Da Jenin. «Mi basta morire nella mia terra»


Uomini armati, volti coperti dal passamontagna, droni, cecchini, funerali, cimiteri, morti e feriti. Questa è la Cisgiordania (West Bank). Reportage da Jenin, la piccola Gaza.

Jenin. Un nutrito gruppo di persone si affolla davanti all’uscita dell’ospedale Khalil Suleiman. Ci sono molti ragazzi armati e con il volto coperto da un passamontagna. Alcuni di loro srotolano delle bandiere del partito di Al-Fatah.

Questa notte è morto, in seguito alle ferite riportate dopo l’esplosione di un razzo, Jamal Mashaqa, combattente della resistenza di Jenin. Oggi si celebra il suo funerale. Il corpo viene portato fuori dall’ospedale su una barella, trasportata dai suoi amici. Jamal è avvolto nella bandiera delle «Brigate dei martiri di Al-Aqsa», movimento di cui faceva parte. Attorno alla testa una kefiah. Sul corpo sono posate le armi che usava durante i combattimenti. Il corteo funebre si muove a passo veloce, quasi di corsa. Fa il giro della città. I combattenti sparano in aria, cantano, intonano inni a Dio, ad Hamas, e urlano il nome di Jamal aggiungendo: «La tua morte ci ha spezzato il cuore. Seguiremo l’esempio del tuo martirio».

Sono stati così tanti i morti a Jenin nel 2023, anche prima del 7 ottobre, che è stato necessario creare un nuovo cimitero. È qui che termina la marcia. Jamal viene posato per terra davanti all’imam, ai suoi parenti e agli amici. Si recitano le ultime preghiere, il corpo viene adagiato nella fossa appena scavata.

A pochi passi dalle tombe, un grande murales raffigura la giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, uccisa durante un attacco israeliano, proprio qui, nel 2022.

Jenin, Cisgiordania: durante il corteo funebre i membri delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa si fermano a inneggiare al compagno deceduto sparando in aria. Foto Angelo Calianno.

Martiri e soldati

Dal cimitero, insieme ad altri uomini, mi sposto in un centro sportivo per ragazzi. È qui che, dal 7 ottobre, si tengono tutte le veglie funebri. Ci sono solo uomini, fumano, bevono tè, discutono. Le foto di Jamal, in mimetica, che imbraccia un fucile, sono ovunque.

Qui incontro suo fratello, IIyad Azmi: «Jamal – mi racconta – era un ragazzo sorridente, sempre pronto a scherzare, lo conoscevano tutti per il suo senso dell’umorismo. Noi a Jenin abbiamo sempre rispettato ogni cultura e religione, lo vedi anche tu da quanti cristiani ci sono e che vivono fianco a fianco con noi. Israele pensa di scoraggiarci raid dopo raid. Pensa che distruggere le nostre case, uccidere i nostri giovani, ci spezzerà. Non ha capito che noi non ci arrenderemo mai, non ci piegherà: noi non alzeremo mai bandiera bianca».

Mentre intervisto altri ragazzi, mi si avvicina un uomo: è scortato da due giovani armati. Si presenta usando uno pseudonimo: Abu Arab (tradotto «padre degli arabi», soprannome del poeta della rivoluzione palestinese Ibrahim Mohammed Saleh). Mi chiede chi io sia e cosa stia facendo qui.

Abu Arab è uno dei portavoce del campo di Jenin. Anche lui è stato un combattente, durante la seconda intifada, e ha passato diversi anni in carcere. Quando gli chiedo se i palestinesi, pur avendo pochi mezzi a disposizione, siano davvero in grado di fronteggiare Israele, mi risponde: «Oggi si combatte in maniera diversa rispetto a quando lo facevo io. I nostri ragazzi sanno usare la tecnologia, questo è sicuramente un vantaggio. I nostri combattenti, più che all’unisono, agiscono come “lupi solitari”. Questo li rende più efficaci. La cosa più importante però è che, a differenza degli israeliani, qui sono tutti pronti a combattere per la libertà dei palestinesi, anche se questo vorrà dire aspettare due, tre generazioni. I soldati israeliani, spesso, sono giovani di leva che vengono mandati a combattere, ma vorrebbero essere ovunque tranne che qui, magari su una bella spiaggia di Tel Aviv. I ragazzi della resistenza palestinese invece, sanno che, molto probabilmente, moriranno durante gli scontri. Sono disposti a dare la propria vita come martiri. È questo spirito di sacrificio che manca a Israele, è per questo che non riescono a piegarci o mandarci via».

La moschea di Mahmoud Tawalba nel campo profughi di Jenin. Foto Angelo Calianno.

La piccola Gaza

Il campo profughi di Jenin è nato nella periferia dell’omonima città, costruito per ospitare i palestinesi in fuga durante la Nakba del 1948. Molte famiglie sono arrivate qui da Haifa, provincia dalla quale, nel 1953, cinquemilamila soldati israeliani avevano deportato ottantamila palestinesi.

Anche se quello di Jenin viene chiamato «campo» profughi, non è una tendopoli.

Anche se poverissimo e con infrastrutture pericolanti, è una vera e propria cittadina di ventimila abitanti, fatta di case in muratura, moschee e negozietti. Jenin è anche conosciuta, in questi mesi, come «la piccola Gaza». È qui, infatti, che si concentrano la maggior parte degli attacchi di Israele in Cisgiordania.

I continui raid sono volti a fiaccare quella che è una delle resistenze più coriacee della Palestina: le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo armato del partito di Al-Fatah, nato in questo campo profughi nel 2000, durante la seconda intifada.

I responsabili del campo controllano le mie credenziali, il mio lavoro, gli articoli scritti in passato. Vogliono assicurarsi che riporti la verità su quello che vedrò. Dopo qualche giorno e, dopo essermi fatto conoscere, vengo accolto con molta ospitalità. Comincio a frequentare il campo con regolarità.

Mi ritrovo spesso a chiacchierare con gli anziani e i giovani combattenti. Mi raccontano le loro vicissitudini, quelle delle loro famiglie. Passiamo ore bevendo tè e giocando a backgammon. I raid israeliani, nel frattempo, non si fermano mai e anch’io ne sono testimone.

Bambini accanto a una casa sventrata da un’esplosione nel campo di Balata. Foto Angelo Calianno.

Le modalità degli attacchi

Gli attacchi avvengono sempre nella stessa modalità: cominciano con una ricognizione di droni, seguita dal lancio di ordigni esplosivi. Subito dopo, i soldati installano dei check-point mobili per chiudere ogni varco di ingresso o uscita dal campo. Le operazioni continuano con l’entrata dei bulldozer, che distruggono le strade principali e qualsiasi cosa si trovi sul loro cammino.

Ai mezzi pesanti segue l’ingresso dei soldati. I cecchini si appostano sui punti più alti, i militari entrano nelle case per perquisirle, molto spesso distruggendole e picchiando chi si trova all’interno. I raid, in media, vanno avanti tutta la notte fino a tarda mattinata.

Il 29 novembre, durante l’ennesima incursione, un cecchino spara in testa a un bambino di otto anni: Adam Samer Al-Ghoul. Il bambino è colpevole di aver lanciato un sasso contro un mezzo blindato israeliano. Adam Samer si accascia sul selciato. Un altro ragazzino, di quindici anni, Basil Suleiman, cerca di trascinare il bambino più piccolo al riparo dietro una macchina, ma anche lui viene colpito al petto dallo stesso cecchino.

Durante i raid, i soldati bloccano anche le ambulanze, che, per ore, aspettano all’ingresso del campo. Anche Basil Suleiman muore.

Alla fine delle operazioni, il comando dell’Israel defense forces (Idf) dichiara che i due ragazzi avevano attaccato usando ordigni esplosivi. Ai media israeliani si comunica che, durante il raid a Jenin del 29 novembre, sono stati uccisi «Two high-ranking terrorists», due terroristi di alto grado.

