Con la firma del 16 settembre a Gedda, l’Eritrea sembra aver perso il suo
maggior nemico: l’Etiopia. Sono passati due anni di guerra e 18 di guerra
fredda. Il piccolo paese che si affaccia sul Mar Rosso si è sigillato nei suoi
confini diventando la peggiore dittatura d’Africa. Cosa cambierà per i suoi
abitanti? Ci saranno aperture? Intanto sembra si sia innescato un effetto
domino che potrebbe portare a un cammino verso la pace in tutta l’area.
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna
che tutto cambi». Sostituite il principe Tancredi a Isaias Afewerki, Salina ad
Asmara e il gioco è fatto. Nulla meglio del celebre romanzo «Il gattopardo» di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa riesce a spiegare l’attuale situazione
dell’Eritrea. La pace con l’Etiopia sembra aver portato un grande cambiamento
nel piccolo paese affacciato sul Mar Rosso ma, al momento, poco è davvero
mutato rispetto al passato. Il regime è ancora lì, intatto. La sua presa sulla
politica e sulla società è ancora fortissima. La Costituzione non è stata
emanata. Non esiste un sistema giudiziario indipendente. I più elementari
diritti umani e civili non sono tutelati. Le forze armate non sono state
smobilitate. Pochi detenuti politici sono stati liberati. Certo, l’intesa con
Addis Abeba ha portato a un miglioramento delle condizioni di vita, perché nel
paese sono arrivate più merci.
Economia in ripresa
La proposta
di pace avanzata il 6 giugno dal premier etiope Abiy Ahmed al presidente
eritreo Isaias Afewerki ha spiazzato l’Eritrea. Negli ultimi vent’anni lo stato
di non belligeranza con Addis Abeba, seguito al conflitto del 1998-2000 tra i
due Paesi, era servito al regime di Asmara per giustificare il suo potere.
Invocando la «minaccia etiope», Afewerki ha imposto un regime di rigida
autarchia economica accompagnata da una forte stretta politica.
Con la pace
firmata il 9 luglio e poi ratificata il 16 settembre a Gedda (Arabia Saudita),
l’Eritrea ha perso il suo principale nemico e, con esso, ogni pretesto per non
introdurre garanzie democratiche. In realtà, nel paese poco è cambiato. Le
piccole trasformazioni sono avvenute soprattutto in campo economico. «Con
l’apertura delle frontiere con l’Etiopia, prevista dagli accordi di pace –
osserva Erminia Dell’Oro, scrittrice italo-eritrea -, i prezzi dei generi
alimentari e di prima necessità sono fortemente calati. Il teff, cereale base
della cucina eritrea ed etiope, fino a pochi mesi fa costava moltissimo e la
gente soffriva la fame, perché doveva pagare cifre elevate. Oggi il costo è
calato, nei mercati ce n’è maggiore disponibilità grazie alle importazioni
dall’Etiopia. Da anni, la mia famiglia voleva rifare la facciata della casa, ma
aveva soprasseduto perché il cemento e gli intonaci costavano troppo. Adesso i
prezzi sono calati e stiamo progettando di mettere in campo i lavori».
La povertà
però è diffusa. «Servirebbero politiche che favoriscano la
reindustrializzazione del paese – spiega una giovane asmarina che vuole
mantenere l’anonimato -. Il paese deve recuperare la sua vocazione commerciale.
Pensiamo solo all’importanza dei nostri porti, in particolare Massaua e Assab.
Se ben sfruttati possono diventare lo sbocco al mare per tutto il Corno
d’Africa. L’Eritrea deve però investire per ricostruire quel tessuto
industriale e artigianale un tempo così fiorente (cotonifici, birrifici,
aziende artigiane, ecc.). Solo questo ci può garantire un flusso costante di
entrate e maggiore occupazione».
Attualmente
in Eritrea non c’è lavoro. La povertà è palpabile. «Girando per le strade si
vedono mendicanti che chiedono l’elemosina – continua la scrittrice -. Un
tempo, una cosa simile era impensabile. Molti giovani sono fuggiti e le
famiglie sono composte dai nonni che, tra mille difficoltà, crescono i nipoti».
La povertà
è evidente, anche se si guardano i palazzi e le strade di Asmara. «La nostra
capitale – conclude la ragazza asmarina – è come una donna che da giovane era
bellissima ma è invecchiata male e oggi è piena di rughe. Le strade sono
dissestate e piene di buche. Gli edifici, un tempo splendidi, frutto dei
progetti dei migliori architetti italiani, dimostrano i segni degli anni.
Vent’anni di stato di guerra hanno lasciato segni profondi. Ma sono convinta
che, appena ci saranno le condizioni, Asmara tornerà al suo antico splendore».
Stallo politico
La politica
però rimane un tabù. Nelle strade, nei luoghi pubblici, nelle scuole non si
parla del presidente, del governo, del partito di maggioranza. C’è paura.
L’apparato repressivo, che fa leva su una capillare rete di informatori, non è
stato smantellato. «Nel paese non c’è dibattito – continua Erminia -. Tra la
gente comune c’è una grande ammirazione per il premier etiope Abiy Ahmed. Un
primo ministro giovane, dinamico, che ha saputo superare una crisi politica
lunga vent’anni. Di Isaias Afewerki si parla poco o nulla. C’è la speranza che
sappia guidare una trasformazione del paese. Anche se molti ne dubitano».
I problemi
degli ultimi vent’anni sono ancora tutti sul tavolo. La Costituzione
democratica, redatta alla fine degli anni Novanta, non è mai entrata in vigore.
Quindi non c’è una Carta che garantisca i più elementari diritti civili. Nel
paese non si tengono regolari elezioni, non c’è un parlamento e sistema
giudiziario indipendente. Alcuni oppositori sono stati rilasciati, ma la
maggior parte sono ancora in una delle 350 prigioni del paese. «Quello di
Asmara – sottolinea Mussie Zerai, sacerdote dell’eparchia di Asmara – è uno dei
regimi politici più duri del mondo, una dittatura che ha soppresso ogni forma
di libertà, annullato la Costituzione del 1997, soppresso di fatto la
magistratura, militarizzato l’intera popolazione per quasi tutta la vita. Una
dittatura che ha creato uno stato prigione. Anche di recente sono stati
arrestati oppositori, sono state chiuse scuole cattoliche e islamiche, sono
stati sbarrati otto centri medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca
della chiesa ortodossa Abune Antonios, fermato nel 2004, si trova ancora agli
arresti dopo ben 14 anni».
Negli anni,
il regime ha arruolato migliaia di ragazzi e li ha schierati alla frontiera con
l’Etiopia. Questi militari di leva, per i quali non era e non è prevista una
data certa di congedo, non sono ancora stati smobilitati. «La pace – spiega un
altro religioso che vuole mantenere l’anonimato – non ha portato a uno
snellimento delle forze armate. Nonostante la minaccia etiope sia venuta meno,
i reparti sono ancora a pieno organico. Nessun giovane è tornato a casa. La
gente inizia a chiedersi perché. Che senso ha tenere una struttura così grande
e costosa?».
E le
persone continuano a fuggire. Se in passato si scappava di nascosto, attraversando
la frontiera di notte per non farsi bloccare dalle guardie di confine, oggi lo
si fa alla luce del sole. Grazie all’apertura della rotta aerea Asmara-Addis
Abeba, molti eritrei si recano in Etiopia e da lì verso altri paesi africani o
verso l’Europa. «L’Eritrea – ci dice Tekle Haile, eritreo, storico oppositore
del regime, da anni in esilio in Italia – ha siglato un trattato di pace di cui
non si conoscono i contenuti. L’opposizione, oggi frazionata, ma che nei
prossimi mesi darà vita a un unico soggetto, teme che il nostro paese sia stato
svenduto all’Etiopia. Che ne sarà dei nostri porti? Delle nostre strade? Dei
nostri ponti? Della nostra economia? Non vorremmo che, dopo trent’anni di
guerra di indipendenza, un altro conflitto durato tre anni seguito da vent’anni
di dura non belligeranza, ora l’Eritrea torni a essere una sorta di provincia
di Addis Abeba. Questa incertezza economica e questo regime così oppressivo
fanno paura e la gente continua a fuggire».
Enrico Casale
Chi è l’artefice del cammino di pace
Abiy Ahmed: come ti rivolto il Corno
La pace tra Eritrea ed Etiopia ha un
protagonista: è il premier etiope Abiy Ahmed. È stato lui l’artefice dell’apertura
nei confronti di Asmara. Ma questo è solo uno dei tasselli della politica di
riforma con la quale sta trasformando nel profondo il suo paese.
