CoV-2, è meglio infatti non illuderci: un vaccino non pare dietro l’angolo.

Come se non fosse cambiato alcunché rispetto alle grandi epidemie del passato, e nonostante i traguardi raggiunti in campo medico, dall’inizio del 2020 il mondo si trova a fare i conti con una nuova pandemia di vaste proporzioni. Si chiama Covid-19, dove «Co» sta per corona, «vi», per virus, «d» per disease (malattia) e «19» per l’anno della prima manifestazione. È causata da un ceppo di coronavirus finora sconosciuto.

Quest’ultimo è stato inizialmente indicato come 2019-nCoV in quanto identificato il 31 dicembre 2019 nei campioni di lavaggio broncoalveolare di un paziente affetto da polmonite a eziologia sconosciuta nell’ospedale Jinyintan di Wuhan, nella regione dell’Hubei, in Cina. Successivamente, è stato però rinominato Sars-CoV-2, dopo che è stata rilevata una omologia di circa il 79,5% tra la sua sequenza genetica e quella del coronavirus che, tra il 2002 e il 2003, causò la epidemia di Sars (Severe acute respiratory syndrome).

In particolare, il nuovo coronavirus è classificato nel sottogenere Betacoronavirus Sarbecoronavirus. Oltre al già citato virus della Sars, il Sars-CoV, alla stessa famiglia appartiene anche il Mers-CoV, il responsabile della Mers (Middle east respiratory syndrome), che si verificò tra il 2012 e il 2015 in Medio Oriente.

I coronavirus sono una famiglia di virus, i cui primi esemplari vennero identificati a metà degli anni ’60 del secolo scorso e alcuni di questi, gli Alphacoronavirus, possono dare i comuni raffreddori, così come anche gravi infezioni del tratto respiratorio inferiore. Tali virus, oltre all’uomo, possono infettare alcuni animali tra cui uccelli e mammiferi, e hanno come cellule bersaglio primarie le cellule endoteliali dei vasi, causando un’infiammazione vascolare sistemica, e le cellule epiteliali degli apparati respiratorio e gastrointestinale.

Il «salto di specie»

La comparsa di questo, come di altri nuovi virus patogeni per l’uomo, presenti inizialmente solo negli animali è dovuta a un fenomeno noto come «spillover» o «salto di specie». Nel caso del Sars-CoV-2 c’è un’omologia del 96,2% con un coronavirus simile a quello della Sars, presente nel pipistrello a ferro di cavallo (BatCoV RaTG13). Questa omologia ci induce a pensare che tale pipistrello sia il principale serbatoio del virus. Si tratta, quindi, di una «zoonosi». Solitamente, il passaggio di un virus all’uomo da un animale serbatoio è favorito da un ospite di amplificazione, cioè un altro animale: nel caso della Sars è stato la civetta delle palme (non è il piccolo rapace da noi conosciuto, ma lo zibetto o mustang); nel caso della Mers è stato il cammello; nel caso della febbre emorragica di Marburg sono state le scimmie verdi importate dall’Uganda per una fabbrica di vaccini a Marburg in Germania. Nel caso dell’attuale coronavirus non è ancora stato identificato l’ospite intermedio anche se sono state fatte ipotesi relative a qualche specie di serpente, al pangolino o ai cani randagi. Il salto di specie tra animali, e da questi all’uomo, è frutto di mutazioni e adattamenti virali alla specie ospite favoriti dal tipo di genoma virale, cioè l’Rna. I virus a Rna – come i coronavirus, i filovirus dell’Ebola, i paramixovirus come Hendra e Nipah (rispettivamente agenti eziologici di una grave sindrome respiratoria soprattutto equina in Australia nel ’94 e di una forma di encefalite in Malesia nel ’98) – presentano mutazioni genetiche molto più frequentemente dei virus a Dna – come, per fare qualche esempio, l’Herpes virus o il Papilloma virus o quello del vaiolo (Poxvirus) -. I virus a Rna non possiedono, infatti, un efficiente sistema enzimatico di riparazione delle mutazioni, a differenza di quelli a Dna, che risultano molto più stabili.

