Italia. Israeliani e palestinesi per la pace

 

Nonviolenti palestinesi e israeliani in Italia per testimoniare il loro lavoro comune per la pace e chiedere la fine della guerra.

Due attivisti israeliani e due palestinesi, accomunati dall’obiezione alla guerra, dal 16 ottobre stanno girando l’Italia per portare le loro testimonianze e il loro appello alla pace in diverse città dal Nord al Sud, incontrando cittadini, studenti, istituzioni.

Chiedono alle istituzioni, all’Unione europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione.

«Vengono da Israele e Palestina, dove il diritto internazionale viene calpestato – recita un comunicato del Movimento nonviolento, organizzatore del tour nell’ambito della Campagna di obiezione alla guerra -, per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza! Lavorano insieme e rifiutano la guerra, l’esercito, le armi, l’odio».

Sono gli israeliani Sofia Orr e Daniel Mizrahi e le palestinesi Tarteel Al-Junaidi e Aisha Omar.

Sofia Orr ha rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nell’Idf, l’esercito israeliano, nel febbraio 2024, ed è stata condannata al carcere militare. Daniel Mizrahi, figlio di coloni ebrei nei territori occupati, ha fatto anche lui obiezione di coscienza, subendo la stessa sorte. La palestinese Tarteel Al-Junaidi è attivista nonviolenta per i diritti umani. Aisha Omar, cresciuta nella Territori palestinesi occupati, sostiene gli obiettori israeliani e ne fa conoscere ai palestinesi l’attività contro la guerra e l’occupazione.

I quattro rappresentano due importanti movimenti: Mesarvot, una rete di giovani israeliani obiettori di coscienza al servizio militare, e Community peacemaker teams (Cpt), sezione palestinese, che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione israeliana.

Mesarvot è una rete che si oppone al regime di occupazione dei territori palestinesi con manifestazioni congiunte israelo-palestinesi in tutto il Paese, chiedendo un accordo sugli ostaggi, la fine del genocidio a Gaza, del conflitto in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica.

I suoi attivisti portano l’attenzione sui crimini commessi dall’esercito e incoraggiano i giovani israeliani ad assumersi la responsabilità personale di disobbedire al governo. In più forniscono sostegno, anche legale, a chi decide di rifiutare il servizio militare in un paese nel quale gli obiettori subiscono lunghe detenzioni e le voci dissidenti vengono represse brutalmente.

Il Cpt è uno tra i molti gruppi palestinesi di resistenza nonviolenta. Lavora contro la violenza dell’occupazione israeliana, in particolare in Cisgiordania, ad esempio con il monitoraggio dei posti di blocco israeliani attraversati dai bambini palestinesi per andare a scuola, documentando le continue violazioni dei diritti umani. Il docufilm «Light», proiettato durante il giro italiano dei quattro attivisti, racconta proprio l’impegno del Cpt.

Il tour è partito il 16 ottobre da Milano, ha toccato le città di Verona, Bologna, Parma, Reggio Emilia e Firenze, ed è arrivato a Roma il 23. Si concluderà domani a Bari in coincidenza della Giornata di mobilitazione nazionale per la pace, «Fermiamo le guerre, il tempo della pace è ora!» organizzata da Rete italiana pace e disarmo in diverse città italiane, tra cui, oltre a Bari, Torino, Firenze, Cagliari, Palermo, Roma, Milano.

Nelle varie tappe (di cui si può leggere il diario sul sito di «Azione nonviolenta»), i quattro testimoni hanno incontrato la cittadinanza durante incontri pubblici, studenti, giornalisti, sindaci, vescovi.

Ieri, 24 ottobre, hanno fatto un’audizione alla Commissione permanente per i diritti umani della Camera dei deputati seguita da un incontro pubblico, un incontro presso il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano e integrale e da una conferenza stampa a Montecitorio.

Come ha scritto Pasquale Pugliese, già presidente del Movimento nonviolento, su Comune.info, «Mentre nessuna organizzazione internazionale sembra essere in grado di fermare la violenza cieca dell’esercito israeliano, che dopo oltre 42.000 vittime palestinesi tra Gaza e Cisgiordania invade il Libano, attacca le basi Unifil, colpisce la Croce Rossa, cerca la guerra con l’Iran; mentre nessun governo occidentale, anche apparentemente dissentendo in pubblico con le sue scelte belliche, si decide in verità a interrompere l’invio di armi al governo di Netanyahu; mentre da oltre un anno grandi manifestazioni in ogni parte del mondo, e nella stessa Israele, non riescono a spezzare la spirale di violenza e di odio; mentre accade tutto questo c’è chi trova il coraggio di resistere dal basso, proprio dentro il cuore di tenebra della guerra, rifiutando la logica della violenza, del nemico e dell’odio: ha il volto di giovanissimi israeliani che rifiutano il servizio militare e di altrettanto giovani palestinesi impegnati nella resistenza nonviolenta».

Luca Lorusso




Nessun luogo è sicuro


Quello che sta accadendo nella striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023 è qualcosa di gravissimo e senza precedenti. Tutti dobbiamo interrogarci e tutti ne pagheremo le conseguenze. Un giornalista lo ha definito «il peggior massacro della storia moderna».

Il 19 giugno scorso è stato presentato alla 56ª sessione dell’Human rights council dell’Onu il rapporto della Commissione internazionale indipendente del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, Gerusalemme est e Israele. L’inchiesta, coraggiosa, dichiara (al punto 73) che «le autorità israeliane e i gruppi armati palestinesi sono responsabili di crimini di guerra e altre gravi violazioni».

«Le autorità israeliane – si legge ai punti 80 e 81 del rapporto – sono responsabili di crimini di guerra, dell’uso della fame come metodo di guerra, di uccisioni e omicidio volontario, di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro i civili, di trasferimenti forzati, di violenza sessuale e trattamenti inumani e crudeli, di detenzione arbitraria e oltraggio verso la dignità personale». E inoltre: «Crimini contro l’umanità come sterminio, assassinii, persecuzione» ai danni della popolazione civile di Gaza.

A sua volta Israele accusa la Commissione d’inchiesta di «discriminazione sistematica anti israeliana».

L’uso dei bombardamenti con armi pesanti, anche in luoghi scelti dallo stesso esercito israeliano come zone di assembramento degli sfollati – ricordiamo, tra tutti, quello della scuola di Nuseirat dell’Unrwa (agenzia Onu per il soccorso dei profughi palestinesi), tra il 5 e il 6 giugno scorso, nel quale sono morte 45 persone di cui 14 bambini -, l’impedire i corridoi umanitari e la distribuzione del cibo, gli assalti e la distruzione degli ospedali che privano i civili malati o feriti delle cure necessarie, non vuol dire attaccare Hamas, ma tutta la popolazione civile di Gaza. E significa prenderla per fame, bombe e privazione delle cure.

Uomini, donne, bambini. Questi ultimi, sulle oltre 37mila vittime conteggiate al momento in cui scriviamo, sarebbero almeno 15mila (al 24 giugno) su una popolazione di circa due milioni di persone. Senza contare i traumi che si porteranno per tutta la vita i sopravvissuti.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), anch’essa parte delle Nazioni Unite, dichiara che «la situazione di fame nella striscia è catastrofica».

Se la condanna degli atti di Hamas del 7 ottobre e successivi, e il rapimento di civili israeliani, è assoluta e incondizionata, essa non giustifica il massacro in atto nella striscia. Inoltre, il governo estremista di Netanyahu sta facendo il gioco degli stessi terroristi, che usano i civili palestinesi come scudi umani e per i loro scopi politici. Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, lo scorso giugno ha detto: «Le vittime civili? Sacrifici necessari».

L’operazione a Gaza sta facendo aumentare il sentimento anti israeliano in tutto il mondo (in America come in Europa), a tutto vantaggio degli estremisti palestinesi.

Prioritaria, inoltre, per il governo israeliano dovrebbe essere la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ma pare che non lo sia.

Le Nazioni Unite stanno denunciando, questa volta con coraggio, gli accadimenti, attirandosi la rabbia di Israele. Pensiamo, invece, che i governi dei «grandi» della terra, a partire dagli Usa, non stiano facendo abbastanza per fermare la carneficina.

Opporsi non significa essere contro Israele e il suo diritto a esistere in pace, significa opporsi a una strage di civili comandata da ragioni politiche da un gabinetto di guerra politico. Una cieca vendetta che peserà sul mondo intero: con ondate di antisemitismo e altri innocenti nel mirino di altri estremisti.