Multietnico
Abiy Ahmed, 42 anni, cristiano riformato, ma figlio di un papà
musulmano e una mamma cristiana ortodossa, è un oromo, appartiene cioè
all’etnia maggioritaria, sebbene sempre discriminata. Arrivato al potere,
nell’aprile 2018 ha avviato una serie di grandi cambiamenti. Oltre ad
annunciare, fin dal suo primo discorso tenuto il 2 aprile, la necessità di un
dialogo con l’Eritrea, ha promosso una riconciliazione nazionale, ordinando il
rilascio di migliaia di prigionieri politici e legalizzando i gruppi di
opposizione, a lungo definiti «organizzazioni terroristiche». In campo
economico ha promesso di rilanciare l’economia etiope (che viaggia già a
percentuali di crescita intorno all’8-9%) scommettendo sul sistema produttivo e
privatizzando alcune imprese statali. Anche la pace con l’Eritrea potrà avere
profondi risvolti in campo economico: l’Etiopia potrà infatti sfruttare i porti
di Massaua e di Assab, più vicini e meglio collegati di quelli di Gibuti e Port
Sudan.
Pace nel Corno d’Africa
Proprio la pace con l’Eritrea ha creato una sorta di effetto
domino che, dopo anni di forti tensioni, sta riportando stabilità in tutto il
Corno d’Africa. Dopo l’intesa fra Asmara e Addis Abeba, il premier Abiy Ahmed e
il presidente Isaias Afewerki hanno infatti aperto un tavolo di trattativa con
il presidente somalo Mohamed Abullahi Mohamed «Farmajo». Da questo tavolo, il 6
settembre è nato il Joint
high level committee, una commissione
formata dai tre governi che mira al rafforzamento dei loro legami politici,
economici, sociali e culturali, oltre che garantire il perseguimento e il
mantenimento della pace e della sicurezza in tutta l’Africa orientale. Un passo
avanti importantissimo se si tiene conto che la Somalia è stata per anni un
teatro in cui Eritrea ed Etiopia si sono scontrati per interposta persona. Non è
un caso che, nel 2009, l’Onu ha imposto ad Asmara l’embargo sull’importazione
delle armi per il sospettato supporto eritreo ai militanti islamisti somali di
Al Shabaab (milizia da sempre feroce avversaria dell’Etiopia).
La creazione di questa commissione ha rappresentato la base per
porre un altro tassello della stabilità regionale: la pace tra Eritrea e
Gibuti. Le tensioni tra i due paesi risalgono al 1996, quando l’ex Somalia
francese ha accusato Asmara di un attacco presso il villaggio di Ras Doumeirah.
L’episodio non si è trasformato in guerra aperta, ma le tensioni si sono
trascinate fino al 2010 quando, grazie alla mediazione del Qatar, le due
nazioni sono arrivate a un accordo sulle dispute territoriali. Nel 2017 le
tensioni sono tornate ad accendersi quando Gibuti si è apertamente schierata a
favore della coalizione saudita contro il Qatar, mentre l’Eritrea ha continuato
a professarsi amica di Doha. Proprio grazie alla mediazione di Etiopia e
Somalia, la frattura è stata ricomposta e a metà settembre i presidenti eritreo
Isaias Afewerki e gibutino Ismail Omar Guelleh hanno siglato un’intesa di
collaborazione.
Diffidenze
È ormai chiaro che le aperture di Abiy Ahmed hanno dato il via a
un processo di distensione che va oltre la stessa Etiopia e investe l’intera
regione. Una regione, il Corno d’Africa, che negli ultimi 25 anni ha conosciuto
guerre civili lunghissime (Somalia) e tensioni tra stati (Gibuti, Eritrea ed
Etiopia) che hanno frenato la crescita economica e sociale.
Non tutti però apprezzano la politica di apertura del premier di Addis Abeba. La diffidenza arriva dall’etnia tigrina (che in Etiopia rappresenta solo il 7% della popolazione) che ha gestito il potere dall’inizio degli anni Novanta, ma anche dagli apparati di sicurezza e da alcune frange delle forze armate. Riuscirà Abiy Ahmed a superare queste resistenze? La popolazione è dalla sua parte. E anche la comunità internazionale, se è vero che il Wall Street Journal lo ha definito «la più grande speranza per il futuro democratico dell’Etiopia».
En.Cas.
Abbiamo un «piccolo» problema a Gaza
Due paesi abbracciati. Due paesi strettamente legati. Due stati che non si riconoscono. Ma c’è chi crede nella pace e così nasce un movimento di donne attiviste. Mentre un gruppo di suore lavora con bambini audiolesi. Reportage tra Israele e Palestina. Dalle due parti del muro.
Testo e foto di Valentina Tamborra
Il tassista guida veloce verso la frontiera con la Giordania. Qui a Eilat, sulla punta più estrema di Israele, al confine con l’Egitto, la guerra è un concetto lontano. Spiaggia, barriera corallina, locali alla moda: qui la vita, almeno all’apparenza, scorre tranquilla. Non fosse per l’avviso trovato nella camera dell’hotel dove ho dormito: «Il rifugio antiaereo si trova nell’interrato, piano -1».
Ma Israele è così: da Tel Aviv a Eilat, a un primo sguardo superficiale, non ci sono motivi di tensione. Eppure il 10 agosto, solo due giorni prima del mio arrivo, c’è stato l’ennesimo scambio di missili fra Israele e Gaza.
Il tassista sostiene che il problema di Israele siamo noi giornalisti e media: raccontiamo una guerra che non c’è.
Se fosse il mio primo incontro di questo tipo mi stupirei, ma dal primo giorno in Israele ho avuto la netta percezione che ci sia una ferrea volontà di rimozione. Forse è, in parte, una difesa: vivere in un costante stato di allarme porta a un fatalismo estremo che sfocia nel tentativo di trovare la normalità lì dove di normale c’è ben poco.
Di tutt’altro avviso è invece Hamutal Gouri, fondatrice, insieme ad altre quaranta donne, del movimento «Women wage peace» (Le donne muovono la pace).
Sedersi accanto
Il movimento nasce nell’estate del 2014, racconta Hamutal, per creare uno spazio dove sedersi l’uno accanto all’altro, pur essendo in disaccordo, e avere così la possibilità di creare un dialogo.
Il movimento ogni anno elegge un gruppo di quattro donne che formano la squadra al comando per dodici mesi. Non si basa su una figura carismatica, ma sulla partecipazione popolare.
Women wage peace è una realtà controcorrente non solo perché professa la pace. Hamutal mi spiega, infatti, che in Israele vige ancora una mentalità fortemente maschilista. Il regno della donna è la casa: lì è la regina, ma dalla vita pubblica viene tenuta fuori.
Women wage peace sfida questa realtà: le donne combattono perché la loro voce venga ascoltata.
Dunque è un doppio obiettivo quello che si prefiggono: da un lato l’accesso alla vita pubblica, la libertà di opinione, e dall’altro, ovviamente, un accordo di pace.
Hamutal mi spiega che sono ispirate dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu 13-25 che stabiliva che, siccome le donne sono le più colpite nei conflitti, devono anche divenire parti attive nella trasformazione e nella risoluzione degli stessi.
«È molto più facile per me credere che ci possa essere una pace o una collaborazione tra Ebrei e Palestinesi, credere nel potere delle persone e specialmente delle donne di portare la pace. È molto più facile per me pensare questo, piuttosto che accettare il fatto che non ci sarà mai pace». È lo spirito che ha mosso donne coraggiose a dare il via a quello che ad oggi è diventato un movimento con 40mila persone iscritte.
Una varia umanità
Women wage peace raccoglie iscritti da tutto il mondo: decine di migliaia di membri appartenenti alle frange politiche di destra, centro e sinistra, arabi, ebrei, laici, religiosi, dai paesi alle periferie, donne dai kibbutz e dagli insediamenti. Tutti uniti per la richiesta di un mutuo accordo nonviolento condiviso da entrambe le parti.
Moltissime le iniziative organizzate: a partire dalle tremila donne che nel 2015 hanno circondato la Knesset – il parlamento monocamerale di Israele – per chiedere un’iniziativa di pace, e dalla celebre Marcia della speranza, nel 2016, quando trentamila persone, donne e uomini, ebrei e arabi, israeliani e palestinesi hanno marciato per due settimane dal Nord del paese sino a Gerusalemme.
Le immagini di quella marcia hanno fatto il giro del mondo: migliaia di donne piene di speranza, di commozione e di gioia unite in un tentativo pacifico ed estremo allo stesso tempo.
In un mondo dominato, almeno di questi tempi, dalla ferocia, è sconvolgente trovare tanto accanimento nel ricercare una pace che molti ritengono impossibile.
Sì, perché Hamutal crede fermamente nella pace, pur essendo lei nata e cresciuta a Gerusalemme, fra conflitti e confini delimitati da mura e filo spinato. Lei, costretta a prestare servizio militare, giacché in Israele la leva è obbligatoria per tutti, eccezion fatta per gli ebrei ultraortodossi. Le donne devono prestare servizio per due anni, gli uomini per tre.
Un mondo senza check point
Quando nacque il suo primo figlio, Daniel, Hamutal gli promise che non sarebbe dovuto entrare nell’esercito. Sognava un mondo come quello che aveva solo sfiorato quando, da ragazza, aveva lavorato per una compagnia aerea. Mi racconta che un giorno le dissero di avere passato il confine del Belgio e che lei si stupì di non aver visto neppure un check point, militari, armi. Fu in quell’occasione che iniziò a immaginare un mondo senza reti, senza delimitazioni.