Questo comporta due cose: i virus come i coronavirus sono molto più capaci di adattarsi a nuovi ospiti, tra cui l’uomo, ed è molto più difficile produrre un vaccino efficace nei loro confronti, perché le mutazioni genetiche del loro Rna si traducono in variazioni degli antigeni di superficie, verso i quali sono spesso diretti gli anticorpi stimolati dai vaccini. Per produrre un vaccino efficace contro questi virus diventa pertanto necessario riuscire a individuare al loro interno qualche molecola che risulti stabile nel tempo. Questa è la difficoltà incontrata nella produzione di vaccini efficaci a lungo termine per l’Aids e l’influenza, patologie provocate anch’esse da virus a Rna frequentemente mutanti. Quindi, l’attesa di un vaccino contro l’attuale pandemia sarà lunga, soprattutto in considerazione del fatto che non esiste ancora un vaccino nemmeno per la Sars del 2003.

Tampone per Covid-19. Autore: Prachatai.

La tramissione del virus

Il coronavirus dell’attuale pandemia, come già quello della Sars, si trasmette da uomo a uomo in tre diversi modi:

⚫︎ per via aerea, per mezzo di gocce di saliva (Flügge’s droplets) e dell’aerosol delle secrezioni delle vie aeree superiori, soprattutto in caso di tosse o starnuto, ma anche durante una conversazione tra persone vicine meno di 1,8 metri, che viene perciò indicata come distanza minima di sicurezza;

⚫︎ per contatto diretto ravvicinato, cioè con la stretta di mano, toccandosi successivamente occhi, naso e bocca con le mani; c’è, inoltre, la possibilità di contagiarsi toccando oggetti contaminati, che possono risultare tali fino a 48 ore nel caso dell’acciaio e 72 nel caso della plastica; secondo uno studio dell’Istituto superiore di sanità, la sopravvivenza del virus nell’ambiente dipende dalla temperatura e sarebbe di circa un giorno a 37°C, mentre potrebbe arrivare ad una settimana a 22°C;

⚫︎ per via oro-fecale; nei pazienti cinesi, una ricerca ha dimostrato una maggiore positività nei tamponi anali, rispetto a quelli orali in una fase tardiva dell’infezione, quindi si può pensare anche a questa via d’infezione; il virus, del resto, è stato trovato nelle fogne di Roma, Milano e Parigi.

Finora è stata esclusa la via di trasmissione materno-fetale e si pensa che i neonati positivi al virus, nati da madri positive, lo siano diventati solo dopo la nascita, per contatto diretto con la madre.

È stata recentemente rilevata la presenza del virus nel liquido lacrimale, del resto uno dei sintomi della Covid-19 è la presenza di congiuntivite, quindi questa potrebbe essere una fonte d’infezione.

Si pensa che il periodo d’incubazione sia variabile tra 2 e 14 giorni, con una media di 5 giorni. Le persone positive possono già trasmettere il virus nel periodo di incubazione, in assenza di sintomi.

I sintomi dell’infezione

Per quanto riguarda le manifestazioni dell’infezione, si va da quelle meno gravi, che indicano un interessamento delle alte vie respiratorie (febbre, tosse, cefalea, mal di gola, raffreddore, difficoltà respiratorie, perdita del gusto e dell’olfatto, diarrea, malessere generale per un breve periodo di tempo), a quelle più gravi, con interessamento delle basse vie respiratorie (come polmonite o broncopolmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale, meningoencefalite, problematiche cardiovascolari, tromboembolia generalizzata e polmonare in particolare, ictus, a seguito di alterazioni nella coagulazione del sangue come conseguenza di una eccessiva risposta infiammatoria da parte dell’organismo indotta dal virus, e infine morte).

Secondo le osservazioni condotte finora, l’80% circa della popolazione colpita dal virus risulta asintomatica o paucisintomatica (cioè senza o con pochi sintomi), mentre il 15% presenta una più grave sintomatologia con necessità di cure intensive con somministrazione di ossigeno e il 5% raggiunge uno stadio critico, che comporta la ventilazione polmonare. Va detto che molte delle persone risultate positive ma asintomatiche al momento del test, hanno successivamente sviluppato i sintomi della malattia.