Non è questione di essere pacifisti a oltranza, come qualcuno ci accusa di essere. È solo questione di restare umani.

Marco Bello

 

 

 




Israele-Palestina. Quando il dolore unisce due padri in lutto

Due padri, uno israeliano e uno palestinese, hanno perso entrambi una figlia nel conflitto. Ora testimoniano che l’unica via è quella dell’amicizia e del dialogo. Lo hanno detto anche in un incontro in Vaticano con Papa Francesco.

C’è un grande dolore a unire un padre israeliano e uno palestinese: la perdita di una figlia nel conflitto. Uno strazio che li ha portati a tramutare l’odio in testimonianza.

Sono Rami Elhanan, israeliano, e Bassam Aramin, palestinese. Li incontriamo in Vaticano dove sono stati ricevuti da Papa Francesco. La giornata è piovosa, cercano riparo sotto lo stesso ombrello, si stringono, come fanno da anni per gridare al mondo che nella loro terra si può vivere insieme.

«Volevamo raccontargli che anche noi possiamo vivere in pace, da fratelli nella stessa terra. È stato un incontro straordinario», dicono parlando del Pontefice.

Gli hanno mostrato le fotografie delle loro amate figlie cadute in questa guerra israelo-palestinese che da decenni sembra non trovare via d’uscita. «Io sono ebreo, lui – dice Rami indicando l’amico Bassam – è musulmano, il Papa è cristiano. Ma in fondo siamo tutti umani e possiamo essere fratelli invece di continuare a ucciderci a vicenda». E questo Bassam e Rami lo mettono in pratica non solo nell’amicizia personale ma anche nel loro impegno in due associazioni che nella dilaniata terra del Medio Oriente perseguono la via del dialogo: Il Parents Circle-Families Forum, l’organizzazione di famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso i propri familiari a causa del conflitto, e i Combatants for Peace. «Combattenti, sì, perché, una volta, io e lui combattevamo su fronti opposti», dice Bassam. Lui nella milizia palestinese, Rami nell’esercito israeliano. Ora «combattono» invece dalla stessa parte.

Dal 7 ottobre dello scorso anno il loro impegno ha assunto un maggiore significato: «Noi conosciamo esattamente il sentimento delle altre famiglie, in Israele e a Gaza. Dobbiamo continuare a parlare, a incontrarci e ad agire insieme per una educazione alla non violenza. Significa fare eco in tutto il mondo e comprendere – dicono i due padri – che con questo spargimento di sangue non si andrà da nessuna parte, che il diritto all’autodifesa non dà il diritto alla vendetta».

Copertina del libro di Colum McCann, «Apeirogon»

La loro storia è stata raccontata in un libro, «Apeirogon», con cui l’autore irlandese Colum McCann ha vinto il Premio Terzani 2022.

Era il 1997 quando Smadar Elhanan, una ragazzina di 14 anni, fu uccisa durante un attacco suicida di Hamas a Gerusalemme. Qualche anno dopo, nel 2005, suo padre, Rami, conobbe Bassam Aramin in una manifestazione organizzata dal movimento Combattenti per la pace.

«Per i palestinesi non è un onore avere un amico israeliano, perché li considerano come occupanti, ma io mi sono subito affezionato a Rami e abbiamo scoperto di avere gli stessi valori, alla fine siamo tutti esseri umani», ribadisce Aramin.

Due anni dopo quel primo incontro, il 16 gennaio 2007, anche Bassam avrebbe scoperto il dolore per la perdita della propria bambina: Abir aveva 10 anni, quando un agente di frontiera israeliano le sparò alla nuca. Rami corse al capezzale della figlia dell’amico e ci restò per i due giorni nei quali lei lottò tra la vita e la morte: «È stato come perdere mia figlia una seconda volta», commenta con gli occhi, ancora oggi, velati dalla commozione. «È stato doloroso – spiega Bassam – vedere il senso di colpa sul viso di Rami perché israeliano».

Da quel giorno, Rami e Bassam raccontano la loro storia e l’hanno voluta far conoscere anche a Papa Francesco. Il motivo? «Lanciare il messaggio che c’è un’altra possibilità, un’altra strada. E che questo conflitto non finirà mai se continuiamo a non parlarci».

Manuela Tulli




Da Jenin. «Mi basta morire nella mia terra»


Uomini armati, volti coperti dal passamontagna, droni, cecchini, funerali, cimiteri, morti e feriti. Questa è la Cisgiordania (West Bank). Reportage da Jenin, la piccola Gaza.

Jenin. Un nutrito gruppo di persone si affolla davanti all’uscita dell’ospedale Khalil Suleiman. Ci sono molti ragazzi armati e con il volto coperto da un passamontagna. Alcuni di loro srotolano delle bandiere del partito di Al-Fatah.

Questa notte è morto, in seguito alle ferite riportate dopo l’esplosione di un razzo, Jamal Mashaqa, combattente della resistenza di Jenin. Oggi si celebra il suo funerale. Il corpo viene portato fuori dall’ospedale su una barella, trasportata dai suoi amici. Jamal è avvolto nella bandiera delle «Brigate dei martiri di Al-Aqsa», movimento di cui faceva parte. Attorno alla testa una kefiah. Sul corpo sono posate le armi che usava durante i combattimenti. Il corteo funebre si muove a passo veloce, quasi di corsa. Fa il giro della città. I combattenti sparano in aria, cantano, intonano inni a Dio, ad Hamas, e urlano il nome di Jamal aggiungendo: «La tua morte ci ha spezzato il cuore. Seguiremo l’esempio del tuo martirio».

Sono stati così tanti i morti a Jenin nel 2023, anche prima del 7 ottobre, che è stato necessario creare un nuovo cimitero. È qui che termina la marcia. Jamal viene posato per terra davanti all’imam, ai suoi parenti e agli amici. Si recitano le ultime preghiere, il corpo viene adagiato nella fossa appena scavata.

A pochi passi dalle tombe, un grande murales raffigura la giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, uccisa durante un attacco israeliano, proprio qui, nel 2022.

Jenin, Cisgiordania: durante il corteo funebre i membri delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa si fermano a inneggiare al compagno deceduto sparando in aria. Foto Angelo Calianno.

Martiri e soldati

Dal cimitero, insieme ad altri uomini, mi sposto in un centro sportivo per ragazzi. È qui che, dal 7 ottobre, si tengono tutte le veglie funebri. Ci sono solo uomini, fumano, bevono tè, discutono. Le foto di Jamal, in mimetica, che imbraccia un fucile, sono ovunque.

Qui incontro suo fratello, IIyad Azmi: «Jamal – mi racconta – era un ragazzo sorridente, sempre pronto a scherzare, lo conoscevano tutti per il suo senso dell’umorismo. Noi a Jenin abbiamo sempre rispettato ogni cultura e religione, lo vedi anche tu da quanti cristiani ci sono e che vivono fianco a fianco con noi. Israele pensa di scoraggiarci raid dopo raid. Pensa che distruggere le nostre case, uccidere i nostri giovani, ci spezzerà. Non ha capito che noi non ci arrenderemo mai, non ci piegherà: noi non alzeremo mai bandiera bianca».

Mentre intervisto altri ragazzi, mi si avvicina un uomo: è scortato da due giovani armati. Si presenta usando uno pseudonimo: Abu Arab (tradotto «padre degli arabi», soprannome del poeta della rivoluzione palestinese Ibrahim Mohammed Saleh). Mi chiede chi io sia e cosa stia facendo qui.

Abu Arab è uno dei portavoce del campo di Jenin. Anche lui è stato un combattente, durante la seconda intifada, e ha passato diversi anni in carcere. Quando gli chiedo se i palestinesi, pur avendo pochi mezzi a disposizione, siano davvero in grado di fronteggiare Israele, mi risponde: «Oggi si combatte in maniera diversa rispetto a quando lo facevo io. I nostri ragazzi sanno usare la tecnologia, questo è sicuramente un vantaggio. I nostri combattenti, più che all’unisono, agiscono come “lupi solitari”. Questo li rende più efficaci. La cosa più importante però è che, a differenza degli israeliani, qui sono tutti pronti a combattere per la libertà dei palestinesi, anche se questo vorrà dire aspettare due, tre generazioni. I soldati israeliani, spesso, sono giovani di leva che vengono mandati a combattere, ma vorrebbero essere ovunque tranne che qui, magari su una bella spiaggia di Tel Aviv. I ragazzi della resistenza palestinese invece, sanno che, molto probabilmente, moriranno durante gli scontri. Sono disposti a dare la propria vita come martiri. È questo spirito di sacrificio che manca a Israele, è per questo che non riescono a piegarci o mandarci via».