Ma la promessa fatta a Daniel fu, suo malgrado, una bugia. La cosa certa è che nessuna madre mette al mondo un figlio per mandarlo in guerra. Questo è il pensiero che sta alla base del movimento Women wage peace. Donne come madri, in senso universale. Unite a dispetto dei confini: che tuo figlio sia israeliano, palestinese, ebreo, musulmano, cristiano, la speranza è una sola: che possa vivere in pace. Che non debba conoscere l’orrore della guerra.
Per Hamutal fu un brutto momento quello nel quale accompagnò Damiel al bus che l’avrebbe portato al centro di addestramento. E ancora peggiore il giorno della cerimonia quando dovette sentirlo pronunciare il giuramento: «Giuro di difendere il mio paese anche se dovessi sacrificare la mia vita per esso». Ad Hamutal si riempiono gli occhi di lacrime nel raccontarlo: «Stavo li seduta e pensavo solo: questo è mio figlio, il mio unico figlio maschio, il mio primogenito, lo amo più di ogni altra cosa al mondo e devo sentirgli dire che morirebbe pur di difendere il proprio paese?».
Preghiera per le madri
Questo dolore e questa speranza stanno alla base anche della bellissima canzone che fa da inno del Movimento, Prayer of the mothers, di Yael Deckelbaum, che recita così: «Tra il cielo e la terra ci sono persone che vogliono vivere in pace, non arrenderti, continua a sognare di pace e prosperità. Ascolta la preghiera delle madri, porta loro la pace, porta loro la pace».
Una sorta di «stabat mater» moderno. Un grido di speranza che dice la volontà di non vedere più i propri figli ammazzati in una guerra che ormai ha violato ogni luogo, persino il deserto.
E pensando al deserto tornano alla mente le parole di Emil Cioran, filosofo e saggista rumeno: «Gli asceti cristiani pensavano che solo il deserto sia senza peccato, e lo paragonavano agli angeli. In altre parole, non c’è purezza se non là dove non nasce nulla».
Israele e Palestina smentiscono il suo pensiero: qui pure il deserto non è esente dal peccato.
Un’altra cosa che sconvolge, infatti, viaggiando lungo le strade che conducono alla Valle del Giordano, a luoghi considerati sacri non solo dai cristiani ma anche da ebrei e musulmani, è la presenza costante di filo spinato, mura, carri armati, aree di tiro, cartelli che segnalano pericolo.
L’ultima cosa che mi dice Hamutal, prima di salutarmi, è che non si capacita di come il suo popolo che ha tanto sofferto, che è stato martoriato, vessato, privato di una terra, possa ripetere tali atrocità su un altro popolo.
La memoria storica che qui viene continuamente celebrata (basti pensare al monumentale complesso museale dello Yad Vashem, costruito per documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante la Shoah preservando la memoria dei sei milioni di vittime dell’Olocausto), pare cadere nell’oblio non appena si pensa a ciò che accade in Palestina e in particolare sulla striscia di Gaza.
Gaza 2014
In Palestina, a Betlemme, trovo il corrispettivo, in versione molto più semplice e non monumentale, dello Yad Vashem: un muro dipinto di nero, con i nomi di tutti i bambini morti sulla striscia di Gaza nel 2014 scritti a mano.
Proprio nell’estate di quell’anno Israele lanciò nella striscia di Gaza l’operazione «Margine protettivo» con l’obiettivo di fermare il lancio di missili verso il proprio territorio ed eliminare i tunnel di Hamas. Esplose così uno tra i più sanguinosi conflitti israelo-palestinesi della storia recente. A farne le spese, moltissimi civili. Una vittima su cinque, in quei giorni di violenza, era un bambino.
Betlemme è un altro luogo sacro violato dalla guerra. Nel 2002, durante la seconda intifada, duecento palestinesi si rifugiarono nella Chiesa della Natività, protetti da quaranta frati e quattro suore. L’assedio durò trentanove giorni. I frati francescani, custodi dei luoghi santi, misero al primo posto l’aspetto umanitario, accogliendo i fuggitivi. Oggi, di quei momenti di paura e disperazione non si ricorda granché. La Basilica accoglie ogni giorno centinaia di pellegrini che molto spesso non sanno dei tragici eventi che hanno segnato questo luogo.
La storia scomoda viene costantemente e metodicamente rimossa. Infatti, se di una situazione si smette di parlare, presto la si dimentica.
Donne (suore) coraggio
A Betlemme, esiste un altro gruppo di donne coraggiose: le suore di Effetà. Ad oggi si prendono cura, all’interno dell’istituto da loro fondato nel 1971, di 150 bambini.
La scuola è specializzata nella rieducazione audio fonetica dei bambini audiolesi residenti nei Territori palestinesi. Suore coraggiose, da sempre attive sui luoghi di confine, di conflitto, hanno di recente perso una sorella in Siria. Nonostante questo, stanno progettando di muoversi verso il confine giordano per aiutare i profughi siriani, che oggi sono quasi 20.000.
Il nome Effetà si rifà a un passo del Vangelo secondo Marco: «E gli condussero [a Gesù] un sordomuto, pregandolo di imporgli una mano. E portandolo in disparte gli pose le dita negli orecchi (…) e disse “Effetà” – Apriti».
Gli allievi provengono da diverse zone della Palestina: Betlemme, Beit Jala, Sahour e zone limitrofe come Ramallah e Hebron, dove le condizioni di vita sono molto dure. Purtroppo dalla scuola restano esclusi i bambini della regione di Gerusalemme e del Nord per via dei problemi di trasporto e soprattutto di passaggio, perché il muro di sicurezza che separa Israele dalla Palestina circonda e chiude quasi interamente la città di Betlemme.
Queste suore si trovano ogni giorno a operare in un territorio ostile. Eppure, non perdono mai il sorriso.
Suor Laura, direttrice dell’istituto, e suor Bruna, educatrice, mi raccontano che il loro sogno è di poter ampliare la struttura, accogliere più bambini e soprattutto far sì che si radichi il pensiero che la sordità non preclude una vita sociale attiva e partecipativa. In Palestina, infatti, questa problematica viene trattata con vergogna da parte delle famiglie. Eppure riguarda una percentuale del 3% della popolazione, e in alcuni villaggi particolarmente isolati, si arriva sino al 15%, classificandosi così fra le più alte del mondo. Questo avviene principalmente a causa dell’eredità genetica in quanto circa il 40% dei matrimoni in Palestina è endogamico, ovvero combinato all’interno della famiglia allargata.
Le suore di Effetà, lavorano perché questi bambini abbiano il diritto a una vita quanto più possibile serena e integrata pur vivendo ogni giorno in un contesto difficile.
La presenza del muro di sicurezza, il filo spinato, le telecamere, i militari armati e i check point certo non sono la premessa ideale a un’infanzia serena.
Camera con «svista»
Proprio a Betlemme è nato il «The walled off hotel», l’hotel provocazione di Banksy, artista e writer inglese, considerato uno dei maggiori esponenti della steeet art e molto noto anche per il suo attivismo politico. Costruito proprio a ridosso del muro che separa Israele dalla Palestina (Betlemme dista poco più di 20 minuti in bus da Gerusalemme), si fregia del titolo di «Hotel con la peggiore vista del mondo».
Dalle camere si può vedere il muro, le torrette di controllo, e, subito oltre, i territori israeliani.
Una vista da incubo sulla continua violazione della libertà, anche solo di quella dello sguardo, operata in quei territori. L’hotel oggi è diventato un vero e proprio polo di attrazione turistica: in molti vengono qui a lasciare la propria firma, la propria frase sul muro di separazione. Senza nulla obiettare al messaggio di Banksy, resta da capire quanto questa spettacolarizzazione del dolore possa portare reale beneficio.
All’interno dell’hotel è stato creato anche un museo e una galleria che raccontano la storia della Palestina e dell’occupazione da parte degli israeliani. Ci sono guide che portano in giro i turisti per far vedere loro le condizioni di vita attorno al muro e all’interno dell’Aida Camp, il campo profughi fondato nel 1948, il cuore della lotta all’occupazione israeliana.
La volontà è certamente quella di far conoscere la situazione del popolo palestinese: George, un ragazzo che lavora per l’hotel di Banksy, mi racconta, per esempio che l’acqua viene razionata. Distribuita ogni due settimane e nel giorno prefissato ogni quartiere dovrà raccoglierne quanta più possibile.
In effetti, guardando i tetti delle case palestinesi, si possono osservare su ciascuna serbatorni d’acqua. Qualora una famiglia dovesse terminare la propria scorta, dovrà andare a procurarsela direttamente alla compagnia che controlla l’erogazione, pagando circa 70-80 dollari per riempire il serbatornio.