Il tasso di letalità

Per quanto riguarda il tasso di letalità, è molto difficile dare un valore attendibile in corso di pandemia in quanto, finché non sarà terminata, non si può conoscere il totale delle morti causate dal virus. I numeri attualmente oscillano tra il 2 e il 5,7% dei positivi. Una delle principali difficoltà risiede nel fatto che molte morti per coronavirus non sono state finora prese in considerazione, perché avvenute in residenze per anziani (le cosiddette Rsa) dove ai pazienti non è stato fatto il tampone per accertare la positività al virus, nonostante i sintomi, a differenza delle persone ricoverate in strutture ospedaliere. Anche in quest’ultime peraltro si sono riscontrate delle morti di persone non testate per il coronavirus, ma con sintomatologia compatibile. Ciò di cui ci si sta rendendo conto, tardivamente purtroppo e in seguito a diverse indagini in corso da parte della magistratura italiana, è che la metà delle morti sono avvenute nelle case di riposo (fenomeno riscontrato anche nel resto d’Europa) e, secondo l’Istat, il numero dei decessi nei mesi di marzo e aprile in Italia sarebbe superiore di 10mila unità rispetto ai dati diffusi dalla Protezione civile, che al 14 maggio 2020 si attestano a 31.368 unità.

Facendo un paragone con la Sars e la Mers, sembrerebbe che la Covid-19 sia più infettiva, ma meno letale, dal momento che la Sars ebbe un tasso di letalità del 9,6% e la Mers del 34,4%.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte)

L’infografica mostra quando nasce e come si sviluppa una pandemia. Autore: Arimaslab per WWF Italia, 2020.


Dove, cosa, perché

La pandemia da Covid-19 causata dal virus Sars-CoV-2 si è manifestata per la prima volta in Cina, probabilmente nel mese di novembre 2019, diffondendosi poi in quasi tutti i paesi del mondo. In Italia, dopo due mesi in cui soprattutto le regioni del Nord sono state duramente colpite, si contano a decine di migliaia i morti e i malati. Da maggio si sta faticosamente passando da una prima fase di chiusura generalizzata, il cosiddetto «lockdown», ad una seconda fase di graduale ripresa delle attività. Tuttavia, non ci siamo ancora lasciati alle spalle la possibilità di contagio e gli ospedali sono ancora pieni. Ne scrivo in questo e in due successivi articoli, cercando di descrivere le principali caratteristiche del nuovo coronavirus responsabile di questo dramma.

(R.N.T.(

Nome e caratteristiche

Esterno e interno dei coronavirus

Si chiamano coronavirus per via del loro aspetto. Si tratta infatti di particelle sferiche sormontate da una specie di corona formata dall’insieme di proteine superficiali a forma di spuntone, o spike, come vengono chiamate. In realtà, ogni spuntone è un trimero formato da tre glicoproteine S, che si legano specificamente al recettore Ace2 (Angiotensin converting enzyme 2) presente sulle cellule endoteliali dei vasi sanguigni dei polmoni, dei reni, dell’intestino, del cuore e di altri organi, tra cui l’encefalo, l’esofago e il fegato. Il virus presenta un rivestimento o envelope, costituito da una membrana ereditata dalla cellula ospite dopo averla infettata. Oltre alla proteina spike, che fuoriesce dal rivestimento e forma la corona, il virus presenta la proteina M, che attraversa il rivestimento ed interagisce all’interno del virione con il complesso Rna-proteina. C’è poi il dimero emoagglutinina-esterasi (He), sempre nel rivestimento virale e con una importante funzione nel rilascio del virus all’interno della cellula ospite. Un’altra proteina virale, la E, aiuta la glicoproteina S, e perciò il virus, a legarsi al recettore Ace2 della cellula bersaglio. All’interno del virus si trova il suo genoma costituito da un singolo filamento di Rna a polarità positiva, delle dimensioni comprese tra 27 e 32 kb (chilobase), tra i più grandi conosciuti, che codifica per sette proteine virali ed è associato alla proteina N, la quale ne aumenta la stabilità. Il coronavirus possiede, inoltre, un enzima responsabile della sua moltiplicazione, la polimerasi nsp 12, contro la quale sembra funzionare il «Remdesivir», un farmaco antivirale nato per la cura dell’Ebola.