L’attivista ebrea Arna Mer-Khamis (1929-1994). Foto Freedom Theater.

La storia di Arna, l’ebrea

Dal 7 ottobre, a Jenin, ogni giorno c’è almeno un funerale. Quasi sempre si tratta di minori di 18 anni, o comunque giovanissimi. Uno dei luoghi simbolo del campo di Jenin è il Freedom Theater.

Nel 1953, dopo essere stata testimone degli attacchi di Israele contro le case dei palestinesi, Arna Mer-Khamis, ebrea israeliana (1929-1994), decide di andare a Jenin e aiutare le migliaia di arabi in fuga. Arna Mer-Khamis fonda una Ong, porta aiuti in cibo, medicine e contribuisce all’istruzione dei bambini. Durante la prima intifada costruisce anche un teatro: The Stone Theater. Successivamente chiuso. Dopo la morte di Arna Mer- Khamis, suo figlio Juliano, nel 2006, decide di aprire un nuovo teatro: il Freedom Theater. Juliano viene assassinato nel 2011. Nessuno ha mai scoperto chi sia stato. Israele e Palestina, ancora oggi, si accusano a vicenda del suo omicidio.

Oggi, il direttore del teatro è Mustafà Sheta. Mi accoglie facendomi visitare la struttura: «Il teatro è anche una forma di lotta. Ognuno resiste con le armi che ha, noi lo facciamo con l’arte. Per molti, all’ inizio, sembrava una follia avere un teatro in un posto come questo: un campo profughi sempre sotto attacco. Ma è proprio in luoghi come questo che è più necessario. Noi portiamo in scena grandi classici come La fattoria degli animali di Orwell, Alice nel paese delle meraviglie e altri. Ogni rappresentazione è riletta alla luce della situazione palestinese: raccontiamo la nostra storia attraverso opere famose, così che il pubblico possa avere un riferimento. Come puoi vedere, ora non ci è possibile lavorare, dopo il 7 ottobre è diventato troppo pericoloso. Abbiamo spostato le nostre attività nelle scuole fuori dal campo».

Mustafà mi mostra i danni fatti dagli ultimi raid. Pur essendo chiuso, il teatro viene comunque vandalizzato dai soldati dell’Idf. Ci sono fori di proiettili, involucri di granate. Sul palco, Mustafà mi racconta: «Un giorno stavamo facendo uno spettacolo per bambini. Gli israeliani hanno cominciato ad attaccare. I più piccoli si sono stretti ai genitori. Gli attori, nonostante il rumore delle esplosioni, hanno continuato a recitare. Nessuno si è mosso. Quello, per noi, è stato un vero atto di resistenza. È questo che il nostro teatro rappresenta».

Il 13 dicembre, dopo la nostra visita, i soldati israeliani faranno nuovamente irruzione nel teatro, ne distruggeranno l’interno, soprattutto le apparecchiature elettroniche (telecamere, microfoni, schermi e amplificatori). Mustafà Sheta sarà arrestato.

Di lui, ancora oggi, non ci sono più notizie. Insieme a un gruppo di altri giornalisti europei, vicini al teatro, abbiamo scritto all’ufficio pubbliche relazioni delle carceri israeliane – l’Israel prison service – per chiedere informazioni. Nessuna delle nostre domande ha, però, ottenuto risposta.

Nablus e il campo di Balata

Subito dopo Jenin, in Cisgiordania, il secondo luogo più attaccato è il campo profughi di Balata, alla periferia di Nablus. Sorge di fronte alla chiesa del Pozzo di Giacobbe, oggi amministrata dalla diocesi greco ortodossa. Balata è il campo più popolato della Palestina. In mezzo a piccole stradine fangose, qui vivono circa 32.500 persone.

Anche prima del 7 ottobre, gli scontri erano molto frequenti in questa zona.

Molti settlers, i coloni ebrei, si recavano al Pozzo (rientrante nel perimetro di proprietà della chiesa) in pellegrinaggio, armati e scortati dai soldati. A ogni visita, i militari installavano i check-point, chiudevano le strade e i negozi nelle vicinanze. Queste operazioni scatenavano la rabbia dei palestinesi di Balata, che rispondevano attaccando. Così si è andati avanti per decenni. Oggi la chiesa è chiusa e, di conseguenza, anche i pellegrinaggi dei coloni al Pozzo di Giacobbe.

Anche qui, come a Jenin, l’obiettivo di Israele è quello di sconfiggere la resistenza e chi la supporta. Malgrado gli attacchi quotidiani, Balata continua le sue attività, anche in ambito culturale. Per gli abitanti di Nablus, è il simbolo dei giovani che non si vogliono arrendere.

Adhan mostra la facciata della sua casa, distrutta dai soldati israeliani e nascosta da un lenzuolo. Foto Angelo Calianno.

I soldati a casa di Adhan

Quando ci arrivo, alcuni uomini mi mostrano ciò che resta delle proprie case: camere da letto bombardate, buchi sul tetto, fori di proiettile ovunque.

Vengo invitato in una di queste abitazioni, dove una famiglia vuole raccontarmi la sua storia. Ad accompagnarmi c’è Adhan. La facciata della sua casa è coperta da lenzuola per nascondere il danno fatto dai soldati. In questa palazzina di tre piani, vivono venti persone, tutte della stessa famiglia ma di generazioni diverse. Ci accomodiamo in quello che era il soggiorno. Oggi è una stanza vuota con qualche sedia.

La madre di Adhan, Izdehar, mi  serve del tè e mi racconta: «Durante l’ultima irruzione, i militari hanno distrutto tutti i mobili. Quindi, adesso lasciamo la stanza vuota. Non era la prima volta che entravano, usavano spesso questa casa per piazzare i cecchini. Però, in precedenza, prima del 7 ottobre, con i soldati potevamo almeno parlarci, erano più ragionevoli. La violenza e le aggressioni che abbiamo subìto l’ultima volta, sono qualcosa di nuovo. Una notte, abbiamo sentito delle esplosioni, poi l’arrivo dei bulldozer. Era una cosa che accadeva spesso, quindi, ci siamo stretti tra noi aspettando che passasse. Dalla porta sul retro sono arrivati i primi spari, i proiettili hanno perforato le finestre arrivando dentro casa. I soldati hanno sfondato la porta, sono entrati, si sono trovati davanti mio suocero, una persona molto anziana. Lo hanno colpito in testa con il calcio del fucile».

«Mia sorella – continua Adhan – aveva suo figlio piccolo in braccio, ma l’hanno colpita ugualmente. Abbiamo urlato: “Come potete picchiare una donna con un bambino?” Allora hanno radunato tutti noi uomini, ci hanno portato in strada, ammanettati e messi faccia a terra. Hanno cominciato a picchiarci, mio fratello Anas è stato il più colpito. Gli hanno dato così tanti calci in faccia, che ha perso conoscenza. Nonostante questo, un soldato gli ha ordinato di leccare il sangue dal suo stivale. Mio fratello era ormai svenuto, non rispondeva più. Abbiamo chiesto di far arrivare un’ambulanza, ma l’hanno bloccata impedendo a qualsiasi aiuto di arrivare. Lo hanno ridotto così – mi spiega, mostrandomi una foto del fratello in ospedale: la testa bendata, il volto tumefatto e livido -. Avremmo voluto reagire, ma con i fucili puntati in testa, cosa avremmo potuto fare?».

Tutto questo avveniva davanti agli occhi dei bambini, pietrificati nell’assistere a quelle scene. Ci rivolgiamo al fratello piccolo di Adhan, Ahmad di nove anni, chiedendogli cosa abbia visto quella notte: «C’erano i soldati, picchiavano forte gli uomini…». Ahmad si porta le mani al volto, finisce la frase in un pianto strozzato.