George mi racconta anche delle restrizioni che il governo israeliano impone per lasciare il paese: l’unico aeroporto vicino, infatti, è quello di Ben Gurion (Tel Aviv), in territorio israeliano e, dunque, interdetto ai palestinesi. Questo significa che è necessario recarsi in Giordania. Per passare il confine ci possono però volere dalle 7 alle 10 ore e una volta giunti all’aeroporto si devono affrontare code lunghissime, 4, 8, 10 ore di attesa perché questo è l’unico punto dal quale si può partire verso altre destinazioni.
Gaza blindata
La situazione a Gaza risulta ancora diversa. Qui non si può entrare e da qui non si può uscire. Alcune volte viene dato un permesso per recarsi in Egitto attraverso il Sinai o per raggiungere la West Bank (Cisgiordania) in occasione di feste particolari. Qualora però dovesse scadere il permesso, anche per un semplice ritardo di poche ore, non si potrà più lasciare Gaza.
Il muro continua a progredire: i lavori non si sono fermati e anzi attraversano anche i territori beduini.
George mi chiede di scattare foto: alle case, al muro, ai bambini, alle persone. Dice che in Europa deve arrivare il messaggio che i palestinesi non sono pronti a farsi saltare in aria, non ci tengono a morire, né a lanciare pietre. Vogliono solo quei diritti fondamentali che ad oggi vengono loro negati.
Mi guardo intorno: case semplici, di pietra, spazzatura ammassata contro il muro e per le vie, bambini che scorrazzano su vecchie biciclette sgangherate e un centro ricreativo per l’infanzia che è praticamente da demolire.
Eppure, a neanche venti minuti di distanza, c’è Gerusalemme: città sacra, città meravigliosa. Un mondo altro, quasi impossibile da immaginare. È la duplicità, la coesistenza di due realtà così diverse fra loro che lascia interdetti.
Mi chiedo se un turista, lasciato il messaggio sul muro, riesca a comprendere cosa significa vivere, crescere, condurre un’esistenza normale laddove ogni mossa è controllata, verificata, limitata.
C’è un solo luogo a Betlemme che lascia un po’ di spazio a occhi e cuore: è il deserto che si estende poco oltre la città. Vi è un santuario e poi chilometri di roccia e sabbia. È territorio palestinese, ma zona C, ovvero sotto il controllo israeliano. Qui, forse, finalmente, si riesce a lasciar vagare lo sguardo senza che venga bloccato da muri e filo spinato, senza che, costantemente, ci si senta chiusi in gabbia. Questa parte del deserto è il luogo dove George viene a sedere di tanto in tanto per immaginare una vita diversa.
Valentina Tamborra
Una controstoria del Novecento in ottica nonviolenta
Si può parlare del secolo racchiuso tra il 1918 e il 2018 come di un secolo di pace? A Torino, un gruppo di studiosi crede di sì: mettendo insieme diverse esperienze di pace e giustizia dei decenni passati in tutto il mondo, ha dato corpo a una vera e propria controstoria. Non sono solo le guerre e il sangue sparso a indirizzare la storia dell’umanità, ma anche, e soprattutto, le azioni di pace, gli atti e le lotte nonviolente, di cui il Novecento è costellato.
«La nostra memoria è selettiva. Si perde nel tempo restituendoci del passato solo ciò che rafforza i nostri schemi mentali e le nostre convinzioni. Il problema della difesa si fonda in gran parte sull’esperienza che ci proviene dal passato. Se la nostra memoria collettiva non conserva che i fatti violenti, è evidente che le soluzioni che troveremo per l’oggi al problema della guerra non potranno che essere soluzioni militari. Al contrario, se recuperiamo dal passato le tracce di un’altra storia, di un’altra difesa, di una resistenza non militare che ha mostrato qua e là la sua efficacia nel corso dei secoli, allora il moderno discorso sulla difesa non potrà che essere radicalmente trasformato», scrive il ricercatore francese Jacques Semelin, e ciò sintetizza bene le motivazioni alla base del progetto di ricerca che da alcuni anni viene portato avanti da un gruppo di lavoro del Centro studi Sereno Regis: far emergere la storia nascosta dei tentativi di costruzione della pace nel secolo appena trascorso, provare a ricostruire qualche tassello significativo dei «Cento anni di pace», come abbiamo intitolato il progetto, dalla prima guerra mondiale a oggi, per aprire speranze di futuro.
Un secolo di pace?
Ma il Novecento non è stato il secolo più violento della storia umana?
Come possiamo dire che è stato un secolo di pace?
Ovviamente, non intendiamo solo le pause tra guerra e guerra, impregnate dei disastrosi effetti della guerra precedente e dei germi infetti della successiva.
Non intendiamo le «paci» che i vincitori impongono ai vinti, perché esse non sono paci, ma il risultato della guerra: l’imposizione con la violenza della propria volontà al più debole. La «pace d’imperio» (Raimond Aron, Norberto Bobbio) non è la pace che soddisfa il diritto umano universale alla vita giusta e libera.
Quando questa sembra ai popoli un buon risultato, è spesso un’illusione, perché la realtà dimostra che «la vittoria non conduce mai alla pace» (Raimon Panikkar). La vittoria italiana nel 1918 fu la «madre del fascismo», come vantava lo stesso regime. La vittoria su Hitler nel 1945 tolse tardivamente un male gravissimo, ma generò altri grandi mali come la Guerra Fredda, enormi diseguaglianze umane, e la minaccia atomica sull’umanità.
Semi di pace
Che cosa intendiamo allora dicendo «cento anni di pace»? Vogliamo mostrare che «in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce» (M. K. Gandhi). In mezzo all’inferno della guerra persistono sorgenti genuine di pace giusta. È sbagliato disperare e lasciare che la violenza sia vista come regina della storia.
La migliore delle paci è quella che si verifica non prima o dopo la guerra, ma invece della guerra. È la pace che si attua preventivamente con il gestire i conflitti senza violenza.
Un’altra pace è quella desiderata come un sollievo, nonostante i suoi limiti, dopo una guerra.
Altrettanto coraggiosa e ammirevole è l’azione di pace fatta durante la guerra, che pone le basi alternative e sostanziali per il superamento della logica distruttiva della guerra stessa.
Nel travagliato cammino umano ci sono semi di pace che attendono di essere visti, coltivati, curati. Non trionfano, ma promettono, perciò ci impegnano.
Cerchiamo queste azioni promettenti nel mezzo delle diverse violenze del Novecento. E le riconosciamo in ogni atto che limita la violenza e riduce le sofferenze, ma specialmente le vediamo nelle lotte nonviolente. Queste ultime sono «lotte» perché non sopportano le ingiustizie e vogliono attivamente liberarne le comunità umane, e sono «nonviolente» perché scelgono di non usare la violenza omicida e distruttiva, ma le forze umane del coraggio, dell’empatia, dell’unità, della resistenza, della disobbedienza civile, dell’organizzazione politica alternativa.
Coerenza tra mezzi e fini
Caratteristica fondamentale della nonviolenza è l’omogeneità tra mezzi e fini, secondo l’insegnamento e le esperienze di Gandhi: «I mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero».
La cittadinanza nonviolenta ha come principio fondamentale la «non collaborazione al male», che esige il coraggio della disobbedienza civile all’ordine ingiusto: una disobbedienza leale, dichiarata, solidale che è la prima arma nonviolenta. Infatti nessun potere politico, economico o militare può imporsi se il popolo non collabora.
Questi principi sono fondamentali per un’autentica democrazia, conquista storica del Novecento contro le dittature violente, preziosa e delicata: la democrazia, infatti, si corrompe in «dittatura della maggioranza» (Alexis de Toqueville), quando diritti e dignità delle minoranze non sono rispettati, ma anche quando sono rispettati solo all’interno, mentre verso l’esterno si attuano politiche di dominio e di guerra.
Il superamento delle violenze
Tra gli obiettivi principali della nonviolenza, oltre al superamento delle violenze fisiche, armate, oltre alla lotta contro le violenze strutturali ed economiche, c’è la lotta contro la violenza culturale, la più profonda e nascosta, causa e giustificazione delle altre, la quale si manifesta spesso nella rassegnazione di fronte a ingiustizie e disuguaglianze.
Per superare la violenza occorre smettere di dare per scontato che la società sia per natura fatta di forti e deboli, di primi e ultimi, di affermati e scartati, in competizione individuale e nell’indifferenza verso il bene comune.
Proteggere la casa comune
Pacifisti e nonviolenti da sempre hanno manifestato contro i test nucleari e gli armamenti atomici, a difesa della sopravvivenza umana. Nello stesso tempo, altri movimenti hanno dato vita alle lotte per i diritti animali, per la protezione delle foreste, o contro i crescenti casi di inquinamento causati dalle attività industriali. Tuttavia, la percezione di «essere in guerra contro l’ambiente» è nata, nel pensiero occidentale, molto tardivamente. La parola «ecocidio» è recente: altre comunità da sempre riconoscono in Gaia, Madre Terra, la fonte di vita e la casa comune che ospita tutti i viventi.