(R.N.T.)

I serbatoi dei virus zoonotici

Non è colpa di un pipistrello

I pipistrelli o chirotteri, che peraltro sono utilissimi al genere umano come insettivori (soprattutto nel contenimento della malaria, cibandosi in primis di zanzare), come impollinatori e per il loro guano altamente fertilizzante, purtroppo sono il principale serbatoio di virus, seguiti da primati e roditori. Essi sono presenti sulla Terra da molto prima dell’uomo. Comparvero più o meno tra 65 e 55 milioni di anni fa, quando i virus erano già presenti, mentre i primi ominidi si staccarono dalla linea evolutiva del gorilla solo 8 milioni di anni fa e 5 da quella dello scimpanzé, quindi i pipistrelli hanno avuto molto più tempo per adattarsi ai virus. Questo li ha portati a una sorta di tolleranza immunitaria, una specie di permeabilità virale. Oltretutto sono animali molto sociali (nello stesso sito possono esserci milioni di individui), rappresentano circa un quarto di tutti i mammiferi, con 1.116 specie conosciute, e sono caratterizzati dal volo, che consente loro di portare e contrarre virus su aree molto estese. I virus zoonotici portati dai pipistrelli sono maggiormente diffusi in alcune regioni asiatiche e nell’America centro-meridionale, mentre quelli portati dai primati sono tipici dell’America centrale, dell’Africa e del Sud-est asiatico e quelli trasmessi dai roditori sono principalmente distribuiti in certe aree dell’America del Nord e del Sud e dell’Africa centrale.

(R.N.T.)

L’infografica mostra i passaggi del Coronavirus dagli animali all’uomo; evidenziati in rosso, ci sono i tre virus più importanti. Autore: MDPI, Basel, 2020.




Usati e calpestati

testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Scrivere in questi giorni non è facile. La realtà è così complicata che vorrei tanto poter semplicemente tacere. Però un dramma come quello dei profughi siriani non può lasciare indifferenti, anche se siamo confusi dal coronavirus che sta contagiando il mondo. Mi viene inoltre da pensare che ci sia un virus più pericoloso del Covid-19, un virus che attacca cuore, occhi e orecchie, e mina l’umanità che è in noi nel nome della paura, della sicurezza e del potere. Ha contagiato Erdogan, Trump, Putin, i governanti d’Europa, i dirigenti delle multinazionali, i politici nostrani primatisti o opportunisti, i politici africani corrotti, i «giocatori» di borsa e chiunque non vede altro che il proprio interesse. Anche noi, gente comune, siamo a rischio di contagio.

Che migranti o rifugiati o stranieri provengano dalla Siria, dall’America centrale o dalla Libia, non cambia molto: sono tutti carne da macello, numeri da usare in campagna elettorale. Alla spregiudicatezza di Erdogan, alla furbizia di Putin e alla pavidità dell’Europa, fanno da controcanto la boriosa sicurezza di Trump e la cieca ostinazione di Maduro. E così si costruiscono nuovi muri, gabbie e campi per contenerli, si dispiega l’esercito, si penalizza chi soccorre, mentre i trafficanti «lavorano» indisturbati.

Aggiungi a tutto questo la tracotanza di Bolsonaro nell’arraffare l’Amazzonia, la violenza dei fanatici dell’Isis e dei gruppi jihadisti che terrorizzano il Medio Oriente e l’Africa, la mancanza di scrupoli delle multinazionali che per il controllo delle materie prime fanno affari con politici corrotti e gruppi armati di ogni genere in Nigeria, Centrafrica, Mozambico, Sudan e tanti altri paesi, tra cui il Congo Rd (che sta pagando con milioni di morti), sotto lo sguardo impotente delle Nazioni unite e il tacito consenso delle grandi nazioni industrializzate. Aggiungici la corsa agli armamenti che non conosce sosta, il water grabbing e il land grabbing per avere il controllo e il monopolio di risorse essenziali come acqua e cibo, e l’uso spregiudicato dello strumento del debito per mantenere nazioni, pur tra le più ricche di risorse, in condizioni di perenne sudditanza e povertà, e il quadro sarà quasi completo.