Izdehar ci dice ancora: «Durante quei momenti, a noi donne dicevano delle cose che non posso ripeterti, insulti orribili che fanno ancora male. Non mi trovo a mio agio a raccontare queste cose pubblicamente, anche se so che è importante per le persone sapere. Il mondo deve sapere».

Il mio interprete mi sussurra: «I soldati sanno bene cosa offende le donne musulmane. Gli insulti che rivolgono loro sono cose così orribili che nessuna donna li ripeterà mai, tanta è la vergogna».

Il nuovo cimitero del campo profughi di Jenin ospita soprattutto giovani. Foto Angelo Calianno.

I cecchini non sbagliano

Mentre termino l’intervista, la tensione nel campo cresce visibilmente. Dei ragazzini cominciano a posizionare dei grandi massi sulle strade principali. Arrivano gruppi di giovani armati e con il volto coperto. In lontananza si sente il ronzio dei droni: sta arrivando un nuovo raid. Per strada incontro alcuni colleghi fotografi. Appena cominciamo a sentire le esplosioni dei primi droni che bombardano il campo decidiamo di ripararci in un punto più coperto. Mentre camminiamo, i cecchini aprono il fuoco anche contro di noi. Colpiscono bersagli ai nostri lati, sparano contro l’asfalto che abbiamo appena calpestato, contro il taxi che si è fermato per farci salire.

Il tassista ci dice: «I cecchini non sbagliano. Se avessero voluto, sareste già morti. Vi vogliono spaventare».

Durante la mia lunga permanenza in Cisgiordania, le vicessitudini di cui sono stato testimone a Jenin e Nablus si sono ripetute anche a Hebron, Tulkarem, Ramallah. Eppure, anche durante gli attacchi, ogni stazione radiofonica, ogni canale televisivo era sintonizzato su Gaza. Alla fine di ogni raid, anche dopo gli arresti, le umiliazioni e la perdita di decine di familiari, tutti mi dicevano: «Dobbiamo andare avanti per rispetto di quello che sta accadendo a Gaza. Nulla è paragonabile a Gaza. Non possiamo piangere».

Angelo Calianno

Un murale ricorda Shireen Abu Aklehdi, giornalista di Al-Jazeera, uccisa nel maggio 2022.; sono decine i giornalisti uccisi nell”ultima guerra. Foto. Angelo Calianno.

Su MC 01/2024. Essere palestinesi in Cisgiordania / 1: «Cacciati come bestiame dai coloni»

 




«Cacciati come bestiame dai coloni»


La Cisgiordania (West Bank) dovrebbe essere palestinese. In realtà, è occupata da Israele con oltre 500mila coloni. Siamo andati a cercare di capire una situazione che è ingiusta ed esplosiva.

Nella mappa si vedono Gaza e la Cisgiordania (West Bank) con gli insediamenti dei coloni israeliani.

Arrivo in Cisgiordania passando dal valico di «King Hussein bridge», in Giordania. Normalmente, la coda per attraversare il confine è chilometrica. Oggi siamo soltanto in tre a entrare. Il confine, di solito, è affollato da cooperanti, palestinesi che vivono all’estero e viaggiatori. Dal 7 ottobre – giorno dell’attacco di Hamas e dell’inizio della nuova guerra – è semideserto. Quello che sta accadendo a Gaza ha fatto lasciare la Cisgiordania a quasi tutte le Ong straniere.

Per entrare bisogna passare molti controlli, il primo check point israeliano è quello più complicato. Rimango in attesa per circa tre ore, prima di essere interrogato. Mi vengono fatte le domande più disparate: da quelle personali, ai dettagli tecnici sulla mia presenza qui.

Passato il posto di frontiera, i controlli non diventano più facili. Nelle ultime settimane i militari hanno chiuso moltissime strade: a volte ci vogliono sei ore per un percorso che, normalmente, si potrebbe fare in un’ora.

La Cisgiordania è sempre stata un punto nevralgico per tutto il Medioriente. Quello che accade qui ha eco anche in tutte le nazioni confinanti o vicine: Giordania, Egitto, Libano.

Gli scontri, soprattutto in contrapposizione all’occupazione e all’espandersi delle colonie israeliane in Palestina (riconosciute illegali dalle Nazioni Unite nel 1979 con la risoluzione n. 446), sono quasi quotidiani. È proprio dopo l’arrivo delle colonie che sono nati alcuni dei movimenti armati che conosciamo oggi: la Pij (la Jihad islamica) nel 1979, Hamas a Gaza nel 1987.

Nel 2000, iniziando da Gerusalemme e poi espandendosi in Cisgiordania, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, è scoppiata la seconda intifada. Una rivolta che sarebbe durata cinque anni. Al termine di quel conflitto, sarebbero state circa 1.300 le vittime israeliane e più di 6.000 quelle palestinesi, la metà di loro civili, annoverate nelle statistiche come «vittime collaterali». In quegli anni di intifada, sono nati altri gruppi armati come le brigate di al-Aqsa, movimento formatosi alla fine del 2000.

Da 75 anni, cioè dalla «Nakba» del 1948, quando oltre 750mila palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie terre, tra periodi più quieti e picchi di violenze, la tensione in questa parte del mondo non si è mai attenuata.

Cosa accade oggi dopo gli eventi del 7 ottobre? Quali sono le conseguenze dei bombardamenti a Gaza su questa parte della Palestina, soprattutto in quei territori da sempre contesi tra palestinesi e coloni?

Armati e incappucciati, due combattenti della brigata Aqsa di Jenin. Foto Angelo Calianno.

«Cacciati come bestiame»

Abu Hasen all’interno dell’ufficio della «Colonization & wall resistance commission». Foto Angelo Calianno.

A Ramallah ha sede una commissione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata «Colonization & wall resistance commission». Si occupa di fornire assistenza legale e aiuto a tutte quelle persone aggredite dai coloni o che si ritrovano le proprie terre occupate abusivamente. Oltre ai dipendenti governativi, questo gruppo è formato da volontari, anche internazionali, che attuano una resistenza pacifica all’espansione delle colonie. Qui incontro uno dei responsabili: Abu Hasen.

Già tre volte è stato arrestato dai militari israeliani. La detenzione più lunga è stata durante la seconda intifada. Quando gli chiedo il perché dell’arresto, stringe le spalle sorridendo: «Non c’è quasi mai un perché. Li chiamano reati amministrativi. Può essere di tutto: da un post su internet a una parola detta male, a una resistenza a perquisizione. Siamo palestinesi, questo basta per essere arrestati».

Continua raccontandomi: «Devi capire che qui ora è cambiato tutto. Non dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, come molti pensano, ma dal dicembre 2022. L’anno scorso, infatti, Ben Gvir (ministro della sicurezza nazionale israeliano, ndr) ha annesso i coloni nella riserva dell’esercito. I settlers (così come vengono chiamati qui gli abitanti delle colonie) per anni, con il benestare di Israele, hanno preso la nostra terra e perpetrato continui attacchi volti a sfinire la popolazione. Il fine è quello di spingerci ad abbandonare tutto e andare via, un po’ come è successo nel 1948. Accorpando queste persone alle forze armate, hanno praticamente legittimato i coloni ad avere armi e a usarle contro di noi, senza temere nessun tipo di ripercussioni.

A seguito di raid e attacchi, sia da parte dell’Israel defence forces che dei settlers, in Cisgiordania sono state uccise 189 persone, più di 8mila sono stati i feriti. Questo accadeva prima del 7 ottobre. Io non sono mai stato un sostenitore di Hamas, sono membro di Al-Fatah, ma so che quello che ha fatto Hamas è stata la risposta a questa legge e a tutte le morti che ha causato».

Solo un mese fa, Abu Hasen ha subito un nuovo arresto. La detenzione è stata di nove ore durante le quali, però, l’uomo è stato interrogato con metodi di tortura di cui porta ancora i segni addosso.

