Il 20 aprile scorso papa Francesco ha reso omaggio a uno dei vescovi italiani più amati. Nel 25esimo anniversario della morte di don Tonino, il pontefice è andato a pregare sulla sua tomba. Un segno che il messaggio del vescovo pugliese è sempre di grande attualità. In queste pagine il ricordo appassionato di un missionario della Consolata, che è stato suo allievo.
Carissimo don Tonino, ho deciso a scriverti una lettera, conscio che tu la conosci già. Scrivo una lettera pur sapendo che, come al solito, non mi risponderai, per di più non me la boccerai come «fuori tema» e forse neanche la leggerai.
So che a te piace leggere, nonostante viviamo in un’epoca in cui si scrive per masse che non leggono e si insegna a persone che non ascoltano. Ultimamente avrai notato che si scrive moltissimo su di te, specialmente ora che è ufficiale: il papa Francesco è venuto a pregare sulla tua tomba monumentale, ad Alessano, e a celebrare l’Eucarestia a Molfetta, proprio nell’anniversario del tuo Dies Natalis (in questo caso, 25° anniversario della morte, avvenuta il 20 aprile 1993, ndr).
Tutto fa capire che sei prossimo a essere riconosciuto «beato» e «santo profeta» del XX secolo. Veramente, per i poveri di Gesù che ti hanno conosciuto, sei santo da quando hanno saputo che non saresti più andato a trovarli perché eri andato in cielo. Di certo intercedi per la conversione di molti, perché accolgano l’amore di Dio nella loro vita e diventino canali di misericordia per i meno amati di questa umanità, come sei stato tu.
Scrivono molto su di te, ma mi chiedo con linguaggio salentino: «Sarà tutto oro quello che cola?». Certamente meriti anche di più, sono sicuro che, se la gente comune potesse scrivere qualcosa, scriverebbe la buona notizia che ancora traspare dalla tua indimenticabile vita.
Tu, echeggiando gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ci insegnavi che per grazia del battesimo non solo individualmente, ma anche comunitariamente, siamo incoraggiati dallo Spirito a crescere e camminare come «chiesa santa e gioiosa» che trasuda l’amore di Dio in azione: comunità profetica, sacerdotale e regale. Non mi sorprenderei se tu volessi continuare a tirare le orecchie a tanti di noi e a sussurrare a papa Francesco il tuo dispiacere di essere proclamato beato da solo. Sicuramente il tuo desiderio sarebbe che il pontefice proclamasse beata o santa la parrocchia «Natività beata Maria Vergine» di Tricase, o la «Chiesa locale di Molfetta», o il movimento «Pax Christi». Sì, avrebbe più senso e più incisività per il mondo in cui viviamo. Se un testimone come te provoca uno scossone di rinnovamento nello Spirito di Dio, certamente una parrocchia o diocesi santa, provocherebbe un terremoto di grazia per scardinare fin dalle fondamenta il regno diabolico che ci strangola.
Sono contento di ricordarti, perché sei stato un uomo che ha dato senso e gusto alla propria vita e a quella di chi ha incontrato. Come le cacce al tesoro che organizzavi per noi, per farci sognare, per ricercare su riviste e libri gli avvenimenti e le scienze del mondo, per aiutarci a non aver paura a scorgere l’amico Gesù sul cammino di ogni giorno, vissuto con semplicità e responsabilità.
Conoscevi molto bene e a memoria la Parola di Dio, la Divina Commedia e altri scritti della letteratura italiana, ma conoscevi anche ogni tuo «pargolo» spirituale. Mi ricordo la relazione del primo anno di seminario, corrispondente alla mia prima media: «Rocco è un ragazzo buono». Queste sono le prime parole di Dio di fronte al suo creato, così me le hai scritte tu, lette dal parroco, monsignor Giuseppe Zocco e da mio padre Riccardo, seguite da parole d’incoraggiamento da parte loro.
Tu hai parlato con simboli, come i presepi, il primo che mi ricordo, nel 1973, costruito nel parlatorio del seminario di Ugento. Sulla porta avevi collocato dei compensati con alcuni articoli di giornali appiccicati sopra, chiaramente notizie scelte da tutto il mondo, poi davanti c’erano le immagini della natività, con delle catene intorno alla culla di Gesù. Chi ammirava la culla poteva soprattutto leggere: «Signore vieni a sciogliere le nostre catene». Come fanciullo, non mi interessavano più gli effetti delle lampade a mercurio poste sulle montagne e vallate, percorse dai pastori e le loro pecore, ma volevo sapere il significato di quelle parole vicino alla culla.
Che dire dei canti liturgici? Non mi ricordo quale novena fosse quando ci hai portati tutti e trenta in una delle confraternite di Ugento. Ricordo però il contenuto della tua predica, la spiegazione del canto conosciuto da tutti: «Esci dalla tua terra e va’». Ancora adesso mi rammento quello che hai detto e cresce d’intensità con la mia esperienza missionaria e il ricordo della tua testimonianza di vita.
Durante quella messa, quando una disabile cercava di scambiare il segno di pace rivolgendosi verso di te, tu sei sceso dall’altare, non solo per stringerle la mano, ma anche per abbracciarla.
Don Tonino, certamente il tuo gesto più espressivo, per noi del seminario Minore di Ugento, è stato in terza media, quando hai ospitato una famiglia sfrattata. È stato come un seme di mille altri semi che hai sparso nel tuo andare nel campo del Signore.
Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino
Come il Buon Pastore
Hai parlato spesso della Madonna e di tua madre, due donne che portano lo stesso nome. Ci portavi a pregare Gesù all’ombra di Maria, e negli anni in cui ti ho conosciuto, tra il 1973 e il 1976, quando frequentavo le scuole medie da seminarista, quasi tutti i giorni pregavamo il rosario insieme, a volte anche completo e di solito passeggiando.
Ci parlavi poco, invece, di tuo padre Tommaso, maresciallo dei carabinieri, forse per evitare momenti di commozione. Lo avevi perso infatti all’età di circa sei anni. Non vivevi però quest’assenza come un vuoto, essendo tu stesso diventato come un padre per i tuoi due fratelli più giovani e poi per noi seminaristi. Un anno, prima della celebrazione del 4 novembre, considerando le medaglie presso il monumento dei caduti, hai condiviso alcuni tuoi sentimenti con un gruppo di noi seminaristi. Praticamente, quelle medaglie al valore militare non potevi sopportarle, pensando a tante mogli private dei loro mariti e a genitori cui erano stati strappati i figli. Le medaglie al valore militare non avevano per te lo stesso significato delle medaglie e dei trofei vinti dai tuoi seminaristi nelle competizioni sportive o per la costruzione del miglior presepio della provincia.
Non credo che tu, don Tonino, facessi distinzioni e contrapposizioni tra «casa» e «chiesa». La «chiesa del grembiule», divenuta famosa fin dai primi anni del tuo episcopato, ebbe sicuramente la sua origine nella tua casa di Alessano, così come la riflessione sulla «stola» trovò origine nella chiesa della tua parrocchia natale.
Ricordo che una volta, in seminario, ci hai presentato il significato della stola sulle spalle del prete. Mi colpì molto l’invito a prepararci per indossarla come segno della nostra partecipazione alla missione del Buon Pastore, venuto a cercare la pecorella smarrita per riportarla all’ovile, caricandosela con dolcezza sulle spalle. Grembiule e stola, tue immagini preferite, mi hanno sempre aiutato a ripensare il servizio cristiano come servizio fatto con umiltà e dinamismo di carità.
La stola, poi, mi ricorda in particolare che il potere e l’autorità del pastore cristiano stanno nel servizio che scaturisce da quel «Pane spezzato per tutti», fonte di tutto il significato teologico di ministro e ministero.
Contemplazione e azione
Insistevi perché andassimo oltre il perimetro delle nostre amicizie, delle nostre certezze e anche della chiesa per incontrare quelle pecorelle, e accompagnarle con saggezza e tenerezza. Sottolineavi la necessità di avere un «amore vigoroso», capace di farsi carico e di caricarci sulle nostre spalle coloro che non avevano la forza di camminare da soli. E ribadivi che santi come Luigi Gonzaga erano grandi sì a causa della loro preghiera, ma soprattutto per aver avuto il coraggio di caricarsi alcuni ammalati per portarli all’ospedale. Contemplazione e azione sono state caratteristiche inscindibili della tua esperienza di vita, aureole che ti proclamano tra i santi missionari del nostro tempo. Credo che per conoscerti bene, don Tonino, non basti leggere i tuoi innumerevoli scritti. Occorrerebbe penetrare nel cuore del popolo che ti ha conosciuto, che vibrava alle tue parole e che con te ha celebrato l’Eucarestia, per conoscere meglio i valori che proponevi e la potenza di contagio che avevi sulla gente. Eri un pastore capace di trasfondere in chi incontravi l’amore del Signore e dei fratelli.
Avevi una capacità di comunicazione e di relazione straordinaria, vero profeta anche in questo areopago moderno. Sapevi evidenziare gli aspetti positivi presenti in ogni persona, per dare sempre coraggio e speranza.
E chissà come è stato bello l’incontro con il Padre celeste, visto che hai saputo sempre essere propositivo nel travaglio nostalgico della ricerca del suo volto paterno.
Rocco Marra
Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino
Solo Dio può salvare il Centrafrica
Centrafrica, dal Carmel di Bangui ci scrive padre Federico Trinchero |
Il primo maggio 2018, durante la messa a Notre Dame de Fatima, – una parrocchia di Bangui capitale della Repubblica Centrafricana (Centrafrica) – un gruppo di miliziani ha lanciato un attacco con granate sui fedeli. Sedici i morti – tra i quali il sacerdote – e un centinaio i feriti. È l’ennesimo atto di una guerra di potere iniziata nel 2012, e che è stata trasformata in conflitto etnico-religioso. La testimonianza di un missionario a Bangui.
«Nei momenti più difficili emergono degli eroi e non dubito che degli eroi esistano nel Centrafrica per alzarsi, come un solo uomo, per dire no alla violenza, no alla barbarie, no alla distruzione di se stessi». È questo l’appello che l’arcivescovo di Bangui, il cardinale Dieudonné Nzapalainga, ha rivolto alla capitale e all’intera nazione in questi giorni drammatici, carichi di tensione e di tristezza.
Cos’è successo a Bangui?
La mattina del primo maggio, durante una celebrazione nella parrocchia di Notre Dame de Fatima (a poca distanza dal nostro convento), un gruppo armato proveniente dal quartiere Km5 (Pk5 è un’enclave a maggioranza musulmana, da anni il focolaio principale delle tensioni della capitale) ha aperto il fuoco sulla gente in preghiera provocando 16 morti e un centinaio di feriti. L’incursione è avvenuta come rappresaglia in reazione a un tentativo da parte delle forze dell’ordine di catturare alcuni elementi di questo gruppo armato che, di fatto, tiene in ostaggio la capitale e alcuni degli stessi musulmani del quartiere.
I fedeli a Fatima avevano appena proclamato la loro fede e stava per iniziare l’offertorio. Ma la messa è continuata con il sacrificio di sedici cristiani, tra i quali un sacerdote, l’abbé Albert Tungumale Baba. Lo scontro è poi continuato per giorni in altri quartieri della città provocando altri morti, altri feriti e la distruzione di due moschee.
nella Repubblica Centrafricana un massacro tira l’altro
L’episodio del primo maggio, che ha ferito e lasciato quasi incredula l’intera città, è avvenuto inoltre a poche settimane dell’uccisione a Séko (nel centro del paese) di un altro sacerdote, l’abbé Désiré Angbabata, insieme a undici suoi parrocchiani (assassinio avvenuto il 21 marzo 2018).
L’abbé Albert, settantun anni, tra i sacerdoti più anziani del clero di Bangui, era un pastore stimato e conosciuto per la sua semplicità e simpatia, e soprattutto per la sua opera discreta e infaticabile in favore della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Durante le fasi più acute della guerra aveva accolto per diversi anni, nella sua parrocchia vicinissima al Km5, migliaia di profughi provenienti dai quartieri vicini. L’abbé Albert, inoltre, era a tutti noto per il suo grande amore per il sango, la lingua nazionale della Repubblica Centrafricana, non particolarmente ricca di vocaboli. L’abbé Albert riusciva a tradurre ogni parola (senza usare il francese), con soluzioni geniali o giri di parole divertenti. Una volta, mentre eravamo in macchina insieme, tradusse pure il mio nome, decretando che mi si doveva chiamare Bwa (che in sango significa sacerdote) Federiki.
Salvare il Centrafrica
In un’intervista l’abbé Albert aveva detto che solo Dio può ormai salvare il Centrafrica. Non aveva tutti i torti. A salvare il Centrafrica ci hanno provato, e ci stanno ancora provando, in tanti: l’esercito nazionale, le truppe dell’Unione africana, la missione francese (che ha comunque il grande merito di aver impedito che il conflitto diventasse un massacro), i soldati dell’Unione europea, poi la Minusca, la grande missione dell’Onu (che, pur con tutti i suoi limiti, resta al momento l’unica soluzione possibile) e ora sono all’orizzonte anche i russi. Ci ha provato pure papa Francesco che, con la sua visita nel novembre del 2015, era riuscito a regalare una tregua sufficiente per eleggere democraticamente un nuovo presidente. Con il tempo, purtroppo, l’effetto di quella visita è come svanito e l’occasione di voltare pagina è stata per l’ennesima volta sprecata. Gli scontri si sono moltiplicati su tutta l’estensione del paese e quella pace, che avevamo appena accarezzato, sembra quasi più lontana di prima.
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Una guerra, perché?
Perché è iniziata questa guerra? E perché sembra impossibile arrestarla? Le guerre sono sempre complesse, iniziano per tanti motivi ed evolvono nel tempo. Anche per chi abita qui da anni è difficile spiegare le vere ragioni del conflitto e, ancor di più, suggerire la soluzione giusta per spegnere l’incendio evitando che si propaghi ora qui, ora là – quasi come i fuochi della savana – lasciando solo morti, distruzione, paura e scoraggiamento. Attualmente i due campi avversari non sono neppure così nettamente distinguibili, come nei primi anni della guerra, tra Seleka (la coalizione delle milizie a maggioranza musulmana, tra cui anche mercenari di altri paesi) e gli anti-balaka (le milizie di autodifesa, sorte a difesa della popolazione del paese, a maggioranza cristiana, ma dalle quali i vescovi hanno sempre preso le distanze). La Seleka è ufficialmente sciolta. Ogni gruppo di ribelli ha il suo capo, i suoi obiettivi e la sua zona d’influenza (ad esempio l’Unione per la pace in Centrafrica è il gruppo che ha compiuto l’attacco a Séko, ndr). Non c’è più quella guerra casa per casa, quartiere per quartiere che Bangui aveva conosciuto nel 2013 e nel 2014. Ora si tratta di battaglie che hanno per protagonisti gruppi di autodifesa, i soldati dell’Onu o le forze dell’ordine. Tre quarti del paese sono come fuori dal controllo dell’autorità dello stato.
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Guerra per le risorse
La guerra nel Centrafrica, iniziata di fatto già nel 2012, non è uno scontro confessionale o etnico. Si tratta piuttosto dell’ennesimo conflitto per la conquista del potere e per lo sfruttamento delle ricchezze di cui abbonda il sottosuolo (ad esempio i diamanti, ndr). Purtroppo, l’elemento confessionale si è inserito violentemente, avvelenando quella convivenza tra cristiani e musulmani che faceva del Centrafrica – in un tempo ormai lontano – un esempio di coabitazione pacifica. Seko e Fatima confermano che per ritornare alla situazione precedente la strada è ancora lunga.
Durante l’omelia, in occasione dei funerali del sacerdote ucciso e di alcune delle vittime, il cardinale di Bangui ha messo tutti con le spalle al muro denunciando l’inerzia del governo, la lentezza dell’Onu e il rischio che i cristiani cedano allo sconforto o, peggio ancora, alla logica della violenza e della vendetta. C’è un nemico insidioso che sta distruggendo il Centrafrica. E questo nemico, ha scandito il Cardinale, è il diavolo. Solo le armi della fede possono vincerlo.
Bangui, ferita al cuore della sua fede, non è arrabbiata con Dio. È arrabbiata piuttosto con quegli uomini che non vogliono la pace e, quasi obbedendo a un’agenda nascosta, si ostinano a bloccare il paese, come se fosse ineluttabilmente condannato alla miseria e alla guerra. Bangui e tutto il Centrafica sono in cerca di eroi – tra i governanti, i soldati, i giovani – che si alzino come un solo uomo e dicano no alla guerra e sì alla pace.
In seguito al massacro di Fatima, e al linciaggio di due musulmani per rappresaglia, il cardinale Dieudonné Nzapalainga invita alla calma: «Cosa abbiamo fatto di questo paese? Colpi di stato, ammutinamenti, ribellioni a ripetizione. I risultati sono davanti a noi: abbiamo morti, saccheggi e distruzione. Gli ultimi drammatici avvenimenti ci ricordano che la violenza non porta soluzioni ai nostri problemi».
Pubblichiamo parte della sua predica al funerale delle vittime del primo maggio.
Cari fratelli e sorelle,
l’arcidiocesi di Bangui è in lutto. Piange i suoi figli. Le nostre lacrime non si fermano da quando abbiamo saputo dell’atto terroristico, barbaro, commesso alla parrocchia Notre Dame de Fatima, durante la grande celebrazione eucaristica del primo maggio scorso. Un sentimento di tristezza, di collera, di desolazione abita il nostro cuore e ci fa sprofondare in una dura prova. Che fare?
Dopo alcuni momenti di preghiera e di riflessione, abbiamo la certezza che il Signore non abbandona mai coloro che credono in lui. Nei momenti di grande tribolazione viene in loro soccorso per liberarli, consolarli, medicare le loro ferite e asciugare le loro lacrime. Ecco perché abbiamo scelto di tenere gli stessi testi liturgici letti a Fatima. Non chiudiamo il nostro cuore, ma ascoltiamo la voce del Signore che ci parla, perché lui solo è nostro rifugio, nostra salvezza.
Nella prima lettura, Paolo ha subito l’aggressione dei giudei venuti da Antiochia. L’hanno lapidato e portato fuori dalla città pensando che fosse morto. Il loro piano era di mettere fine all’annuncio della Buona novella in quella città. Per questo, occorreva uccidere Paolo. Ma hanno fallito. Il testo continua: «Il giorno successivo con Barnaba, Paolo parte per Derbé. Annunciarono la Buona novella … e fecero un buon numero di discepoli». […]
Questo testo è una vera profezia. L’abbé Tungumale Baba è stato aggredito, ucciso. Il suo corpo trascinato nella città di Bangui. I suoi aggressori hanno pensato di aver vinto. No, non potranno mai eliminare la Chiesa cattolica. Non potranno mai mettere fine all’annuncio della Buona novella a Fatima. Paolo dopo l’aggressione diceva: «Dobbiamo passare molte prove, per entrare nel regno di Dio». Sì, nel nome della nostra fede, l’abbé Tungumale Baba e gli altri fedeli che hanno trovato la morte a Fatima, hanno vissuto le loro prove e sono oggi nel regno di Dio.
Nel Vangelo proclamato Gesù diceva ai suoi discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non è alla maniera del mondo che ve la do. Che il vostro cuore non sia sconvolto né spaventato». Ecco un’altra frase profetica che descrive la situazione che viviamo. Tutti noi siamo sconvolti. Tutti noi siamo spaventati. Il nostro vivere insieme, la nostra coesione sociale, la nostra unità nazionale è stata violata e rimessa in questione dai nemici della pace.
L’ora è grave, perché la crisi è profonda e multidimensionale, con aspetti nascosti, di chi tira i fili, nell’ombra, e chi non ha alcuna considerazione per l’uomo. I nemici della pace hanno il loro piano; è per questo che dobbiamo essere vigilanti per non cedere ad alcuna manipolazione. Dobbiamo prendere le distanze e giocare il nostro ruolo di sentinelle, di vedette, di chi guarda lontano e agisce con prudenza e virtù.
Il discorso di papa Francesco durante la sua visita a Bangui, può aiutarci a capire la nostra crisi. Il papa afferma che la violenza è un’azione del diavolo; le persone cadono sotto il potere del male: «Tutte le nostre comunità soffrono indistintamente dell’ingiustizia e dell’odio cieco che il diavolo libera», diceva il santo Padre. Per conseguenza, noi siamo impegnati in una battaglia spirituale […]. Il diavolo si scatena contro di noi, perché siamo la capitale spirituale del mondo. La prima Porta santa del giubileo della misericordia, la terra benedetta da Dio. Noi andiamo a combattere e vincere con le armi della fede. Per questo facciamo nostre le raccomandazioni di san Paolo […].
Padre Federico, Natale 2014, nel campo profughi del convento dei Carmelitani di Bangui.
A coloro che ci governano noi esprimiamo la nostra riconoscenza per gli sforzi fatti nella formazione dei nostri militari. D’altronde noi vi lanciamo questo appello: prendete in maniera risoluta e determinata la vostra responsabilità. Il popolo soffre e chiede protezione. Domani rischia di essere tardi. Il nemico che abbiamo di fronte non ha pietà per nessuno. È pronto a colpire ad ogni occasione. Il ritardo nell’intervento ha lasciato il campo libero al nemico. Noi contiamo i nostri morti e i nostri feriti. Vi chiedo di rivedere il vostro sistema di difesa e la vostra strategia per un’azione coordinata ed efficace delle nostre forze di difesa nazionale.