La moschea di Mahmoud Tawalba nel campo profughi di Jenin. Foto Angelo Calianno.

La piccola Gaza

Il campo profughi di Jenin è nato nella periferia dell’omonima città, costruito per ospitare i palestinesi in fuga durante la Nakba del 1948. Molte famiglie sono arrivate qui da Haifa, provincia dalla quale, nel 1953, cinquemilamila soldati israeliani avevano deportato ottantamila palestinesi.

Anche se quello di Jenin viene chiamato «campo» profughi, non è una tendopoli.

Anche se poverissimo e con infrastrutture pericolanti, è una vera e propria cittadina di ventimila abitanti, fatta di case in muratura, moschee e negozietti. Jenin è anche conosciuta, in questi mesi, come «la piccola Gaza». È qui, infatti, che si concentrano la maggior parte degli attacchi di Israele in Cisgiordania.

I continui raid sono volti a fiaccare quella che è una delle resistenze più coriacee della Palestina: le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo armato del partito di Al-Fatah, nato in questo campo profughi nel 2000, durante la seconda intifada.

I responsabili del campo controllano le mie credenziali, il mio lavoro, gli articoli scritti in passato. Vogliono assicurarsi che riporti la verità su quello che vedrò. Dopo qualche giorno e, dopo essermi fatto conoscere, vengo accolto con molta ospitalità. Comincio a frequentare il campo con regolarità.

Mi ritrovo spesso a chiacchierare con gli anziani e i giovani combattenti. Mi raccontano le loro vicissitudini, quelle delle loro famiglie. Passiamo ore bevendo tè e giocando a backgammon. I raid israeliani, nel frattempo, non si fermano mai e anch’io ne sono testimone.

Bambini accanto a una casa sventrata da un’esplosione nel campo di Balata. Foto Angelo Calianno.

Le modalità degli attacchi

Gli attacchi avvengono sempre nella stessa modalità: cominciano con una ricognizione di droni, seguita dal lancio di ordigni esplosivi. Subito dopo, i soldati installano dei check-point mobili per chiudere ogni varco di ingresso o uscita dal campo. Le operazioni continuano con l’entrata dei bulldozer, che distruggono le strade principali e qualsiasi cosa si trovi sul loro cammino.

Ai mezzi pesanti segue l’ingresso dei soldati. I cecchini si appostano sui punti più alti, i militari entrano nelle case per perquisirle, molto spesso distruggendole e picchiando chi si trova all’interno. I raid, in media, vanno avanti tutta la notte fino a tarda mattinata.

Il 29 novembre, durante l’ennesima incursione, un cecchino spara in testa a un bambino di otto anni: Adam Samer Al-Ghoul. Il bambino è colpevole di aver lanciato un sasso contro un mezzo blindato israeliano. Adam Samer si accascia sul selciato. Un altro ragazzino, di quindici anni, Basil Suleiman, cerca di trascinare il bambino più piccolo al riparo dietro una macchina, ma anche lui viene colpito al petto dallo stesso cecchino.

Durante i raid, i soldati bloccano anche le ambulanze, che, per ore, aspettano all’ingresso del campo. Anche Basil Suleiman muore.

Alla fine delle operazioni, il comando dell’Israel defense forces (Idf) dichiara che i due ragazzi avevano attaccato usando ordigni esplosivi. Ai media israeliani si comunica che, durante il raid a Jenin del 29 novembre, sono stati uccisi «Two high-ranking terrorists», due terroristi di alto grado.

L’attivista ebrea Arna Mer-Khamis (1929-1994). Foto Freedom Theater.

La storia di Arna, l’ebrea

Dal 7 ottobre, a Jenin, ogni giorno c’è almeno un funerale. Quasi sempre si tratta di minori di 18 anni, o comunque giovanissimi. Uno dei luoghi simbolo del campo di Jenin è il Freedom Theater.

Nel 1953, dopo essere stata testimone degli attacchi di Israele contro le case dei palestinesi, Arna Mer-Khamis, ebrea israeliana (1929-1994), decide di andare a Jenin e aiutare le migliaia di arabi in fuga. Arna Mer-Khamis fonda una Ong, porta aiuti in cibo, medicine e contribuisce all’istruzione dei bambini. Durante la prima intifada costruisce anche un teatro: The Stone Theater. Successivamente chiuso. Dopo la morte di Arna Mer- Khamis, suo figlio Juliano, nel 2006, decide di aprire un nuovo teatro: il Freedom Theater. Juliano viene assassinato nel 2011. Nessuno ha mai scoperto chi sia stato. Israele e Palestina, ancora oggi, si accusano a vicenda del suo omicidio.

Oggi, il direttore del teatro è Mustafà Sheta. Mi accoglie facendomi visitare la struttura: «Il teatro è anche una forma di lotta. Ognuno resiste con le armi che ha, noi lo facciamo con l’arte. Per molti, all’ inizio, sembrava una follia avere un teatro in un posto come questo: un campo profughi sempre sotto attacco. Ma è proprio in luoghi come questo che è più necessario. Noi portiamo in scena grandi classici come La fattoria degli animali di Orwell, Alice nel paese delle meraviglie e altri. Ogni rappresentazione è riletta alla luce della situazione palestinese: raccontiamo la nostra storia attraverso opere famose, così che il pubblico possa avere un riferimento. Come puoi vedere, ora non ci è possibile lavorare, dopo il 7 ottobre è diventato troppo pericoloso. Abbiamo spostato le nostre attività nelle scuole fuori dal campo».

Mustafà mi mostra i danni fatti dagli ultimi raid. Pur essendo chiuso, il teatro viene comunque vandalizzato dai soldati dell’Idf. Ci sono fori di proiettili, involucri di granate. Sul palco, Mustafà mi racconta: «Un giorno stavamo facendo uno spettacolo per bambini. Gli israeliani hanno cominciato ad attaccare. I più piccoli si sono stretti ai genitori. Gli attori, nonostante il rumore delle esplosioni, hanno continuato a recitare. Nessuno si è mosso. Quello, per noi, è stato un vero atto di resistenza. È questo che il nostro teatro rappresenta».

Il 13 dicembre, dopo la nostra visita, i soldati israeliani faranno nuovamente irruzione nel teatro, ne distruggeranno l’interno, soprattutto le apparecchiature elettroniche (telecamere, microfoni, schermi e amplificatori). Mustafà Sheta sarà arrestato.

Di lui, ancora oggi, non ci sono più notizie. Insieme a un gruppo di altri giornalisti europei, vicini al teatro, abbiamo scritto all’ufficio pubbliche relazioni delle carceri israeliane – l’Israel prison service – per chiedere informazioni. Nessuna delle nostre domande ha, però, ottenuto risposta.

Nablus e il campo di Balata

Subito dopo Jenin, in Cisgiordania, il secondo luogo più attaccato è il campo profughi di Balata, alla periferia di Nablus. Sorge di fronte alla chiesa del Pozzo di Giacobbe, oggi amministrata dalla diocesi greco ortodossa. Balata è il campo più popolato della Palestina. In mezzo a piccole stradine fangose, qui vivono circa 32.500 persone.

Anche prima del 7 ottobre, gli scontri erano molto frequenti in questa zona.

Molti settlers, i coloni ebrei, si recavano al Pozzo (rientrante nel perimetro di proprietà della chiesa) in pellegrinaggio, armati e scortati dai soldati. A ogni visita, i militari installavano i check-point, chiudevano le strade e i negozi nelle vicinanze. Queste operazioni scatenavano la rabbia dei palestinesi di Balata, che rispondevano attaccando. Così si è andati avanti per decenni. Oggi la chiesa è chiusa e, di conseguenza, anche i pellegrinaggi dei coloni al Pozzo di Giacobbe.

Anche qui, come a Jenin, l’obiettivo di Israele è quello di sconfiggere la resistenza e chi la supporta. Malgrado gli attacchi quotidiani, Balata continua le sue attività, anche in ambito culturale. Per gli abitanti di Nablus, è il simbolo dei giovani che non si vogliono arrendere.

Adhan mostra la facciata della sua casa, distrutta dai soldati israeliani e nascosta da un lenzuolo. Foto Angelo Calianno.

I soldati a casa di Adhan

Quando ci arrivo, alcuni uomini mi mostrano ciò che resta delle proprie case: camere da letto bombardate, buchi sul tetto, fori di proiettile ovunque.