Negli ultimi decenni un aumento drammatico di conflitti ha visto contrapporsi i detentori del potere economico/finanziario contro vaste comunità di contadini, pescatori, popoli indigeni, ma anche comunità locali dei paesi «sviluppati». In questi conflitti, gruppi sociali, associazioni, movimenti che condividono strategie e obiettivi nonviolenti organizzano proteste, marce, iniziative che – grazie alle crescenti reti di comunicazione – stanno assumendo dimensioni globali, e propongono nuove modalità di relazione con i sistemi naturali che ci ospitano.
Due casi esemplari
A titolo esemplificativo citiamo due esempi concreti di costruzione della pace dal basso.
Il primo è l’opera di mediazione svolta dalla comunità di Sant’Egidio in Mozambico, come testimonia Roberto Zuccolini, suo portavoce: «Il 4 ottobre 1992, festa di S. Francesco, a Roma, il presidente mozambicano e segretario del Frelimo, Joaquim Chissano e Afonso Dhlakama (scomparso di recente), leader della Renamo, la guerriglia che lottava contro il governo di Maputo, firmavano un Accordo generale di pace che metteva fine a 17 anni di guerra civile (centinaia di migliaia di morti; 3-4 milioni di sfollati interni e profughi nei paesi confinanti).
La firma concludeva un lungo processo negoziale, durato un anno e qualche mese, portato avanti nella sede della comunità di Sant’Egidio. Lì, a Trastevere, alcuni membri della comunità (il fondatore, Andrea Riccardi, e un prete, Matteo Zuppi, oggi arcivescovo di Bologna), un vescovo mozambicano (Jaime Gonçalves, ordinario di Beira) e un “facilitatore” espressione del governo italiano (Mario Raffaelli), avevano pazientemente tessuto un dialogo tra chi si combatteva in nome dell’ideologia e del potere. Avevano imbastito un quadro negoziale all’insegna dell’unità del popolo mozambicano, alla ricerca di ciò che unisce e non di ciò che divide.
Con l’Accordo generale di pace si stabiliva la consegna delle armi della guerriglia alle forze dell’Onu, l’integrazione degli ex combattenti nell’esercito regolare, le procedure di sminamento e di pacificazione delle zone rurali, una serie di passi destinati a trasformare il confronto armato tra le parti in una competizione fondata sulle regole costituzionali e democratiche. Le elezioni del 1994, le prime veramente libere nell’ex colonia portoghese, avrebbero sancito il successo dell’intero percorso negoziale e consegnato il Mozambico a una stagione nuova, fatta innanzitutto di pace».
Un altro caso esemplare è l’esperienza di Lucha nella Repubblica democratica del Congo. Dopo la morte di Lumumba, primo presidente dopo l’indipendenza, democraticamente eletto ma subito assassinato, e la lunga dittatura di Mobutu, il paese è nel caos, con milioni di morti, disastro economico e miseria nonostante la ricchezza di risorse.
Alcuni giovani, stanchi della violenza e dell’ingiustizia, attivano un movimento di intervento su problemi concreti e quotidiani, come, ad esempio, l’approvvigionamento dell’acqua. In poco tempo il movimento cresce e nel 2013 prende il nome di Lucha, abbreviazione di Lutte pour le Changement. Il logo del movimento è semplice: una freccia, e le sue iniziative sono comunicate tramite immagini e messaggi chiari e diretti, per coinvolgere tutti, nella convinzione che ognuno può fare qualcosa.
Il punto comune di tutte le azioni di Lucha è la nonviolenza, che richiede più tempo e pazienza della violenza, ma alla fine è più efficace, perché la guerra ha fallito.
«Coloro che accettano di morire nei gruppi armati», sta scritto in uno dei «fumetti» di Lucha, «non sono idioti o manipolati; qualcuno è riuscito a convincerli che stavano facendo qualcosa di bene per il loro paese, ma per noi la nonviolenza è il solo modo di difendere la propria causa rispettando la dignità delle persone». Una figura mostra persone che si tengono per mano, sedute in cerchio per terra, resistendo ai soldati armati.
Un obiettivo formativo per le nuove generazioni
La storia è memoria collettiva formata e narrata in modo da avere un significato. Nel fare storia si mette in atto un vitale rapporto passato-presente. Per questo è importante porsi il problema di come leggere il passato, perché da esso si possano trarre efficaci spunti di riflessione per il vivere civile della realtà odierna.
Due in particolare sembrano le concezioni che la storia contemporanea ha posto radicalmente in crisi: innanzitutto l’idea di progresso-sviluppo così come si è affermata nella storia dell’Occidente dall’età moderna a tutto il Novecento. Questo modello lineare e meccanicistico oggi rivela tutti i suoi limiti nelle conseguenze sociali e ambientali disastrose che ha prodotto. In secondo luogo appare in crisi l’idea di guerra-difesa come si è affermata dalla Rivoluzione francese in poi. L’armamento atomico sintetizza emblematicamente entrambi gli aspetti: è uno dei più importanti frutti del progresso-sviluppo raggiunto – nell’accezione principale che il termine ha nella cultura occidentale, cioè di progresso scientifico tecnologico -, ed è il più potente mezzo di guerra o, meglio, di dissuasione, cioè di quella forma assunta nella guerra fredda dai modelli di difesa. Alla luce di tali considerazioni, rendere visibile una contronarrazione di quanto è stato fatto per costruire percorsi di pace, affinché diventi parte integrante del bagaglio collettivo della società di oggi e del futuro, diventa un obiettivo importante da perseguire: per ridare speranza e fiducia alle nuove generazioni.
Se il XX secolo è stato infatti il secolo dei campi di sterminio, della bomba atomica, dell’allarme ambientale, del malsviluppo, è stato anche l’età di Gandhi, di Martin Luther King e delle rivoluzioni nonviolente in diverse parti del mondo.
La strategia nonviolenta di trasformazione dei conflitti appare oggi l’unica via razionale per risolvere le controversie, l’unica strada compatibile con la sopravvivenza dell’umanità.
Se dunque la storia è interpellata dai problemi del presente e se ogni storiografia è un particolare sguardo sul passato alla luce di essi, l’assunzione di un’ottica nonviolenta nella storia può avere oggi un grande significato e una forte rilevanza teorica e politica.
Angela Dogliotti
con Dario Cambiano, Elena Camino, Paolo Candelari, Enrico Peyretti
La mostra «100 anni di pace»
Nel XX secolo si è manifestata la violenza delle due guerre mondiali, dei genocidi e delle distruzioni di massa, ma anche la novità della nonviolenza come dottrina politica che si è tradotta in nuove modalità di lotta e di liberazione.
La storia umana che dalle elementari all’università viene raccontata come un susseguirsi di guerre, si è costruita anche nei tempi di pace. Il progresso civile, le conquiste sociali e ambientali, i diritti, le Costituzioni, sono opera della lenta e tenace cooperazione tra le persone, non l’esito di conflitti violenti.
La mostra «100 anni di pace»
La mostra presenta in tre sezioni alcune delle tante realtà di nonviolenza attiva che hanno segnato l’ultimo secolo.
1 – No alla guerra: superare l’idea di nemico. La pace dentro la guerra, la resistenza contro la guerra e la resistenza civile. I movimenti e le azioni nonviolente contro il militarismo e per l’obiezione di coscienza, i movimenti antinucleari. L’alternativa nonviolenta alla guerra: un’altra difesa è possibile.
2 – «Satyagraha»: la forza della nonviolenza per costruire giustizia. La resistenza nonviolenta contro il colonialismo. I movimenti per i diritti civili e la giustizia economica e sociale. La resistenza nonviolenta contro occupazioni, dittature e totalitarismi.
3 – Gaia, la nostra casa comune: fare la pace con la natura. La resistenza contro le violenze verso i socio-eco-sistemi. Dall’ecocidio all’inclusione.
Tempi e modi per visitarla
Dal 4 al 30 novembre presso il Centro studi Sereno Regis, Via Garibaldi 13, Torino, con ingresso gratuito.
Visite libere al pubblico al pomeriggio (in orario preserale da confermare).
Per le scuole, al mattino con due turni: 8.30-11.00 e 11.00-13,30.
Il Cssr è una Onlus che promuove ricerca, educazione e azioni sui temi della partecipazione politica, della difesa popolare nonviolenta, dell’educazione alla pace e all’interculturalità, della trasformazione nonviolenta dei conflitti, dei modelli di sviluppo, delle energie rinnovabili e dell’ecologia.
Costituito nel 1982 su iniziativa del Movimento internazionale della riconciliazione e del Movimento nonviolento, dopo la prematura scomparsa di Domenico Sereno Regis, uno dei fondatori, nel gennaio 1984, il Centro fu intitolato alla sua memoria.
Il Cssr promuove iniziative culturali e ricerche in collaborazione con alcuni dei più significativi centri di ricerca per la pace nel mondo, ad esempio la Rete Trascend, fondata da Johan Galtung per la trasformazione dei conflitti su scala locale e internazionale.