Alla comunità internazionale, e in particolare alla Minusca (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Centrafrica, ndr): noi vi ringraziamo per la vostra presenza al capezzale della nazione centrafricana, e l’appoggio al processo di pace in corso. Ciò nonostante vogliamo attirare la vostra attenzione sulla lentezza degli interventi e la mancanza di professionalità di certi contingenti. Noi sappiamo che voi avete efficaci mezzi di comunicazione. Quando sentite il nostro Sos, per favore, venite presto per proteggerci e salvarci. E siamo convinti che Dio ci darà la forza di fare sempre meglio. Noi vi reiteriamo il desiderio della popolazione di vedere una buona coordinazione tra la Minusca e le forze di difesa nazionale. Assumetevi la vostra responsabilità, in nome di Dio.
Cari fratelli e sorelle, certo abbiamo perso dei cari membri della nostra famiglia, ma teniamo le testimonianze viventi del loro passaggio in mezzo a noi. […]
Figlio mio Baba, ci mancherai. Ho di te il ricordo di un pastore instancabile che amava il suo ministero. Un prete umile. Non una sola volta ti ho visto in collera. Tu accettavi volentieri gli scherzi dei tuoi confratelli. Il tuo amore per il sango (la lingua africana più diffusa, ndr) ci appassionava. Tu eri un prete coraggioso. Amavi l’Eucarestia e la celebravi ogni giorno. In carica nella Commissione diocesana giustizia e pace, operavi per il dialogo interreligioso e per la pace. Hai fatto la scelta di abitare in una casa molto vicina alla tua parrocchia, anche se questa abitazione era vicina a Km5. Sì, figlio, tu hai vissuto quello che predicavi.
Il Signore ti ha dato la grazia. Hai trovato la morte durante la celebrazione dell’Eucarestia che amavi. Il Vangelo proclamato quel giorno parlava della pace per la quale tu operavi. Fedele servitore, entra nella gioia del tuo maestro. […] Non dimenticarti della tua famiglia. Due giorni prima di morire, a un funerale, all’omelia dicevi di non aver paura della morte, ma di considerarla come un’amica, perché ci permette di vedere Dio. […]
Tra vendetta e perdono, intervista di Paolo Moiola con padre Leonel Narváez Gómez |
Il prossimo 24 novembre saranno trascorsi due anni dalla firma degli accordi di pace. La Colombia è ancora un paese polarizzato, con politici e popolazione divisi tra vendetta e perdono. A dispetto dei problemi, padre Leonel Narváez Gómez, fondatore e presidente della pluripremiata Fundación para la reconciliación, è ottimista. Secondo il missionario, gli accordi di pace sono tra i migliori mai sottoscritti nel mondo. È però indispensabile passare da una «economia politica dell’odio» a una «cultura del perdono e della riconciliazione». Partendo da questo cambio individuale e collettivo sarà possibile raggiungere una «pace sostenibile».
Bogotá. Quando parla, usa molto le mani come per dare più forza alle sue parole. Parole comunque scelte con cura, mai banali. La storia personale di padre Leonel Narváez Gómez, colombiano e missionario della Consolata, è ricca di tappe ma sempre in un’unica direzione. Sembra infatti che, fin dall’inizio, la sua strada fosse segnata da uno scopo preciso: affrontare e superare le problematiche psicologiche e sociali che la guerra induce nelle persone e nella collettività.
Padre Leonel è originario dello stesso luogo (Genova, Quindio) nel quale nacque Pedro Antonio Marín Marín (alias Manuel Marulanda Vélez detto Tirofijo, 1930-2008), il fondatore delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie di Colombia. «La cosa curiosa è che non solo eravamo della stessa cittadina ma compivamo gli anni nello stesso giorno, il 13 maggio. Molti anni dopo queste coincidenze mi daranno l’opportunità di stringere un’amicizia – se così possiamo chiamarla – con il gran capo delle Farc». A parte il luogo e il giorno di nascita, le strade intraprese dai due compaesani sono molto diverse: Leonel – di 19 anni più giovane – studia per diventare sacerdote, Manuel imbocca la strada della lotta armata. I due si troveranno per la prima volta faccia a faccia in circostanze particolari.
Diventato missionario, nel 1977 padre Leonel parte per il Kenya, dove rimarrà per 11 anni. Qui ha modo di toccare con mano le conseguenze dei conflitti in Sudan, Etiopia, Mozambico, Rwanda, Eritrea, Somalia, Sudafrica. Tornato in patria, nel 1989 va in Caquetá e Putumayo (Amazzonia colombiana), dove la guerra civile tra l’esercito (e milizie paramilitari) e le Farc è quotidianità.
Forte della sua conoscenza del compaesano Marulanda e degli altri leader del movimento guerrigliero, il missionario affianca mons. Luis Augusto Castro, mediatore ufficiale per il governo dell’allora presidente Andrés Pastrana, nei negoziati con le Farc. Nel frattempo, è anche assessore del Comitato generale e della sicurezza del municipio di San Vicente del Caguán, centro della cosiddetta zona di distensione durante i tre anni di negoziati (dal 1998 al 2001). All’epoca l’accordo non verrà raggiunto.
Dopo un decennio in Amazzonia, padre Leonel decide di prendersi tre anni sabbatici per approfondire il tema del conflitto nelle Università di Cambridge e Harvard. È nel famoso ateneo statunitense che elabora una proposta metodologica per insegnare il perdono e la riconciliazione in ambiti di guerra. Rientrato in Colombia, per concretizzare la propria idea, nel 2003 crea la Fundación para la reconciliación, istituzione di cui è tuttora presidente. Avendo come obiettivo ultimo la soluzione dei conflitti e la conquista di una pace duratura, in 15 anni di vita la Fondazione elabora modelli pedagogici e di alfabetizzazione emozionale e crea centri e scuole di perdono e riconciliazione (queste ultime note con l’acronimo di EsPeRe). Per il suo operato l’istituzione guidata da padre Leonel ottiene vari riconoscimenti, nazionali e internazionali, tra cui il Premio Unesco di educazione alla pace (2006).
«Oggi siamo presenti in 21 paesi del mondo», precisa con comprensibile orgoglio.
Gli accordi migliori del mondo
Padre Leonel, partiamo dagli accordi di pace tra governo e Farc sottoscritti nel novembre del 2016. Lei come li giudica?
«Voglio essere il più neutrale possibile, ma i negoziati colombiani hanno prodotto i migliori accordi di pace mai sottoscritti nel mondo, almeno fino a questo momento. Non lo sostengo io ma esperti ed accademici. Adesso è il tempo della loro applicazione».
Su quali elementi si basa questo giudizio largamente positivo?
«Sul fatto che i negoziati hanno affrontato sei questioni chiave divenute altrettanti pilastri degli accordi finali.
I sei pilastri sono i seguenti: riforma rurale e terra, inserimento e partecipazione politica degli ex combattenti, fine del conflitto, droga e coltivazioni di coca, questione delle vittime e verifica degli accordi».
Rispetto al primo, quello della terra, si ritiene che esso sia stato elemento scatenante del conflitto.
«In Colombia la distribuzione delle terre è sempre stata molto diseguale. Si calcola che sia uno dei paesi più diseguali in tema di proprietà terriera. La pace passa senz’altro per una riforma agraria che ha avuto molti tentativi di soluzione politica ma che mai sono stati portati a termine. Non so se raggiungeremo l’obiettivo in quest’occasione. Personalmente lo ritengo molto difficile a causa della difficoltà a recuperare le terre perdute e della quantità delle persone allontanate dalle campagne. Il problema è molto grave».
Sull’inserimento e sulla partecipazione politica degli ex guerriglieri il dibattito e le polemiche sono state (e tuttora sono) fortissime.
«Per fortuna, è già stata approvata la partecipazione politica di 10 candidati ex Farc (le persone – 2 donne e 8 uomini – sono già state designate: 5 al Senato e 5 alla Camera, ndr). Ciò ha generato molte discussioni nella popolazione, perché non si riesce a immaginare che alcuni supposti criminali ora possano diventare legislatori del paese.
Il problema è: se debbono essere giudicati prima o possono già entrare in politica. Sono già entrati e ora si dibatte su cosa succederà se fossero giudicati colpevoli».
Cosa s’intende concretamente per fine del conflitto?
«La consegna delle armi, la concentrazione degli ex combattenti in 28 zone rurali del paese, il processo di smobilitazione e di reinserimento nella società. Questo è un processo in stato molto avanzato. La consegna di armi, la smobilitazione sono state un successo.
Debbo segnalare che al loro passaggio i guerriglieri sono stati celebrati e applauditi dalla popolazione. C’era felicità nel vedere queste donne e uomini andare a consegnare le armi».
Il quarto pilastro degli accordi di pace riguarda le coltivazioni illecite.
«Il problema delle droghe è enorme. Si calcola che in Colombia ci siano 400mila famiglie che dipendono dalla coltivazione della coca (e, meno, di oppio e marijuana), che qui trova un terreno molto adatto. La Colombia ha, inoltre, migliaia di chimici esperti nella produzione della pasta basica di cocaina.
Il fatto è che dall’estero c’è una domanda tremenda. E anche la Colombia ha incrementato il proprio consumo. Insomma, c’è più domanda che offerta. Per il campesino l’attrazione non è tanto il denaro, quanto il cash immediato, la commercializzazione assicurata, la facilità di trasporto, i prezzi allettanti, l’assistenza di esperti in loco, la facile reperibilità dei prodotti chimici. Se parliamo di coltivazioni sostitutive, soltanto un prodotto che offra tutto questo potrà avere successo.
Il problema della coca è internazionale perché è una catena produttiva che comporta l’utilizzo di prodotti chimici e varie intermediazioni. Sfortunatamente, quasi sempre si finisce con il colpire l’anello più debole di questa catena: il contadino, colui che ha la colpa minore. Nell’accordo tra governo e guerriglia c’è anche il divieto alla fumigazione (distruzione delle piantagioni attraverso la dispersione di glifosato con aerei o – è cosa recentissima – con droni, ndr). Su questo c’è però un’enorme pressione contraria degli Stati Uniti perché si riveda la decisione e si torni al grande business dei prodotti chimici e della fumigazione».
Il quinto pilastro riguarda le vittime, che si contano in quasi otto milioni.
«Il cuore di tutto, secondo me. I mediatori hanno messo le vittime al centro delle negoziazioni di pace e questa è una novità positiva rispetto alle altre trattative che sono state fatte nel mondo. Ricordo che i rappresentanti delle vittime sono stati portati a L’Avana tra i negoziatori. Qui esse hanno potuto raccontare le loro esperienze e da allora i negoziati sono cambiati».
L’apparato – Sistema integral de Verdad, Justicia, Reparación y no Repetición – concepito per affrontare il tema delle vittime pare piuttosto complesso.
«L’apparato include tre commissioni con compiti specifici. La prima è la “Commissione della verità”, che non è un ente giuridico ma storico. Si tratta di dire al popolo colombiano qual è la verità del conflitto, soprattutto nella prospettiva della riconciliazione. Durerà per tre anni.
La seconda è la “Commissione per la ricerca degli scomparsi”. In questo momento in Colombia si stimano 80mila persone scomparse. Per quanto mi riguarda ci sono tre persone vicine alla mia famiglia che da 18 anni non sappiamo dove siano. Uno dei dolori più profondi è quello provato da una persona che non sa dove sia un suo caro. È un dolore che si tiene dentro per uno, due, dieci, venti anni. È un martirio, una tortura continua. Sono persone che soffrono troppo, affette da quello che gli psicologi chiamano il “trauma complesso” (sintomi prodotti da traumi cumulativi prolungati nel tempo: violenze, guerre, prigionie, migrazioni forzate, ndr).
La terza è la “Commissione per la riparazione”. Come si debbono ripagare le vittime e come fare perché le riparazioni siano integrali: dalle persone scomparse al ritorno nei propri luoghi fino al recupero delle terre, del lavoro, delle case».
La «giustizia riparativa»
Quelli che ha spiegato sono tutti organi extragiudiziali. C’è però anche un organo giudiziale, anche se con caratteristiche particolari.
«Sì, si tratta dell’organo – anch’esso molto dibattuto (infatti il nuovo governo di Iván Duque ha fatto rimandare l’emanazione del regolamento, ndr) – denominato Jurisdicción Especial para la Paz. Essa è una giustizia parallela alla giustizia ordinaria. Questa istituzione ha già 51 magistrati che dovranno affrontare il tema della giustizia cosiddetta “transizionale” (justicia transicional).
Perché è importante? Se gli ex guerriglieri confessano la verità prima di essere giudicati, essi avranno non più di otto e non meno di due anni di condanna in carceri aperte, senza sbarre.
Se invece non confessano la verità o se la dicono dopo o se questa viene scoperta successivamente, gli ex guerriglieri rischiano fino a 20 anni da trascorrere in prigioni tradizionali, con le sbarre.
Si tratta di misure di giustizia transizionale che verranno applicate solamente per i prossimi 10 anni. Questa giustizia è una giustizia restaurativa (riparativa, riconciliativa, di transizione sono tutti sinonimi, ndr) che cerca di “riparare” le vittime e la società.
E soprattutto ha un concetto innovativo di castigo perché non si pensa di mettere le persone in carcere ma in luoghi diversi dove possano rimanere assieme, fare attività in un luogo aperto anche se vigilato. Il contrario del concetto perverso di carcere chiuso».
Padre Leonel, il tema della «giustizia restaurativa» invece della «giustizia punitiva» le è molto caro. Tuttavia, è risaputo che una parte consistente della stessa gerarchia cattolica colombiana non è dello stesso avviso, adottando in toto le posizioni dell’ex presidente Álvaro Uribe.
«Debbo dirlo chiaramente: la Chiesa in Colombia e tanti vescovi sono divisi tra le due istanze: giustizia punitiva o giustizia restaurativa? Ci sono vescovi – io ne sono testimone – che dicono: “No, questi criminali vanno messi in carcere”. Se potessero dirlo chiederebbero la pena di morte che però in Colombia non esiste.
Le carceri sono la soluzione più perversa, sono la negazione dell’immaginazione umana, sono i luoghi peggiori della società, sono le università del crimine. Questi luoghi sono i luoghi dell’inferno che troppi vescovi ancora predicano».
L’«economia politica dell’odio»
Lei utilizza un termine particolare: «economia politica dell’odio». Cosa intende con esso?
«I partiti sono stati venditori perversi di odio. E loro rappresentanti hanno guadagnato sulla base di questo. La stessa guerriglia sa di aver venduto odio. Io non voglio dire chi è di più e chi di meno. Tuttavia, la cultura politica della Colombia si è trasformata in una distillazione di odio che genera una cultura della vendetta.
Concretamente questa si è trasformata in più carceri, più stazioni di vigilanza nelle strade, più uomini nell’esercito, più armi. Tutto questo è cultura della violenza e dell’odio. E la gente, la base umana è ansiosa di ricevere questo tipo di proposte.
Ciò spiega perché quando si è trattato di fare il referendum sull’approvazione o meno delle negoziazioni, più del 50 per cento dei votanti hanno detto “no”. Facendo chiaramente intendere che questi criminali delle Farc avrebbero dovuto essere ammazzati. E che, se si fosse potuto, si sarebbe dovuto non solo mandarli a morte, ma mandarli a morte per tre volte. Ci siamo resi conto che il paese è ancora dominato dall’odio. La parte più animale, più arcaica, più primitiva di noi sta ancora presente nei nostri cuori. In questo momento la grande sfida della Colombia, oltre ai problemi che conosciamo (terra, droga, vittime, reinserimento dei guerriglieri, eccetera), è quella di capire come trasformare la cultura della vendetta insita nella popolazione. E soprattutto come trasformare questa “economia politica dell’odio” che ci hanno venduto e che continuano a venderci».
La scelta del perdono
Padre, dopo 52 anni di guerra civile, 220mila morti, milioni di sfollati, non è difficile parlare di perdono?
«Per prima cosa, intendiamoci bene su cos’è il perdono. Il perdono non è dimenticare, non è negare la giustizia, non è negare il dolore che ho dentro. Il perdono è un esercizio meraviglioso che passa dalla vendetta alla compassione, alla misericordia, che alla fine – e qui parlo da missionario – è il cuore della predicazione di Gesù. Tutto questo necessita di una “tecnologia”, di un filo metodologico che ci conduca dalla memoria ingrata (rabbia e rancore) a quella grata (compassione).
Misericordia, compassione, perdono sono l’espressione massima del regno di Dio. Il perdono elevato alla massima conseguenza. Sempre, fino a perdonare l’imperdonabile».
Il perdono e la riconciliazione si possono insegnare?
«In questi ultimi 15 anni io e i miei collaboratori abbiamo lavorato per generare metodi e pratiche concrete, quotidiane, replicabili, moltiplicabili, di perdono e riconciliazione. Considero la Fondazione per la riconciliazione unica in America Latina e forse nel mondo. Di certo è l’istituzione che più lavora sul tema specifico della “tecnologia del perdono”. O, se vogliamo usare un altro termine, dell’“ecologia dell’anima”, che poi è il tema del perdono, della compassione, della misericordia. Secondo me, questo dovrebbe essere il cuore del lavoro di un missionario».
Dunque, secondo lei la cultura della pace e della riconciliazione si sta diffondendo?
«Voglio essere ottimista. Stando accanto alle vittime io vedo che, a poco a poco, si sta instaurando una cultura di riconciliazione. A poco a poco il paese si sta incamminando su questa strada. Sfortunatamente questo non sta succedendo nelle élites, sia politiche che economiche. Non so – qui debbo usare un punto di domanda – se sta accadendo nelle gerarchie ecclesiali.
L’importante è che la giustizia restaurativa e questo nuovo concetto di pace stiano progredendo. Tutto questo è possibile se noi inculchiamo la cultura e la spiritualità del perdono, l’ecologia dell’anima. Di certo non ci può essere una “pace sostenibile” se non c’è un processo di perdono. E i processi di perdono – ecco il paradosso – sono quelli che proprio i cattolici e i cristiani conoscono meno. Si prova vergogna a ricordarlo, ma il continente latinoamericano è quello più povero, più diseguale, più violento e più cattolico. Che significa questo? Che abbiamo appreso un cattolicesimo e un cristianesimo di molta liturgia ed esteriorità. Ma non abbiamo assunto il mandato di avvicinarci al prossimo. Mi pare che questo ci costi molto. Insomma, la sfida è grande».
Iván Duque e il nuovo governo
Tornando alle questioni meramente pratiche, che problemi sta comportando o comporterà la transizione dalla guerra alla pace?
«Nel processo di transizione verso la pace ci sono due caratteristiche negative che riguardano tutti i paesi impegnati in questo passaggio. La prima è che essi sperimentano 3-5 anni di violenza a volte addirittura maggiore rispetto a quella del conflitto perché è violenza disorganizzata. Girano molte più armi libere perché il business è terribile. Molte persone che erano implicate nella guerra continuano a pensare in quest’ottica. Ci sono un gran numero di vittime – in Colombia sono 8 milioni di persone – che continuano a vivere con molta rabbia e voglia di vendetta. La seconda conseguenza è che, a causa dei costi impliciti in un processo di pace, i paesi possono cadere in depressione economica. Attualmente lo sforzo compiuto della Colombia è molto elevato, soprattutto in un paese dove l’intervento dello stato è stato sempre assai limitato.
C’è infine una variabile politica: il nuovo governo. Nell’ottobre 2017 la Corte costituzionale colombiana ha blindato le negoziazioni per 12 anni. Ovvero nessuno dei tre prossimi presidenti potrà cambiare gli accordi siglati nel 2016. Quello che invece senz’altro farà la destra uribista (legata cioè all’ex presidente Álvaro Uribe e vincitrice delle elezioni di giugno, ndr) sarà di rallentare la loro applicazione e insistere sulla giustizia punitiva».
Paolo Moiola
Le parole in gioco
Ricomporre un tessuto sociale distrutto da decenni di guerra è un’impresa molto complicata. Per questo occorre conoscere le parole che entrano in gioco.
La guerra
economia politica dell’odio: strategia promossa dalle élites (politiche, sociali, economiche, religiose) del paese per catturare l’attenzione (e il voto) della massa;
cultura della vendetta: è la conseguenza dell’odio non superato;
rabbia, rancore, rivalsa: sentimenti generati dal torto subito, dalla violenza e dall’ingiustizia;
filosofia del nemico interno: non è un semplice oppositore, ma un soggetto che deve essere eliminato;
narcotraffico: elemento moltiplicatore di violenza, barbarie, vendetta;
giustizia punitiva: è il sistema che si limita all’applicazione per i responsabili degli abusi dello strumento punitivo-vendicativo (in primis, del carcere).