«Con il nostro gruppo cerchiamo di aiutare e difendere chi continuamente subisce soprusi dai coloni. Mi trovavo vicino a un campo di beduini, da tempo i coloni cercano di espropriarne le terre per continuare l’espansione. Eravamo lì per impedirlo. Sono arrivati i soldati, ci hanno interrogato, hanno trovato un coltello e mi hanno arrestato. Il coltello era un semplice coltello da cucina, ce l’avevamo perché eravamo lì accampati e abbiamo cucinato sul fuoco. Mi hanno portato in una delle tende dei beduini, mi hanno colpito con il calcio del fucile sulla testa, più volte. Mi hanno urinato addosso, preso a calci. Poi mi hanno ordinato di mangiare gli escrementi delle capre. Mi hanno insultato e urlato che ero un terrorista di Hamas. Ho chiesto loro di smetterla tentando di spiegare che io non c’entravo nulla con Hamas, ma loro hanno continuato.

Penso mi abbia salvato solo il fatto che parlo ebraico. Ho cominciato a spiegarmi nella loro lingua e poi, dopo nove ore, mi hanno lasciato andare. Il risultato è che ora non torno più a casa. Sono così traumatizzato che, quando non dormo in quest’ufficio, cambio luogo ogni notte per paura che mi vengano a prendere».

Gli chiedo: che messaggio vorresti dare a chi conosce poco la storia di questi luoghi? «Sembra che, per Israele, l’unica soluzione possibile sia quella di mandarci tutti via da questa terra, mandarci in Egitto, in Giordania, come se fossimo bestiame. Io vorrei dire che siamo esseri umani anche noi, così come gli ucraini. Perché per loro tutta la comunità internazionale si è mobilitata e per noi no? Sto vedendo in tutto il mondo le manifestazioni, in nostro supporto, per denunciare il genocidio che stanno compiendo a Gaza. Questo a noi dà molta forza. Secondo me, il cambiamento si avrà solo quando in Occidente le persone, ognuna nella propria nazione, si faranno valere contro quei governi che appoggiano Israele».

A Taybeh, villaggio cristiano

Per verificare le storie di Abu Hasen, decido di andare nei villaggi da lui menzionati. Mi trovo a circa trenta chilometri da Gerusalemme, nel villaggio di Taybeh. Taybeh è l’unico villaggio, in Palestina, ad essere interamente abitato da cristiani. Oggi ci vivono appena 1.300 persone, sono 8.000 invece i suoi cittadini residenti all’estero. Il nome Taybeh è stato dato al villaggio durante il dominio di Saladino. In antichità invece, la cittadina era conosciuta come Efraim, città della Samaria dove, come riportato nel Vangelo di Giovanni, Gesù dimorò alcuni giorni prima della passione.

In una delle vie del paese, incontro padre Jack Nobel, sacerdote della chiesa cattolica greco-melchita di San Giorgio. Padre Jack ha studiato a Roma e, in un perfetto italiano, mi racconta: «Qui siamo tutti cristiani: melchiti, cattolici latini e ortodossi. Prima della guerra, c’erano tantissimi pellegrini che si fermavano a Taybeh, sulla via o di ritorno da Gerusalemme. Io ho sempre detto a tutti i turisti che passavano: “Pensate, voi qui potete andare e viaggiare ovunque e muovervi liberamente. Io, nonostante sia un sacerdote, nonostante parli diverse lingue correttamente, non sono libero di andare in pellegrinaggio a pregare in Terra Santa. Questo perché sono palestinese”. La situazione ora, ovviamente, è peggiorata. I continui attacchi dei coloni, soprattutto durante la raccolta delle olive, hanno spaventato davvero tantissima gente».

Gli chiedo: perché tanta violenza verso di voi, padre? Chi sono esattamente i coloni e cosa vogliono? «Questa è una storia lunga decenni. I coloni, in Israele, sono conosciuti come: “hilltop youth” (i giovani delle colline). Sono estremisti di destra, gente violenta che Israele non vuole, e quindi li spedisce da noi. Quello che vogliono è semplice: che ce ne andiamo. Per loro questa terra gli spetta di diritto, perché promessa da Dio». L’ideologia degli hilltop youth prende ispirazione dal partito clandestino ebraico del Brit HaBirionim («Alleanza degli uomini forti») e dal cananismo, entrambi movimenti attivi tra gli anni ’30 e ’40. Il pensiero di questi gruppi si ispirava al regime fascista di Benito Mussolini.

Continuando a camminare per il villaggio, la gente del luogo mi indica la casa di Eliana e Khalil, una coppia cristiana recentemente aggredita dai coloni. I due gentili anziani mi accolgono alla porta. Khalil ha 77 anni, Eliana 69. Lei porta una vistosa fasciatura al braccio. Mi offrono del caffè e dei dolci.

La donna racconta: «Il 26 ottobre stavamo raccogliendo le olive. Alle nostre spalle sono arrivati dodici settlers. Hanno cominciato a distruggerci l’attrezzatura e a prenderci a bastonate. Avevano delle lunghe spranghe con delle punte di metallo. Hanno cercato di colpirmi in testa, io mi sono riparata con il braccio e così me lo hanno rotto in due punti. I coloni ci hanno sempre provocato. Spesso troviamo i terreni danneggiati, gli alberi d’ulivo tagliati o bruciati. Ci lanciano sassi e bottiglie contro la casa, ma delle aggressioni con tanta violenza non c’erano ancora state qui. In questa situazione, nemmeno i nostri figli possono raggiungerci perché, con tutti check point e le strade chiuse, viaggiare per i palestinesi è diventato impossibile. Poi però vediamo quello che accade a Gaza, e allora ci riteniamo fortunati».

Coppia cristiana di Taybeh aggredita dai coloni (foto Angelo Calianno).

Le immagini dei martiri

Mentre continuo le interviste attraverso i villaggi di questa zona, mi arriva la notizia che ad Al Am’ari, il campo profughi alla periferia di Ramallah, c’è stato un altro attacco delle forze dell’Idf. Decido di rientrare per documentare la situazione. Al Am’ ari è uno dei campi più piccoli di tutta la Cisgiordania, oggi ci vivono 15mila persone. Questi campi sono soggetti a raid e arresti continui perché, secondo le forze di sicurezza israeliane, sono rifugio di molti combattenti palestinesi.

Entrando in questi luoghi, le prime cose che si notano sono le fotografie. Ci sono immagini ovunque, quasi sempre di giovani ragazzi: foto sui poster, volti disegnati sui muri, fotografie appese alle insegne dei negozi, spille raffiguranti dei volti: sono i martiri. I martiri non sono sempre combattenti, è considerato martire chiunque abbia perso la vita durante gli scontri, i raid e gli arresti da parte di Israele.

Alcuni bambini, sorridendo, mi mostrano la loro medaglietta raffigurante una delle vittime. L’ultima, in ordine cronologico: Mohannad Jad Al-haq, ucciso il 9 di novembre. I bambini mi conducono nella casa dove vive la sua famiglia, invitandomi a bussare.

Qui incontro la madre di Mohannad e il fratello: «Mio fratello non aveva fatto davvero nulla. Non si è mai interessato di politica, non aveva mai avuto a che fare con la resistenza. Stava andando a lavorare quella mattina, erano le sette e trenta, si trovava per strada quando è cominciato il raid. Ha chiamato la moglie per dirle di rimanere a casa, perché i militari israeliani stavano entrando nel campo. È stato raggiunto da un proiettile allo stomaco, è morto in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il medico ci ha detto che era stato colpito da un proiettile “dum dum”». I «dum dum» sono pallottole a espansione. Sono cioè progettate per espandersi all’interno del corpo del bersaglio, aumentando così la gravità delle ferite.