Vengo invitato in una di queste abitazioni, dove una famiglia vuole raccontarmi la sua storia. Ad accompagnarmi c’è Adhan. La facciata della sua casa è coperta da lenzuola per nascondere il danno fatto dai soldati. In questa palazzina di tre piani, vivono venti persone, tutte della stessa famiglia ma di generazioni diverse. Ci accomodiamo in quello che era il soggiorno. Oggi è una stanza vuota con qualche sedia.

La madre di Adhan, Izdehar, mi  serve del tè e mi racconta: «Durante l’ultima irruzione, i militari hanno distrutto tutti i mobili. Quindi, adesso lasciamo la stanza vuota. Non era la prima volta che entravano, usavano spesso questa casa per piazzare i cecchini. Però, in precedenza, prima del 7 ottobre, con i soldati potevamo almeno parlarci, erano più ragionevoli. La violenza e le aggressioni che abbiamo subìto l’ultima volta, sono qualcosa di nuovo. Una notte, abbiamo sentito delle esplosioni, poi l’arrivo dei bulldozer. Era una cosa che accadeva spesso, quindi, ci siamo stretti tra noi aspettando che passasse. Dalla porta sul retro sono arrivati i primi spari, i proiettili hanno perforato le finestre arrivando dentro casa. I soldati hanno sfondato la porta, sono entrati, si sono trovati davanti mio suocero, una persona molto anziana. Lo hanno colpito in testa con il calcio del fucile».

«Mia sorella – continua Adhan – aveva suo figlio piccolo in braccio, ma l’hanno colpita ugualmente. Abbiamo urlato: “Come potete picchiare una donna con un bambino?” Allora hanno radunato tutti noi uomini, ci hanno portato in strada, ammanettati e messi faccia a terra. Hanno cominciato a picchiarci, mio fratello Anas è stato il più colpito. Gli hanno dato così tanti calci in faccia, che ha perso conoscenza. Nonostante questo, un soldato gli ha ordinato di leccare il sangue dal suo stivale. Mio fratello era ormai svenuto, non rispondeva più. Abbiamo chiesto di far arrivare un’ambulanza, ma l’hanno bloccata impedendo a qualsiasi aiuto di arrivare. Lo hanno ridotto così – mi spiega, mostrandomi una foto del fratello in ospedale: la testa bendata, il volto tumefatto e livido -. Avremmo voluto reagire, ma con i fucili puntati in testa, cosa avremmo potuto fare?».

Tutto questo avveniva davanti agli occhi dei bambini, pietrificati nell’assistere a quelle scene. Ci rivolgiamo al fratello piccolo di Adhan, Ahmad di nove anni, chiedendogli cosa abbia visto quella notte: «C’erano i soldati, picchiavano forte gli uomini…». Ahmad si porta le mani al volto, finisce la frase in un pianto strozzato.

Izdehar ci dice ancora: «Durante quei momenti, a noi donne dicevano delle cose che non posso ripeterti, insulti orribili che fanno ancora male. Non mi trovo a mio agio a raccontare queste cose pubblicamente, anche se so che è importante per le persone sapere. Il mondo deve sapere».

Il mio interprete mi sussurra: «I soldati sanno bene cosa offende le donne musulmane. Gli insulti che rivolgono loro sono cose così orribili che nessuna donna li ripeterà mai, tanta è la vergogna».

Il nuovo cimitero del campo profughi di Jenin ospita soprattutto giovani. Foto Angelo Calianno.

I cecchini non sbagliano

Mentre termino l’intervista, la tensione nel campo cresce visibilmente. Dei ragazzini cominciano a posizionare dei grandi massi sulle strade principali. Arrivano gruppi di giovani armati e con il volto coperto. In lontananza si sente il ronzio dei droni: sta arrivando un nuovo raid. Per strada incontro alcuni colleghi fotografi. Appena cominciamo a sentire le esplosioni dei primi droni che bombardano il campo decidiamo di ripararci in un punto più coperto. Mentre camminiamo, i cecchini aprono il fuoco anche contro di noi. Colpiscono bersagli ai nostri lati, sparano contro l’asfalto che abbiamo appena calpestato, contro il taxi che si è fermato per farci salire.

Il tassista ci dice: «I cecchini non sbagliano. Se avessero voluto, sareste già morti. Vi vogliono spaventare».

Durante la mia lunga permanenza in Cisgiordania, le vicessitudini di cui sono stato testimone a Jenin e Nablus si sono ripetute anche a Hebron, Tulkarem, Ramallah. Eppure, anche durante gli attacchi, ogni stazione radiofonica, ogni canale televisivo era sintonizzato su Gaza. Alla fine di ogni raid, anche dopo gli arresti, le umiliazioni e la perdita di decine di familiari, tutti mi dicevano: «Dobbiamo andare avanti per rispetto di quello che sta accadendo a Gaza. Nulla è paragonabile a Gaza. Non possiamo piangere».

Angelo Calianno

Un murale ricorda Shireen Abu Aklehdi, giornalista di Al-Jazeera, uccisa nel maggio 2022.; sono decine i giornalisti uccisi nell”ultima guerra. Foto. Angelo Calianno.

Su MC 01/2024. Essere palestinesi in Cisgiordania / 1: «Cacciati come bestiame dai coloni»

 




Israele. L’avanzata dell’estremismo ultraortodosso

Due giovani ebrei ultraortodossi hanno inveito e sputato contro il monaco benedettino Nikodemus Schnabel, abate dell’Abbazia della Dormizione. Il fatto è avvenuto nella città vecchia di Gerusalemme lo scorso 3 febbraio.

Sputi e insulti verso i cristiani non sono una novità, ma sono ulteriore testimonianza dell’aggressività e dell’estremismo fondamentalista degli ultraortodossi (Haredi) d’Israele. Una questione seria, anche in considerazione dell’aumento di numero (e, conseguentemente, d’influenza politica) di questa parte della popolazione israeliana.

Il loro tasso di crescita è pari a circa il 4% annuo. I fattori alla base di un incremento così alto – spiega il sito del The Israel democracy institute – sono gli elevati tassi di fertilità, un’età media al matrimonio bassa e un gran numero di figli per famiglia. Di conseguenza, la popolazione ultraortodossa in Israele è molto giovane, circa il 60% ha meno di 20 anni, rispetto al 31% della popolazione generale del paese. Nel 2023, gli Haredi contavano circa 1.335.000 persone (rispetto alle 750mila del 2009) e costituivano il 13,6% del totale dei cittadini israeliani. Secondo le previsioni dell’Ufficio centrale di statistica (Cbs), la percentuale degli ultraortodossi dovrebbe raggiungere il 16% già nel 2030.

Linea blu, gli Haredi; linea verde, gli altri ebrei; linea rosa, gli arabi: in Israele, la rapida crescita del numero e dell’influenza degli ultraortodossi costituisce un altro grave problema per la soluzione della questione palestinese. (Grafico da The Israel democracy institute)

Oggi gli ultraortodossi rappresentano (almeno) un terzo dei 650mila coloni israeliani che occupano la Cisgiordania palestinese (West Bank), da essi chiamata con il nome biblico di Giudea e Samaria. La colonizzazione da parte di Tel Aviv è iniziata nel 1967 e si è estesa e rafforzata con i governi di destra guidati dal Likud e, successivamente, integrati dai partiti ultraortodossi. Il conflitto con i 2,8 milioni di palestinesi è costante. A nulla sono valse le risoluzioni dell’Onu contro l’occupazione israeliana. In particolare, la numero 446 del 22 marzo 1979: in essa il Consiglio di sicurezza dell’Onu afferma che la politica e le pratiche di Israele di creare insediamenti nei territori palestinesi e in altri territori arabi occupati dal 1967 non hanno validità legale e costituiscono un serio ostacolo al raggiungimento di una pace globale, giusta e duratura in Medio Oriente. La risoluzione numero 452 del 20 luglio 1979 ribadisce il concetto ed esprime grande preoccupazione per il perseverare del comportamento illegale delle autorità israeliane.

Gli stessi Stati Uniti, principale alleato d’Israele, vedono con crescente fastidio le azioni dei coloni. Tanto che lo scorso 1 febbraio il presidente Joe Biden ha emesso un «ordine esecutivo» (un provvedimento presidenziale con forza di legge) che prende di mira i coloni israeliani in Cisgiordania accusati di aver attaccato palestinesi e attivisti pacifisti israeliani nei territori occupati. L’ordine riguarda un numero limitato di coloni, ma ha un significato politico e simbolico rilevante come si evince dalle parole utilizzate nella sua premessa dove si legge: «La situazione in Cisgiordania – in particolare gli alti livelli di violenza estremista dei coloni, lo sfollamento forzato di persone e villaggi e la distruzione di proprietà – ha raggiunto livelli intollerabili e costituisce una seria minaccia alla pace, alla sicurezza e alla stabilità della Cisgiordania e di Gaza, di Israele e della più ampia regione del Medio Oriente».