La pace
pace sostenibile: si raggiunge quando si dà risposta a una serie di necessità; trova raffigurazione in un albero (radici, tronco, rami);
necessità oggettive di base: sanità, lavoro, istruzione, terra, alimentazione;
necessità ecologiche della pace: verità, giustizia, indennizzo, inclusione, rispetto dei diritti umani;
necessità soggettive delle vittime e dei sopravvissuti: affrontare e superare rabbia, rancore, rivalsa (vendetta);
cultura civile del perdono e della riconciliazione: è la risposta alle necessità soggettive;
perdono: è ricordare con altri occhi, è un esercizio attraverso il quale la vittima smette di essere tale; non significa dimenticare o negare il diritto alla giustizia;
riconciliazione: passaggio dalla sfiducia alla fiducia;
giustizia riparativa: è il sistema che si concentra sulla riparazione del danno subito dalla vittima più che sulla punizione del reo.
Fonte: Leonel Narváez Gómez, Entre economía política del odio y cultura ciudadana de perdón, in «Venganza o perdón? Un camino hacia la reconciliación», Editorial Planeta Colombiana, aprile 2017.
Il successore di Manuel Santos: «Títere» o presidente?
Il nuovo presidente della Colombia è Iván Duque Márquez, delfino dell’ex presidente Álvaro Uribe, fermo oppositore degli accordi di pace del novembre 2016.
AFP PHOTO / RAUL ARBOLEDA
Iván Duque Márquez è stato eletto successore di Manuel Santos alla presidenza della Colombia. Avvocato di 41 anni, Duque è stato allevato nella scuderia dell’ex presidente Álvaro Uribe, padre e padrone della destra colombiana, nonché duro oppositore degli accordi di pace del novembre 2016.
Detto questo, senza esagerare in ottimismo, va segnalato che le presidenziali 2018 sono state caratterizzate da segnali positivi e importanti discontinuità. In primis, sono state elezioni pacifiche. E partecipate (per gli standard colombiani e latinoamericani): l’astensione si è infatti fermata al 47% degli aventi diritto. Al ballottaggio del 17 giugno con la destra uribista non è arrivato alcun esponente dei due partiti storici della Colombia, quello conservatore (fondato nel 1849) e quello liberale (del 1848). Vi è invece giunto – vivo e vegeto – un candidato di sinistra, Gustavo Petro, già membro del movimento guerrigliero M-19 e sindaco di Bogotà, che ha anche ottenuto un risultato importante: 8 milioni di voti pari al 42% (contro il 54% di Duque).
Tra le note positive, è da segnalare che anche Rodrigo Londoño, ex leader del gruppo guerrigliero e attuale presidente del partito Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común), si sia felicitato con il nuovo presidente elogiando nel contempo il cammino intrapreso dal paese con gli accordi di pace.
Per parte sua, nel suo primo discorso da vincitore, Duque ha usato toni molto concilianti, precisando che occorre superare la polarizzazione e le lamentele. «Non conosco nemici in Colombia – ha dichiarato -, non governerò con l’odio, non esistono nella mia mente e nel mio cuore né vendette né rivalse. Si tratta di guardare al futuro per il bene di tutti i colombiani».
Sul tema più controverso, quello degli accordi di pace, ha assicurato che non verranno fatti a brandelli, ma che saranno introdotte delle correzioni.
Già le prime mosse del suo governo ci diranno se Iván Duque è un títere (cioè un burattino di Uribe) o un presidente.
Paolo Moiola
Fondazione: Bogotá, 2003.
Fondatore e presidente: Leonel Narváez Gómez.
Organici: 40 dipendenti e 2.200 animatori volontari.
Programmi:
– alfabetizzazione: si insegna a leggere e scrivere con il metodo della pedagogia di Paulo Freire e, nel contempo, si offrono soluzioni emozionali per i conflitti legati a rabbia, rancore e rivalsa;
– pedagogia della cura e della riconciliazione: si insegna nelle scuole pubbliche e private;
– Centri di riconciliazione: si tratta di appartamenti presi in affitto in zone a rischio per svolgere i programmi della Fondazione;
– Scuole di perdono e riconciliazione (EsPeRe): corsi interattivi e ludici costituiti da 12 moduli, ognuno di 4 ore.
Presenza:
– in 21 paesi del mondo.
Riconoscimenti:
– Orden Civil al Mérito José Acevedo y Gómez del Concejo de Bogotá (2004);
– Premio Unesco Educación para la Paz (2006);
– Orden de la Democracia del Congresso de la República de Colombia (2007);
– Emprender Paz (2011, con Nestlé Colombia);
– Premio Nacional de Paz (2014, secondo posto).
Tutto nasce nei primi anni ’60. Un movimento, nei paesi del Nord, che vuole porre fine a fame e sottosviluppo. Il momento storico è propizio. Sembra possibile rendere il mondo migliore. La motivazione di chi parte è alta e, di seguito, arriva la formazione. Poi le prime leggi e le Ong. Ma i cooperanti «professionisti» di oggi sono i discendenti dei primi volontari?
In ogni dizionario che si rispetti la figura del cooperante è definita come quella di «chi nei paesi in via di sviluppo si occupa di un programma di cooperazione». A inquadrare meglio questa figura singolare ci aiuta Diego Battistessa, cooperante e coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’università Carlos III di Madrid, che in un’intervista del 2014 risponde alla domanda su cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il suo profilo ideale. Al riguardo Diego non ha dubbi: «Alta professionalizzazione». Poi ci spiega meglio: «Il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare. A partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il Pcm (Project cycle management, gestione del «ciclo del progetto»). Un buon esempio sono anche le Ict (Information and communication technologies), le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale».
È la chiara definizione di un manager in cui la competenza fa premio sullo spirito volontaristico.
In questo articolo vorrei approfondire il legame, se esiste, tra il primo volontario internazionale provvisto spesso di fede, ottimismo e buona volontà e l’ultimo cooperante, professionista formato e, non di rado, con precise e legittime ambizioni di carriera.
L’impressione è che questa figura, chiamata a cimentarsi con la dimensione progettuale di un programma di cooperazione (un tempo si sarebbe definito di aiuto allo sviluppo), è molto debitrice alla svolta attuata in Italia alla fine degli anni ’60 che ha trasformato i gruppi di appoggio alle missioni in organismi di volontariato.
In questo senso, si può tracciare una linea che unisce la figura di cooperante con quella dei primi volontari internazionali? C’è qualcosa in comune tra chi si occupa di Project cycle management e chi negli anni ’60 andava a «costruire la scuoletta» in qualche sperduta missione africana? O invece è qualcosa di completamente diverso tale da segnare una discontinuità o cesura determinata da altri fattori, non ultimo la globalizzazione che ha forzatamente delimitato la cooperazione a livello intellettuale?
Per provare a fronteggiare queste domande e temi, credo sia utile partire proprio da loro, i volontari.
Siamo nel momento, negli anni ‘60, in cui nasce in molti la richiesta ed esigenza di «fare qualcosa» per contrastare la fame nel mondo, permettere standard di vita decenti, assicurare i bisogni di base a una umanità sofferente e lontana eppure così vicina. Parlo della nascita di quel movimento all’interno dei paesi del Nord del mondo che si sente partecipe e responsabile dello sviluppo del Sud. Un’introduzione a questo immaginario la offre uno dei più noti volontari (non cooperante) del panorama italiano di quegli anni, Gino Filippini, in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1969: «L’esperienza di Kiremba ha cambiato la mia vita. Per un europeo andare laggiù significa trovarsi faccia a faccia con problemi insospettati: miseria, fame, dolore. Ci si accorge, allora, di quanto ognuno di noi si sia chiuso nel suo guscio, nel proprio angusto cerchio di egoismo, tutti presi come siamo dal desiderio di guadagnare, di primeggiare, di avere sempre più soldi, più cose materiali. A Kiremba ho imparato ad amare davvero il mio prossimo, a dimenticarmi di me stesso. Ho avuto la soddisfazione di vedere gli indigeni migliorare le loro condizioni di vita grazie anche ai miei modesti insegnamenti. E anche loro mi hanno insegnato tante cose: il senso della dignità umana, per esempio, e la vera, disinteressata amicizia. Se tu scendi dal tuo piedistallo di bianco, se ti mescoli a loro, elimini tutte le barriere, tutti i pregiudizi che per tanto tempo ci hanno diviso, trovi in loro dei veri, fedelissimi e leali amici, capaci di fare chilometri a piedi, capaci di sacrificarsi per darti una mano».
Filippini è in un certo senso una figura estrema. Un suo vecchio amico, Aldo Ungari, lo definisce come un uomo delle due culture. Una caratterizzazione che si percepisce dalla sua testimonianzanella quale narra la sua «iniziazione» all’esperienza di volontario nell’ospedale burundese di Kiremba costruito dalla diocesi di Brescia in omaggio al Papa bresciano Montini e che vide l’attiva partecipazione dei fedeli in termini di sensibilizzazione e mobilitazione. La gente partecipò non solo alla raccolta fondi ma anche alla progettazione e realizzazione in loco, tramite tecnici e volontari chiamati a supplire alle deficienze organizzative e di conoscenza dei «locali». Al teorema accettato quasi aprioristicamente della cosiddetta «assistenza tecnica», ben presto si ribelleranno i volontari di lungo corso alla Filippini, per l’appunto in nome di una visione meno paternalistica e assistenziale. Da loro, dal dibattito internazionale, dai limiti dell’aiuto allo sviluppo kennediano dei primi anni ’60 nasce l’impostazione più attenta alle dimensioni antropologiche, all’incontro con l’altro e a una cooperazione alla pari.
Non si sarebbe potuta manifestare in nessun altro periodo storico se non in quello. La decolonizzazione, l’apparire del «Terzo Mondo», l’immaginario della nuova frontiera, il Concilio e tutte quelle suggestioni di allora che con il carburante dato da figure di grande carisma e livello culturale (Helder Camara, Raoul Follereau, l’Abbé Pierre, Josué De Castro, Léopold Senghor, Julius Nyerere) hanno fatto percepire come possibile e vicino l’approdo a un mondo migliore senza l’incubo della fame e del sottosviluppo.
In quel contesto socioculturale irripetibile nasce il movimento – perché di movimento si tratta – del volontariato internazionale, vero e proprio incunabolo di formazione per il mondo della solidarietà internazionale. Un humus che, con il supporto dei volontari e le sollecitazioni esterne date dal dibattito in materia, permette di avviare quel percorso che agevola una impostazione progettuale per mezzo dell’intermediazione occidentale impersonata dal volontario, sia essa in ambito educativa, agricola o sanitaria.
Inizia, con il passare del tempo, a farsi largo un’accezione diversa: non più organizzazione e pianificazione in toto qui in Italia, ma, con l’indispensabile intermediazione dei laici, studio e realizzazione del progetto lì, cercando di renderlo indipendente dalla presenza europea. Con ciò si rafforza un’impostazione più rispettosa – sulla carta – che cerca un minore impatto sulla cultura del luogo.
Una data cardine di questa evoluzione è il 1967. In un’Italia che, l’anno prima, ha visto una sorta di corsa alla solidarietà verso un paese in preda a una carestia, l’India, con una gigantesca e partecipata colletta diffusa, ha grandissima risonanza e impatto l’enciclica Populorum Progressio. In essa Paolo VI porta all’attenzione dei gruppi allora più attivi – quelli cattolici – lo «sviluppo» nella sua declinazione di «altro nome della pace» e come forma più lontana dall’idea di crescita e più vicina a quella di emancipazione sociale e di cambiamento. Il tutto con la richiesta dell’impegno di tutti, laici compresi.
Una chiamata alle armi dell’intervento individuale in favore dello sviluppo «integrale» dell’uomo e per l’uomo.
Non è un caso che la stragrande maggioranza di questi gruppi, quelli perlomeno più strutturati, passano, in quetli anni, oltre la fase spontanea della sensibilizzazione e mobilitazione per approdare a quella più professionale di formazione dei volontari e costituzione di reti, coordinamenti e federazioni allo scopo di irrobustire la loro capacità di produzione di una cultura della solidarietà internazionale. In quegli anni, proprio per tutelare quella massa di «gente che andava e veniva dal Terzo Mondo», nascono le prime forme di interscambio con la politica la quale capisce, perlomeno nei gruppi più accorti, che quello che sta germogliando non è qualcosa che riguarda un «fuori», ma interessa e coinvolge un mondo ampio, strutturato, esigente e molto attivo di cittadini.
Chi agevola questo cammino di interscambio reciproco è una «avanguardia» o, comunque, un gruppo della sinistra democristiana, che vede in Franco Salvi, Giovanni Bersani e Mario Pedini i propri cardini. Sono loro, insieme ad altri (Rampa, Pieraccini, Storchi), a ideare la legge 1222/71 (conosciuta come legge Pedini), entrata in vigore 10 giorni prima di Natale, che porta al riconoscimento del volontariato per il tramite della cooperazione tecnica.
Il nome della legge «Cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo» fa intravedere un’impostazione piuttosto ambigua già dal termine impiegato. Infatti da un lato l’idea di cooperazione è un deciso superamento dell’impostazione di aiuto. Mentre dall’altro il tornare (sottolineandolo) all’aspetto tecnico riduce l’ambito di intervento e marca ancora una volta la distanza tra «noi progrediti» e «loro arretrati». È comunque già molto, ove si consideri che si passa dal concetto di assistenza, utilizzato correntemente fin quasi alla fine del decennio, a quello di cooperazione tecnica. Un deciso arretramento rispetto al dibattito internazionale – oltre che delle organizzazioni e realtà italiane più impegnate ed evolute – che ruota, come si è visto, attorno all’idea di una partnership collaborativa finalizzata allo sviluppo come suggerito dalla commissione Pearson incaricata dalla Banca mondiale di redigere un testo «Partners in Development» che rimane una guida indispensabile per comprendere l’evoluzione del concetto di aiuto verso quello di supporto allo sviluppo endogeno per mezzo di un’azione di effettiva cooperazione.
La lettura comune della legge del 1971 la considera un provvedimento confuso di raccordo tra «impulsi solidaristici e pressioni commerciali», per di più limitato alla tutela dei volontari cattolici che non rappresentano l’Italia ma solo se stessi e la propria carica ideale. Ma questa considerazione va temperata con alcune considerazioni: innanzitutto, si ha finalmente una legge organica, pur con tutti i suoi limiti, dopo anni di leggi semiclandestine di qualche riga. Legge che porta alcune novità a livello di organizzazione dello stato sia dal punto di vista del riassetto burocratico sia nella disponibilità di fondi per la cooperazione. Non va poi sottaciuto il fatto che la 1222/71 è il precedente e lo spiraglio per l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza approvata esattamente un anno dopo. La grande discontinuità sta nel riconoscimento degli organismi di volontariato, le proto organizzazioni non governative (Ong). Da questa legge essi infatti, vedono riconosciuto quel decennale lavoro di informazione, sensibilizzazione fatto da parrocchie, oratori e scantinati. Ed è proprio nel pieno riconoscimento di questi organismi che l’Italia si presenta come un paese al passo degli altri, strutturando il volontariato civile in appoggio prevalentemente alle missioni cattoliche.
Giovanni Bersani annotava come nel 1969 fossero oltre 600 le persone in servizio nei paesi del Terzo Mondo e molti di loro senza paracadute legislativi. E come nella loro formazione, avessero concorso realtà che creavano la prima ossatura delle future Ong e che s’incaricavano di essere le capofila nella formazione di volontari, non più «ragazzi che vanno a dare una mano», in partenza.
Chi forma i volontari?
In questo senso non è possibile fare una cronaca dettagliata di tutti gli organismi di volontariato, poiché ognuno esprime delle dinamiche e delle filosofie d’intervento imperniate su due «territori»: quello d’appartenenza e quello di missione. In quegl’anni le realtà che formano i volontari sono poche e alcune finiscono per fare da capofila. Troviamo il Cuamm di Padova, il Mlal di Verona, la Lvia di Cuneo e le milanesi Cooperazione Internazionale e Tvc (Tecnici volontari cristiani). Sono questi i principali – dati alla mano – fornitori e formatori di volontari nel «Terzo Mondo» fino a tutti gli anni ’70. Persone che iniziano da qui il lungo e contraddittorio processo di professionalizzazione che trasformerà non pochi di loro in «cooperanti».
Possiamo dire che dalla legge Pedini nasce la lunga marcia che porta alla professionalizzazione della figura del volontario? La mia impressione è che lo possiamo sostenere. Del resto lo stesso Salvi già durante la conferenza stampa di presentazione della Pedini, parlò di una possibile professionalizzazione della figura del volontario chiamato non più e non solo a «dare una mano» ma essere lo strumento operativo di un «piano» di sviluppo o cooperazione.
Da quel 1971 il tema della solidarietà internazionale per mezzo della figura del volontario/cooperante è stato attraversato da un dibattito continuo e da un dilemma che ha oggettivamente portato a moltissime riflessioni, non ultima la terzietà del volontario/cooperante rispetto all’essere parte di programmi e progetti governativi. In questo senso anche in Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) ci fu un dibattito molto forte: accettare i «soldi dello stato» per progetti di cooperazione? Per alcuni (non pochi) equivaleva a vendere le proprie motivazioni ideali. Cosa che fa sorridere del resto i moderni «manager della solidarietà». Questi ultimi ripropongono il nostro essere lì in chiave certamente più efficiente rispetto a prima ma senza probabilmente il corredo ideale dei pionieri. Il che, a guardare bene, è piuttosto ricorrente nella storia dell’uomo.
Stiamo per pubblicare l’articolo di Antonio Benci quando scoppia il caso dei cooperanti di Oxfam ad Haiti. Operatori dell’Ong, anche di alto livello, che frequentavano alcune case di prostituzione a Port-au-Prince, all’indomani del terribile terremoto del 12 gennaio 2010. La notizia «buca» tutti gli schermi.
Un fatto sicuramente ignobile, ancorché aggravato dal particolare contesto nel quale si è verificato. Detto questo l’effetto dello scandalo porterà probabilmente a un discredito globale del mondo del volontariato internazionale e delle Ong. Il grande circo mediatico funziona così: non si ferma a capire o a discernere. Fatta l’etichetta, tutti quelli a cui si può appiccicare subiscono le conseguenze del comportamento di pochi.
In tutta franchezza posso testimoniare come sul campo operino decine di cooperanti onesti e integri, che compiono un lavoro eccellente. Compresi quelli di Oxfam, la più grande Ong del mondo. Sarebbe un peccato se tutta la categoria fosse messa all’indice a causa di un comportamento che, sì, esiste (non solo ad Haiti), ma che è una devianza, non la normalità. Talvolta è più facile nascondere comportamenti moralmente inaccettabili, proteggendosi dietro al logo di un organismo umanitario. Almeno fino a ieri.
Marco Bello
Colombia: Nel Caquetá la pace passa per la scuola
In un luogo dove meno te lo aspetti, alle porte di una cittadina amazzonica, sorge una scuola molto particolare. I suoi studenti provengono da sperduti villaggi e hanno vissuto la guerra civile. Vi si insegnano materie tecniche, ma soprattutto si vuole ricostruire il tessuto sociale. E far crescere negli studenti quella cosa stupenda chiamata autostima.
Fa caldo umido a San Vicente del Caguán. Siamo nel Caquetá, uno dei dipartimenti amazzonici della Colombia. San Vicente è anche noto per essere «il comune più deforestato dell’America Latina», dicono alcuni. Il vasto dipartimento, con una superficie pari a poco meno di un terzo di quella dell’Italia, si estende dalle pendici della cordigliera orientale all’Amazzonia profonda. Qui vivono meno di mezzo milione di persone, e ben quattro milioni di vacche. Parte della foresta ha infatti lasciato il posto ad ampi pascoli. Esistono tuttavia ancora molte zone e comuni raggiungibili solo via fiume, perché non ci sono strade.
San Vicente è anche uno dei comuni colombiani che più sono stati colpiti dalla guerra civile durata 52 anni. Oggi, all’indomani degli accordi di pace firmati tra il governo del presidente Juan Manuel Santos e le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) il 26 settembre 2016 (si veda MC novembre 2016 e maggio 2017), si respira un’aria diversa. Da un lato c’è speranza per questa nuova opportunità di costruire e vivere in pace, ma dall’altro è forte la preoccupazione per una situazione inedita ed equilibri che stanno rapidamente cambiando. La gente, in generale, ha poca fiducia nel governo ed è sospettosa. Per questo motivo non è troppo propensa a parlare della situazione e di quello che potrebbe succedere.
Nel frattempo Álvaro Uribe Vélez, il precedente presidente (di cui Santos fu ministro della Difesa), e il suo gruppo di destra hanno fatto una massiccia propaganda anti accordi di pace, sostenendo che, grazie a Santos, le Farc hanno guadagnato molti privilegi, e saranno presto in parlamento ed eleggibili alle varie cariche amministrative.
I combattenti delle Farc stanno smobilitando (a metà giugno era già stato consegnato il 60% delle armi) e si concentrano in 23 zone e 8 accampamenti in tutto il paese. Occorre prevedere per loro un programma di reinserimento sociale, ovvero formazione, educazione secondaria e talvolta primaria, in quanto molti di loro sono nati e cresciuti nella guerriglia e quindi lontano dalle città e dai centri di educazione formale. Il «post conflitto» è ormai il termine sulla bocca di tutti gli addetti ai lavori (enti statali, Ong, organismi ecclesiali e religiosi), e la sua gestione è la sfida più importante per stabilizzare il paese con una pace vera e duratura.
