Mondo. Ha vinto la teologia fossile

C’è stata una continuità tra la Cop28 e la Cop29: entrambe le conferenze sul clima sono state organizzate in «petrostati», paesi produttori di idrocarburi. Si è passati, infatti, dagli Emirati arabi uniti (2023) all’Azerbaijan (2024). Ipocrita dunque stupirsi che, sia nel primo che nel secondo caso, il risultato in tema di mitigazione climatica e transizione energetica sia stato nullo: tante parole, qualche promessa, pochi o pochissimi risultati.

Che a Baku le cose si sarebbero messe male si era capito fin dall’inizio. La ventinovesima Conferenza delle parti (Cop) è iniziata l’11 novembre, pochi giorni dopo la vittoria elettorale di Donald Trump, noto per il suo negazionismo climatico e prossimo presidente degli Stati Uniti, il secondo più grande emettitore di gas serra dopo la Cina. Il magnate statunitense ha fatto immediatamente proseliti: il presidente argentino di ultradestra Javier Milei ha ordinato il ritiro della sua delegazione.

Nella giornata d’apertura, ha parlato il padrone di casa, il presidente e dittatore Ilyam Aliyev. Figlio di Heydar Aliyev, alla guida del Paese dal 1993 al 2003, Ilyam Aliyev è al potere dal 2004, essendo stato (teorico) vincitore di quattro consecutive elezioni. Nel suo discorso inaugurale, l’uomo ha dato il proprio benvenuto ai partecipanti e, dopo aver elogiato il proprio Paese (che, tra l’altro, occupa con la forza la regione armena del Nagorno-Karabakh) e criticato l’Occidente, ha fatto chiaramente intendere che l’ipotizzata transizione energetica dovrà attendere. Furbissima la sua spiegazione: gas e petrolio sono «un dono di Dio». Per inciso, l’Azerbaijan ci ricorda che gran parte delle riserve mondiali di idrocarburi è in mano a stati dittatoriali: Russia, Arabia Saudita, Iran, Venezuela. Tutte dittature che si reggono sulla produzione e vendita di gas e petrolio.

Oltre che a rallentare il cambiamento climatico, la transizione energetica sarebbe anche una scelta morale a favore della democrazia e della libertà.

A Baku, dopo dieci giorni di discussioni improduttive (soprattutto sui soldi da destinare ai paesi poveri o in via di sviluppo di Africa, Asia e America Latina per affrontare le emergenze climatiche e la transizione), la Cop29 è stata chiusa – domenica 24 novembre – in ritardo di un giorno e mezzo sul calendario. L’accordo raggiunto prevede trecento miliardi di dollari all’anno (promessi, non elargiti), che sono poco più di nulla di fronte alla gravità dei problemi.

Come si sono comportati i paesi più importanti? L’Arabia Saudita, di gran lunga il primo dei petrostati, ha lavorato – apertamente e di nascosto – per ostacolare ogni accordo che prevedesse un riferimento all’abbandono delle fonti fossili (la cosiddetta decarbonizzazione). Quanto alla Cina, primo inquinatore e seconda economia mondiale, è clamoroso che essa contribuirà ai finanziamenti per il clima in maniera volontaria, a differenza dei paesi ricchi che sono obbligati. Per gli Stati Uniti, secondo inquinatore e prima economia, occorrerà invece attendere l’insediamento di Trump 2, ma l’anti ambientalismo dichiarato del tycoon induce all’assoluto pessimismo.

Infine, riguardo all’Unione europea, attore tra i più avanzati nel contrasto ai cambiamenti climatici, il suo attivismo è stato frenato dalle divisioni interne prodotte dall’avanzata dei partiti sovranisti, ma – a conti fatti – rimane il protagonista più serio.

Nel 2025, la Cop30 si svolgerà in Brasile, a Belém, la porta d’ingresso dell’Amazzonia, uno degli ecosistemi mondiali più importanti e più in sofferenza.

Paolo Moiola