Paolo Moiola




«Cacciati come bestiame dai coloni»


La Cisgiordania (West Bank) dovrebbe essere palestinese. In realtà, è occupata da Israele con oltre 500mila coloni. Siamo andati a cercare di capire una situazione che è ingiusta ed esplosiva.

Nella mappa si vedono Gaza e la Cisgiordania (West Bank) con gli insediamenti dei coloni israeliani.

Arrivo in Cisgiordania passando dal valico di «King Hussein bridge», in Giordania. Normalmente, la coda per attraversare il confine è chilometrica. Oggi siamo soltanto in tre a entrare. Il confine, di solito, è affollato da cooperanti, palestinesi che vivono all’estero e viaggiatori. Dal 7 ottobre – giorno dell’attacco di Hamas e dell’inizio della nuova guerra – è semideserto. Quello che sta accadendo a Gaza ha fatto lasciare la Cisgiordania a quasi tutte le Ong straniere.

Per entrare bisogna passare molti controlli, il primo check point israeliano è quello più complicato. Rimango in attesa per circa tre ore, prima di essere interrogato. Mi vengono fatte le domande più disparate: da quelle personali, ai dettagli tecnici sulla mia presenza qui.

Passato il posto di frontiera, i controlli non diventano più facili. Nelle ultime settimane i militari hanno chiuso moltissime strade: a volte ci vogliono sei ore per un percorso che, normalmente, si potrebbe fare in un’ora.

La Cisgiordania è sempre stata un punto nevralgico per tutto il Medioriente. Quello che accade qui ha eco anche in tutte le nazioni confinanti o vicine: Giordania, Egitto, Libano.

Gli scontri, soprattutto in contrapposizione all’occupazione e all’espandersi delle colonie israeliane in Palestina (riconosciute illegali dalle Nazioni Unite nel 1979 con la risoluzione n. 446), sono quasi quotidiani. È proprio dopo l’arrivo delle colonie che sono nati alcuni dei movimenti armati che conosciamo oggi: la Pij (la Jihad islamica) nel 1979, Hamas a Gaza nel 1987.

Nel 2000, iniziando da Gerusalemme e poi espandendosi in Cisgiordania, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, è scoppiata la seconda intifada. Una rivolta che sarebbe durata cinque anni. Al termine di quel conflitto, sarebbero state circa 1.300 le vittime israeliane e più di 6.000 quelle palestinesi, la metà di loro civili, annoverate nelle statistiche come «vittime collaterali». In quegli anni di intifada, sono nati altri gruppi armati come le brigate di al-Aqsa, movimento formatosi alla fine del 2000.

Da 75 anni, cioè dalla «Nakba» del 1948, quando oltre 750mila palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie terre, tra periodi più quieti e picchi di violenze, la tensione in questa parte del mondo non si è mai attenuata.

Cosa accade oggi dopo gli eventi del 7 ottobre? Quali sono le conseguenze dei bombardamenti a Gaza su questa parte della Palestina, soprattutto in quei territori da sempre contesi tra palestinesi e coloni?

Armati e incappucciati, due combattenti della brigata Aqsa di Jenin. Foto Angelo Calianno.

«Cacciati come bestiame»

Abu Hasen all’interno dell’ufficio della «Colonization & wall resistance commission». Foto Angelo Calianno.

A Ramallah ha sede una commissione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata «Colonization & wall resistance commission». Si occupa di fornire assistenza legale e aiuto a tutte quelle persone aggredite dai coloni o che si ritrovano le proprie terre occupate abusivamente. Oltre ai dipendenti governativi, questo gruppo è formato da volontari, anche internazionali, che attuano una resistenza pacifica all’espansione delle colonie. Qui incontro uno dei responsabili: Abu Hasen.

Già tre volte è stato arrestato dai militari israeliani. La detenzione più lunga è stata durante la seconda intifada. Quando gli chiedo il perché dell’arresto, stringe le spalle sorridendo: «Non c’è quasi mai un perché. Li chiamano reati amministrativi. Può essere di tutto: da un post su internet a una parola detta male, a una resistenza a perquisizione. Siamo palestinesi, questo basta per essere arrestati».

Continua raccontandomi: «Devi capire che qui ora è cambiato tutto. Non dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, come molti pensano, ma dal dicembre 2022. L’anno scorso, infatti, Ben Gvir (ministro della sicurezza nazionale israeliano, ndr) ha annesso i coloni nella riserva dell’esercito. I settlers (così come vengono chiamati qui gli abitanti delle colonie) per anni, con il benestare di Israele, hanno preso la nostra terra e perpetrato continui attacchi volti a sfinire la popolazione. Il fine è quello di spingerci ad abbandonare tutto e andare via, un po’ come è successo nel 1948. Accorpando queste persone alle forze armate, hanno praticamente legittimato i coloni ad avere armi e a usarle contro di noi, senza temere nessun tipo di ripercussioni.

A seguito di raid e attacchi, sia da parte dell’Israel defence forces che dei settlers, in Cisgiordania sono state uccise 189 persone, più di 8mila sono stati i feriti. Questo accadeva prima del 7 ottobre. Io non sono mai stato un sostenitore di Hamas, sono membro di Al-Fatah, ma so che quello che ha fatto Hamas è stata la risposta a questa legge e a tutte le morti che ha causato».

Solo un mese fa, Abu Hasen ha subito un nuovo arresto. La detenzione è stata di nove ore durante le quali, però, l’uomo è stato interrogato con metodi di tortura di cui porta ancora i segni addosso.

«Con il nostro gruppo cerchiamo di aiutare e difendere chi continuamente subisce soprusi dai coloni. Mi trovavo vicino a un campo di beduini, da tempo i coloni cercano di espropriarne le terre per continuare l’espansione. Eravamo lì per impedirlo. Sono arrivati i soldati, ci hanno interrogato, hanno trovato un coltello e mi hanno arrestato. Il coltello era un semplice coltello da cucina, ce l’avevamo perché eravamo lì accampati e abbiamo cucinato sul fuoco. Mi hanno portato in una delle tende dei beduini, mi hanno colpito con il calcio del fucile sulla testa, più volte. Mi hanno urinato addosso, preso a calci. Poi mi hanno ordinato di mangiare gli escrementi delle capre. Mi hanno insultato e urlato che ero un terrorista di Hamas. Ho chiesto loro di smetterla tentando di spiegare che io non c’entravo nulla con Hamas, ma loro hanno continuato.

Penso mi abbia salvato solo il fatto che parlo ebraico. Ho cominciato a spiegarmi nella loro lingua e poi, dopo nove ore, mi hanno lasciato andare. Il risultato è che ora non torno più a casa. Sono così traumatizzato che, quando non dormo in quest’ufficio, cambio luogo ogni notte per paura che mi vengano a prendere».

Gli chiedo: che messaggio vorresti dare a chi conosce poco la storia di questi luoghi? «Sembra che, per Israele, l’unica soluzione possibile sia quella di mandarci tutti via da questa terra, mandarci in Egitto, in Giordania, come se fossimo bestiame. Io vorrei dire che siamo esseri umani anche noi, così come gli ucraini. Perché per loro tutta la comunità internazionale si è mobilitata e per noi no? Sto vedendo in tutto il mondo le manifestazioni, in nostro supporto, per denunciare il genocidio che stanno compiendo a Gaza. Questo a noi dà molta forza. Secondo me, il cambiamento si avrà solo quando in Occidente le persone, ognuna nella propria nazione, si faranno valere contro quei governi che appoggiano Israele».

A Taybeh, villaggio cristiano

Per verificare le storie di Abu Hasen, decido di andare nei villaggi da lui menzionati. Mi trovo a circa trenta chilometri da Gerusalemme, nel villaggio di Taybeh. Taybeh è l’unico villaggio, in Palestina, ad essere interamente abitato da cristiani. Oggi ci vivono appena 1.300 persone, sono 8.000 invece i suoi cittadini residenti all’estero. Il nome Taybeh è stato dato al villaggio durante il dominio di Saladino. In antichità invece, la cittadina era conosciuta come Efraim, città della Samaria dove, come riportato nel Vangelo di Giovanni, Gesù dimorò alcuni giorni prima della passione.