Il Vicariato
A San Vicente, e nell’ampio territorio di sua competenza, il Vicariato apostolico è la struttura con maggiore autorevolezza e credibilità. Al suo capo c’è da 18 anni monsignor Francisco Javier Múnera Correa, missionario della Consolata colombiano. Durante i lunghi anni di guerra sacerdoti, suore e laici sono stati gli unici a poter intervenire sempre e ovunque nel Vicariato. Una vasta area, che nel febbraio 2013 si è divisa con la creazione del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano, e oggi si estende per 31.000 km quadrati (come Piemonte e Liguria insieme). Il Vicariato, grazie alla sua pastorale educativa e alla pastorale sociale, è oggi il più importante attore di sviluppo di tutta l’area del Caquetà.
«Oggi una delle grandi preoccupazioni – ci confida un operatore del Vicariato – è la cosiddetta “dissidenza”, ovvero quelle frange delle Farc che non hanno accettato gli accordi di pace, e restano in armi nella selva». In particolare, il comune di Cartagena del Chairà, sembra influenzato da questa dinamica. «Altre forze, inoltre, si affrettano a occupare i territori fino a ieri controllati dalle Farc, che ora se ne stanno andando. Qui ci sono narcotrafficanti, criminali comuni e fuoriusciti dalla guerriglia che si riciclano». Incontriamo il responsabile della pastorale sociale, padre Juan Pablo de los Rios, anche lui missionario della Consolata: «Nei prossimi anni vogliamo concentrarci su tre aree di lavoro principali: la cura della Casa comune, ovvero dell’ambiente, il cammino di perdono e riconciliazione nel post conflitto e la democrazia partecipativa. Questa è una terra di grandi profitti economici: caucciù, legname. Poi la coltivazione estensiva (illegale) della coca. E sopra tutti la deforestazione per l’allevamento estensivo di bestiame. Ma nei pressi di San Vicente c’è anche una zona di estrazione petrolifera (oggi ferma perché il prezzo del greggio a livello internazionale è troppo basso e non conviene pomparlo, ndr). Tutti fattori questi che hanno contribuito alla distruzione ambientale.
Vogliamo lavorare per formare quelli che chiamiamo “artigiani del perdono” e, inoltre, non meno importante, far assumere alla gente il ruolo che le conferisce la Costituzione, in termini di partecipazione attiva e godimento dei propri diritti».
La scuola della cittadella della speranza
A pochi chilometri da San Vicente, sulla strada per Neiva, con il fiume Caguán da un lato e circondata da una macchia di foresta dagli altri, sorge la Ciudadela Juvenil Amazonica Don Bosco. Qui le suore della Consolata stanno realizzando un’opera molto particolare.
Ci accoglie la dinamica suor Blanca Rubiela Orozco Gomez, colombiana. Una vera forza della natura.
«La Ciudadela è nata nel 1994 per volere dell’allora vescovo monsignor Luis Augusto Castro come scuola primaria e secondaria per i contadini, fondata dai salesiani – ci racconta -. Nel 2013 questi consegnarono la struttura al Vicariato, che decise di affidarlo a noi, suore della Consolata».
Da allora la Cittadella è cambiata: «La nostra missione è formare i giovani che provengono dall’ambiente rurale, ovvero quelli più emarginati e con meno possibilità di studiare». La struttura offre due corsi superiori completi, da tecnico agrario e di allevamento e trasformazione di alimenti e tecnico in programmazione di sistemi con approfondimento in umanità. Quest’ultimo corso, di avanguardia, insegna ai giovani l’utilizzo dell’informatica applicata all’agraria e all’allevamento, con lo scopo di renderli più competitivi. Per accedervi, i criteri sono molto particolari: «Essere contadino o di famiglia contadina, vulnerabile (diremmo di basso reddito, ndr) e accettare la condivisione e il desiderio di lavorare nei campi».
Mentre visitiamo la scuola, che pare un vero campus, suor Rubiela snocciola fiera i dati sulle ultime promozioni, facendo notare come si sia passati il primo anno da una trentina di studenti maschi a 50 di cui circa la metà ragazze.
Oltre alle lezioni pratiche, nella fattoria didattica i ragazzi hanno la possibilità di cimentarsi con diversi tipi di colture e allevamenti. Spicca per originalità la coltivazione del camu-camu (myrciaria dubia), frutto amazzonico ad altissimo contenuto vitaminico che viene utilizzato per produrre succhi. Gli allevamenti didattici di polli, maiali e pesci sono anche produttivi e utili per generare entrate economiche per la scuola.
Tutta una sezione è occupata dai laboratori di trasformazione alimentare, utilizzati dagli studenti per imparare a produrre formaggio, dolce di goiaba, dolce di latte, succhi e yogurt.
Cambio di livello per la scuola
Attualmente è in corso il processo di trasformazione della scuola da istituto tecnico a centro di educazione universitaria: «Stiamo facendo accordi con diverse università sia del Caquetá sia nazionali, e con il ministero dell’Educazione per elevare il livello dei nostri corsi e omologarli a programmi universitari di medicina veterinaria, ingegneria agricola e ingegneria degli alimenti».
«Qui gli studenti non pagano i corsi, perché, tranne pochissimi, non ne hanno le possibilità», racconta ancora suor Rubela. «Esistono diverse possibilità, come le borse di studio dei municipi».
Ma, spiega la suora, questa non è solo una scuola tecnica, «qui vogliamo ricostruire il tessuto sociale. Facciamo formazione umana, etica e puntiamo a sviluppare l’autostima dei nostri studenti. Per questo lavoriamo molto sull’ambiente umano e sul post conflitto».
«Ricordo un ragazzo che ha terminato l’anno scorso. Un campesino di 22 anni. Arrivò alla scuola in ritardo di due settimane. Veniva da lontano. Io lo accolsi e non gli chiesi perché. Gli chiesi se era interessato ai corsi e gli dissi di andare a lavarsi che avrebbe cominciato il giorno seguente. Mentre gli parlavo non mi guardava neppure negli occhi. Alla fine dell’anno era stato uno degli allievi migliori. Al momento di salutarci mi abbracciò forte e mi ringraziò. In quell’anno era cresciuto soprattutto il modo di vedere se stesso».
Contadini digitali
Suor Rubela è al colmo della soddisfazione quando ci presenta Alberto, un giovane (18 anni) istruttore di uno dei corsi delle «Scuole digitali contadine (Escuelas digitales campesinas)».
Il progetto è in linea con l’Action cultural popular, nata molti anni fa, che utilizzava le trasmissioni radio per l’alfabetizzazione e la formazione nelle zone più remote. «Questo è un plus fornito dalla scuola: corsi brevi per piccoli gruppi di studenti. E si svolge in parte con insegnamento in sede e in parte a distanza grazie a una piattaforma informatica». Così corsi come: alfabetizzazione digitale, leadership, conoscenza dell’ambiente, associazionismo per creare impresa, pace e convivenza, adattamento al cambiamento climatico e comunicazione e giornalismo rurale sono un fiore all’occhiello della scuola. Presto saranno anche disponibili i corsi di pesca responsabile, diritti umani nelle comunità rurali e progetto di vita in campagna.
Si tratta di corsi di perfezionamento frequentati da giovani dai 16 ai 35 anni. «Esistono accordi con i direttori di diverse scuole nel dipartimento, che ci mandano studenti meritevoli per questi corsi della scuola digitale», annuisce soddisfatta suor Rubela. La ricaduta è anche sulle comunità da cui arrivano i ragazzi, perché la metodologia prevede di coinvolgere le famiglie. Nell’anno 2015-2016 sono stati circa 2.000 gli studenti formati con le scuole digitali.
Anche monsignor Francisco Javier Múnera, amministratore apostolico del Vicariato di San Vicente del Caguán è molto soddisfatto del lavoro tecnico e umano svolto alla Ciudadela. Guarda ancora più avanti e ha in mente nuovi sviluppi. «C’è un evidente interesse del governo – ci dice -, in particolare dei ministeri dell’Educazione e del Postconflitto nella creazione di centri di formazione per gli ex combattenti». Un progetto in linea con il livello universitario, ma con corsi specifici per i guerriglieri smobilitati, in un luogo strategico dove la guerriglia ha avuto un ruolo importante e molto vicino alla realtà rurale dalla quale arrivano le ex Farc».
La pace ha molti nemici
Mentre scriviamo arriva la notizia dell’ignobile attentato realizzato con una bomba in un centro commerciale di Bogotà in un affollato sabato pomeriggio. La prima sensazione è che si tratti di gruppi che vogliono destabilizzare l’attuale governo e quindi l’importante processo di pace che ha intrapreso. L’anno prossimo in Colombia ci saranno le elezioni presidenziali. Né Alvaro Uribe né Manuel Santos si potranno ricandidare. Ma i loro gruppi rispettivi si fronteggeranno e, a seconda di chi vincerà, il processo degli accordi di pace potrebbe avere una battuta d’arresto (nel primo caso) oppure andare avanti, pur nelle molte difficoltà di una realtà così complessa.
Marco Bello
Dalla «Zona di distensione» al viaggio del Papa
Adesso occorre voltare pagina
A San Vicente del Caguán la guerra ha colpito duro. Ma è stato anche un municipio di sperimentazione sociale. Qui i missionari della Consolata sono presenti dal 1951. Incontro con il vescovo mons. Múnera.
Monsignor Francisco Javier Múnera Correa è missionario della Consolata da oltre 40 anni e da 18 è vescovo nel Vicariato apostolico di San Vicente del Caguán. Ricorda sempre con passione e nostalgia gli anni trascorsi in missione, nel Nord del Kenya. Ci accoglie sulla terrazza di casa sua, circondata da alcuni lussureggianti alberi e ci ricorda che i missionari della Consolata compiono oggi 70 anni di presenza in Colombia.
Monsignor Múnera, San Vicente è stato (un posto) molto strategico durante il conflitto armato, perché?
«Voglio precisare che io sono il secondo vescovo di San Vicente, dopo mons. Castro, che è stato padre fondatore di questo vasto Vicariato. Lui si è impegnato molto sul tema della pace, anche in prima persona per la liberazione di militari e poliziotti sequestrati dalla guerriglia. È sempre stato un uomo chiave per avvicinare le parti, anche nella negoziazione che ha portato ai recenti accordi di pace.
All’inizio del 1999, quando presi il suo posto, in quest’area stava iniziando una esperienza particolare: la cosiddetta “Zona di distensione”. Un territorio grande quanto la Svizzera che comprendeva oltre a San Vicente altri quattro comuni nel dipartimento del Meta. Erano in corso delle trattative di pace e questa regione fu lasciata sotto il controllo politico e militare delle Farc-Ep. Esercito, polizia e stato si erano ritirati. Rimase solo il sindaco tra le autorità statali. C’era una polizia civica, formata da elementi della popolazione civile e uomini della guerriglia. Questo ha consentito alle Farc di sentirsi sicure per portare avanti il negoziato con il governo del presidente Pastrana.
Ma dopo tre anni, il 20 febbraio 2002, il presidente dette un ultimatum, dicendo che finivano i dialoghi e i guerriglieri avevano 24 ore per andarsene. Mons. Castro spiega questo fallimento dicendo che erano dialoghi tra orbi: le Farc vedevano solo le loro richieste di giustizia, ma non fecero niente per la pace; il governo voleva la pace ma senza fare concessioni per la giustizia. In quegli anni le Farc erano ancora molto forti. Il governo, che aveva avuto delle batoste sul piano militare, utilizzò quel periodo per rafforzare l’esercito e la sua strategia.
Con la Zona di distensione, per un tempo lungo si è mantenuto un territorio senza conflitto, ma nel resto del paese era terribile. La stessa Zona di distensione si era convertita in una specie di rifugio per i guerriglieri. Quegli anni sono stati più calmi qui perché non c’erano scontri. I guerriglieri gestivano anche la giustizia. Abbiamo subito alcune arbitrarietà, ma la gente ha imparato a convivere con loro e viceversa. La Chiesa ha appoggiato il processo di pace come presenza morale, ma molti settori sociali non erano favorevoli alle Farc perché avevano subìto maltrattamenti da parte loro».
Poi c’è il cambio di presidenza … e di marcia.
«A maggio del 2002 Alvaro Uribe vinse le elezioni e da agosto fino allo stesso mese del 2010 sono stati otto anni molto duri. Il piano del governo era portare le Farc ad arrendersi. Scontri, bombe, sofferenze, uccisioni, sfollati e rifugiati. Io ho aiutato persone a uscire dalla zona per andare ad esempio in Canada. Chiunque la guerriglia riteneva collaboratore dell’esercito diventava obiettivo militare, e con lui la sua famiglia. Intanto parte della popolazione si era messa ad appoggiare la guerriglia. Erano molte le violazioni dei diritti umani da entrambe le parti.
L’esercito riduceva l’accesso dei viveri a San Vicente e qui eravamo isolati. La strategia era duplice: lotta anti guerriglia e lotta anti narcos. Perché in gran parte del territorio c’era la produzione della coca, appoggiata dalla guerriglia. Il conflitto armato è durato molto tempo proprio perché ha trovato nel narcotraffico i soldi per finanziare le armi.
La Chiesa ha cercato di mantenere sempre un posizionamento vicino alle vittime.
Con Uribe il rapporto di forza si è invertito. Gli Usa hanno appoggiato il governo colombiano con gli ingenti finanziamenti del Plan Colombia. Le Farc facevano rapimenti, anche eccellenti, ma Uribe li ha colpiti duramente, con grandi costi».
Come si è arrivati agli accordi di pace?
«Le posizioni delle parti si erano indurite. Quando è arrivato Santos alla presidenza (2010), ha subito cercato una via per la pace. Nonostante fosse stato lui a infliggere duri colpi alle Farc nella veste di ministro della Difesa di Uribe. Nel 2012 sono iniziati i colloqui. Quattro anni di negoziati. Durissimi ma molto più seri, con due principi: negoziare anche durante il conflitto e “nulla è accordato finché tutto non sia accordato”.
Le Farc si sono rese conto che militarmente non avrebbero vinto. Inoltre la pressione della comunità internazionale è stata molto grande sia su di loro sia sul governo. A quest’ultimo faceva ricatti di tipo economico minacciando l’azzeramento degli investimenti. In primo luogo l’Unione europea e poi gli Usa, che con l’arrivo di Barak Obama al potere sono stati decisivi. Lo scenario politico internazionale era cambiato, il governo avrebbe avuto meno appoggi per la guerra.
Gli accordi di pace non risolvono tutto ma aprono la strada per la soluzione a tanti altri problemi che erano stati messi in secondo piano. Ad esempio per la prima volta, dopo 50 anni, il budget per l’educazione ha superato quello della guerra. Avevamo un esercito con più di 500mila uomini, in un paese con grandissime disuguaglianze. Ad esempio il livello di infrastrutture per l’educazione di questa regione è molto basso».
Ma il no al referendum ha segnato una battuta d’arresto?
«La vittoria del no è stata costruita suscitando l’indignazione, mettendo paura. È servito per modificare certe cose degli accordi, perché alla gente sembrava che le concessioni del governo alle Farc fossero troppo generose. Alcuni dicevano: se vince il sì diventeremo un’altra Venezuela o un’altra Cuba. La destra più dura, diceva che eravamo quasi al punto di vincerli militarmente, quindi per loro è stata una sciocchezza arrivare a una trattativa, con la quale le Farc hanno ottenuto di più con una via politica, rispetto a quello che avrebbero ottenuto militarmente. Questo è vero, ma è il prezzo della pace.
Anche per la chiesa è stato molto difficile: vescovi, preti e popolazione si sono divisi sulle due posizioni. Molti vescovi dicevano: “La pace sì ma non così”. Come Conferenza episcopale abbiamo deciso di aiutare la gente a formarsi e informarsi e dare un voto per il futuro del paese. Ma non potevamo schierarci per votare sì o no. Alcuni membri della chiesa e gruppi ecclesiali si sono invece sbilanciati e hanno fatto apertamente campagna, per uno dei due campi.
Per molta gente c’è sfiducia e risentimento nei confronti delle Farc, ma anche sfiducia verso il presidente, che sembrava avesse concesso loro tutto.
In realtà riforme come quella agraria, che le Farc chiedono, sono necessarie al di là della guerriglia».
Quali sono i maggiori problemi del paese oggi?
«Adesso che non c’è più il conflitto (c’è ancora con il gruppo Eln con il quale esiste una trattativa), viene fuori la corruzione terribile di questo paese. A tutti i livelli, della classe politica ed economica. Dagli anni ‘70 – ‘80 in poi il narcotraffico ci ha rovinati. Siamo un paese che era costruito su valori molto forti. Poi è arrivata una classe politica con mentalità del denaro facile, abbondante, a qualsiasi costo. Questo ci ha rovinato la testa, la cultura, i valori, creando quella che mons. Castro chiama la “narco mentalità”. Adesso c’è anche un effetto boomerang, ovvero un gran consumo interno di droga. Ma con speranza diciamo che sperimentiamo già giorni diversi. Anche se questa nazione non si rallegra con gli accordi, perché per le grosse città non cambia molto. È in questa periferia che sentiamo il cambiamento».
Le Farc controllavano territori, adesso ci sono altri soggetti che cercano di entrare?
«Sì, è terribile. I dissidenti e i gruppi criminali si sostituiscono alle Farc. Molti hanno paura che si rafforzi il paramilitarismo, che in alcune zone, come nel Cauca è appoggiato dai grandi latifondisti.
La Colombia è una nazione con più territorio che stato. Le frontiere non son controllabili. Riempire con le istituzioni il vuoto che lascia la guerriglia è una delle grosse sfide. È il passo dall’illegalità alla legalità. In alcune aree il riferimento erano le Farc, tramite l’imposizione con le armi. Passare a un esercizio di democrazia vera, partecipativa, sarà difficile sia per la guerriglia, sia per le comunità che sono state sempre sottomesse. Molta gente preferiva che le Farc non smobilitassero: “Chi ci salverà poi?”. La popolazione non ha mai avuto fiducia nello stato perché ha solo conosciuto la repressione militare a causa di narcotraffico e guerriglia. Occorre un processo educativo».
Nel 2018 ci saranno le elezioni presidenziali. Cosa succederebbe se vincesse qualcuno contrario agli accordi?
«Se vincesse la destra potrebbe ostacolarli. Le Farc hanno avuto fiducia. Loro fanno i conti, sono strategici. Entreranno in politica e la sanno pure fare, sono abili a costruire le alleanze. Questi sono periodi in cui otterranno rappresentanti in camera e senato e punteranno a consolidare il partito».
Cosa vi aspettate dal viaggio del Papa, che verrà tra il 6 e l’11 settembre?
«Papa Francesco ci ha sempre invitati a fare un passo per costruire un paese riconciliato. Credo che se noi fossimo capaci di fare politica senza le armi, da entrambe le parti, sinistra e destra, potremmo farcela.
È un paese che ha bisogno di ricostruirsi, di costruire un concetto di nazionalità, con tutta questa ricchezza che ha, plurietnica e multiculturale. Penso che il papa ci spingerà verso una cultura dell’incontro, della fratellanza. Scoprire la grandezza del riconoscerci cittadini, compatrioti, avere un orizzonte comune, in un paese in cui possiamo stare bene tutti, andando oltre alle diseguaglianze. Il papa ci aiuterà a girare questa pagina dolorosa, tragica, macondiana (irreale, ndr) per essere una nazione sostenibile, progredendo in un livello di democrazia partecipativa, e costruzione del bene pubblico».
Marco Bello
Colombia: La pace bussa due volte
I guerriglieri delle Farc hanno lasciato i loro rifugi per andare nei «campi di normalizzazione». Dopo il referendum del 2 ottobre 2016, la fine di 52 anni di conflitto interno sembrava in pericolo. Invece, la pace ha bussato due volte. Il 24 novembre è stato firmato un nuovo accordo e il processo di pace ha avuto inizio. Di questo e altro abbiamo parlato con mons. Luis Augusto Castro Quiroga, presidente della Conferenza episcopale colombiana e mediatore nelle lunghissime trattative tra il governo di Manuel Santos e le Farc.
L unedì 3 ottobre tutto sembrava sfumato, volatilizzato: quattro anni di negoziati, la possibilità di porre fine a 52 anni di guerra civile, la speranza di un nuovo inizio per il paese. Il referendum sull’accordo di pace tra governo?Santos e le Farc – peraltro disertato dalla maggioranza dei colombiani – aveva visto prevalere, per poche migliaia di voti, il «no». Invece di perdersi d’animo, le parti si sono subito rimesse attorno a un tavolo per ascoltare le voci dissenzienti e per rinegoziare i punti più controversi.
In poco più di 40 giorni si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo, che il 24 novembre è stato firmato dal presidente Manuel Santos e dal comandante Rodrigo Londoño, alias Timochenko, leader delle Farc. Pochi giorni dopo il testo è passato al vaglio del Senato e della Camera dei rappresentanti, che lo hanno approvato. Alla votazione non ha partecipato lo schieramento dell’ex presidente?Álvaro Uribe Vélez, contrario all’accordo per definizione (oltre che per precisi calcoli politici).