Il Centro studi è una struttura aperta alla collaborazione con altre associazioni e realizza le sue attività grazie al concorso dei soci, dei collaboratori, di giovani in servizio civile, volontari, e grazie al contributo di privati, di enti locali e fondazioni.
Centro studi Sereno Regis, via Garibaldi, 13 – Torino
Mail: info@serenoregis.org – Tel. +39 011532824
Sud Sudan: L’ennesimo processo di pace per il conflitto più cruento
È la guerra civile più efferata degli ultimi tempi. Ma anche la più dimenticata. In 5 anni ha ucciso tra le 50 e le 300mila persone, ha prodotto oltre 3,5 milioni di sfollati e 5 milioni a rischio fame. È stato fatto uso massiccio dello stupro e di violenze anche su minori, disabili, anziani. Da alcuni mesi una mediazione internazionale sta cercando di portare le tante fazioni in conflitto alla firma di una pace duratura. Riuscirà il petrolio dove il buonsenso ha fallito?
È il 5 agosto 2018. A Khartum, capitale del Sudan, Omar al Bashir, controverso presidente (accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità) e mediatore, ottiene la firma di un accordo di pace «provvisorio» tra le fazioni in guerra (civile) nel Sud Sudan. Questo è lo stato più giovane del mondo, si è diviso dal Nord il 9 luglio del 2011. «È come se il loro ex presidente fosse riuscito a imporsi per farli firmare», dice qualcuno. Presenti alla firma pure i presidenti di Kenya, Uganda e Gibuti, oltre che diversi corpi diplomatici. Salva Kiir Mayardit (presidente del Sud Sudan) e il suo acerrimo nemico Riek Machar (primo tra i ribelli), insieme a tutte le altre fazioni in conflitto in Sud Sudan, firmano. Ma il processo di pace non inizia e non finisce qui. Il 27 giugno è stata firmata la «Dichiarazione di Khartum», che doveva essere un cessate il fuoco tra tutte le parti, mentre il 25 luglio è stato siglato un accordo preliminare.
I presidenti lasciano la capitale del Sudan mentre i tecnici mettono a punto l’accordo reale e definitivo. Molti sono gli aspetti da definire sulla sua applicazione.
Ma ora cosa succederà? Riuscirà il più giovane paese dell’Africa, sconvolto da cinque anni di guerra cruenta a pacificarsi? A guardare il video – divenuto virale – che mostra Machar porgere la mano a Kiir e questo che abbassa la testa senza ricambiare il gesto, qualche dubbio ci assale.
A fine agosto arriva la notizia che Machar e i leader del Ssoa (South Sudan Opposition Alliance) non vogliono firmare l’accordo definitivo, che non prenderebbe in considerazione alcune loro richieste su divisione in stati, quote etniche del governo e meccanismi di modifica della Costituzione. Poi, nelmomento in cui scriviamo, Machar dichiara di voler firmare, perché confida che la mediazione sudanese sia garante delle loro rivendicazioni.
Una storia breve
Dopo l’indipendenza dal Sudan, nel 2011, viene creato un governo in cui Kiir è presidente e Machar il suo vice. Subito però riaffiorano le antiche rivalità tra i Dinka, etnia maggioritaria (circa 4 milioni) tra i 64 gruppi etnici sudsudanesi (12,5-13 milioni in tutto), e Nuer la seconda etnia per dimensione (un milione). Nel 2013 il dinka Kiir accusa il nuer Machar di essere artefice di un complotto per rovesciarlo e scoppia la guerra tra le due principali fazioni, che poi si moltiplicheranno.
Nell’agosto 2015 le parti firmano un accordo simile a quello di oggi, che porta a un governo transitorio, in cui Machar è ancora vice presidente (si veda MC maggio 2017). Accordo poi fallito pochi mesi dopo, con Machar che fa una vera «chiamata alle armi» contro i Dinka al potere, chiedendo a tutti i sudsudanesi di combatterli. Operazione che non piace ai paesi della regione e alla comunità internazionale, che invece hanno interesse a stabilizzare il Sud Sudan.
Una poltrona per cinque
I dubbi sulla firma del 5 agosto restano, perché i nodi cruciali non sono stati risolti. I punti fondamentali dell’accordo sono i seguenti: Salva Kiir rimane presidente, mentre Riek Machar ridiventa vicepresidente. Ma ci sono già due vice, ovvero James Wani Igga (di etnia bari), che aveva sostituito lo stesso Machar nel 2013, e Taban Deng Gai, nuer, messo nel 2015 perché rappresentava l’opposizione, la quale però non l’ha mai riconosciuto. A questo punto Machar potrebbe rientrare come primo vicepresidente, mentre se ne aggiungerebbero altri due, in modo da accontentare tutte le fazioni. In particolare i Dinka legati alla famiglia di John Garang (il leader carismatico morto misteriosamente nel 2005), che si dissociano dalla gestione di Kiir di questi anni e i Silluk (si fa il nome di Lam Akol, già alto ufficiale dell’Spla, poi ministro del Sudan e quindi fondatore della fazione Splm – democratic change).
«Sono tutte persone molto speciali e difficili, con delle storie un po’ strane. Lo stesso Salva Kiir, che pure non è un santo, si chiede come farà mai a governare con questi cinque vice presidenti», confida un osservatore.
Si dovrebbe formare un governo di pre transizione che durerebbe in carica alcuni mesi, con lo scopo di creare un parlamento e un nuovo governo di transizione della durata di tre anni, nei quali i seggi e gli incarichi sarebbero contingentati per etnia. Si tratta di fatto di un accordo di condivisione del potere, che però non prevede meccanismi o programmi, ma solo divisione di posti.
I nodi sul tappeto
Uno dei principali punti controversi dell’accodo è quello della sicurezza, da garantire per tutti. Intimamente legato alla creazione di un esercito unico, come vorrebbe il governo. Oggi ci sono una moltitudine di eserciti e di gruppi armati, ognuno legato a una fazione o meglio a un leader. Lo stesso Spla (esercito governativo) è diviso al suo interno. Ma come integrare tutte queste milizie? Sarebbero tanti i militari da mandare a casa, in particolare ufficiali e generali.
Ogni gruppo si garantisce la sicurezza con il suo esercito. Ad esempio, Machar che da anni vive in esilio, per tornare a Juba in sicurezza dovrebbe portarsi il suo esercito, come già successo nel 2016, creando tensioni con l’esercito governativo.
L’altro punto è la suddivisione territoriale, che l’attuale governo vuole portare a 32 stati. Dai 10 stati suddivisi in 86 contee del 2011, si è passati nel 2015 a 28 stati teorici. L’operazione sembra fatta più che per organizzare lo stato, per garantire ulteriori posti di potere da suddividere tra le fazioni. Il problema è che il paese rischia di diventare ancora più ingovernabile.
«Ci sono situazioni molto diverse. È un paese al quale non riesci a dare un’identità». Ci racconta una cooperante che è in Sud Sudan da tre anni e ha avuto modo di viaggiare in diverse zone.
«Nel Nord gli stati Unity, Jonglei, Upper Nile, sono popolati da tribù nomadi, dedite alla pastorizia. Ci sono i problemi di furti di bestiame e delle inondazioni. Sono le zone più arretrate. Rispetto a Greater Equatoria (nel Sud, dove c’è la capitale Juba) c’è un abisso. Quest’ultimo è uno stato a sé. C’è molta instabilità, gruppi armati che non si sa a che fazione appartengono, tante imboscate sulle strade. Nonostante questo, la gente sta tornando dall’Uganda, dove nel 2017 sono fuggiti a milioni. È gente che sta cercando di stabilizzare la propria vita. Negli stati Norhtern e Western Bhar el Ghazal, Warap, Lakes, ci sono altre popolazioni, contadini. A Wau la gente esce dal campo di sfollati e va a coltivare, si fa i mattoni per ricostruire la casa. Poi la notte rientra a dormire nel campo.
Si vedono almeno tre paesi diversi con mentalità e approcci alla vita propri».
Pressioni internazionali
Gli osservatori sono concordi nel giudicare che le pressioni internazionali, in particolare dei paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa), sono state fondamentali per ottenere la firma di tutti i belligeranti. E il Sudan è stato in prima linea. «Il Sudan, come anche il Sud Sudan, versa in una grave crisi economica. Se i pozzi di petrolio del Sud riprendono a pompare, il greggio ha come unica via l’oleodotto che lo porta a Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord, e Khartum riceve per ogni barile un grossa quota di profitti», dice l’osservatore.
In effetti, il giorno stesso della firma, al Bashir ha annunciato la ripresa dell’estrazione di greggio e, puntuale, il 26 agosto un test è stato fatto nello stato di Unity, alla presenza di due delegazioni di Sudan e Sud Sudan guidate dai rispettivi ministri del Petrolio. La produzione dovrebbe normalizzarsi entro la fine dell’anno. Gli esperti dicono che nel Sud Sudan è passata dai 350.000 barili/anno di cinque anni fa, a circa 120.000 barili/anno.