In una delle vie del paese, incontro padre Jack Nobel, sacerdote della chiesa cattolica greco-melchita di San Giorgio. Padre Jack ha studiato a Roma e, in un perfetto italiano, mi racconta: «Qui siamo tutti cristiani: melchiti, cattolici latini e ortodossi. Prima della guerra, c’erano tantissimi pellegrini che si fermavano a Taybeh, sulla via o di ritorno da Gerusalemme. Io ho sempre detto a tutti i turisti che passavano: “Pensate, voi qui potete andare e viaggiare ovunque e muovervi liberamente. Io, nonostante sia un sacerdote, nonostante parli diverse lingue correttamente, non sono libero di andare in pellegrinaggio a pregare in Terra Santa. Questo perché sono palestinese”. La situazione ora, ovviamente, è peggiorata. I continui attacchi dei coloni, soprattutto durante la raccolta delle olive, hanno spaventato davvero tantissima gente».

Gli chiedo: perché tanta violenza verso di voi, padre? Chi sono esattamente i coloni e cosa vogliono? «Questa è una storia lunga decenni. I coloni, in Israele, sono conosciuti come: “hilltop youth” (i giovani delle colline). Sono estremisti di destra, gente violenta che Israele non vuole, e quindi li spedisce da noi. Quello che vogliono è semplice: che ce ne andiamo. Per loro questa terra gli spetta di diritto, perché promessa da Dio». L’ideologia degli hilltop youth prende ispirazione dal partito clandestino ebraico del Brit HaBirionim («Alleanza degli uomini forti») e dal cananismo, entrambi movimenti attivi tra gli anni ’30 e ’40. Il pensiero di questi gruppi si ispirava al regime fascista di Benito Mussolini.

Continuando a camminare per il villaggio, la gente del luogo mi indica la casa di Eliana e Khalil, una coppia cristiana recentemente aggredita dai coloni. I due gentili anziani mi accolgono alla porta. Khalil ha 77 anni, Eliana 69. Lei porta una vistosa fasciatura al braccio. Mi offrono del caffè e dei dolci.

La donna racconta: «Il 26 ottobre stavamo raccogliendo le olive. Alle nostre spalle sono arrivati dodici settlers. Hanno cominciato a distruggerci l’attrezzatura e a prenderci a bastonate. Avevano delle lunghe spranghe con delle punte di metallo. Hanno cercato di colpirmi in testa, io mi sono riparata con il braccio e così me lo hanno rotto in due punti. I coloni ci hanno sempre provocato. Spesso troviamo i terreni danneggiati, gli alberi d’ulivo tagliati o bruciati. Ci lanciano sassi e bottiglie contro la casa, ma delle aggressioni con tanta violenza non c’erano ancora state qui. In questa situazione, nemmeno i nostri figli possono raggiungerci perché, con tutti check point e le strade chiuse, viaggiare per i palestinesi è diventato impossibile. Poi però vediamo quello che accade a Gaza, e allora ci riteniamo fortunati».

Coppia cristiana di Taybeh aggredita dai coloni (foto Angelo Calianno).

Le immagini dei martiri

Mentre continuo le interviste attraverso i villaggi di questa zona, mi arriva la notizia che ad Al Am’ari, il campo profughi alla periferia di Ramallah, c’è stato un altro attacco delle forze dell’Idf. Decido di rientrare per documentare la situazione. Al Am’ ari è uno dei campi più piccoli di tutta la Cisgiordania, oggi ci vivono 15mila persone. Questi campi sono soggetti a raid e arresti continui perché, secondo le forze di sicurezza israeliane, sono rifugio di molti combattenti palestinesi.

Entrando in questi luoghi, le prime cose che si notano sono le fotografie. Ci sono immagini ovunque, quasi sempre di giovani ragazzi: foto sui poster, volti disegnati sui muri, fotografie appese alle insegne dei negozi, spille raffiguranti dei volti: sono i martiri. I martiri non sono sempre combattenti, è considerato martire chiunque abbia perso la vita durante gli scontri, i raid e gli arresti da parte di Israele.

Alcuni bambini, sorridendo, mi mostrano la loro medaglietta raffigurante una delle vittime. L’ultima, in ordine cronologico: Mohannad Jad Al-haq, ucciso il 9 di novembre. I bambini mi conducono nella casa dove vive la sua famiglia, invitandomi a bussare.

Qui incontro la madre di Mohannad e il fratello: «Mio fratello non aveva fatto davvero nulla. Non si è mai interessato di politica, non aveva mai avuto a che fare con la resistenza. Stava andando a lavorare quella mattina, erano le sette e trenta, si trovava per strada quando è cominciato il raid. Ha chiamato la moglie per dirle di rimanere a casa, perché i militari israeliani stavano entrando nel campo. È stato raggiunto da un proiettile allo stomaco, è morto in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il medico ci ha detto che era stato colpito da un proiettile “dum dum”». I «dum dum» sono pallottole a espansione. Sono cioè progettate per espandersi all’interno del corpo del bersaglio, aumentando così la gravità delle ferite.

Sua madre Khadija, orgogliosa, mi mostra la medaglietta che ha al collo con la foto del figlio: «È il terzo ragazzo a morire nel gruppo degli amici di Mohannad. Nessuno di loro si è mai interessato alle fazioni politiche. Siamo gente semplice che vuole lavorare. Quando Mohannad è morto tutti piangevano, ma io no, sorridevo. Perché Dio mi ha dato la forza di sopportare tutto questo».

Angelo Calianno

Striscione in onore di Mohannad su una strada del campo di Al Am’ ari. Foto Angelo Calianno.

 

 




L’umanità si è persa


Hadar, David, Fouad erano ragazzi israeliani. Erano studenti di architettura di Tel Aviv e Haifa, e li avevo conosciuti durante un tirocinio a Barcellona. Eravamo diventati amici. Io non conoscevo quasi nulla di Israele e della questione palestinese. Non avevo preconcetti. Loro raramente mi parlavano della situazione nel Paese. A volte si lamentavano del servizio militare che, per tutte e tutti durava tre anni e continuava poi per molto tempo con addestramenti periodici. Un giorno David si spinse a parlarmi degli attentati terroristici, dicendo: «Non ti puoi immaginare l’impressione che fa vedere l’esito di un’esplosione in piena città. E l’odore di carne bruciata…». Avevamo tutti appena finito l’università, avevamo grandi speranze e sogni. I loro, però, erano condizionati dal vivere in un luogo nel quale dovevano costantemente fare attenzione alla loro sicurezza, dove l’organizzazione dello Stato e della vita dei cittadini era impostata sul controllo e sulla protezione personale. Dove essere armati non era poi così strano.

Una decina di anni dopo, a inizio 2001, visitai Israele e la Cisgiordania. Si era nel pieno delle seconda intifada e i Territori palestinesi erano stati chiusi per ridurre al minimo la circolazione delle persone. C’erano stati diversi attentati in Israele a opera di Hamas e della Jihad islamica, per cui c’erano molti controlli e la tensione era alta. I militari ai check point per entrare e uscire dalla Cisgiordania seguivano rigide misure di sicurezza. Erano ragazzi e ragazze che mi ricordarono i miei amici.

Parlai con molte persone: ebrei israeliani, arabi israeliani, palestinesi della Cisgiordania, arabi cristiani, e alcuni stranieri, in particolare religiose e religiosi che vivevano da anni in Israele o nei Territori.

Entrai in contatto con molteplici realtà. Mi sorpresi nel vedere Gerusalemme divisa in quartieri così diversi tra loro. E poi i luoghi santi per ebrei e musulmani, vicini fisicamente ma lontani allo stesso tempo. Al Aqsa, nel mezzo della spianata delle moschee (terzo luogo santo dell’Islam), quasi sorretta dal muro del pianto, sacro per gli ebrei. Capii che gli arabi con nazionalità israeliana (circa il 20% della popolazione), vivevano una sorta di apartheid, con tanto di indicazione dell’etnia sulla carta d’identità.

Vidi le colonie israeliane in Cisgiordania (quindi fuori dello Stato di Israele): «Agglomerati urbani, ultramoderni, con tutti i servizi. Dominano perché costruiti in cima alle colline, spesso vicine alla città palestinesi, le circondano in tutte le direzioni. […] Sono collegate da superstrade, proibite ai palestinesi, e protette dai militari israeliani, che in poche decine di minuti portano alle città israeliane», scrivevo all’epoca. «Abitate normalmente da ebrei ultraortodossi sempre armati, e da cittadini israeliani attirati dalle facilitazioni economiche offerte dallo Stato». E ancora: «È una presenza surreale, inquietante anche a livello psicologico, soprattutto se si pensa che gli abitanti delle due parti (colonie e città palestinesi), così vicini, conducono vite completamente diverse, non hanno gli stessi diritti, e non c’è alcun contatto tra loro».