Considerata la lunghezza e difficoltà del percorso, è ancora troppo presto per dire se la pace arriverà per davvero. Quello che però si può dire con certezza è che le Farc (a parte piccole frange isolate) stanno rispettado gli impegni sottoscritti. A gennaio e febbraio migliaia di guerriglieri – tra cui 87 donne incinte e 65 madri allattanti – hanno lasciato montagne, foreste e accampamenti per andare nei 27 «campi transitori di normalizzazione» (Zonas veredales transitorias de normalización e Puntos transitorios de normalización) dislocati sul territorio del paese. Qui, al momento stabilito, consegneranno le armi nelle mani dei rappresentanti delle Nazioni Unite e cominceranno la preparazione per il loro reinserimento nella vita civile e il passaggio alla legalità.
«È cominciata l’ultima marcia delle Farc», ha annunciato l’Alto Commissariato per la pace (Alto Comisionado para la paz). Una frase ad effetto, ma fedele a ciò che sta accadendo.
Il prossimo settembre papa Francesco visiterà la Colombia. Al suo viaggio è stato dato un titolo significativo: «Demos el primer paso», «Facciamo il primo passo». Ad accogliere il papa non ci sarà mons. Luis Augusto Castro Quiroga, attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), che a luglio concluderà il suo mandato. Uno scherzo del destino considerando quanto, fin dagli anni Ottanta in Caquetá, mons. Castro si è speso per la pace e il suo ruolo di mediatore (non sempre compreso e sostenuto anche all’interno della stessa Chiesa cattolica colombiana) nei colloqui tra il governo?Santos e le Farc.
Abbiamo incontrato mons. Castro per parlare non soltanto del processo di pace, ma anche di tutti i problemi che pesano sulla Colombia a partire dalle diseguaglianze e dal narcotraffico.
Margot Silva, della FARC, con suo figlio / AFP PHOTO / Luis Acosta
Dal «no» al nuovo accordo
Mons. Castro, al referendum del 2 ottobre ha vinto il «no» all’accordo di pace. Si è trattato di una sconfitta o semplicemente di uno stop temporaneo sul cammino verso la pace?
«È stata innanzitutto una sconfitta che però si è convertita in un passaggio interlocutorio. È stata una sconfitta sì, ma in una partita giocata tra due minoranze estreme perché la grande maggioranza dei colombiani non ha votato. E non ha votato soprattutto perché non aveva inteso di cosa si trattasse, cosa fosse in gioco.
Continuamente, direi tutti i giorni, io ripetevo al governo: fate un po’ di pedagogia, spiegate questa domanda bene e con semplicità.
Non da avvocato ad avvocato, ma a una persona semplice per aiutare a capire l’importanza di tutto questo. Non lo hanno fatto. Quindi, quelli del no invece di spiegare hanno iniziato a instillare terrore nei colombiani. Sembrava che il processo di pace fosse un processo di guerra. Sembrava un processo contro i colombiani e non a loro favore. Questa propaganda piena di terrore ha fatto sì che molti colombiani abbiano votato per il no.
E alla fine, per pochissimo, quelli del no hanno battuto quelli del sì.
Fin qui, dunque, è stata una sconfitta. Questa è però servita affinché sia quelli del sì come quelli del no s’incontrassero. E soprattutto s’incontrassero quelli del no e il governo per vedere quali fossero le modifiche che essi chiedevano per poter essere soddisfatti e dire sì al processo. Per molti giorni si sono riuniti e alla fine si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo».
Le Farc come hanno reagito alla bocciatura dell’accordo iniziale, quello di agosto?
«La guerriglia è stata molto responsabile. Ha accettato tutte le osservazioni acconsentendo che esse entrassero nel nuovo schema d’accordo. Io stesso sono rimasto tutto un giorno con loro, mostrando le debolezze che c’erano nel testo di agosto e dicendo che avrebbero dovuto considerarle. E così hanno fatto.
Non si è tornati a votare con un referendum. Tutto è passato al Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti, ndr), che è l’organo naturale di un paese, e questo ha iniziato a studiare e votare tutti i punti. E a votare le leggi necessarie affinché i punti si traducano in misure legalmente operative».
Mi permetta di insistere sul referendum di ottobre. Pur lavorando da sempre per la pace, come presidente della Conferenza episcopale, lei non si era dichiarato chiaramente a favore del «sì». Come mai?
«È stata una decisione della Conferenza episcopale, assunta tutti insieme.
Ci siamo dichiarati a favore del voto: che tutti i colombiani e tutti i cattolici andassero a votare. Però non abbiamo dato un’indicazione: né a favore del “no”, né a favore del “sì”. Doveva maturare nella coscienza dei cittadini ciò che a essi appariva come la scelta migliore. E così hanno fatto. Liberamente. Così abbiamo proceduto. Certamente a molti non è piaciuto quello che abbiamo fatto, neppure ai sostenitori del no. Tuttavia, il comportamento era corretto: fare appello alla coscienza di ogni colombiano, invitare a studiare la questione e quindi prendere una decisione. Questo è stato il nostro suggerimento».
Il post conflitto e le «nuove stanze» della Colombia
Lei parla continuamente di «pedagogia della pace». Cosa intende?
«È cercare di far capire alla Colombia il significato di questo processo. Soprattutto il post conflitto. Io mi sono dato un compito: disegnare un’immagine che la gente semplice capisca. Il post conflitto è come la costruzione di una casa nuova. In cosa consiste la novità delle diverse stanze? Che ognuna ha qualcosa che prima non esisteva. Per esempio, la stanza della politica. Essa necessita dell’elemento dell’inclusione, un elemento sempre assente in questi anni. Tutti coloro che erano esclusi dalla politica presero le armi contro lo stato. Prendiamo l’economia. In Colombia essa dà vantaggi solamente a un gruppo molto piccolo di colombiani. È un’economia a cui manca l’elemento della solidarietà. Se si firma la pace, occorre inventarsi un’economia solidale, come sempre richiesto dalla Chiesa. E così per gli altri settori: l’istruzione, la cultura.
Tuttavia, una casa senza cemento cade. Ci sono tre tipi di cemento. Quello etico, che naturalmente ha a che vedere con l’onestà. Come in qualsiasi parte del mondo la corruzione è un elemento molto dannoso. Essa danneggia profondamente la vita di ogni colombiano. Ecco perché è necessario un cemento etico. In secondo luogo, è necessario un cemento spirituale. Esso è il perdono e la riconciliazione. Infine, c’è il cemento culturale. È necessario avere una cultura della vita, dei diritti, delle relazioni umane. L’elemento culturale è molto importante per costruire questa nuova società.
Bene, questa è la pedagogia che può entrare facilmente nella testa di qualsiasi persona, perché tutti sappiamo come si costruisce una casa. Secondo me, questa immagine aiuta a capire il futuro della Colombia in termini di pace».
Monsignor Castro, ci spieghi perché le vittime dovrebbero perdonare.
«In Colombia, le vittime comprovate ufficialmente sono 8 milioni. Però per ognuna di loro ce ne sono almeno due in più: un figlio con mamma e papà, un padre con moglie e figli. Se per ogni vittima ce ne sono altre due coinvolte, arriviamo alla cifra di 24 milioni di vittime. Questo significa il 50% della popolazione. Se non ci sarà il loro perdono, mai smetteranno di essere vittime.
Non esiste la vittima felice. Una vittima sarà sempre infelice. Per questo è importante passare dalla condizione di vittima a quella di sopravvissuto. “Con l’aiuto di Dio io sono stato capace di superare l’odio e il sentimento di vendetta e costruirmi un futuro differente”. Questa è la speranza per ogni vittima. Per questo si insiste sul perdono. E sulla riconciliazione».
Le Farc non sono un cartello
Secondo rapporti internazionali e reportage, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terrorista, per alcuni) in un cartello del narcotraffico che guadagna milioni di dollari. Questa interpretazione è realistica o è manipolata per motivi politici?
«Io direi più la seconda ipotesi che la prima. Le Farc sempre hanno negato di essersi convertite in un cartello della droga.
I guadagni che avevano venivano dalle imposte: se un narcotrafficante voleva droga, doveva pagare alla guerriglia una tassa. Il business rimaneva però nelle mani dei narcotrafficanti.
Per non essere troppo radicale direi che la gran parte delle Farc ha vissuto di questa imposta, nota come vacuna. Non possiamo scartare l’ipotesi che qualcuno si sia messo nel narcotraffico. Però non a livello di organizzazione.
Alcuni guerriglieri non hanno accettato il processo di pace e si sono staccati (sarebbero circa 100 uomini del Frente Primero, di stanza in Guaviare, guidato da Iván Mordisco e Gentil Duarte, e alcune decine appartenenti ad altri fronti, ndr). E credo, come tanti, che lo abbiano fatto perché si sono messi in questa attività. A costoro interessa il denaro e non la pace in Colombia. Sono delinquenti comuni. Però nelle Farc non c’è mai stata una scelta ufficiale di trasformarsi in trafficanti di droga veri e propri. L’hanno usata per ottenere risorse. Come lo hanno fatto con altri strumenti – orribili! – tipo il sequestro (le cosiddette «pescas milagrosas», ndr).
Naturalmente, in questo momento, le Farc cercano di dimostrare che mai sono state dei mercanti di droga. Allo stesso tempo ammettono che chiedevano soldi ai narcotrafficanti per autofinanziarsi».
Con quali esponenti delle Farc lei ha avuto modo di parlare?
«Con molta gente. Con i dirigenti. Con Iván Márquez, per esempio. Una delle ultime volte mi ha sorpreso. Durante una conversazione, a l’Avana, venne fuori una espressione latina. “Mi ricordo ancora qualche frase in latino”, disse lui. “E dove lo ha imparato?”, chiesi. “In seminario”, rispose. “E chi glielo insegnò?”, continuai io. Non so se posso dirlo in questa intervista, ma i padri della Consolata erano stati quelli che gli avevano insegnato il latino.
Un giorno egli decise di lasciare il seminario, ma chiese al vescovo se avesse potuto dargli un lavoro. Lui lo nominò professore in una struttura educativa. Il problema di Iván Márquez era che credeva che quel vescovo fossi io. Invece era mons. Cuniberti. In ogni caso, l’uomo ha maturato un grande rispetto per i missionari della Consolata che sono stati suoi formatori in filosofia, latino e altre discipline.
Questo lo racconto per dire che il dialogo fluiva in maniera molto facile, tranquilla e sincera. Quando il mio collaboratore portava una lista di richieste della gente, Márquez le prendeva e le distribuiva tra i suoi uomini affinché se ne occupassero. Con lui si dialogava. Con Timochenko, il leader maximo delle Farc, ci siamo incontrati solamente una volta. Verso la fine, quando capimmo che loro erano realmente decisi a fare il passo dalla guerra alla pace. E che non c’erano possibilità di tornare indietro».
Le cause economiche e sociali che, nel 1964, portarono alla guerra sono tuttora presenti: concentrazione della terra in poche mani, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione pubbliche. Lei non crede che senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace non potrà mai diventare effettiva?
«La prima causa della ribellione delle Farc contro lo stato fu la loro esclusione dalla politica. Non fu per la povertà né per altri motivi. Il fatto è che, essendo esclusi dalla politica, non potevano lavorare sugli altri aspetti dell’esistenza. Oggi l’obiettivo è integrarsi nella politica. Detto questo, l’accordo di pace non è tanto sugli elementi politici, dati per acquisiti, quanto su tutti gli altri aspetti della vita colombiana. In primo luogo, l’aspetto della terra, una terra superconcentrata in poche mani che non sono certamente quelle dei poveri. E poi il problema agricolo. Tutto è stato studiato nell’accordo di pace che è stato approvato. Una cosa è deciderlo, un’altra è metterlo in pratica. Per fare questo si richiedono ingenti quantità di denaro. Per fortuna molti paesi hanno iniziato ad aiutare».
L’applicazione di cui lei parla ha avuto inizio?
«È iniziata il primo dicembre del 2016. È iniziata con la definizione delle aree dove si concentrerà la guerriglia per le varie fasi del processo. La prima fase è quella del disarmo. Poi la formazione per integrarsi positivamente nella società. Formazione anche dal punto di vista lavorativo, apprendendo elementi che servano per aprirsi le porte nel mondo del lavoro. In generale, la implementazione di un accordo è più difficile della sua approvazione» .
Uribe, il grande oppositore
Mons. Castro, la sua opinione su Álvaro Uribe e sulle Autodefensas unidas de Colombia (Auc).
«Mettere questi due soggetti nella stessa domanda è una cosa… maliziosa… Sono due cose differenti. Io credo che il presidente Uribe
sia stato ferito quando Santos, già ministro sotto la sua presidenza, fu nominato presidente e prese una linea totalmente autonoma rispetto alla sua. E lo fece fin dal suo discorso iniziale. Questo ha fatto sì che Uribe sia diventato un grande oppositore.
Quando papa Francesco ha invitato Santos in Vaticano ha chiamato anche Uribe per cercare un riavvicinamento tra i due, ma non vi è riuscito (a dicembre 2016, ndr). Naturalmente Uribe ha molti nemici e si dice che, in passato, egli abbia avuto rapporti con i gruppi paramilitari come le Auc, composti da delinquenti. Su questa cosa però io non dico nulla perché non ho elementi per giudicare».
Chiudere il «ciclo del dolore»
Abbiamo visto che i numeri delle vittime sono impressionanti. Cosa può dire a una persona che ha perso un familiare o a un profugo?
«A queste persone si possono dire due cose. In primis, che esse hanno la possibilità di fare reclamo contro lo stato per i danni e le conseguenze sofferte perché la guerra era contro lo stato. Questo c’è negli accordi di pace.
In secondo luogo, come ho già spiegato, nel Tribunale per la pace ogni guerrigliero è obbligato a dire ciò che sa in termini di sparizioni, morti, sequestri. Se vuole avere degli sconti di pena, deve dire tutto quello che sa. Come successe in Sudafrica dove la commissione di conciliazione diceva: “Se dice la verità, lo favoriremo. In caso contrario, la giustizia cadrà su di lei con tutto il peso della legge”.
Le vittime, molte vittime possono ottenere risposte in termini di verità, che poi è quello che chiedono. “Che è successo a mio figlio?”, “Che è successo a mio marito?”, “Dove sta il cadavere? Se lo hanno ammazzato, che si possa almeno fare il funerale”. Tutto questo per chiudere il ciclo del dolore. Se esso non si chiude, lascia tutti nell’incertezza continuando a soffrire tremendamente.
Pertanto, da un lato ci sarà l’azione del Tribunale per la pace (organo giudiziale, ndr), dall’altro la Commissione della verità (organo extragiudiziale, ndr).
Da ultimo, l’ho già detto, bisogna invitare le vittime a fare un atto di coraggio: perdonare per non essere più vittime, perché il futuro che meritano non deve essere questo. Non cioè una triste vittima, ma una persona che si è conquistata un progetto di vita, un futuro differente. Una persona che, con l’aiuto di Dio, riconquista la tranquillità e serenità che merita».
Dunque, possiamo riassumere tutto in tre parole: verità, giustizia, perdono. È così?
«Sì, è corretto. Tutte e tre sono parole importanti. Verità per le vittime. Giustizia perché la guerriglia deve rispondere di quello che ha fatto. E perdono che è la motivazione interna di una persona per essere nuovamente felice».
Gli indigeni e il conflitto
L’oltre mezzo secolo di conflitto interno come ha influenzato la vita delle minoranze etniche?
«Le minoranze non sono state colpite in quanto minoranze, ma in quanto colombiane. Tutti siamo stati colpiti dalla guerra. Anche le minoranze etniche. Una delle conseguenze della guerra è stata la confisca della terra principalmente ai contadini e appunto agli indigeni. Sono stati soprattutto i gruppi paramilitari a farlo per beneficio di alcuni. Questo ha prodotto grandi sofferenze. Ci sarebbero molte cose da dire sulle minoranze indigene».
Per esempio?
«Per esempio che la Costituzione della Colombia afferma che esso è un paese multietnico. È un’espressione che a me provoca vergogna. Dire multietnico significa dire che è un paese di diversi, dove ognuno vive e lascia vivere e nulla di più. Mi sembra che sia troppo poco. Noi abbiamo bisogno non di un paese multietnico ma plurietnico. Anzi, ancora meglio sarebbe la parola interetnico in cui la maggioranza e le minoranze si relazionano, imparano le une dalle altre, crescono in un contatto mutuo. Invece, dicendo multietnico è come dire: “Io sono qui e tu là”, “Io non ti disturbo e tu non mi disturbi”. Una minoranza etnica che si chiuda (come succede in Colombia) poco a poco va a sparire perché le culture non crescono per intra-fecondazione ma per inter-fecondazione. Tutte le culture, tutti i popoli si arricchiscono. Se, al contrario, uno si chiude, va a debilitarsi.
Ricordo che, in questo momento, c’è un problema molto grave nel Nord della Colombia, tra i Guajiros: i loro bambini stanno morendo. Morendo di fame» (sono stati oltre 60 i bimbi morti nel 2016, ndr).
La coca e la narcoeconomia
È difficile non ricordare che la Colombia è nota in tutto il mondo per la droga. Oggi, nel suo paese, qual è il peso della narcoeconomia?
«Io non definirei assolutamente così la nostra economia. È un fatto che ci sia un lavaggio di dollari. Tuttavia, da parte dello stato c’è una coscienza ben chiara che esso non può funzionare con questo tipo di denaro. Il contrasto di questo business è molto grande. Le tonnellate e tonnellate di droga che si individuano ogni mese e anno testimoniano che stiamo lottando contro questo problema. Che è molto grande e che è internazionale.
All’interno dell’accordo di pace si stabilisce di aiutare a chiudere con la coltivazione della coca. Prima si era pensato di farlo attraverso la cosiddetta fumigazione (disinfestazione con glifosato, un erbicida probabilmente cancerogeno, ndr). Ci furono molte proteste, alcune corrette, altre meno».
La fumigazione avveniva anche tramite il Plan Colombia degli Stati Uniti…
«Sì, esso aiutava anche in quel senso. Comunque, ci furono proteste e dunque si decise di sradicare le piante manualmente. In tal modo non si contamina l’aria e non si causano problemi addizionali. Adesso anche le Farc andranno a distruggere le piantagioni di coca e lo faranno assieme all’esercito. Questa mi pare una buona cosa».
Però i cocaleros, i piccoli produttori, coltivano la coca perché non hanno alternative…
«No, non direi questo. Per 13 anni io sono stato vescovo del Caquetà, un dipartimento con una notevole produzione di coca. In quel momento – erano gli anni Ottanta-Novanta – la coltivazione della coca si poteva “giustificare”, detto tra virgolette. Cioè si potevano trovare ragioni sul perché si faceva: non c’erano strade, non c’erano aiuti per i campesinos; c’era un’assenza dello stato. Non c’erano né assistenza tecnica, né risorse. Da fuori arrivarono dunque i narcotrafficanti che dissero ai campesinos: “Vi invitiamo a seminare un altro tipo di semi che noi vi daremo”. Erano semi di coca. “Vi offriremo assistenza tecnica. In tre mesi ci sarà il raccolto che noi compreremo”. Insomma, tutto ciò che dovrebbe fare uno stato. “Voi – spiegavano i narcotrafficanti – guadagnerete 10 volte di più di quello che guadagnate in questo momento”. Che campesino poteva resistere a un’offerta di questo tipo? Individualmente, nessuno. Per fare una lotta adeguata contro questo occorreva formare comunità, come nell’esperienza di padre Franzoi (missionario della Consolata, ndr). Comunità unite che si opposero alla coca, avendo però delle alternative. Era il programma “No alla coca, sì al cacao”. Però, lo ripeto, erano attività comunitarie. Un individuo da solo non aveva la capacità di opporsi alla coca.
Questo per spiegare che, a causa dell’assenza dello stato, in quel momento le coltivazioni si giustificavano. Oggi no».
Cosa è cambiato oggi rispetto a un tempo?
«Oggi lo stato non è quello di allora. La Colombia è un paese molto diverso. Con strade, metodi di coltivazione.
La coca è un prodotto miracoloso: in tre mesi la semini e la raccogli. Se un professore può chiedere tre mesi di licenza, va, semina la sua coca e ritorna. Questo è un esempio ironico per spiegare che è una coltivazione molto rapida. Per questo genera molti profitti.
Tutti i produttori di qualsiasi cosa lottano sempre perché non trovano consumatori in numero sufficiente. Al contrario, per la coca i consumatori abbondano e stanno tutti negli Stati Uniti e nel mondo industrializzato. Ogni volta chiedono di più e chi maneggia il business sa che più produce, più venderà.
Questa è la situazione. Però, lo ripeto, c’è tutto un programma per sradicare le coltivazioni di coca e per controllare questo businness».
Lei ritiene che ciò sia possibile?
«Io credo di sì. Credo sia possibile. Perché oggi c’è più volontà, più forza. Non c’è un gruppo che favorisca la produzione come le Farc che da lì traevano le imposte. Anzi, adesso andranno a lavorare per il suo sradicamento. Pertanto, io credo che, se si vuole, si può fare».
AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO
La Colombia e Francesco
La prossima visita del papa in Colombia potrà aiutare il processo di pace?
«Per prima cosa va detto che il papa già ha aiutato in maniera importante il processo di pace nel paese. Ogni volta che c’era un evento speciale lui faceva un intervento speciale. Quando visitò l’Avana fece un intervento illuminante per il paese. Tutto il tavolo delle trattative e specialmente la guerriglia chiedeva di incontrarsi con il papa. Questo non fu possibile. Fummo a l’Avana. Ci spiegarono la richiesta. Parlammo con il cardinal Ortega per capire che possibilità ci fossero. Ci rispose che non c’era alcuna possibilità perché era già tutto programmato e non si poteva cambiare. Allora si chiese non di variare il programma, ma che il papa dicesse qualcosa nell’ambito degli eventi previsti. Il papa accettò e disse parole importanti sulla pace, parole che aiutarono moltissimo.
In ogni caso, il suo interesse per il processo di pace è stato continuo. Tanto che, dal presidente Santos agli altri protagonisti, tutti gli sono grati».
Se dovesse fare un appello finale, lei che direbbe?
«Direi, prima di tutto, che Dio ci illumini per continuare a lavorare per la pace. Per una pace che sia integrale, che non si riduca solamente a lotta di forze per ottenere il potere, che sia veramente la costruzione di relazioni sane tra tutti i colombiani, tra i colombiani e la natura, tra i colombiani e Dio. Una pace completa, insomma.
Come Chiesa, in questi anni di conflitto e di polarizzazione, abbiamo un compito molto difficile da perseguire. Però, poco a poco, tutti stanno cominciando a capire l’importanza e il valore di questo sforzo per la pace».
Paolo Moiola
Il dono della «penna della pace» da presidente Juan Manuel Santos prior a papa Francesco il 16/12/2016 in Vaticano. / AFP PHOTO / POOL / VINCENZO PINTO
La non violenza: stile di una politica per la pace
Il messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della Pace 2017 è talmente intenso e profondo da meritare una lettura nella sua integralità senza essere annacquato da commenti. Buona lettura. Originale da vatican.va
1 All’inizio di questo nuovo anno porgo i miei sinceri auguri di pace ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Goveo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile. Auguro pace ad ogni uomo, donna, bambino e bambina e prego affinché l’immagine e la somiglianza di Dio in ogni persona ci consentano di riconoscerci a vicenda come doni sacri dotati di una dignità immensa. Soprattutto nelle situazioni di conflitto, rispettiamo questa «dignità più profonda»[1] e facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.
Questo è il Messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace. Nel primo, il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «È finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie inteazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore».[2] Colpisce l’attualità di queste parole, che oggi non sono meno importanti e pressanti di cinquant’anni fa.
In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli inteazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme.
Un mondo frantumato
2 Il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i modei mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa.
In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”?
La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti.
La Buona Notizia
3 Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21). Ma il messaggio di Cristo, di fronte a questa realtà, offre la risposta radicalmente positiva: Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cfr Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr Ef 2,14-16). Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».[3]
Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Essa – come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo “di più” viene da Dio».[4] Ed egli aggiungeva con grande forza: «La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”».[5] Giustamente il vangelo dell’amate i vostri nemici (cfr Lc 6,27) viene considerato «la magna charta della nonviolenza cristiana»: esso non consiste «nell’arrendersi al male […] ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».[6]
Più potente della violenza
4 La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979, dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo».[7] Perché la forza delle armi è ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa è «un simbolo, un’icona dei nostri tempi».[8] Nello scorso mese di settembre ho avuto la grande gioia di proclamarla Santa. Ho elogiato la sua disponibilità verso tutti attraverso «l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. […] Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! – della povertà creata da loro stessi».[9] In risposta, la sua missione – e in questo rappresenta migliaia, anzi milioni di persone – è andare incontro alle vittime con generosità e dedizione, toccando e fasciando ogni corpo ferito, guarendo ogni vita spezzata.
La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.
Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».[10] Questo percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie intee ed alla guerra in quelle inteazionali».[11]
La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.
Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita».[12] Lo ribadisco con forza: «Nessuna religione è terrorista».[13] La violenza è una profanazione del nome di Dio.[14] Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!».[15]
La radice domestica di una politica nonviolenta
5 Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentirnero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.[16] Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.[17] D’altronde, un’etica di frateità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica.[18] Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.
Il Giubileo della Misericordia, conclusosi nel novembre scorso, è stato un invito a guardare nelle profondità del nostro cuore e a lasciarvi entrare la misericordia di Dio. L’anno giubilare ci ha fatto prendere coscienza di quanto numerosi e diversi siano le persone e i gruppi sociali che vengono trattati con indifferenza, sono vittime di ingiustizia e subiscono violenza. Essi fanno parte della nostra “famiglia”, sono nostri fratelli e sorelle. Per questo le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana. «L’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Una ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo».[19]
Il mio invito
6 La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni inteazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.
Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni inteazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».[20] Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto. Tutto nel mondo è intimamente connesso.[21] Certo, può accadere che le differenze generino attriti: affrontiamoli in maniera costruttiva e nonviolenta, così che «le tensioni e gli opposti [possano] raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita», conservando «le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».[22]
Assicuro che la Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura».[23] Ogni azione in questa direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero dalla violenza, primo passo verso la giustizia e la pace.
In conclusione
7 Come da tradizione, firmo questo Messaggio l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Maria è la Regina della Pace. Alla nascita di suo Figlio, gli angeli glorificavano Dio e auguravano pace in terra agli uomini e donne di buona volontà (cfr Lc 2,14). Chiediamo alla Vergine di farci da guida.
«Tutti desideriamo la pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti e molti soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla».[24] Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune. «Niente è impossibile se ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace».[25]
Dal Vaticano, 8 dicembre 2016
Francesco
Centrafrica: «so molengue ti mo», questo è tuo figlio
Dalla lettera di Natale di Padre Federico Trinchero da Bangui
Cari amici,
sono quasi certo d’indovinare la vostra prima domanda: “Quanti sono adesso i profughi al Carmel?”. Prima di rispondere a questa legittima domanda, vi dirò invece quanti sono i frati. Quest’ultimi, per fortuna, sono infatti aumentati più dei primi.
Da settembre la nostra comunità ha raggiunto quota 21: 4 padri, 11 frati studenti, 1 postulante e 5 prenovizi. Non eravamo mai stati così tanti. C’è innanzitutto un padre in più. Si tratta di padre Arland che, dopo aver terminato gli studi in Italia, è venuto in aiuto alla nostra comunità. Gli studenti sono invece quasi raddoppiati con l’arrivo di ben 6 giovani frati che, dopo aver terminato il noviziato a Bouar, ci hanno raggiunto al Carmel per iniziare gli studi. L’età media è di 26 anni e siamo probabilmente una della comunità più giovani dell’Ordine. Per fortuna che ogni tanto viene a trovarci padre Anastasio, il fondatore del Carmel, la sua missione più amata. Con i suoi quasi 80 anni alza un po’ la media dell’età… ma quanto ad entusiasmo, iniziative e amore per l’Africa nessuno riesce ancora a batterlo!
Questo improvviso aumento della famiglia, e la prospettiva che in futuro il numero potrebbe aumentare ancora, ci ha costretto a fare qualche lavoro e alcuni acquisti per accogliere i nuovi arrivati: 6 stanze nuove, letti, armadi, tavoli in refettorio, sedie per la sala del capitolo e per la ricreazione. Un grande grazie a chi ci ha aiutato a sostenere queste spese. Siamo consapevoli – e la cosa ci fa ovviamente soffrire – che in Europa conventi e seminari hanno problemi ben diversi. Qui, invece, capita che siamo costretti a mettere due frati per stanza. È, per il Carmelo centrafricano, un momento fortunato e di particolare benedizione del Signore. Oserei dire che essere qui, in questo momento, è un grande privilegio. Ma anche e soprattutto una grande responsabilità. La formazione di questi giovani è e resta la nostra prima missione in questo giovane cuore dell’Africa e della Chiesa; una missione che ci occupa ogni giorno e che richiede pazienza… ma che ci diverte anche!
La situazione del paese è ancora precaria, soprattutto in alcune città. Tuttavia in capitale, almeno negli ultimi due mesi, non ci sono stati scontri particolari. Non è stato così nei mesi precedenti, quando quella tregua, miracolosamente iniziata dopo la visita di Papa Francesco, è stata fortemente minacciata con ancora morti, troppi morti, per quello che ci era sembrato l’inizio della pace.
Il quartiere del Km 5 di Bangui resta ancora un’enclave da cui i musulmani escono molto raramente e per la quale i cristiani passano solo frettolosamente, quasi chiedendo scusa del disturbo. Attoo a questa enclave si estende un grande anello disabitato, una sorta di terra di nessuno, dove i segni della guerra sono ben visibili. Qui, poco più di tre anni fa, cristiani e musulmani vivevano in pace. Ora, invece, ognuno sembra ostaggio dell’altro. Ci sono soltanto case sventrate o bruciate, tetti diroccati, erba alta, carcasse di macchine. Della parrocchia di Saint Michel restano più soltanto le mura. Al Km 5, un tempo, ogni centrafricano si sentiva come a casa sua: ora, invece, sembra quasi necessario chiedere il permesso prima di potervi entrare e la gente si saluta con un sorriso di reciproca diffidenza. Anche un campo di calcio, quasi un termometro inequivocabile di quanto sia ancora alta la febbre delle guerra, resta ancora deserto senza giocatori e spettatori.
Nel frattempo si è conclusa l’operazione Sangaris, dei militari francesi, con il grande merito di aver evitato una carneficina – a dicembre 2013 il rischio di un genocidio era più che reale – e di aver portato il paese ad elezioni quasi perfette. Di fatto nessuno ha contestato il risultato o ha messo in discussione la legittimità del nuovo presidente. Non è una cosa da poco, considerando la situazione difficile nella quale il paese era precipitato e facendo un confronto con altre realtà africane.
Ora il testimone è passato nelle mani dei 12.000 soldati dell’ONU, provenienti da diversi paesi del mondo e dislocati con grandi mezzi – e ingenti spese – su tutto il territorio. Purtroppo i caschi blu sovente sono criticati di inerzia, se non addirittura di complicità con i ribelli ancora attivi al nord. E quindi non sono mancate le manifestazioni di protesta per chiedere la loro partenza e la costituzione di un vero esercito centrafricano (praticamente inesistente da ormai tre anni). Personalmente, pur non essendo particolarmente competente in materia, ritengo che, se l’ONU non ci fosse, la situazione sarebbe peggiore e che un esercito nazionale efficiente e affidabile non si crea in tempi brevi. Ci vorrà quindi del tempo perché la situazione del Centrafrica si stabilizzi in modo duraturo: basta poco per iniziare una guerra, ma per conquistare la pace ci vuole tempo, pazienza e coraggio. E anche personalità capaci di convogliare le forze e le ambizioni migliori del paese. Purtroppo il nuovo presidente Touadera non è riuscito ancora ad operare quella svolta che si sperava. Ma è ancora presto per un bilancio e nessuno può onestamente ritenere che l’impresa sia facile. Sono tuttavia visibili, almeno nella città di Bangui, due importanti segnali di pace: la regolarità delle lezioni nelle scuole e l’apertura di diversi cantieri per la costruzione o la riparazione di edifici, strade e ponti. Decine di giovani, prima disoccupati, sono fortunatamente impegnati a studiare o a lavorare (percependo per la prima volta nella loro vita un vero salario). Scuole e cantieri sottraggono masse di giovani che, prima e durante la guerra, erano il bacino di malcontento da cui le ribellioni reclutavano facilmente del personale per destabilizzare il paese. Detto in modo più semplice: pare che se uno studia o lavora abbia meno voglia e tempo di fare la guerra. Lo stesso arcivescovo di Bangui lo ha detto in modo alquanto chiaro: “ Un giovane che non va a scuola è un futuro ribelle”.
E i profughi rimasti al Carmel quanti sono? Nell’ultimo censimento che abbiamo effettuato abbiamo registrato circa 3.000 persone. Decisamente di meno rispetto alle 10.000 del 2014… ma ancora tante, ormai un vero e proprio villaggio attorno al convento. Un giornalista di passaggio al Carmel ha definito il nostro campo profughi un ‘microcosmo emblematico della drammatica crisi ancora in corso nella Repubblica Centrafricana’.
Molti profughi sono riusciti a rientrare nelle loro case oppure ad acquistae o ricostruie una altrove. Questo significa che per i quartieri di Bangui ci sono circa 7.000 persone – forse anche di più – che hanno trascorso al Carmel qualche settimana, qualche mese o anche uno, due o tre anni. Spesso, quando percorro le strade in centro oppure al Km 5, mi capita di essere interpellato da qualcuno che, vedendo il mio volto, mi riconosce e grida: ” Bwa Federico, mbi lango na Carmel! Zone ti mbi 7. Padre Federico, ho dormito al Carmel! La mia zona era la numero 7 “. È anche capitato che qualcuno, in un impeto di eccessiva riconoscenza, abbia orgogliosamente sollevato un bambino, dicendo: ” So molengue ti mo! E questo è tuo figlio!”. Per fortuna, grazie al colore scuro della pelle del bambino, riesco sempre a scagionarmi da interpretazioni maliziose… Ma, inevitabilmente, il pensiero corre, con un po’ di nostalgia, ai quei fantastici giorni in cui un’efficiente sala parto aveva preso dimora nel nostro refettorio e tanti bambini dormivano in chiesa o giocavano nella sala del capitolo.
Ovviamente i bambini sono sempre la maggioranza degli abitanti del nostro campo profughi. Tenete conto che tutti quelli che hanno meno di tre anni sono nati qui, mentre quelli che ne hanno solo qualcuno in più – e sono arrivati ben legati sul dorso della loro mamma in fuga – qui al Carmel hanno imparato a camminare e a parlare. Per tutti questi bambini – che forse non hanno ancora visto la città – il mondo, di fatto, coincide con il Carmel: un villaggio di tendoni di plastica e legno, palme e terra rossa, attorno ad un Convento in mattoni dove abitano degli uomini che non hanno né mogli e né figli, ma ai quali ci si rivolge quando c’è qualche problema per trovae la soluzione.
Sempre a proposito di bambini vi annuncio – ma, mi raccomando, acqua in bocca, altrimenti ci rovinate la sorpresa – che domani pomeriggio scatterà, sempre dalla Francia (ma con la collaborazione della Svizzera) l’operazione Toblerone. L’operazione Sangaris era per calmare i grandi, questa invece è per fare contenti i bambini. Alcuni giorni fa 150 kg di barrette di cioccolato (sani e salvi, nonostante la temperature decisamente non svizzere!) sono sbarcati al Carmel e saranno il dono di Natale di quest’anno per tutti i nostri bambini. Questo è infatti il quarto Natale che festeggiamo in compagnia dei nostri amici. Ho sempre manifestato il sogno di poter regalare, almeno una volta, qualcosa di buono e di mai visto e gustato a tutti i bambini del Carmel… che hanno perso una casa e molte altre cose, ma non il loro appetito. Un grande grazie a chi mi ha permesso di togliermi questa grande e dolce soddisfazione.
Concludo con un altro sogno che è anche il mio augurio per voi e soprattutto per il Centrafrica.
Ketenguere, che significa ‘piccolo prezzo’, è uno degli incroci più frequentati di Bangui per la vendita degli alimentari e per trovare una moto-taxi. Si trova molto vicino al Km 5 e a soltanto 3 km dal Carmel. Qui, nelle fasi più drammatiche della guerra, venivano immancabilmente bruciati dei pneumatici e innalzate barricate. Ketenguere è diventato più volte una sorta di confine invalicabile: da una parte la guerra, dall’altra la paura. A pochi metri da questo incrocio è stato abbandonato, e ormai quasi incagliato nella terra, un pulmino di colore verde (che potete ben vedere nella foto in allegato). Non ha più le ruote ed è in pessimo stato. Ma – come spesso capita sui mezzi di trasporto pubblico a Bangui – porta una scritta davvero impegnativa: “Savoir pardonner. Saper perdonare”. Da quando è incominciata la guerra il motore si è spento, nessuno ha mai più provato ad accenderlo, nessuno ha mai più avuto il coraggio di salirci sopra… e, inevitabilmente, pochi hanno raccolto la sfida di ‘saper perdonare’. La stato in cui si trova questo mezzo di trasporto mi sembra molto simile alla situazione in cui si trova il Centrafrica.
Allora, ecco il sogno.
Ho sognato che questo pulmino, rimasto senza gasolio, senza ruote, ma sopratutto senza autista e passeggeri, all’improvviso venga rimesso in moto. Ho sognato che al volante si sieda il nostro coraggioso arcivescovo, il neo Cardinale Dieudonné Nzapalainga, sicuramente la persona che, più di ogni altra, non si è mai stancata di chiedere ai centrafricani di ‘saper perdonare’ supplicandoli di uscire dal vortice della vendetta. A bordo ho sognato che possano sedersi i bambini di Bangui. E dietro, siccome le batterie saranno sicuramente scariche, dopo così tanto tempo, e ci sarà bisogno di una buona spinta per far partire il motore, ho sognato che si mettano a spingere, con tutta la loro forza ed energia, i giovani di Bangui. E, una volta acceso il motore, ho sognato che questa simpatica carovana possa attraversare il Km 5… per poi proseguire fino a Bambari, Bocaranga, Bria… e poi, se ne avete bisogno, anche fino a voi.
Questo è il mio biglietto di auguri da Bangui: che ognuno di noi abbia l’audacia di salire su questo pulmino e chiedere come destinazione di condurci là dove sappiamo qualcuno sta aspettando il nostro perdono. C’è gasolio abbastanza per arrivare fin dove non abbiamo ancora avuto, almeno per ora, la forza e il coraggio di andare. Con l’umile consapevolezza che Qualcuno, pur di saperci irrimediabilmente perdonati, non ha temuto di vestirsi della nostra carne e di salire per primo su questo pulmino del perdono e della pace.
Buon Natale!
Padre Federico Trinchero
Qui sotto il link della puntata del 22 Dicembre del programma Today (TV 2000) dedicata al Centrafrica e al Carmel:
A fine settembre e inizio ottobre in redazione si è vissuto col fiato sospeso nell’attesa del risultato del referendum pro o contro l’accordo di pace tra il governo della Colombia e le Farc, accordo che avrebbe dovuto cambiare la vita di quel paese dilaniato da ben 52 anni di instabilità e guerra che hanno causato danni e dolori inenarrabili. Ma il risultato non è stato quello che si sperava e ci ha lasciati con l’amaro in bocca, nonostante il meritato premio Nobel al presidente della Colombia Juan Manuel Santos, e con l’affanno di revisionare il nostro dossier nato nella speranza di celebrare la vittoria del «sì».
In tale contesto è stato abbastanza naturale pensare ad altre situazioni di non-pace e di guerra aperta che esistono nel mondo, così numerose e gravi da far ripetere con insistenza al nostro papa Francesco che stiamo vivendo la terza guerra mondiale. I fronti sono talmente numerosi che non c’è continente che ne sia risparmiato. Le domande che disturbano, guardando a realtà come quelle della Colombia, del Sud Sudan, della Siria sono tante: perché la pace non è possibile? perché, nonostante i millenari fallimenti della guerra, la si preferisce alla pace per risolvere contese? perché, per assurdo, si pensa che ci sia più giustizia in una guerra che in una scelta di pace? perché si crede non ci sia giustizia nel perdono e nella riconciliazione? E in nome della giustizia, della giusta riparazione, si continua a combattere, illudendosi che solo una delle due parti, ovviamente quella nel torto, soffra, mentre l’altra (naturalmente chi è convinto di aver ragione) celebra (o piange?) i suoi caduti eroi. Intanto produttori e venditori di armi giubilano all’impinguarsi dei loro profitti.
Non sta a me dare la definizione di pace (la prima «p»), ma certo non è solo «assenza di guerra». Pace è un modo di esistere, di relazionarsi, di abitare. Pace non è assenza di «conflitto», è anzi riconoscere il conflitto per risolverlo per il bene di tutti, senza vincitori né vinti, ma tutti vincitori. Pace implica armonia, bellezza, gioia, frateità, sicurezza, rispetto, diversità, libertà, solidarietà, equità. Pace è il bene di tutti ma anche la possibilità per ognuno di essere sé stesso, di realizzare la sua vita, di essere felice. Pace è sogno dell’uomo e dono di Dio, punto di arrivo di tutte le nostre aspirazioni. Nella pace fiorisce l’arte, la musica, la cultura.
Ma non c’è pace senza perdono (seconda «p»). Perdono è far prevalere l’amore su tutto il resto. È far sposare il noi con l’io, la gratuità con la legge, il bene comune col diritto individuale; è far prevalere la fiducia sulla diffidenza, la speranza sul pessimismo, la redenzione sulla condanna. Perdonare è riconoscere che il torto non è mai da una parte sola, come la sofferenza e la distruzione. Perdonare è il rifiuto di pensare l’altro come totalmente malvagio e senza redenzione. È credere che l’amore può vincere nel cuore dell’uomo «come scriveva il grande Nelson Mandela: “Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.” Dobbiamo solo crederci col cuore e con la mente!» (da post su Facebook di G. Albanese).