Lo so, quando elenco queste cose mi lascio prendere la mano, perché il silenzio dei poveri è assordante, e qui da noi (nel Nord del mondo), soprattutto di questi tempi monopolizzati dalle notizie «virali», di loro non si parla, se non marginalmente.
Il modo in cui i rifugiati siriani sono usati nella battaglia per il controllo del petrolio (e dell’acqua) tra Turchia, Russia, Europa, Usa e paesi tutti del Medio Oriente è vergognoso. Usati e calpestati, senza ritegno, come merce di scambio e ricatto. Come usati e calpestati sono i lavoratori di tante fabbriche in Cina, Bangladesh e altre nazioni dell’Asia, ma anche in Etiopia e altri paesi africani. Usati e calpestati come coloro che scappano dal Centro America e Venezuela, o come i popoli indigeni dell’Amazzonia, dell’India o della Papua Nuova Guinea.

In questi giorni di virus, in un contesto di cambiamenti climatici e guerre (anche economiche) per procura, stiamo vivendo una situazione del tutto nuova. Siamo «costretti» a vivere davvero una «quaresima» che mette a nudo la nostra fragilità. Quando leggerete queste righe, forse (ma proprio forse) il peggio sarà già passato, almeno da noi, e qualcuno riderà, triste consolazione, di altri paesi che ci hanno trattato come degli «untori». Ma «il peggio» sarà davvero passato solo se avremo saputo «leggere i segni dei tempi» e colto l’opportunità di guarire dai mali che ci affliggono dentro, per rialzarci e rinnovare il nostro impegno a vivere in modo responsabile, solidale e fraterno in questo mondo.

Questa «quaresima» forzata può essere un tempo di grazia, nel quale ascoltare dalla nostra «stanza interiore» la Parola del Dio di Gesù Cristo, di un Padre che non minaccia, non ricatta e non punisce, ma invita a diventare davvero noi stessi, più umani secondo la misura del Figlio dell’Uomo, che ha fatto dell’amore, del perdono, del servizio, della mitezza e della gratuità lo stile della sua vita.

È stato bello in questi tempi vedere tanti gesti di amore, servizio e solidarietà da parte di medici, infermieri, volontari e persone ordinarie, giovani e anziane. È il volto luminoso di questa nostra Italia. Un bel segno di speranza per tutti, e di resurrezione. Buona Pasqua.

Lesbo | © Valentina Tamborra

Per un aggiornamento su Lesbo:

AYS Special from Lesvos: COVID-19 and an island bursting at the seams
A special report is written by Joel Hernàndez, who serves as the Head of Advocacy and Development at Refugee Trauma Initiative, an NGO providing psychosocial support to displaced families in Greece.


Ultimo minuto, nota del direttore

Quando ho scritto questo editoriale agli inizi di marzo, ho peccato di ottimismo. La situazione che stiamo vivendo è ancora piena di tante incognite e l’epidemia è diventata una pademia. Ma se ho peccato di ottimismo, non ho certo sbagliato ad avere speranza. E quanto stiamo vivendo, la generosità di tantissime persone e i gesti di incredibile bellezza e gratuità che vengono fatti, confermano tale speranza.

Come missionari e missionarie della Consolata siamo vicini ai nostri famigliari, parenti, amici e benefattori coinvolti in questa pademia. Molti di noi sono nativi delle regioni più colpite. Ciascuno di noi, anche lo scrivente, piange i suoi. Ci sentiamo uniti a tutti e a ciascuno, offrendo soprattutto la nostra preghiera, il nostro partecipato silenzio, le nostre lacrime.
E siamo anche solidali con i nostri confratelli e le nostre consorelle che in Africa, Asia e America latina si trovano ora ad affrontare la pandemia con persone che spesso vivono in condizioni di estrema povertà e disagio sociale.

Che la beata Leonella, infermiera che ha curato per tutta la sua vita, e la beata Irene, che ha scelto di dare la sua vita per gli ammalati di peste, ci siano vicine in questo tempo difficile. Uniti nelal preghiera e nell’affetto.