Sua madre Khadija, orgogliosa, mi mostra la medaglietta che ha al collo con la foto del figlio: «È il terzo ragazzo a morire nel gruppo degli amici di Mohannad. Nessuno di loro si è mai interessato alle fazioni politiche. Siamo gente semplice che vuole lavorare. Quando Mohannad è morto tutti piangevano, ma io no, sorridevo. Perché Dio mi ha dato la forza di sopportare tutto questo».

Angelo Calianno

Striscione in onore di Mohannad su una strada del campo di Al Am’ ari. Foto Angelo Calianno.

 

 




Libano, nei campi dei rifugiati palestinesi /1


Ritorno nel Libano segnato dalla crisi economica e politica, dalla distruzione del porto di Beirut, e dalla presenza dei campi dei palestinesi, arrivati a partire dal 1948 e poi moltiplicatisi con il divampare della guerra in Siria.

Nell’ottobre del 2021 sono tornato in Libano a due anni dal reportage nel campo di Burj El Barajneh di Beirut (vedi MC 8-9/2020) grazie alla collaborazione con Wpa – Women’s program association, un’organizzazione umanitaria palestinese che svolge la propria attività nei campi profughi del paese.

Travolta dalla crisi economica iniziata nel 2018, Beirut è una città profondamente cambiata in termini di organizzazione, condizioni di vita, povertà, disagio sociale, igiene pubblica, livelli di militarizzazione. A contribuire a questo degrado c’è stata anche l’esplosione del porto del 4 agosto 2020 a causa della quale persero la vita 218 persone.

Un po’ di storia

Nel Medio Oriente ci sono 58 campi profughi palestinesi ufficiali. Si trovano in Giordania, Cisgiordania, Gaza, Siria e Libano. Molti sono stati creati nel 1948 a seguito della prima guerra arabo israeliana. Altri sono nati dopo le guerre del 1967 e 1973 e, più recentemente, dopo la guerra in Siria, per i palestinesi siriani. Circa 1,5 milioni di rifugiati vivono nei campi ufficiali. I rifugiati palestinesi, secondo la definizione accettata dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), sarebbero le «persone il cui luogo di residenza era la Palestina nel periodo dal 1° giugno 1946 al 15 maggio 1948 e che hanno perso sia la casa che i mezzi di sussistenza a causa del conflitto del 1948».

Dal 1948 ne sono stati registrati circa 450mila in Libano. Più della metà vive in 12 campi sovrapopolati che avrebbero dovuto fornire loro alloggi temporanei. Tuttavia, settanta anni dopo, centinaia di migliaia di palestinesi apolidi vivono ancora in quelle strutture ormai fatiscenti.

Visita campo profughi di Burj El Barajneh a Beirut

Vita nei campi

Le condizioni di vita nei campi sono pessime. Le abitazioni sono sovraffollate e i campi mancano di infrastrutture di base come strade o servizi igienico sanitari. Spesso, durante i periodi di crisi, rimangono senza elettricità anche per tempi molto lunghi. Circa un quarto delle famiglie non ha il riscaldamento e la maggior parte delle abitazioni sono in condizioni di elevata umidità e hanno perdite d’acqua.

Ad aumentare le precarie condizioni è la carenza di finestre nelle abitazioni. Queste, quindi, hanno una ventilazione molto bassa, oltre all’assenza di illuminazione naturale. Il problema maggiore è il sovraffollamento: quasi la metà delle famiglie vivono in spazi ristretti e con una media di quattro persone per stanza.

Salute, igiene e nutrizione

I rifugiati palestinesi hanno un accesso limitato a cure mediche e farmaci e soffrono di un’alimentazione non adeguata e di una scarsa igiene. La malnutrizione è un problema in tutti i campi del Libano, indipendentemente dalla loro ubicazione. Questa costituisce il principale ostacolo al normale sviluppo dei bambini. Le organizzazioni internazionali e l’Unrwa (United Nations relief and works agency for palestine refugees in the Near East) forniscono assistenza sanitaria di base, ma spesso i rifugiati devono ricorrere a ospedali privati, quindi costosi. Un alloggio fatiscente e una cattiva igiene portano a malattie e problemi di salute che creano altre difficoltà finanziarie per le famiglie e le spingono ancora più nella povertà.

Lavoro

Il tasso di disoccupazione tra i profughi palestinesi arriva al 56% e la quasi totalità dei rifugiati vive con l’equivalente di 6 dollari al giorno. Circa il 50% della popolazione ha solo le competenze minime necessarie per un lavoro. Un altro 10% non ha mai frequentato la scuola. La situazione è particolarmente grave per i profughi palestinesi giunti dalla Siria. In Libano solo il 38% dei rifugiati in età lavorativa ha un impiego. Sebbene nove su dieci siano nati in Libano, questi sono trattati come lavoratori stranieri. Inoltre, per lavorare sono necessari permessi costosi, che pochi datori di lavoro libanesi sono disposti a pagare. I rifugiati non possono svolgere una serie di professioni, come quelle di avvocati, ingegneri e medici. La competizione per i posti di lavoro disponibili è diventata ancora più serrata da quando la crisi siriana ha portato in Libano due milioni di rifugiati siriani. Questi, disperati per sostenere le loro famiglie sono disposti a lavorare spesso per un salario al di sotto del minimo. È difficile per i palestinesi trovare un lavoro diverso da mansioni umili con salari molto bassi in settori come servizi igienico sanitari, agricoltura, edilizia. Le donne trovano invece lavoro come badanti, infermiere o domestiche.

Visita campo profughi di Burj El Barajneh a Beirut

Istruzione non adeguata

Un altro grave problema nei campi è la mancanza di accesso a un’istruzione adeguata. L’Unrwa provvede risorse educative a mezzo milione di bambini nei vari campi, e organizzazioni locali come la Wpa – Women’s program association – offrono risorse e supporto aggiuntivo. Tuttavia, queste risorse sono insufficienti e non forniscono ai giovani palestinesi le competenze di cui hanno bisogno per trovare un lavoro. Nei campi le scuole sono sovraffollate e oltre i due terzi di esse funzionano su doppi turni. Un altro ostacolo all’istruzione è l’impossibilità per i rifugiati di accedere alle scuole pubbliche libanesi. Ciò significa che l’unico accesso all’istruzione è consentito in una di quelle gestite dall’Unrwa o in quelle private, che però vanno al di là dei mezzi finanziari di quasi tutte le famiglie. Le scuole nei campi sono spesso fatiscenti. Ai rifugiati palestinesi non è permesso riparare alcun edificio per questo le strutture sono destinate a un inesorabile degrado.

I tassi di abbandono scolastico in Libano sono più alti che in Giordania, Cisgiordania e Gaza, arrivando a circa il 25% tra i bambini di età superiore ai sei anni. Coloro che nonostante tutte le difficoltà riescono a diplomarsi alla scuola secondaria non proseguono con l’istruzione superiore (collegi professionali o università) sia a causa dei costi per loro inaccessibili, sia perché sentono che non saranno in grado di trovare un lavoro al termine degli studi.

Dan Romeo
(Libano 1 – continua)

Questo slideshow richiede JavaScript.




Palestina. Senza odio né violenza

testo e foto di Operazione Colomba |


Le famiglie palestinesi delle colline a Sud di Hebron sono ancora lì. Nonostante le violenze quotidiane, anche sui bambini, subite da decenni da parte di esercito e coloni israeliani. Resistono, a difesa delle proprie terre e identità. Condividono la loro lotta nonviolenta i volontari di Operazione Colomba.

È il 2004 quando un gruppo di militanti israeliani, i Ta’ayush1, propongono ai volontari di Operazione Colomba di visitare le colline a Sud di Hebron, in Cisgiordania.

Lì, un comitato popolare locale di palestinesi ha richiesto la presenza di attivisti internazionali per monitorare l’accompagnamento a scuola dei bambini. Lungo la strada per arrivare a lezione, infatti, gli studenti palestinesi sono oggetto di violenze da parte dei coloni israeliani insediati nella zona.