La terza «p» è pazienza, come quella che Dio ha con noi uomini. Una pazienza talmente grande da aver sconfessato nei secoli tutti i profeti di sventura, minaccianti fuoco e fiamme sui malvagi, fautori di tribunali di inquisizione, amici dei roghi o del taglio di mani e di teste per purificare il mondo da chi non la pensa come loro. Pazienza è saper ricominciare e perseverare ogni giorno, seminando ostinatamente piccoli semi di pace e di amore là dove uno vive, senza la pretesa di fare grandi rivoluzioni, di finire in prima pagina o di ottenere «tutto e subito». Pazienza è tessere relazioni nuove e «farsi prossimo» di chi ti è vicino a cominciare dalla tua scala, dal tuo palazzo, dalla tua via. Pazienza è essere inermi nelle situazioni in cui l’umanità è più violentata, come i missionari e i volontari che danno tutto sé stessi, anche la vita se necessario, nel cuore del Sud Sudan, nelle terre dilaniate da Boko Haram, nell’inferno di Aleppo, nell’isola di Haiti devastata dal ciclone Matthew, nelle foreste dell’Ituri saccheggiate dai predatori di legname e minerali, nelle periferie delle megalopoli … Un’elenco impossibile da completare.
La pazienza dell’amore costruisce la pace offrendo il perdono che dona ai nemici la possibilità di riscoprirsi fratelli, di prendersi carico delle proprie responsabilità, di reinventare relazioni, di aprirsi alla speranza. La pace è il dono che Gesù stesso ci ha dato, pagandolo con l’offerta della sua vita. Un dono troppo prezioso per essere lasciato solo nelle mani dei politici e dei maneggioni di questo mondo. Continuiamo insieme a «sognare» la pace.
Colombia: un paese alla ricerca della pace
Sommario
Meglio una pace imperfetta di una guerra
Gli indigeni Nasa e il «sexto frente»
L’attesa si prolunga
Non chiudiamo le finestre alla pace
Sitografia
Video e archivio MC
Meglio una pace imperfetta di una guerra
La maggioranza dei colombiani (votanti) ha deciso di dire «no» agli accordi di pace siglati il 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep. La guerra civile, iniziata nel 1964, ha causato almeno 220mila morti e prodotto danni immensi. Ora inizia una nuova e terribile sfida: tornare al conflitto o continuare sulla strada della pace. In un paese ingiusto e ancora più diviso.
Nel referendum del 2 ottobre il quesito era semplice e chiaro: «Lei approva l’accordo finale per la fine del conflitto e la costruzione di una pace stabile e duratura?». A questa domanda, la maggioranza dei votanti – pochi, appena il 37,4% degli aventi diritto – ha risposto con un «no»: 6.431.376 contro 6.377.482, una differenza di soli 53 mila voti. L’accordo del 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep («Forze armate rivoluzionarie della Colombia – Esercito del popolo») adesso è in bilico, anche se i protagonisti si sono affrettati a ribadire che il dialogo e la pace sono le sole opzioni.
Il risultato ha premiato lo schieramento del «no», capeggiato dall’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, politico tuttora con molto seguito nel paese, anche all’interno della Chiesa. Va ricordato che, durante il suo mandato, Uribe aveva firmato un accordo con i paramilitari delle Auc, ma si era ben guardato dall’indire una consultazione popolare che lo confermasse.
Un conflitto di 52 anni, con 220 mila morti, 6,7 milioni di desplazados, immensi danni morali e materiali, non si cancella con alcune firme su un accordo. Tuttavia, una vittoria del «sì» sarebbe stato un viatico per la speranza.
Se non ci fosse la guerra
La guerra è la peggiore delle situazioni create dall’uomo. È altresì vero che l’assenza di guerra non significa automaticamente – lo vediamo tutti i giorni – un’esistenza pacifica e men che meno felice. Lo scrive chiaramente l’organizzazione colombiana Somos defensores, che pure si è battuta senza tentennamenti per il «sì» al referendum del 2 ottobre.
Nell’introduzione al suo rapporto Este es el fin?, uscito a giugno, la Ong scriveva: le autorità colombiane sostengono che senza guerra «termineranno molti problemi che affliggono il paese poiché esse attribuiscono al conflitto armato gran parte di queste problematiche. Niente di più lontano dalla verità, dato che fenomeni come la corruzione, il clientelismo, la diseguaglianza, il saccheggio delle risorse naturali, la morte quotidiana per mancanza di attenzione medica, l’esclusione, la povertà, tanto per citare alcuni dei molti problemi, non sono effetti del conflitto armato, ma al contrario ne sono la causa, allora perché tutto questo dovrebbe sparire?».
Per dipingere meglio la situazione generale vale la pena ricordare qualche dato, desunto non da organi di sinistra o antigovernativi ma da strutture istituzionali. Secondo cifre della Banca mondiale (anno 2015), la Colombia è il settimo paese più diseguale del mondo e il secondo dell’America Latina: viene dopo l’Honduras, ma prima del Brasile e del Guatemala. Secondo il terzo Censimento agrario (Dipartimento nazionale di statistica, Dane, 2015), lo 0,4% dei proprietari terrieri detengono quasi la metà della terra coltivabile in Colombia e il 44,7% dei contadini vive nella miseria. Sempre secondo statistiche ufficiali riferite al 2015, la povertà riguarda il 27,8% dei colombiani, ma nel Caquetá e del Cauca, dipartimenti caratterizzati da guerra e narcotraffico, arriva al 41,3% e al 51,6%.
Questi pochi dati bastano per due deduzioni, banali ma difficilmente smentibili: la guerra civile non è nata per caso e le coltivazioni di coca non si sono diffuse tra i campesinos per sete di denaro ma per pura sopravvivenza.
L’accordo per «una pace stabile e duratura»
È vero che le quasi 300 pagine dell’accordo de L’Avana sembrano un libro dei sogni, un’utopia di difficile realizzazione, soprattutto dopo il risultato del referendum. Tuttavia, il fatto che le parti, alla fine di 4 anni di dibattito, abbiano raggiunto un’intesa su tante questioni delicate è già di per sé un grande successo.
Il paese aveva già avuto esperienze simili con il disarmo delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc), avvenuto a partire dal 2005. Nel caso dei paramilitari furono approvate due leggi: la Ley de justicia y paz (legge 975 del 2005) e la Ley de victimas y restitución de tierras (legge 1448 del 2011). Lo smantellamento dei gruppi paramilitari è stato però relativamente più semplice, in quanto essi erano nati con il supporto delle stesse forze al potere e dello stato colombiano. Tra l’altro, una parte importante di essi sono rapidamente confluiti in svariate bande criminali (Bacrim, acronimo di bandas criminales).
L’accordo del 24 agosto comprende vari punti e relative intese, tutto al fine di «porre le basi di una pace stabile e duratura». Pur nell’incertezza causata dal «no» del 2 ottobre, vediamo rapidamente i suoi punti salienti.
Come abbiamo già sottolineato, la terra e il suo possesso costituiscono una delle cause fondanti del conflitto. Non per nulla il primo punto dell’accordo riguarda la «riforma rurale integrale» che si prefigge la distribuzione di terra ai contadini senza terra o con terra insufficiente, investimenti pubblici per infrastrutture e sviluppo sociale e, come obiettivo finale, lo sradicamento della povertà tra la popolazione delle campagne.
Il secondo punto riguarda la «partecipazione politica», che significa aprire lo scenario colombiano all’entrata di nuove rappresentanze, portatrici di differenti visioni e interessi. Alla ex guerriglia dovrebbero essere garantiti 10 seggi al Congresso.
Il terzo punto riguarda «il cessate il fuoco bilaterale e definitivo e l’abbandono delle armi». I membri delle Farc sarebbero anche distribuiti in 23 zone e 8 accampamenti. Questo dovrebbe essere anche il punto di partenza per la reincorporazione dei combattenti nei diversi ambiti – economico, sociale e politico – della vita civile del paese.
Il quarto punto è dedicato alla «soluzione del problema delle droghe illecite». Esso prevede un programma di abbandono delle colture illegali e una sostituzione volontaria con colture alternative che garantiscano sostenibilità economica, sociale e ambientale e un’esistenza degna alle famiglie.
Il punto 5 è dedicato alle vittime del conflitto e crea il cosiddetto «Sistema integrale per la verità, la giustizia, la riparazione e non ripetizione». Esso prevede organismi e misure per scoprire la verità e soddisfare il diritto delle vittime alla giustizia. Vengono esclusi amnistia e indulto per i delitti di lesa umanità. Sono inoltre comprese misure per la ricerca delle persone e per la riparazione dei danni.
Il sesto e ultimo punto contiene le intese sui «meccanismi di applicazione e verifica» dell’accordo, inclusa una commissione formata da rappresentanti del governo nazionale e delle Farc.
Artigiani della pace e artigiani della guerra
Da tempo monsignor Luis Augusto Castro, missionario della Consolata, arcivescovo di Tunja e attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), lavora per porre fine alla guerra civile, tanto da essersi meritato l’appellativo di «artesano de la paz» (artigiano della pace).
Per anni missionario prima e vescovo poi nei dipartimenti del Caquetá e Putumayo ad alta presenza guerrigliera, mons. Castro è noto per la sua azione di mediatore con le Farc, anche in favore delle persone da esse sequestrate. Il fatto più noto è la liberazione, nel giugno del 1997, dei soldati catturati dalla guerriglia nella base militare di Las Delicias (Puerto Leguízamo, Putumayo).
Fondamentale ancorché lontano dai riflettori è stato il suo apporto ai colloqui di pace tra il governo Santos e le Farc, con grande disappunto dell’ex presidente Álvaro Uribe, con il quale il prelato ha sempre avuto rapporti piuttosto freddi. A giugno, dopo la firma del cessate il fuoco, Uribe ha rilasciato un duro comunicato in cui parlava di «pace ferita». Ad esso ha risposto, per via indiretta, mons. Castro parlando di «pace rafforzata».
Peccato che anche in seno alla Conferenza episcopale non tutti siano dalla parte dell’arcivescovo di Tunja. Fuor di metafora, la decisione della Cec di non suggerire il «sì» per il quesito referendario del 2 ottobre è stata una evidente presa di distanza dall’azione del suo presidente. D’altra parte, è risaputo, anche se spesso detto sottovoce, che molti vescovi sono schierati con Álvaro Uribe. Sul dibattito intorno alla tematica dell’accordo è molto istruttiva la lettura di un sito – www.votocatolico.co -, che ha fatto una campagna durissima per il «no».
Tra gli interventi pubblicati, c’è quello di padre Mario García Isaza, formatore del seminario arcidiocesano di Ibagué. Padre Isaza parte dalla bocciatura linguistica del testo per passare a quella della riforma agraria che, a suo dire, metterebbe a rischio la proprietà privata, per finire con la condanna dell’aberrazione (testuale) di includere nell’accordo anche le persone omosessuali. Sullo stesso sito, mons. Libardo Ramírez vede negli accordi un futuro con ancora più guerre. Opinione però non condivisa dalla diocesi di Quibdó (Chocó), pubblicamente espressasi per il «sì».
Dietro la guerra c’è…
Il referendum del 2 ottobre ha abbattuto il muro dell’ipocrisia. Come ci ha confessato più di un colombiano, la realtà può essere letta anche in questo modo: «La guerra significa soldi, la pace significa incertezza e può significare anche miseria». L’affermazione contiene elementi di verità, ma è altrettanto vero che chi ci guadagna dal mantenimento dello status quo sono principalmente i ricchi o comunque i potenti.
Vale la pena di concludere con le parole di mons. Castro, parole di speranza ma anche di sano realismo, pronunciate prima del referendum del 2 ottobre: «Quello che è decisivo è ciò che verrà dopo, nel post conflitto. Questo significa costruire una Colombia nuova che corregga gli errori che diedero inizio al conflitto».
Errori che adesso, dopo la vittoria del «no», sarà ancora più difficile correggere.
Paolo Moiola
Il presidente della Colombia, Juan Manuel Santos (L), e Timoleon Jimenez, aka “Timochenko” (R), capo delle FARC, si stringono la mano alla presenza del presidente cubano Raul Castro (C) durante la firma dell’accordo di pace all’Avana il 23 giugno 2016. AFP PHOTO / ADALBERTO ROQUE
L’esperienza /1
Gli indigeni Nasa e il «sexto frente»
Il Cauca è stato un teatro di guerra importante. Qui si sono fronteggiati gruppi guerriglieri (non soltanto delle Farc-Ep), esercito nazionale e indigeni. Per vent’anni padre Antonio Bonanomi ha convissuto (e dialogato) con tutti gli attori. Ecco il suo racconto, le sue critiche, le sue speranze.
Padre Antonio Bonanomi è stato per 19 anni, dal gennaio 1988 a giugno 2007, a Toribío, nel Nord del Cauca, Colombia Sud occidentale, sulla cordigliera centrale delle Ande. Il Nord del Cauca è un luogo strategico per la comunicazione fra il Sud e il Nord del paese e per la sua vicinanza alla città di Cali. Fin dall’inizio del conflitto armato, nel 1964, le Farc-Ep si sono stabilite in questo territorio, formando il «sexto Frente» (sesto Fronte). Sono poi arrivati altri gruppi armati, come l’M-19 (Movimiento 19 de abril, sciolto nel 1990), il Quintin Lame (discioltosi nel 1991), il Prt (Partido revolucionario de trabajadores, sciolto nel 1991). In risposta, oltre alla polizia nazionale, è arrivato l’esercito. E così il territorio si è progressivamente convertito in uno dei principali teatri di guerra con gravissime conseguenze per la popolazione civile, formata al 95% da persone appartenenti al popolo Nasa. A Toribío padre Antonio Bonanomi ha lavorato come cornordinatore della équipe missionaria, formata da sacerdote, suore e laici. Legatissimo a quella terra, con lui abbiamo parlato del passato e del possibile futuro dopo le firme dell’Accordo del 24 agosto e l’inatteso «no» del 2 ottobre.
La nuova Colombia deve attendere
Padre Bonanomi, con il voto al plebiscito un’esigua maggioranza dei colombiani (poco più di 6 milioni sui 13 che hanno partecipato) hanno detto «no» agli accordi tra governo Santos e Farc-Ep. Perché questo risultato e cosa succederà ora?
«Il voto mostra un paese fortemente diviso, con una maggioranza (il 66%) che non ha votato. Ha vinto l’ex presidente Álvaro Uribe Vélez contro l’attuale presidente Juan Manuel Santos. Dopo l’esito del referendum tutti, vincitori e vinti, dicono di volere la pace. Con una sostanziale differenza: i vincitori affermano di volerla senza l’intesa che era stata firmata.
Per quello che si può capire diversi sono i motivi del “no” all’accordo: alcuni hanno detto “no” per ragioni economiche, perché si sentono toccati nei loro interessi; altri per ragioni politiche, perché temono di perdere un po’ di potere; altri ancora hanno detto “no” per ragioni “religiose”, perché pensano che l’accordo apra le porte a un gruppo comunista, ateo e favorevole ai diritti civili dei “diversi”.
La vittoria del “no” è la vittoria di un progetto di paese, culturalmente neo-conservatore, economicamente e politicamente neo-liberale.
Non è facile dire cosa può succedere ora. Con il voto del 2 ottobre un momento “storico”, che poteva significare la nascita di una nuova Colombia, si è convertito in un momento “drammatico” con uno scontro fra due progetti di paese differenti.
Ad ogni modo è importante accettare la sfida e continuare a lavorare senza stancarsi e senza perdersi d’animo per una nuova idea di paese: un paese più umano, più giusto, più aperto alle minoranze e quindi più inclusivo».
Le Farc e il narcotraffico
Se si leggono i rapporti inteazionali e i reportage dei grandi media, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terroristica, a seconda delle diverse interpretazioni) in un cartello di narcotrafficanti che incassa milioni di dollari. Questa rappresentazione è vicina alla realtà o è esagerata per motivi politici?
«Più volte ho avuto occasione di parlare di questo tema con alcuni responsabili del “sexto Frente” e mi hanno spiegato che a metà degli anni Ottanta del secolo scorso i principali gruppi guerriglieri (Farc-Ep e Eln) pensavano che fosse giunto il momento della lotta finale per la vittoria della rivoluzione… e per questo avevano bisogno di altri uomini armati. Si prese pertanto la decisione di aprire le porte a tutti coloro che si presentavano e di arruolare il maggior numero possibile di combattenti. Questa decisione ebbe come conseguenza l’aumento delle spese economiche per armare e finanziare i nuovi arruolati. Per questo ricorsero al sequestro e al narcotraffico».
Pertanto, padre, la guerriglia è diventata anch’essa un attore del narcotraffico?
«Mi spiego meglio. Normalmente le Farc-Ep si limitavano a mettere una tassa sulla produzione e la commercializzazione delle droghe, approfittando del fatto che esse erano coltivate principalmente nelle zone dominate da loro. Quindi normalmente le Farc-Ep non erano produttori e commercializzatori di droghe (coca, marihuana, amapola). Anzi, dove avevano potere, obbligavano i contadini a destinare parte del loro terreno alla produzione di alimenti. Sembra che, in qualche caso, ci siano anche stati gruppi delle Farc-Ep che si siano dedicati al commercio delle droghe creando così di fatto un “cartel” del narcotraffico.
Per quello che mi hanno spiegato persone del “sexto Frente” la decisione di arruolare tutti coloro che si presentavano e la conseguente decisione di entrare nel mondo del narcotraffico è stata motivo di contrasti all’interno del movimento, perché queste due decisioni avevano creato un clima di sfiducia reciproca e la tentazione della corruzione.
Va infine notato che, nella Colombia degli ultimi 30/40 anni, tutti gli uomini del potere (politico, economico, militare, giudiziario, e in alcuni casi anche religioso) hanno goduto dei benefici del narcotraffico. Pochi insomma possono lanciare la prima pietra».
Mons. Castro e la Chiesa colombiana
Da molti anni mons. Castro lavora per il dialogo tra le parti in conflitto. Tuttavia, il suo operato non trova consenso unanime all’interno della Chiesa colombiana. Questo è un fatto evidenziato anche dal mancato appoggio al «sì» nel referendum del 2 ottobre. Come stanno le cose?
«Non è facile parlare della Chiesa cattolica colombiana perché è una realtà molto amplia e complessa. Non sono mai mancate voci e gesti profetici, però nella sua maggioranza la gerarchia e il popolo cattolico hanno assunto posizioni conservatrici e si sono opposti al cambiamento. Molto significative sono state, in questo senso, le figure dei cardinali Alfonso López Trujillo, Dario Castrillón e dell’attuale arcivescovo di Bogotá, card. Rubén Salazar Gómez. In generale si tratta di andare d’accordo con chi detiene il potere e di respingere ogni progetto di modificazione. Al punto che molti pongono anche la Chiesa fra i responsabili della violenza in Colombia.
Questo ha spinto molti cattolici ad appoggiare il “no”, non perché siano contrari all’intesa, ma perché sono contrari alle proposte di cambiamento, soprattutto quello culturale, conseguenti all’accordo.
Credo che questo abbia portato mons. Luis Augusto Castro, come presidente della Conferenza episcopale, a non pronunciarsi apertamente a favore del “sì”, ma piuttosto a promuovere un processo educativo, o meglio una pedagogia che porti la gente alla conversione del cuore, al perdono e alla riconciliazione».
L’attualità delle cause del conflitto
Dopo 52 anni di conflitto interno, si cerca finalmente di parlare di pace. Tuttavia, le cause economiche e sociali che hanno portato alla guerra sono ancora tutte in piedi: concentrazione della terra, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione, tanto per citare le principali. Non pensa che, senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace, qualsiasi pace, non potrà diventare effettiva?
«È verissimo che le cause del conflitto armato che ha accompagnato tutta la storia della Colombia, non solamente gli ultimi 52 anni, sono tutte ancora in piedi, però è anche vero che i rappresentanti del governo nazionale e delle Farc-Ep, che hanno lavorato a Cuba per la definizione dell’accordo, hanno preso in seria considerazione le cause del conflitto e hanno cercato di proporre delle soluzioni. Si sarebbe dovuto aprire un lungo e difficile periodo di lavoro per mettere in pratica le riforme contenute nell’accordo. Oggi, in una Colombia resa più polarizzata dal voto, il cammino verso una pace giusta si è trasformato in una sfida se possibile ancora più grande».
I guerriglieri e le vittime
Come si fa a reinserire nella società, nella vita civile e nella politica migliaia di persone che, per anni, hanno vissuto da guerriglieri? La storia colombiana parla già di due fallimenti, quello dell’Unione patriottica (i cui esponenti furono tutti eliminati in pochi anni) e quello delle milizie Auc (i cui membri sono andati a ingrossare le fila della criminalità organizzata).