Altri paesi interessati sono l’Uganda, che ha sempre appoggiato la fazione di Salva Kiir, (mentre il Sudan è piuttosto legato a Riek Machar), l’Etiopia, che ha dovuto accogliere alcune centinaia di migliaia di sfollati, e il Kenya.
Mentre l’Unione europea è stata assente, gli Stati Uniti, che hanno molto investito in Sud Sudan, hanno criticato l’accordo firmato a Khartoum. Inoltre, hanno fatto pressione all’Onu e fatto passare l’embargo sulle armi (13 luglio), ma si tengono lontani dal processo in atto.
Voci dal terreno
Ma quali cambiamenti ha portato sul terreno questo nuovo processo di pace?
Secondo l’operatrice umanitaria, «non c’è alcun cambiamento interno nel paese. Ad esempio in questi giorni si sta combattendo nel campo di sfollati di Juba. Qui ci sono 30.000 persone, tutti Nuer ma di diversi clan, e basta un nulla per fare scoppiare la violenza. Spesso si combattono per portare più servizi al loro gruppo. A livello locale, dove noi andiamo per assistere gli sfollati, l’accordo di pace non ha portato a cambiamenti». E continua: «In alcune zone del Nord gli sfollati rientrati in patria che assistiamo, mi hanno detto: tra alcune settimane ricomincia la stagione secca, le truppe hanno più facilità di spostamento e verranno a riprendere questa zona. Noi siamo già pronti a scappare di nuovo in Sudan».
Un missionario che lavora a Juba ci racconta: «Per l’accordo la gente ha grande speranza. Sono esausti di questa situazione, quindi qualsiasi cosa va bene, purché ci sia tranquillità e l’economia si riprenda. A giugno un dollaro era arrivato a valere 350 sterline sudanesi. Con i salari minimi intorno alle 3-4.000 sterline. Molti prodotti sono di importazione, arrivano dall’Uganda o da altri paesi, per cui i prezzi aumentano con il cambio. Dopo la firma dell’accordo il dollaro è a 160 sterline, e questo dà un grosso respiro alla gente. In realtà al mercato c’è confusione, perché c’è ancora chi applica cambi diversi».
Conferma il missionario: «Il costo della benzina è sceso e questo è importante, soprattutto per le merci trasportate. Ad esempio, il prezzo della farina è sceso. Ma non si sa quanto durerà. Il dubbio è: come faranno queste persone, che sono sempre le stesse al governo, a superare le loro divisioni e disaccordi? Come credere che non siano lì per la loro ambizione, ma per dare un minimo di pace al paese?».
La guerra che va avanti da cinque anni è particolarmente efferata, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu: «[…] Questa è una delle più orrende situazioni dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio dello stupro come strumento di terrore e arma di guerra […]», dichiara l’Alto commissario Zeid Ra’ad Al Hussein.
Un sud sudanese, operatore umanitario, con studi all’estero (come tutti a livello universitario), ma che lavora nel suo paese, analizza la situazione. Raggiunto telefonicamente, ci chiede l’anonimato, come già le altre fonti, per ragioni di sicurezza: «Molte persone sono in attesa degli sviluppi di questa firma. Ma se si guarda alla situazione nel paese, è ancora molto confusa. C’è la fazione del governo, poi ci sono tante fazioni di opposizione. La gente vuole la pace, ma molti non sono pronti per questo, come i politici che cercano solo i propri interessi. C’è molta corruzione in ambiente politico. Tutti vogliono mantenere la loro fetta di potere».
E continua: «Fatto l’accordo di pace, ora devono vedere come metterlo in atto, ovvero come governare. Con questo tipo di accordo è difficile soddisfare tutte le persone. Ci sono tante comunità (o etnie), molte differenze, e se i politici lavoreranno solo a livello politico, sul terreno non si vedranno cambiamenti».
Il coordinatore (africano) di una Ong medica internazionale ci confida: «La situazione è molto fluida.
Ci sono diverse violazioni degli accordi, in molte zone, e gli operatori umanitari sono preoccupati».
A fine luglio, alcune centinaia di giovani armati, hanno attaccato e saccheggiato una base di Ong e Nazioni Unite a Maban, nel Nord dello stato di Upper Nile. Non si capisce che origini abbia questo attacco».
Continua la nostra fonte: «La popolazione aspetta che gli accordi di pace siano realmente implementati, ma finora non ci sono stati ancora cambiamenti.
C’è parecchio pessimismo. I sud sudanesi non hanno molta fiducia. Non è il primo accordo e la gente ha paura che i militari ricomincino a combattersi. Chi è più vicino al governo (o alla etnia del presidente) è più ottimista, al contrario le comunità legate all’opposizione sono più pessimiste.
Le Ong non sono molto sicure che gli accordi saranno implementati. Il problema è anche che ci sono molte richieste da parte dell’opposizione, condizioni molto complesse da garantire».
Società civile cercasi
«Inoltre qui – ci confida il missionario che risiede a Juba, ma ha vissuto anche in altre zone – la popolazione è costretta ad accettare le cose così come sono. Quando il valore della moneta crollava di settimana in settimana mi sono stupito che non ci siano stati scioperi o manifestazioni. La gente sa che non può esprimersi liberamente. Accetta facilmente di farsi proteggere dal forte di turno. Inoltre i gruppi sono spesso allineati etnicamente. La società civile ha ancora una lunga strada da percorrere per dar vita al cambiamento. Probabilmente c’è da aspettare che questa generazione di politici finisca e sia sostituita da un’altra». E continua: «Le Ong nazionali sono finanziate dai grandi enti e offrono servizi di vario tipo. Creano lavoro per la gente locale, ma portano avanti un approccio di emergenza piuttosto che di sviluppo, anche perché questo permette loro di continuare a lavorare».
Importante è stato il ruolo del South Sudan Council of Churches (Consiglio delle chiese sud sudanesi) che riunisce Chiesa cattolica, la Chiesa episcopale (la più diffusa) e la Chiesa presbiteriana.
Ci racconta il missionario: «Il governo rispetta le chiese ma le teme pure. Teme la loro indipendenza. Se una chiesa è allineata la ascolta, altrimenti la lascia un po’ da parte e la Chiesa cattolica è quella che fa più fatica ad allinearsi, quindi si attira più sospetti.
Inoltre è un momento un po’ difficile della nostra Chiesa: quattro diocesi su sette sono senza vescovo. Molte energie devono essere spese per far fronte ai tanti problemi interni e quindi non riesce sempre a farsi ascoltare dal governo. Nonostante tutto le rimane una grande autorità morale: parla una voce unica, non ci sono divisioni etniche in essa. È presente in tutte le comunità (le etnie), per cui non è di parte. Le altre Chiese invece corrono il rischio di essere più allineate e di essere percepite come tali. La Chiesa presbiteriana ha più influenza nelle zone nuer, per cui è stata vista come la chiesa più vicina alle opposizioni. Mentre la Chiesa episcopale aveva gerarchie soprattutto dinka, per cui era vista come filo governativa. Adesso sta superando questo, grazie al nuovo primate più neutrale».
Oltre alle Ong locali e alle Chiese, ci spiega il coordinatore della Ong internazionale, «ci sono altre associazioni per i diritti umani, associazioni delle donne per la pace. Ma le associazioni basate in Sud Sudan devono essere dalla parte del governo. Ce ne sono anche non allineate, ma stanno all’estero, perché non è conveniente per motivi di sicurezza. Essere contro diventa rischioso. Non è un paese nel quale puoi esprimere liberamente quello che vuoi, puoi solo parlare a favore del governo».
La cooperante riassume così le sue sensazioni: «Sono molto delusa. Non è possibile che dal 2013 ci siano sempre le stesse dinamiche. Quello che mi delude di più è che ai politici non importa nulla della gente, fanno solo i loro giochi di potere. Si scontrano e poi vanno a cena assieme. Si stringono le mani, poi litigano di nuovo. Quanto potrà durare un accordo di pace con queste prospettive?»
Marco Bello
Viaggio nel mondo del nucleare: Atomi di pace, atomi di guerra
Sì, no, forse, I tanti dilemmi dell’energia nucleare
Scrivere un articolo sul nucleare è una vera e propria sfida di comunicazione (e non esclusivamente dal punto di vista scientifico). Il dibattito sull’opportunità o meno di utilizzare l’energia imprigionata nel nucleo di un atomo anche per scopi pacifici e civili si è incuneato, a partire dagli anni Settanta, in inestricabili gangli ideologici. A seconda delle tesi che si vogliono sostenere, l’immensa mole di dati e tesi scientifiche viene troppo spesso seviziata e manipolata a piacere con il solo scopo di suffragare idee preconcette, anche a costo di stravolgere la fisica dell’atomo. È quindi praticamente impossibile, nell’affrontare un argomento così delicato, non incappare negli strali delle tifoserie dell’una o dell’altra squadra. Si aggiunga, poi, la complessità fisica, chimica, matematica che accompagna la materia nucleare che, per essere presentata in modo comprensibile ad un pubblico poco avvezzo all’argomento, deve essere spesso limata e sintetizzata in modo poco ortodosso.