Il villaggio di At-Tuwani si trova nell’area conosciuta come Massafer Yattaad. È il più grande della zona, con circa 300 abitanti. Quando vi arrivano, i volontari del Corpo nonviolento di pace dell’associazione Papa Giovanni XXIII hanno già due anni di esperienza di Palestina. Sono stati in Cisgiordania (West Bank), vicino a Ramallah, a sostegno delle comunità palestinesi private delle proprie terre a causa della costruzione del muro di separazione tra Israele e i Territori occupati. Prima ancora sono stati nella Striscia di Gaza, durante la Seconda Intifada nel 2002.

L’unica via per la pace

Operazione Colomba è nata nel 1992, dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra.

Inizialmente ha operato nell’ex Jugoslavia, e negli anni a seguire ha aperto presenze stabili in diversi scenari di conflitto, dai Balcani all’America Latina, dal Caucaso all’Africa, dal Medio all’estremo Oriente, coinvolgendo oltre 2mila volontari uniti dalla determinazione di sperimentare nella propria vita la nonviolenza, l’unica via per ottenere una pace vera, fondata sulla verità, la giustizia, il perdono e la riconciliazione.

Vivere in Area C

Il villaggio di At-Tuwani si trova in Area C, tra la città di Yatta e la Green line, quello che dovrebbe essere il confine tra Israele e i Territori palestinesi occupati.

Secondo gli accordi di Oslo, la Cisgiordania è divisa in tre Aree denominate A, B, e C. In particolare, l’Area C, che copre circa il 61% dell’intero territorio della Cisgiordania, è sotto il controllo civile e militare di Israele. Questo significa che i palestinesi non possono costruire nulla, se non con un permesso rilasciato dalle autorità israeliane, e che le loro terre possono essere confiscate.

È proprio in merito a questi poteri che nel 1999 la zona a Sud di Yatta è stata dichiarata area di addestramento militare (Firing zone 918) dall’amministrazione israeliana. Tale dichiarazione ha portato al trasferimento forzato di tutti gli abitanti palestinesi viventi nell’area, circa 700 persone di dodici villaggi, che sono stati caricati su camion militari e portati altrove mentre le ruspe distruggevano le tende e le grotte in cui avevano vissuto.

Dopo sei mesi, grazie a un procedimento portato avanti da avvocati israeliani, e in seguito a una decisione dell’alta corte di Giustizia israeliana, i palestinesi sono potuti tornare nei propri villaggi, senza però che vi fosse prima stato un formale smantellamento della zona di addestramento militare, che ancora oggi minaccia la vita degli abitanti.

Oltre all’occupazione militare, è andata crescendo negli anni anche quella civile, con le espansioni degli insediamenti israeliani e la nascita di nuovi avamposti, abitati da coloni nazional religiosi che, per mezzo di attacchi fisici anche molto violenti, impediscono ai palestinesi gli spostamenti e l’accesso alle proprie terre. Gli avamposti, come anche le colonie, sono peraltro considerati illegali, non solo dal diritto internazionale ma perfino dallo stesso ordinamento israeliano.

Resistenza nonviolenta

La scelta più semplice per i palestinesi delle colline a Sud di Hebron avrebbe potuto essere quella di lasciare le proprie terre per vivere una vita più sicura in città, oppure di abbandonarsi alla violenza – come talvolta capita quando non si ha più speranza nella vita -. Invece, questi semplici pastori e contadini, hanno deciso di restare e di lottare per difendere i propri diritti. Alcuni abitanti di At-Tuwani, allora, sotto la guida di uno di loro, Hafez Hureini, si sono uniti in un comitato popolare per trovare assieme il metodo più efficace per resistere alle ingiustizie.

È nata così la loro resistenza popolare nonviolenta.

Si tratta di una forma di lotta dal basso in cui le famiglie e i villaggi si uniscono per difendere una terra che è di tutti, senza ingerenze politiche, valorizzando il ruolo di ognuno, dalle donne, ai bambini, agli anziani.

Quando un terreno è minacciato, è terra di tutti; quando un giovane viene arrestato, è il figlio o il fratello di tutti.

La nonviolenza chiede ogni giorno di non guardare l’oppressore come un nemico, ma come un essere umano che sta sbagliando. Chiede di denunciare con forza l’ingiustizia, senza odiare chi la compie.

Lo scopo non è schiacciare l’altro, ma includerlo nella ricerca di una soluzione condivisa.

L’obiettivo della lotta popolare è il riconoscimento dei palestinesi come esseri umani portatori di diritti umani inalienabili.

Nella pratica, il comitato popolare delle colline a Sud di Hebron, organizza manifestazioni e azioni nonviolente, supporta i contadini e i pastori nell’accesso quotidiano alle loro terre, e promuove numerose iniziative per garantire servizi essenziali come l’acqua potabile, la corrente elettrica, la costruzione di scuole e di cliniche mediche.

Negli anni la resistenza nonviolenta ha raggiunto risultati incredibili: dallo smantellamento del muro nel 2006 che avrebbe distrutto la vita delle comunità, all’approvazione di un piano regolatore che riconosce l’esistenza del villaggio principale dell’area, At-Tuwani. Vittorie importanti, che però non sono sufficienti in una quotidianità di oppressione come quella dell’occupazione militare.

Accompagnare i bambini

In questa realtà, Operazione Colomba si è stabilita ad At-Tuwani, inizialmente con il compito di accompagnare i bambini all’unica scuola presente nell’area. Per raggiungerla, i bambini dei due villaggi di Tuba e Maghayir Al Abeed, ancora oggi, devono percorrere una strada che passa tra la colonia israeliana di Ma’on e l’avamposto di Havat Ma’on.

Dati i frequenti attacchi da parte dei coloni su quella strada, i bambini avevano iniziato a fare un percorso alternativo che li costringeva però a camminare ogni giorno circa 2 ore e mezza, rischiando comunque la violenza degli israeliani.

Nel 2004, durante un accompagnamento di bambini sulla strada più breve, quattro attivisti internazionali sono stati brutalmente attaccati e feriti dai coloni. L’episodio ha ottenuto un’attenzione mediatica così ampia che la commissione per i Diritti dell’infanzia della Knesset (il parlamento israeliano) ha deciso di riconoscere una scorta militare ai bambini che ogni giorno li accompagnasse nel tragitto da casa a scuola.

Dal 2004, Operazione Colomba monitora questo servizio per denunciarne le mancanze e i continui ritardi. Infatti, spesso la scorta militare non si presenta, lasciando i bambini ad aspettare, a volte per ore, in una zona estremamente pericolosa, esponendoli al rischio di essere attaccati. Inoltre questi ritardi portano anche a perdere ore scolastiche, che non vengono recuperate, ledendo ulteriormente il diritto all’istruzione degli alunni.

Qualora la scorta non si presenti, sono gli stessi volontari a ricoprire la sua funzione, accompagnando i bambini e condividendo con loro il rischio degli attacchi da parte dei coloni, che spesso approfittano dell’assenza dell’esercito.

 

Documentare le violenze

Come stile di vita, i volontari di Operazione Colomba hanno scelto la piena condivisione della quotidianità del villaggio, vivendo al suo interno, nello stesso modo in cui vivono i palestinesi.

Tra le attività di cui si occupano, l’accompagnamento dei pastori e delle famiglie sulle loro terre è la più importante. Poiché le terre spesso si trovano vicino a colonie e avamposti israeliani, i volontari documentano con foto e video le loro violazioni e, quando se ne presenta la necessità, s’interpongono tra i palestinesi e i coloni armati.

A questa attività, che occupa la maggior parte della giornata di un volontario, si aggiungono tutte le situazioni classificabili come emergenze. Tra esse, ad esempio, il monitoraggio dei checkpoint mobili, improvvisati lungo la strada dai militari israeliani, troppo spesso luoghi di violenze e umiliazioni nei confronti dei palestinesi; il monitoraggio delle demolizioni di abitazioni o di strutture per animali, strade e tubature per acqua potabile.