«Il problema è reale: negli anni vissuti a Toribío ho visto la difficoltà di coloro che decidevano di lasciare la guerriglia a reinserirsi nel cammino della loro famiglia e della loro comunità, e allo stesso tempo la difficoltà delle famiglie e delle comunità a riceverli di nuovo. Era evidente un clima di estraneità da entrambi le parti. Già con la vittoria del “sì” non sarebbe stato facile il reinserimento (anche perché il conflitto ha lasciato strascichi di odio, di risentimento e di voglia di vendetta), con la vittoria del “no” sarà ancora più difficile. È necessario percorrere un duplice cammino: un paziente lavoro psicologico e spirituale per la conversione della mente e del cuore; un processo di formazione e di preparazione a un lavoro concreto».
I numeri delle vittime sono impressionanti. Che cosa si può dire a una persona che ha perduto un familiare o a uno sfollato?
«Se consideriamo chiuso il conflitto armato, rimangono però le sue conseguenze: migliaia di morti e feriti, di scomparsi e di sfollati. È una piaga aperta nella memoria nazionale e un mare di dolore nel cuore di molti. Nel quinto punto dell’accordo si prevedevano misure per dare una risposta a questa situazione. Sarà necessaria una azione psicologica e spirituale per la cura delle ferite. Oltre che di parole di consolazione, c’è bisogno di gesti concreti che aiutino le persone a guardare e a costruire il futuro con speranza».
Lei parla di un lavoro a livello psicologico e spirituale. Ha qualche esempio concreto in mente?
«L’esempio più famoso è quello delle “Scuole di perdono e riconciliazione” (Escuelas de perdón y reconciliación, Es.Pe.Re.), fondate da padre Leonel Narváez Gómez, un missionario della Consolata colombiano specializzatosi in Inghilterra e Stati Uniti. A livello locale ricordo anche il consultorio psicologico che un altro missionario della Consolata, padre Renzo Marcolongo, aprì a San Vicente del Caguán».
Toiamo alla dura realtà. La narcoeconomia ha radici profonde nella società colombiana. Come fare per ridurre i danni che provoca?
«La narcoeconomia è una realtà globale, non solo colombiana. È parte della cultura mafiosa che ha invaso tutto il mondo. Per questo sono necessarie risposte globali, specialmente da parte dei paesi più ricchi, dove più alta è la commercializzazione e il consumo di droghe. Una delle proposte è la liberizzazione del commercio e del consumo di queste sostanze. Per tornare alla Colombia, l’accordo fra il governo nazionale e le Farc-Ep, al quarto punto, prendeva in considerazione il tema del narcotraffico e proponeva la creazione di alternative concrete, come progetti produttivi, piani alimentari, possibilità di accedere a servizi speciali di educazione e di salute, affinché i coltivatori possano abbandonare le coltivazioni illecite, senza ricadere nella povertà».
I popoli indigeni e le Farc-Ep
Lei ha vissuto per quasi 20 anni tra i Nasa. Questi 52 anni di conflitto cosa hanno significato per i popoli indigeni della Colombia?
«Fin dall’inizio le Farc-Ep si sono ubicate nei territori dei popoli indigeni, sulla cordigliera o nella selva. Normalmente le relazioni fra le due realtà sono state ambigue. Da una parte vi era una certa sintonia perché i popoli indigeni, come le Farc-Ep, lottavano per la terra e contro lo stato e il governo nazionale. Dall’altra parte vi era un certo antagonismo perché i popoli indigeni si consideravano gli unici legittimi proprietari del loro territorio ed esigevano il rispetto della loro cultura.
I popoli indigeni in generale hanno accettato la guerriglia come alleata però non come padrona. Proprio per questo negli anni Ottanta, nel Nord del Cauca, il popolo Nasa aprì le porte al M19 e creò un gruppo guerrigliero proprio, il Quintín Lame, contro le Farc-Ep, perché queste volevano essere padrone del territorio e non rispettavano la cultura indigena».
Ecco il punto, padre Bonanomi: cultura indigena e cultura della guerriglia sembrano molto distanti.
«È vero. C’è sempre stata una forte opposizione fra la cultura marxista e materialista delle Farc-Ep e la cultura spiritualista dei popoli indigeni, fra la lotta per il potere delle Farc-Ep e la lotta per l’autonomia dei popoli indigeni.
Quando nel 2012 iniziarono le trattative in Cuba, molti leaders indigeni espressero dubbi e perplessità sull’accordo e chiesero di essere ascoltati. Fortunatamente il testo definitivo dell’accordo riconosce i diritti e le esigenze delle minoranze etniche, e quindi anche dei popoli indigeni, e questo ha spinto le loro organizzazioni e autorità a promuovere il voto per il “sì” al referendum del 2 ottobre.
Io credo che l’accordo, ove attuato, sarebbe un’opportunità per i popoli indigeni della Colombia nella loro lunga lotta per l’autonomia territoriale, socioeconomica, politica e culturale».
Paolo Moiola
L’esperienza / 2
L’attesa si prolunga
Nella valle del fiume Caguán, in Caquetá, la guerra e la coca sono di casa. Giacinto Franzoiricorda i suoi anni trascorsi in quei luoghi sperduti e pericolosi. E non tace la sua delusione per un «no» che, come minimo, prolungherà un insostenibile «status quo». Trent’anni di vita missionaria lungo il fiume Caguán, prima a Cartagena del Chairá e poi a Remolino, a contatto diretto con il conflitto colombiano, mi inducono a fare alcune considerazioni, in una lettura retrospettiva di cause ed effetti. Quella guerra ha prodotto milioni di desplazados in terra propria. E altrettanti sono quelli scappati in tutto il mondo, per fuggire dalla paura e dalle minacce, alla ricerca di un lavoro per sostenere la propria famiglia, per sentirsi liberi in casa altrui.
Le Farc (la guerriglia più antica del mondo), le Auc, i narcotrafficanti: sono stati cinquanta anni di parole e di massacri. Nella mia casa di missione, a Remolino, ho avuto l’opportunità di ospitare sia alti miliari che i comandanti delle Farc, oggi tutti seduti attorno al tavolo de L’Avana. Quando li ascoltavo, notavo la mutua incapacità di fermarsi, come per dire che non c’era uscita dal conflitto se non per via armata.
Tagliati fuori dalle sedie del potere, ogni forza sociale veniva zittita e dissuasa dalla partecipazione politica (come successe per l’Unión patriótica, Up, a metà degli anni Ottanta, ndr) e dal proporre uscite dignitose da una guerra senza fine. Eppure, chi aveva più diritto di parlare era la popolazione, quella che riempiva le fosse comuni, che soffriva le angherie dei protagonisti del conflitto, il condizionamento di ogni scelta. La guerra è proseguita tra contraddizioni infinite, doppia morale, tentativi di qualche presidente della repubblica (Andrés Pastrana, ndr) di sperimentare forme di dialogo.
Con il Plan Colombia (iniziato nel 1999, ndr) e l’alleanza con gli Stati Uniti sono arrivati migliaia e migliaia di soldati, che hanno iniziato una nuova modalità di fare la guerra. Armi sofisticate e aeronautica militare hanno avuto un ruolo determinante nel dare un colpo mortale agli alti comandi delle Farc. La loro influenza sui territori è diminuita sempre di più. Centinaia di guerriglieri sono stati abbandonati al loro destino. Prima che fosse troppo tardi le Farc hanno deciso di mandare un messaggio alla società colombiana: era arrivato il momento di sedersi attorno ad un tavolo. La chiesa colombiana ha accompagnato la linea del dialogo soprattutto con mons. Castro, missionario della Consolata.
A l’Avana c’era bisogno di conquistare la fiducia dell’altro e la maniera più efficace era quella di non lasciare il tavolo, anche se le incomprensioni sono state molteplici e sempre più intricate. I temi erano di somma importanza e nessuno voleva perdere terreno. Il governo non poteva dimostrarsi troppo debole e la guerriglia doveva assicurarsi le garanzie dopo una eventuale firma di accordo di pace.
Dopo 52 anni di guerra costerà molto a questi combattenti tentare la convivenza, ma bisogna crederci. La strada da percorrere è molto lunga per dare alle milizie guerrigliere quanto concordato.
Complimenti a quanti hanno creduto in questa uscita dal problema e ai portatori della cultura della convivenza, attraverso il dialogo, il confronto e il riconoscimento reciproco. Complimenti anche a quei campesinos di Remolino che hanno seminato un albero diverso dalla «mala yerba» (la coca). Un’impresa (Chocaguan) ideata dalla parrocchia e amministrata dal comitato dei coltivatori di cacao. Una piccola pietra nel difficile mosaico della pace.
Quando tutta l’opinione pubblica nazionale e internazionale dava per scontata la vittoria del «sì», allo spoglio delle schede la sorpresa è stata enorme. Per 60 mila voti in più ha prevalso il «no». Se la democrazia sembra aver vinto, gli sforzi fatti negli oltre 4 anni di dialoghi sembrano ora scritti sulla sabbia. Ha prevalso il vento della vendetta, l’azione di forze occulte (politiche ed economiche), l’incapacità di perdonare e riconciliarsi per un progetto comune, la emotività di un popolo che si entusiasma per nulla e celebra il lutto al suono dei mariachi.
Rimane lo status quo e l’incertezza sul futuro. Vince un vecchio presidente della repubblica, il signor Uribe, con nell’armadio un passato sospetto di delitti, di connivenze con i gruppi paramilitari, di difesa del latifondismo e di altri interessi di potere.
Anch’io ci sono rimasto male. Come tutte quelle mamme che dovranno attendere ancora per poter riconoscere e piangere i propri figli.
Giacinto Franzoi
L’esperienza / 3
Non chiudiamo le finestre alla pace
Per valutare la portata e la complessità dell’Accordo di pace occorre leggee le 297 pagine. Anche i numeri sono importanti. Come quelli delle zone (23) e accampamenti (8) dove i membri delle Farc hanno accettato di deporre le armi. O quelli dei seggi parlamentari (10) che saranno garantiti ai rappresentanti della guerriglia. Se il «no» del 2 ottobre non bloccherà tutto.
L’accordo di pace aveva un obiettivo chiaro: la fine del conflitto armato con le Farc e la costruzione di una pace stabile e duratura. In questo senso, occorre riconoscere che dal giorno della firma sul cessate il fuoco e sulla fine bilaterale delle ostilità, il 23 di giugno, il patto è stato rispettato dalle parti e i fatti lo dimostrano in maniera evidente: zero attentati, zero scontri e zero vittime. Vale la pena di ricordare che durante tutto il processo di negoziazione (iniziato nel 2012, ndr) uno dei maggiori timori di fallimento era quello di proseguire il dialogo nel mezzo della guerra. Fortunatamente e nonostante gli eventi dolorosi che si sono verificati, le parti hanno mantenuto la volontà politica di arrivare fino alla fine (ribadendo le loro intenzioni anche dopo l’inatteso «no» del 2 ottobre).
Del conflitto armato colombiano si parla come di uno dei più complessi del mondo, sia per la sua durata, 52 anni, che per la trama di attori legali e illegali e per le sue relazioni e dinamiche legate alle regioni in cui esso si è sviluppato.
Se guardiamo alle cause che hanno generato il conflitto, esse continuano a sussistere: la concentrazione delle terre produttive in poche mani, la scandalosa diseguaglianza sociale, l’accumulazione di ricchezza a fronte di una pungente povertà, la sistematica esclusione di vasti settori della società come i contadini, gli indigeni e gli afroamericani, la profonda corruzione della classe politica e dirigente che accumula fortune rubando all’erario statale attraverso i contratti pubblici, la precarietà e assenza dello?stato nella Colombia rurale.
Come se tutto questo fosse poco, si è sommato il mostro del narcotraffico che, a partire dagli anni Ottanta, è servito da combustibile per la guerra e che ha corrotto tutti i settori dello stato, provocando inoltre perverse alleanze tra narcotrafficanti, paramilitari e politici, nonché legami della guerriglia con il businness della droga.
Anche se l’accordo bocciato il 2 ottobre non garantiva che le grandi e storiche diseguaglianze ed esclusioni si sarebbero risolte, esso avrebbe permesso di aprire finestre di speranza attorno a tematiche cruciali come: la fine del conflitto armato e delle Farc come organizzazione armata illegale, la riforma rurale integrale, l’ampliamento della partecipazione politica, la sostituzione delle coltivazioni illecite con altre lecite, un sistema di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione per le vittime.
La base di partenza: conoscere l’Accordo
A favore del «sì» si erano schierati: il governo e la coalizione Unidad nacional (di cui fanno parte partiti tradizionali e nuovi che godono di un’ampia maggioranza nel Congresso), i partiti di sinistra e altri partiti alternativi, nonché alcune organizzazioni sociali di base di varia natura. Dalla parte del «no» si erano invece schierati i settori che rappresentano la frangia più conservatrice del paese e la destra. Nel dibattito politico, i rappresentanti che capeggiavano i due schieramenti hanno assunto posizioni drasticamente polarizzate, generando confusione e disinformazione nella popolazione.
Nel mezzo di uno scenario di attacchi e contrattacchi era difficile mantenere la calma senza lasciarsi prendere dalla febbre del momento. Esistono uomini e gruppi moderati e conciliatori – tra essi la Chiesa cattolica – che hanno promosso il dibattito e la discussione civile a partire dalla conoscenza delle 297 pagine dell’Accordo. Un compito questo né piacevole né facile: occorreva (e occorre) avere pazienza e umilità per indagare, domandare e partecipare. Gli aiuti pedagogici elaborati da soggetti distinti – organizzazioni popolari, della Chiesa, delle istituzioni nazionali e inteazionali, dello stesso governo – hanno permesso a una parte della popolazione con un basso livello di scolarità di fare propria una certa prospettiva storica alla luce del passato, del presente e del futuro.
Lo smisurato sforzo dei negoziatori
Partendo dalla mia esperienza missionaria tra le comunità che più hanno sofferto il conflitto armato e le sue conseguenze, con i lettori della rivista vorrei condividere alcune riflessioni personali.
Al di là del risultato referendario, è evidente che il processo di negoziazione e il fatto di aver raggiunto un accordo che ha sancito la fine del conflitto e ha fissato i paletti per una pace stabile e duratura hanno rappresento una crescita umana, sociale e culturale. Voler terminare un conflitto armato della vastità – 8 milioni di vittime, tra cui 224 mila morti e 7 milioni di sfollati – di quello colombiano attraverso il dialogo ha richiesto un alto grado di volontà e di razionalità politica in favore del valore più prezioso che è il rispetto della vita e il diritto fondamentale a vivere in pace. Va pertanto elogiato l’immane sforzo dei negoziatori del governo e della guerriglia durante questi quattro anni.
La guerriglia delle Farc si è impegnata a lasciare le armi per la politica. Mai prima, in più di 52 anni di lotta armata, dopo vari tentativi di negoziazione (soprattutto sotto la presidenza Pastrana, ndr) e nonostante avesse subito dure sconfitte, la guerriglia aveva accettato di sottomettersi alla Costituzione e alla legge. Questo è stato un risultato fondamentale ottenuto dal negoziato e, ancora prima di questo, dai successi delle forze armate colombiane, capaci di infliggere perdite considerevoli alla guerriglia (culminate nel novembre 2011 con l’uccisione di Alfonso Cano, comandante in capo delle Farc, ndr). Detto questo, le Farc, in quanto organizzazione politico-militare, mai hanno perso la loro capacità di destabilizzare lo stato, così come di controllare e influenzare una parte consistente del territorio nazionale. Per questi motivi e alla luce di non essere state sconfitte, al fine di contribuire alla pace esse hanno convenuto «l’abbandono volontario delle armi».
Dalle armi alla partecipazione politica?
Tralasciando gli imprevedibili effetti del «no» del 2 ottobre, secondo l’Accordo tutti i membri delle Farc dovrebbero essere raggruppati in 23 cosiddette «zone transitorie di normalizzazione», disseminate in vari municipi del paese, e in 8 accampamenti per i comandanti. In questi luoghi si dovrebbe realizzare il processo di abbandono delle armi, che rimarranno nelle mani dell’Onu. Dopo 6 mesi, una volta formalizzata la situazione dei guerriglieri, si dovrebbe dare inizio al processo giudiziario dei suoi membri attraverso la «Giurisdizione speciale per la pace».
In materia di partecipazione politica, le Farc dovrebbero avere fino al 2018 tre rappresentanti alla Camera e tre al Senato con diritto di parola ma non di voto. Successivamente, esse potrebbero partecipare alle elezioni per il Congresso, avendo assicurati in ogni caso 10 seggi parlamentari.
Anche se questa eleggibilità politica è stato uno dei cavalli di battaglia del «no» all’Accordo, va ricordato che anche i governi anteriori lo avevano promesso al fine di arrivare alla pace.
Finalmente un’opportunità per contadini, afroamericani e indigeni
Per decenni, governi distinti hanno giustificato in parte i loro insufficienti interventi e investimenti sociali con la presenza delle Farc nelle zone di più difficile accesso. Se gli accordi venissero comunque applicati, si aprirebbero finestre di opportunità affinché le comunità di campesinos, afro e indigene rafforzino i propri piani di sviluppo integrale, di distribuzione delle terre e loro formalizzazione legale, di miglioramento delle vie di comunicazione per la commercializzazione dei prodotti. Oltre a ciò, il progetto di restituzione delle terre già attivo (Ley 1448 o Ley de Víctimas y Restitución de Tierras, 2011, ndr) potrebbe trovare un ambiente più adatto per il proprio sviluppo a tutto beneficio delle vittime (si calcola che gli sfollati abbiano abbandonato 4-6 milioni di ettari, ndr).
Per il caso colombiano ritengo che sia stato di vitale importanza l’appoggio della comunità internazionale, rappresentata sia dai paesi garanti e facilitarori (Cuba, Norvegia, Venezuela e Cile) che dall’Onu e dalla Corte penale internazionale. Se nonostante tutto ancora ci sarà un processo di applicazione degli accordi – il cosiddetto postconflitto -, la comunità internazionale dovrebbe offrire una blindatura di sicurezza giuridica e di chiusura dei processi che si dovrebbero tenere tanto per i guerriglieri quanto per tutti coloro che, durante il conflitto, hanno commesso delitti, inclusi i membri delle Forze armate. La Corte penale internazionale dovrebbe evitare che ci sia impunità, in linea con gli standard inteazionali soprattutto con riferimento ai crimini di lesa umanità commessi nel corso del conflitto (il Trattato di Roma del 1998 elenca 11 tipi di delitti classificabili come crimini contro l’umanità, ndr). Dovrebbe garantire inoltre che vengano rispettati i tempi e i processi di quanto pattuito in materia di verità e di giustizia.
Continuerà la terribile notte?
La guerra è la sconfitta dell’umanità. La Colombia che oggi abbiamo è stata in parte partorita dalla guerra e dalla violenza. È per questo che sognare di poter chiudere queste dolorosissime pagine della nostra storia significa aprirsi a nuove opportunità di cui soltanto le nostre future generazioni potranno godere appieno. Senza le assurde dispute e meschinità della politica attuale, lontani da insane gelosie e falsità che vogliono soltanto condannarci a ripetere la storia di «100 anni di solitudine» (riferimento al famoso romanzo di Gabriel García Márquez, ndr).
Poco a poco supereremo la orribile notte. Sarebbe bello se i colombiani del futuro potessero dire che sebbene «qui è sempre successo il peggio, sempre qui è successo il meglio». A significare che siamo stati capaci di aprire le finestre alla speranza, alla giustizia, alla riconciliazione e alla pace.
Benjamín Martínez Solano
Sitografia
In rete si possono trovare buoni siti d’informazione sull’Accordo del 24 agosto 2016:
Antonio Bonanomi– Missionario della Consolata brianzolo, è arrivato in Colombia nel gennaio del 1979. Dopo 5 anni a Tocaima, dal 1983 al 1987 ha insegnato a Bogotá. Da gennaio 1988 e per quasi 20 anni ha lavorato a Toribío, nel Cauca, tra le popolazioni?Nasa, contribuendo alla loro causa e promuovendo la realizzazione del centro di formazione Cecidic (1994). Dal 2014 è tornato in Italia.
Giacinto Franzoi– Missionario della Consolata trentino, padre Giacinto Franzoi ha operato in Colombia dal 1979 al 2008 nel Caguán, nella regione amazzonica del Caquetá. Ha raccontato quel periodo in alcuni libri di memorie: Rio Caguán. Memorias y leyendas de una colonización, Bogotà; Dio e coca, Fatti e misfatti di una missione, Ancora Editrice, 2003; I prigionieri del Caguán, Ancora Editrice, 2010. Oggi presta servizio a Rovereto. Per richiesta libri o conferenze: jacintofranzoi@libero.it.
Benjamín Martínez Solano – Nato a Bucaramanga, in Colombia, dopo l’ordinazione sacerdotale come missionario della Consolata è stato per 8 anni in Corea del Sud. Dal 2002 è tornato nel suo paese natale. Ha lavorato con le comunità afro a Marialabaja (Bolivar), con i contadini a San Vicente del Caguán (Caquetá), con le comunità indigene a Toribio (Cauca). Oggi lavora a Cartagena del Chiara (Caquetá). Teologo, è laureato in scienze politiche.
Ringraziamo per la collaborazione padre Angelo Casadei, superiore dei missionari della Consolata in Colombia. Attualmente a Bogotá, ha lavorato a Remolino (Caquetá).
A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.