Vidi le case di Betlemme e di Ramallah bombardate dall’esercito israeliano.

Visitai un kibbuz nel nord di Israele, e parlai con chi ci viveva della loro esperienza comunitaria e pacifica. Una vita un po’ isolata e un po’ protetta allo stesso tempo.

Le tante facce di un piccolo fazzoletto di terra, concentrato di storia e di umanità.

Sono passati più di vent’anni e il mondo si è come dimenticato dei palestinesi. I «due stati per due popoli» non sono stati realizzati. Tuttavia, con gli accordi di Abramo del 2020, era iniziato un processo di distensione dei rapporti tra stati arabi e Israele, e così gli estremisti hanno reagito, avendo la meglio, come spesso accade.

«Hamas è il peggior nemico dei palestinesi». Non solo i suoi miliziani hanno compiuto una carneficina mai vista, ma usano gli abitanti di Gaza come scudi umani per difendersi. E che dire del governo israeliano e del suo esercito che si accanisce contro due milioni di civili – inclusi bambini e malati -, anziché preoccuparsi di liberare gli ostaggi?

Nella mia piccola esperienza dell’area ho visto due popoli, molto simili, che potrebbero dialogare, collaborare, ma si affidano a dirigenti estremisti che li portano a combattersi.

Talvolta penso ad Hadar, David, Fouad. Che ne sarà stato della loro vita blindata?

Intanto il motto di Vittorio Arrigoni, «restiamo umani», rimane inascoltato.

 




Palestina. Un Gesù Bambino con la kefiah

Meno di trenta chilometri separano Ramallah da Betlemme. Nonostante questo, soprattutto per i Palestinesi, recarsi alla cittadina della natività è diventato quasi impossibile.

I taxi aggirano i check-point israeliani passando dalle montagne, dalle valli senza strade asfaltate, tra i vicoli dei villaggi e gli uliveti. È impossibile evitarli tutti. In uno, quello principale sulla congiunzione che va verso Gerusalemme, ogni macchina viene ispezionata con cura. Molte sono le persone che vengono fatte scendere per essere perquisite. A volte ci vogliono ore. Per questo ci si sposta solo se strettamente necessario.

Natale 2023: una Betlemme vuota e triste. (Foto Angelo Calianno)

Normalmente, in questo periodo prenatalizio, Betlemme è affollata di turisti e pellegrini che si recano in visita alla basilica della natività. Centinaia sono i negozi di articoli religiosi e souvenir, oggi quasi tutti chiusi. Betlemme vive di turismo per il 70%. Dal 7 ottobre però, non è più così. Pur essendo domenica, sono pochissimi i fedeli che hanno assistito alla messa. Lo spiazzo antistante la basilica, sempre pullulante di macchine e autobus, è tristemente vuoto.

Entrando all’interno della Basilica, incontro padre Athanasios, uno dei sacerdoti greco ortodossi della chiesa. Racconta: «Io sono qui da più di 30 anni. Ho vissuto entrambe le intifada, ma non ho mai visto la chiesa così vuota come in questi ultimi due mesi. Non solo la chiesa, guardati attorno, tutti i negozi sono chiusi. Sono intere famiglie che dipendono dal turismo religioso. Queste persone possono resistere con i propri risparmi per un po’. Poi sarà davvero impossibile, se qualcosa non cambia presto. Noi celebreremo, come sempre, tutte le funzioni. Ma verranno solo i fedeli di Betlemme, per chi vive nelle città e nei villaggi vicini, sarà impossibile spostarsi».

Una signora, che ha appena acceso una candela all’interno della grotta della natività, dice: «Noi cristiani siamo sempre meno qui. I miei figli sono in America, hanno trovato lavoro lì e non torneranno. I fedeli rimasti sono quasi solo persone della mia generazione, tutti anziani. I cristiani, però, non vanno via per un problema di convivenza con i musulmani, anzi, viviamo assolutamente fianco a fianco senza nessuna difficoltà. La maggior parte delle persone va via perché l’occupazione militare israeliana è diventata soffocante. Fa poca differenza se musulmani o cristiani, per loro siamo Palestinesi, e quindi non abbiamo diritti».

La cappella nella grotta, normalmente, è il punto più affollato della basilica. La piccola scalinata porta ad uno spazio ristrettissimo. Soprattutto a Natale, ci vogliono ore di fila per accedervi. Oggi è totalmente vuota. Sono presenti solo due suore, scese qui per accendere una candela.

Spostandomi verso il centro, ritrovo nei fatti le parole di padre Athanasios, una lunga via deserta fatta di negozi dalle porte chiuse. La città si rianima verso il centro, lì dove ci sono i bazar arabi. In queste stradine trovo la Chiesa evangelico luterana della natività. Questo luogo è salito, di recente, agli onori della cronaca per il suo presepe.

In questa particolare natività si rappresenta Gaza. Gesù Bambino è avvolto da una kefiah e giace su un mucchio di macerie. Il suo artefice è il reverendo Munther Isaac, giovane pastore palestinese. Mi confessa: «Non mi aspettavo tutto questo clamore mediatico. Da quando ho realizzato il presepe, mi richiedono anche dieci interviste al giorno. Sono esausto. Oggi sono venuti anche quelli della Rai, a loro ho detto: “Non dovreste essere qui. Questa chiesa non è una notizia. Dovreste documentare quello che sta accadendo a Gaza”».

La moschea di Omar Ibn Al-Khattab sorge proprio di fronte alla basilica della natività. Spesso, le campane della chiesa risuonano contemporaneamente al canto del muezzin, il richiamo alla preghiera per i musulmani. Betlemme è sempre stato un grande esempio di convivenza tra religioni.

Quindici anni fa, la percentuale di cristiani della cittadina era dell’80%. Oggi, causa le continue limitazioni imposte da Israele, i cristiani sono appena il 10% degli abitanti di Betlemme.

Lo scorso 29 novembre, le autorità locali hanno annunciato che si terranno le messe, ma, festeggiamenti, processioni e i tradizionali concerti verranno annullati, per solidarietà nei confronti della popolazione di Gaza.

Angelo Calianno da Betlemme




Cisgiordania, vita e morte nei campi profughi

Tulkarem (Cisgiordania) – Sabato scorso, 25 novembre, nel campo profughi adiacente la città di Tulkarem, sono stati giustiziati due uomini palestinesi. L’accusa era quella di aver collaborato con l’Idf (Israeli defence force).

Mappa della Palestina con Gaza (retta da Hamas) e la West Bank o Cisgiordania (retta dall’Autorità nazionale palestinese). In alto. a sinistra, è segnata la città di Tulkarm (Tulkarem), di cui parla questo nostro servizio. (Immagine di World Atlas)

Il campo di Tulkarem è nato nella periferia dell’omonima città nel 1950. Esso è stato allestito dalle Nazioni Unite subito dopo la «Nakba» (la catastrofe, in arabo) del 1948, quando l’occupazione israeliana costrinse all’esodo circa 750mila arabi palestinesi.

Immagine della «Nakba», l’esodo palestinese del 1948. (Foto Eldan David/Pressebüro der Regierung Israels/picture alliance /dpa)

Oggi qui vivono diecimila persone. Da sempre, ma soprattutto dall’arrivo delle colonie nel 1967, i campi profughi sono i più attaccati dalle forze israeliane. I movimenti di resistenza all’occupazione e le brigate armate nascono quasi sempre in questo contesto.

Quello di Tulkarem in particolare è stato uno dei più colpiti di tutta la Cisgiordania tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023. Un gruppo di giovani, a volte giovanissimi, si è armato formando una propria squadra di combattenti che, con il passare dei mesi, è diventato sempre più grande: la brigata Tulkarem.

A differenza di quello che accade in altri campi, per esempio a Jenin, dove i «fighters» sono braccia armate di partiti politici (come le brigate Aqsa per il partito di Al-Fatah), la brigata Tulkarem è indipendente e non segue alcuna ideologia. In questo caso, essa è nata esclusivamente a difesa della città e del campo e per questo non sposta mai il suo raggio d’azione.

I simboli di Al-Fatah e di Hamas, fazioni palestinesi contrapposte.