I volontari osservano e documentano arresti e violenze perpetrate dalle forze armate israeliane o dai coloni: la documentazione tramite video e fotocamere (spesso condivisa sulla pagina Facebook di Operazione Colomba) è fondamentale per poter denunciare e mettere l’opinione pubblica a conoscenza delle violazioni dei diritti umani che avvengono.

Attivisti israeliani per i palestinesi

Fortunatamente, a supportare la resistenza nonviolenta delle colline a Sud di Hebron, non ci sono solo i volontari internazionali: fin dal 1999 è stata costante la presenza di attivisti israeliani.

La loro azione è basilare sia negli accompagnamenti dei contadini sui loro campi che nelle azioni legali che vengono promosse da avvocati israeliani.

Opporsi alle ingiustizie perpetrate dal proprio paese, dal proprio esercito, non è affatto facile, e ha un costo molto alto: spesso gli attivisti vengono identificati come traditori della patria, sono emarginati e perseguitati. La loro scelta implica molta solitudine e talvolta il carcere, come succede per i giovanissimi che rifiutano il servizio militare per obiezione di coscienza.

 

Nonviolenza ereditaria

Nel corso degli anni, i volontari di Operazione Colomba ad At-Tuwani hanno visto crescere una nuova generazione di giovani che s’impegna e che diviene progressivamente consapevole del valore della resistenza popolare nonviolenta. I frutti di questa trasmissione intergenerazionale si riconoscono nella nascita del presidio di Sarura, e di Youth of Sumud2, un gruppo di azione nonviolenta.

Era il maggio 2017 quando alcuni attivisti israeliani, insieme ai giovani palestinesi delle colline a Sud di Hebron – figli di coloro che quasi vent’anni prima avevano iniziato la resistenza nonviolenta -, si sono stabiliti a Sarura, un villaggio abbandonato negli anni ’90 a causa della violenza dei coloni. La loro intenzione era di ristrutturare le grotte dell’ex villaggio e di riportarvi le famiglie a viverci.

Telecamera alla mano, hanno iniziato anche ad affiancare i volontari di Operazione Colomba nelle loro attività giornaliere: accompagnamenti dei bambini e dei pastori, e documentazione di checkpoint e di demolizioni.

Non è stato facile mantenere una presenza stabile a Sarura: le vessazioni da parte dei coloni e dell’esercito sono state continue, ma i giovani di Youth of Sumud hanno continuato la resistenza nonviolenta restaurando una prima grotta, dove ora è tornata a vivere la famiglia proprietaria.

In una Palestina in cui i villaggi vengono evacuati e distrutti, nelle colline a Sud di Hebron, un villaggio abbandonato è rinato ed è tornato in vita, grazie all’impegno di questi ragazzi.

Essere la loro voce

Negli ultimi anni, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare altre aree oltre al villaggio di At-Tuwani, accompagnando e supportando le comunità palestinesi in lotta anche altrove nella Cisgiordania occupata, ovunque ce ne sia bisogno.

Una realtà che ricorda molto le colline a Sud di Hebron di quindici anni fa, è quella delle comunità di pastori che vivono nella valle del Giordano. Circa l’86% del suo territorio è, infatti, area C, e la presenza di colonie e avamposti israeliani è massiccia, così come la presenza di aree dichiarate zone militari e di riserve naturali, sotto la piena giurisdizione israeliana.

Tutto ciò porta al trasferimento forzato di intere comunità palestinesi, costrette ad andarsene dalle proprie case.

Nel 2019, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato l’intenzione di annettere parte della valle del Giordano entro il 2020, operazione per ora sospesa.

Grazie all’aiuto di attivisti israeliani, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare le comunità della zona, mettendo a disposizione la propria esperienza. In particolare, nell’ultimo anno hanno iniziato a dormire in un villaggio e ad accompagnare i pastori della zona, ripercorrendo le fasi di conoscenza reciproca e di creazione di un rapporto di fiducia simili a quelle degli inizi della presenza ad At-Tuwani.

Spesso le storie di resistenza e nonviolenza rimangono nascoste e silenziose. I palestinesi di At-Tuwani sono persone normali, che fanno vite semplici, ma che si sono trovate loro malgrado vittime di un’oppressione, e hanno deciso di lottare per i propri diritti e la giustizia.

Kifah Adara, una donna del villaggio, ogni volta che qualcuno dei volontari parte per ritornare in Italia, chiede di raccontare quello che ha visto in Palestina, di essere la loro voce amplificata. Ed è questo il nostro augurio: che possiamo sempre essere megafono dei popoli che chiedono giustizia.

Volontari di Operazione Colomba

Note:

1- Organizzazione di israeliani e palestinesi che lottano insieme, attraverso un’azione diretta nonviolenta quotidiana, per porre fine all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e per raggiungere la piena uguaglianza civile. www.taayush.org

2- www.facebook.com/youthofsumud

Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII è un’associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio. Fondata nel 1968 da don Oreste Benzi, è impegnata da allora, concretamente e con continuità, nel contrasto all’emarginazione e alla povertà. La Comunità lega la propria vita a quella dei poveri e degli oppressi e vive sempre con loro, ogni giorno.

Attraverso lo strumento della condivisione diretta con gli emarginati, i membri di Comunità non possono chiudere gli occhi davanti alle ingiustizie e anzi lavorano incessantemente per la loro denuncia e rimozione.

Oggi la Comunità siede a tavola, ogni giorno, con oltre 41mila persone nel mondo, grazie a più di 500 realtà di condivisione tra case famiglia, mense per i poveri, centri di accoglienza, comunità terapeutiche, Capanne di Betlemme per i senzatetto, famiglie aperte e case di preghiera. La Comunità opera anche attraverso progetti di emergenza umanitaria e di cooperazione allo sviluppo in molti paesi del mondo.

Infine, è presente nelle zone di conflitto con il proprio Corpo nonviolento di pace Operazione Colomba.

Complessivamente è presente in una quarantina di paesi nei cinque continenti.

Dal 2006 la Comunità Papa Giovanni XXIII è anche presente all’Onu con un ruolo consultivo speciale presso l’Ecosoc (consiglio Economico e Sociale dell’Onu), rendendosi portavoce degli ultimi del mondo, nel foro in cui i leader internazionali prendono le decisioni sulle sorti dell’umanità.

Grazie alla forza dei suoi membri, dei volontari e dei suoi sostenitori, la Comunità Papa Giovanni XXIII porta avanti il grande progetto di solidarietà del suo fondatore: essere famiglia per chi non ce l’ha.

www.apg23.orgwww.operazionecolomba.it

www.facebook.com/OperazioneColomba


Vite che non si arrendono

La prossimità alle persone che vivono in zone di conflitto, o ci hanno vissuto, ha due facce: quella della vicinanza lì (in Palestina, Siria, Libano, Iraq); e quella dell’accoglienza qui, in Italia. Due amici ce le raccontano attraverso 24 storie di incontri. In Cisgiordania come a Torino, ciò che emerge è la speranza di chi resiste, la resilienza dell’umanità.

Fatima vive ad Aleppo, una città distrutta dalla guerra. Ha tre bambini che mostrano i segni della malnutrizione. Accudisce una sorella disabile. Suo marito è morto per un’esplosione. Lei guadagna qualcosa vendendo oggetti che recupera in giro, tra le macerie. A volte trova bombe inesplose che smonta per venderne i pezzi. Disfa ordigni di morte per ricavarne cibo e vita.

Aisha è una giovane somala sbarcata a Lampedusa tempo fa. Dopo anni dalla fuga, sente ancora ogni tanto dentro sé i morsi delle violenze viste e subite.