Qui, soprattutto a partire da marzo 2023, la resistenza ha pian piano respinto le truppe israeliane che hanno smesso di entrare nel centro abitato, limitandosi ad attacchi con droni e artiglieria. Questo almeno fino a settembre, quando, i soldati dell’Idf sono tornati a fare irruzione con più regolarità. I raid, in città, così come in tutta la Cisgiordania, sono poi diventati operazioni quasi giornaliere dopo l’offensiva di Hamas del 7 ottobre.

Hamas-Iran: il leader di Hamas, Ismail Haniyeh (al centro), con l’ayatollah Ali Khamenei, leader supremo della Repubblica islamica dell’Iran, a Teheran, lo scorso 21 giugno 2023.

Almeno secondo le prime notizie trapelate, i due uomini giustiziati sono stati accusati di aver facilitato queste nuove ondate di raid, fornendo ai servizi segreti israeliani preziose informazioni logistiche. Sono stati ritenuti responsabili di tradimento e accusati di aver causato la morte di tredici palestinesi all’interno del campo.

Bandiera d’Israele. (Foto Taylor Brandon-Unsplash)

I network locali si sono divisi sul metodo di esecuzione. I media israeliani hanno parlato di morte tramite impiccagione eseguita da Hamas. Secondo un’altra versione, i due uomini sarebbero stati uccisi e in seguito appesi alle porte della città come monito. Nella mattinata successiva sono arrivate notizie più precise: Hamas non è stato mai coinvolto in questa operazione. Al momento, non ci sono prove e video che mostrano i corpi esposti. L’unica cosa certa è che i due uomini accusati di tradimento sono stati fucilati e, in seguito, portati in giro per la città per mostrarne il volto. Le autorità palestinesi non si sono espresse sull’accaduto.

Con il passare del tempo, i gruppi armati stanno proliferando e reclutando sempre più giovani nelle proprie file. Per molti, vista la totale assenza delle autorità governative, questi gruppi sono l’unica forza di resistenza riconosciuta. Terroristi per Israele, liberatori per il popolo palestinese, i combattenti spesso ingaggiano battaglie anche contro la stessa Autorità nazionale palestinese (Anp), accusata di collaborare più con Israele invece che essere dalla parte del proprio popolo.

Angelo Calianno, da Ramallah

 




Da Gaza ad Haiti. Bambini nei conflitti

Più di 400 milioni di minori vivono oggi in aree di conflitto. Tra il 2005 e il 2022, secondo le Nazioni Unite, almeno 120mila bambini sono stati uccisi o mutilati.
In poco più di un mese, dal 7 ottobre al 15 novembre, il conflitto tra Israele e Hamas ha ucciso 4.642 bambini (di cui 33 israeliani e 4.609 nella striscia di Gaza) e ne ha feriti almeno 9mila.
I dati dell’Unicef su sei conflitti che oggi si consumano in diverse regioni del mondo.

Erano 56 i conflitti armati nel mondo nel 2022 secondo l’ultimo Sipri Yearbook 2023. Per la maggior parte guerre interne ai singoli paesi.
Dal 7 ottobre scorso un nuovo conflitto si è aggiunto alla lista, quello tra Israele e Hamas, assumendo da subito i contorni di una guerra tra le più sanguinose e spietate degli ultimi anni.

In occasione della giornata dedicata ai diritti dei minori, il 20 novembre, l’Unicef ha diffuso un breve report nel quale fa il punto sulla situazione dei bambini in sei paesi in conflitto: Palestina, Haiti, Siria, Sudan, Ucraina, Yemen.

Più di 400 milioni di minori vivono oggi in aree di conflitto. Tra il 2005 e il 2022, secondo le Nazioni Unite, almeno 120mila bambini sono stati uccisi o mutilati.

In poco più di un mese, dal 7 ottobre al 15 novembre, il conflitto tra Israele e Hamas ha ucciso 4.642 bambini (di cui 33 israeliani e 4.609 nella striscia di Gaza) e ne ha feriti almeno 9mila. Altri 1.500 bambini risultano dispersi nella striscia di Gaza, presumibilmente sotto le macerie, scrive l’Unicef. Sono 30 i bambini israeliani prigionieri.

Questo in un contesto di ferocia che vede nella Striscia più di 3 milioni di persone ridotte in stato di necessità (di cui 1 milioni di minori), 1,5 milioni di sfollati (dei quali i bambini sono la metà) che non hanno accesso all’acqua e a condizioni igieniche sicure.
A Gaza un ospedale su tre e due strutture sanitarie primarie su tre sono chiusi. «155.000 donne in stato di gravidanza e allattamento necessitano di assistenza sanitaria primaria – scrive ancora il brief dell’Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia – e 337.000 bambini sotto i 5 anni sono a rischio di malnutrizione acuta. […] Almeno il 55% della rete idrica è stata danneggiata. […] 275 edifici scolastici hanno subito danni […]. Si tratta di oltre il 56% di tutte le infrastrutture scolastiche».

Il brief dell’Unicef offre altri dati su altri conflitti: in Ucraina, dal 24 febbraio 2022 all’8 ottobre 2023 oltre 560 bambini sono stati uccisi e quasi 1.200 feriti, soprattutto a causa dei bombardamenti, in un contesto di guerra che vede oggi quasi 11 milioni di persone in fuga: 5,1 milioni di sfollati interni e 5,8 milioni di rifugiati in altri paesi.

In Siria, a causa di oltre 12 anni di conflitto e del terremoto di inizio febbraio 2023 che ha provocato 6mila morti e più di 12mila feriti, ci sono 15,3 milioni di persone che necessitano di assistenza (quasi il 70% della popolazione), «7 milioni di bambini, 2,6 milioni di persone con disabilità, 5,3 milioni di sfollati interni», scrive l’Unicef. «Oltre la metà degli sfollati si trova nella Siria nord occidentale. Il 90% delle famiglie vive in povertà e il 55% è in condizioni di insicurezza alimentare. […] Secondo i dati delle Nazioni Unite dall’inizio del conflitto, circa 13.000 bambini in Siria sono stati uccisi o feriti. […] oltre 609.900 bambini sotto i 5 anni, soffrono di malnutrizione cronica. […] Il numero di bambini tra i 6 e i 59 mesi che soffrono di malnutrizione acuta grave è aumentato del 48% fra il 2021 e il 2022».

In Yemen «tra marzo 2015 e novembre 2022, le Nazioni Unite hanno verificato che oltre 11.000 bambini sono stati uccisi o gravemente feriti. Oltre 4.000 bambini sono stati reclutati e utilizzati dalle parti in conflitto e si sono verificati oltre 900 attacchi e uso militare di strutture scolastiche e sanitarie». Oltre 2,3 milioni di bambini vivono in campi per sfollati interni nei quali hanno uno scarso accesso all’acqua, al cibo, ai servizi sanitari, all’istruzione; 2,2 milioni soffrono di malnutrizione acuta.

In Sudan, il conflitto esploso il 15 aprile 2023 ha provocato un numero elevatissimo di sfollati interni (arrivati a 7,1 milioni ad agosto, 4,4 milioni a ottobre) e 1,2 milioni di rifugiati in altri paesi. Tra questi, si stima che i bambini siano circa 3 milioni. «700.000 bambini colpiti da malnutrizione acuta grave rischiano di non ricevere le cure e hanno un rischio di morte 11 volte maggiore rispetto ai loro coetanei. 7,4 milioni di bambini non hanno accesso all’acqua potabile», scrive l’Unicef, e prosegue: «Sono ben 19 milioni i bambini sudanesi che non possono tornare nelle aule scolastiche, il che fa di questa situazione una delle peggiori crisi dell’istruzione al mondo».

Haiti è il sesto paese preso in considerazione dalla pubblicazione del Fondo della Nazioni Unite per l’infanzia (ne abbiamo parlato qui e qui). Nel paese caraibico «circa metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria, compresi quasi 3 milioni di bambini, vittime di una complessa storia di povertà, instabilità politica e rischi naturali». Circa 2 milioni di persone vivono in aree del paese che risultano controllate da gruppi armati. Da inizio 2023 al 30 settembre «sono stati registrati 5.599 casi di violenza legati a gruppi armati, tra cui 3.156 uccisioni». Molti bambini sono stati feriti o uccisi durante scontri a fuoco, altri sono stati reclutati nei gruppi armati.
Oggi sono circa 115mila i bambini che soffrono di malnutrizione acuta grave, il 30% in più rispetto al 2022.

Se i dati non offrono la comprensione dei motivi politici, economici, ideologici dei molti conflitti che insanguinano il mondo, né suggerimenti per la loro risoluzione, offrono però la possibilità di considerare la loro violenta assurdità.

Luca Lorusso