Le loro sono storie difficili, e Alessandro Ciquera e Marco Canta ce le raccontano trasmettendoci la speranza e la forza di cui sono pervase. Oltre a Fatima e ad Aisha, ci presentano Arsema, ragazza etiope in cerca di casa in Italia; i figli di Hafez che piangono mentre il padre viene portato via dalla polizia militare israeliana; Ola e il suo fratellino, siriani malati di talassemia, profughi in Libano; e poi Mohammed, Karim, Abu Zahra, e altri.

Gli autori de La speranza ha il vestito azzurro, parlano di resilienza, e ce la mostrano nel racconto dei gesti quotidiani di uomini, donne e bambini.

Come Fatima, che tramuta bombe in pane, morte in vita, tutti loro fanno i conti con il male, la sofferenza, facendone il luogo della loro resistenza e, a volte, rinascita.

Alessandro ha 32 anni e fa parte dell’Operazione Colomba. A 18 anni ha fatto il suo primo viaggio in un luogo di conflitto, a Kirkuk, in Iraq, per costruire un campetto da calcio per i bambini, e da allora non ha più smesso di viaggiare per incontrare e condividere. È stato in Palestina per due anni, in Siria, in Albania, nei campi profughi siriani in Libano per tre anni.

In Italia ha lavorato in progetti educativi presso il carcere minorile di Torino, nella scolarizzazione di minori in condizioni socialmente critiche e nell’assistenza alle persone senza fissa dimora.

Da ragazzo è stato animatore, in oratorio a Grugliasco (To), dei figli di Marco.

Marco Canta ha 54 anni, si è formato nella Gioc (Gioventù operaia cristiana), è stato attivo nel Gruppo Abele, presidente della Cooperativa Orso che si occupa, tra le altre cose, di accoglienza di rifugiati, e attualmente è direttore e vicepresidente di Casa Oz, Onlus che offre accoglienza a bambini malati e alle loro famiglie che soggiornano a Torino per il periodo delle cure. È portavoce del Forum del terzo settore del Piemonte.

Alessandro, nel libro racconti di persone che non si arrendono, e che, ad esempio ad At-Tuwani, in Cisgiordania,
resistono alle ingiustizie in modo nonviolento.

«I palestinesi di At-Tuwani e dei villaggi di quell’area, da decenni vivono aggressioni sistematiche.

Loro vorrebbero solo vivere la loro vita, andare ai pascoli, coltivare, fare pozzi, costruire stalle, ma tutti i giorni sono umiliati, minacciati, ostacolati, picchiati, a volte uccisi o arrestati.

Quello che li aiuta è il senso del resistere insieme: non c’è nessuno lì che si salva da solo. Quando qualcuno è arrestato, subito fanno una colletta per gli avvocati, manifestano, chiamano giornalisti.

Quella gente desidera solo rimanere sulla propria terra.

Il fatto che dopo decine di anni di soprusi non se ne siano andati altrove, è un messaggio bello per tutti. I giovani di lì, sanno bene cosa c’è fuori del loro villaggio, però sono consapevoli della loro identità: sono nati lì, le loro famiglie abitano quelle terre da generazioni, e anche loro vi appartengono.

Ecco, in questo tenere insieme la vita normale, semplice, i piccoli gesti, la scuola, il seminare, con l’oppressione, io ci ho sempre visto qualcosa che parla del Vangelo. Lì ho imparato cosa può voler dire un’esistenza senza violenza».

Dove ti ha portato Operazione Colomba negli anni?

«Io sono legato a Operazione Colomba da quando mi sono diplomato. Ho iniziato in Palestina, dove sono stato due anni, poi sono stato in Iraq più di una volta, in Libano per tre anni, in Siria, in Albania. Sempre cercando la condivisione con le persone che vivono situazioni di sofferenza e di conflitto. Mai con l’idea di essere “l’occidentale che va lì a salvare i poveri”, ma con il desiderio di camminare insieme, di partecipare nel mio piccolo a una lotta che magari va vanti da decenni.

In Iraq la gente rischia di morire anche solo facendo gesti semplici, come andare al mercato, a messa, esprimere un pensiero. In Siria ci sono la guerra, l’obbligo del servizio militare, il rischio del carcere o di sparire, le fosse comuni, i villaggi bruciati. Ecco, in Siria ho trovato un dolore grande, e se c’è qualcosa che si può imparare da queste persone è il desiderio di non fermarsi, di rimanere in piedi: anche se vivi sotto una tenda, metti una stufetta, un fiore, un quadretto, provi a far fare i compiti ai bambini. E continui ad avere fede, a vivere la fede nelle ferite che la vita ti ha fatto incontrare».

Nel libro parli molto dei profughi siriani in Libano.

«Quello che mi ha colpito della vita dei profughi è la loro solitudine. Se vivi in un villaggio in Palestina, pur nella violenza, sei a casa tua, hai la tua casetta, le tue pecore, la tua gente. Invece il profugo ha la sensazione di essere dimenticato da tutti, che la sua vita non vale niente, e che, se oggi muore, saranno in pochi ad accorgersene, pochi o nessuno potrà venire al suo funerale, perché ha un amico in Turchia, un altro è morto, un altro fa il servizio militare, un altro è scomparso in prigione, un altro è in Europa, un altro sta provando a prendere una barca per attraversare il Mediterraneo.

Chi sei tu senza le tue relazioni? Tanti ci dicevano: “Non abbiamo nessun altro, a parte Dio e voi”».

Marco, i capitoli che raccontano gli incontri con rifugiati avvenuti a Torino e dintorni, sono tuoi?

«Sì. Il primo incontro con i rifugiati per me è stato nel 2009: sono entrato quasi per caso nell’ex clinica San Paolo di corso Peschiera a Torino che era occupata da 400 rifugiati, provenienti soprattutto dal Corno d’Africa. Quell’incontro ha cambiato la mia vita. Prima non sapevo nemmeno cosa significasse fuggire da contesti di guerra.

La proprietà dell’immobile, a un certo punto, ne aveva chiesto la restituzione, e prefettura e questura avevano deciso per lo sgombero. Da lì è nato “Non solo asilo”, un coordinamento di associazioni, che ha avviato un dialogo, e che ha ottenuto sei mesi di tempo per trovare opportunità per le persone. In poche settimane abbiamo creato una rete di comuni e associazioni che ci ha aiutati ad avviare progetti per 200 persone. Lavoravamo sul modello dell’accoglienza diffusa, e non sulle grandi strutture. La rete dello Sprar si è allargata così in buona parte del Piemonte, e ad Avigliana si è realizzato il primo Cas diffuso (centro accoglienza straordinaria), che poi ha fatto scuola in Italia».

Perché hai voluto raccontare questi tuoi incontri?

«Nel libro raccontiamo storie di persone che hanno una forza, un’energia, una capacità di resilienza tale che, se fossimo in grado di accoglierle e di renderle conosciute tra i giovani, ne avremmo giovamento tutti. Sono storie potenti.

Se pensiamo alla crisi della nostra società, ai ragazzi disillusi che non lavorano e non studiano, le storie di queste persone, che sono riuscite a superare delle tragedie enormi ricostruendo il loro futuro, danno speranza a tutti.

Una delle storie raccontate nel libro è quella di Mohammed, arrivato in Italia come minore non accompagnato. Oggi è un giovane di 22 anni, come mio figlio più grande. Se penso all’influsso positivo che lui ha avuto sui miei figli, mi è chiaro che quando riesci a superare la barriera della non conoscenza, poi accadono cose belle».

E tu Alessandro?

«Ho scritto dei miei incontri con queste persone ferite dalla vita, ma resilienti, perché quando trovi una perla preziosa, non puoi tenerla in tasca. Devi mostrarla. Non sono storie solo nostre. Abbiamo iniziato a scriverle in un tempo difficile, quando sono stati fatti i decreti sicurezza e parlare di questi temi era davvero dura. Volevamo lanciare queste storie come un salvagente».

Luca Lorusso