Tutto questo porta spesso ad approssimazioni o a faziosità difficilmente conciliabili con l’informazione che si intende offrire.
Ai lettori di Missioni Consolata tenterò, quindi, di presentare l’argomento nucleare, se non in modo oggettivo, per lo meno cercando di seguire l’onestà intellettuale che dovrebbe contraddistinguere ogni divulgazione, nonostante il mio personale scetticismo su questa fonte energetica soprattutto in fatto di gestione delle centrali.
Piergiorgio Pescali
Dall’atomo alla fusione nucleare
Dalla scoperta della divisibilità dell’atomo (1896) al suo sfruttamento per produrre energia, la scienza della fisica nucleare ha fatto passi enormi. Non sempre nella direzione corretta, come dimostrano le tragedie di Hiroshima e Nagasaki (1945) e l’esistenza di pericolosi armamenti nucleari. Oggi l’energia nucleare viene sfruttata (soprattutto) per usi civili, ma anche in questo caso sul tavolo rimangono problemi seri. Come il pericolo di incidenti (le centrali di Chernobyl e Fukushima ce lo ricordano) e lo smaltimento delle scorie radioattive.
Nel 1914 la casa editrice britannica Macmillan & Co. pubblicò un romanzo di Herbert George Wells, La liberazione del mondo. In quelle 286 pagine si descriveva, in modo fantascientifico, una guerra che sarebbe scoppiata nel 1956 tra la coalizione franco-britannica-statunitense e quella austro-germanica. Il libro di Wells, autore noto al grande pubblico in quanto aveva già dato alle stampe successi come L’isola del dottor Moreau (1896), L’uomo invisibile (1897) e La guerra dei mondi (1898) che tanto panico causò nell’edizione radiofonica di Orson Welles, non raggiunse la fama dei precedenti lavori, ma ipotizzava, per la prima volta, l’utilizzo di un’arma che, sebbene differente nella concezione, avrebbe dominato la storia del mondo dal secondo dopoguerra fino ad oggi: la bomba atomica.
Basandosi sugli studi di Ernest Rutheford, William Ramsay e, soprattutto, di Frederick Soddy, Wells ipotizzò che, in un futuro non troppo lontano, gli eserciti avrebbero potuto utilizzare la scoperta della radioattività per creare armi che uccidessero non solo grazie al loro potenziale distruttivo immediato, ma prolungando nel tempo l’emissione dei radioisotopi.
L’autore morì il 13 agosto 1946, un anno dopo lo scoppio delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki, facendo così in tempo a veder realizzarsi nella storia la sua anticipazione letteraria.
La liberazione del mondo era un libro apocalittico, ma con un finale positivo: nel cancellare gran parte dell’umanità, la bomba atomica aveva anche permesso di gettare le basi per la creazione di nuove forme di pensiero e di governo. Alla fine, dunque, la scienza, in cui il pacifista Wells credeva fermamente, mostrava sempre il lato costruttivo e vantaggioso.
L’innato ottimismo che la società a cavallo tra il XIX e il XX secolo riponeva nel progresso, aveva nella neonata fisica nucleare il suo principale motivo d’essere.
L’atomo è divisibile: la nascita della fisica nucleare
Nel febbraio 1896, pochi anni prima che La liberazione del mondo fosse data alle stampe, la scoperta della radioattività fatta dal fisico francese Henri Becquerel aveva inaugurato l’avventura nucleare smontando la tesi secondo cui l’atomo (dal greco ??????, àtomos, indivisibile) era la parte ultima della materia e dimostrando che invece era a sua volta formato da altre particelle più piccole. Era nata la fisica nucleare.
Ci vorranno altri 36 anni prima che la struttura dell’atomo sia svelata nella sua interezza: nel 1897 Joseph John Thomson scoprì l’elettrone, nel 1919 Ernest Rutheford propose l’esistenza di un nucleo formato da protoni caricati positivamente e nel 1932 James Chadwick ipotizzò l’esistenza all’interno del nucleo di una particella di massa simile a quella del protone, ma di carica neutra: il neutrone.
Proprio quest’ultima scoperta scatenò nuove teorie della fisica e nel 1933 Leo Szilàrd suppose che se un nucleo poteva assorbire un neutrone, avrebbe potuto, allo stesso modo, espellerlo creando una reazione nucleare a catena. Il 4 luglio 1934, lo stesso giorno in cui morì Marie Curie, i cui lavori sulla radioattività erano stati fondamentali per lo sviluppo della fisica nucleare, Szilàrd depositò a Londra il suo brevetto sul modo di sfruttare l’energia contenuta in un nucleo atomico basato sulla reazione a catena di decadimenti nucleari.
Sembrava che la scienza concedesse all’umanità un futuro più roseo che mai, ma all’orizzonte cominciavano ad approssimarsi le nubi nere di un nuovo conflitto mondiale. Fu la Germania nazista la prima nazione a credere all’atomo come fonte inesauribile di energia e di potenza militare. Nel dicembre 1938 un team di fisici tedeschi guidati da Otto Hahn e Fritz Strassmann dimostrò che un nucleo di uranio-235 avrebbe potuto dividersi in altri nuclei più piccoli, se bombardato con un neutrone. Il 13 gennaio 1939 la fisica Lise Meitner, assieme al nipote Otto Frisch, risalirono all’origine della reazione riuscendo a calcolare l’enorme quantità di energia che poteva liberarsi dalla fissione, termine coniato da Frisch in analogia alla fissione di cellule nel campo biologico.
La scoperta di Meitner e Frisch cominciò a scaldare gli animi non solo degli scienziati, ma anche dei militari: se la fissione poteva liberare tale quantità di energia, allora un’arma basata su questa reazione a catena avrebbe dato alla nazione che la possedeva un vantaggio incolmabile sulle altre.
Lo sbaglio del Terzo Reich: l’espulsione degli scienziati ebrei
La guerra bussava ormai alle porte e il Terzo Reich era il paese che aveva la più profonda conoscenza della fisica nucleare. Nell’aprile 1939 l’Heereswaffenamt, l’Ufficio armi dell’esercito tedesco, fondò l’Uranverein, il «club dell’uranio» che avrebbe dovuto approfondire gli studi sulla fissione nucleare. Fortuna volle che i gerarchi nazisti avessero altre priorità e non credevano che la Germania dovesse dare urgenza ad un programma di cui non si aveva sicurezza che potesse essere terminato in tempi brevi. La fiducia nelle istituzioni e nella preparazione militare assecondate dalla remissività sino ad allora mostrata dai governi più ostili al Reich (Gran Bretagna e Francia), sembravano garantire a Berlino una facile vittoria senza dover spendere inutili energie in programmi scientifici alternativi. In più i dirigenti nazisti avevano iniziato sin dal 1933 ad espellere gli ebrei dagli uffici pubblici e, seppur il principale istituto scientifico tedesco, il prestigioso Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft fur physikalische Chemie und Elektrochemie, non fosse strettamente sotto controllo statale, venne fatta pressione affinché venissero allontanati ebrei e comunisti da quello che il quotidiano nazista Volkischer Beobachter definì un «parco giochi per cattolici, socialisti ed ebrei»1. Lo stesso Hitler, quando Max Planck tentò di convincerlo che espellere i ricercatori di razza ebraica sarebbe stato il suicidio della scienza tedesca, rispose di non aver «niente contro gli ebrei in sé. Ma gli ebrei sono tutti comunisti e loro sono miei nemici, a loro faccio la guerra». La cecità del governo nazista fu, nella sua tragicità, provvidenziale perché privò la Germania di una parte importante dell’intellighenzia scientifica. Cervelli come Albert Einstein, Edward Teller, Rudolf Peierls, Hans Bethe, Arthur von Hippel, Max Born, James Franck, Hermann Weyl, Eugene Rabinowitch, Heinrich Kuhn assieme agli stessi Lise Meitner e Otto Frisch espatriarono, così come fece Enrico Fermi dall’Italia. In seguito molti di questi stessi scienziati parteciparono attivamente e diedero contributi fondamentali all’interno del «Progetto Manhattan», l’ambizioso piano voluto da Franklin Delano Roosevelt, su pressione di Leo Slizàrd, Eugene Wigner e Albert Einstein, timorosi che la Germania potesse costruire una bomba nucleare.
La svolta decisiva del progetto che, alla sua massima espansione, impiegava 130.000 addetti, avvenne alle 5.29 del mattino del 16 luglio 1945 quando nel sito di Trinity, a Jornada del Muerto, nel New Mexico, venne fatto scoppiare Gadget, il primo ordigno nucleare prodotto dall’uomo, della potenza di 22 chilotoni.
Contrariamente a quanto si pensi, non vi fu alcuna corsa a due: Hitler non si interessò mai veramente alla bomba nucleare e al termine della guerra fu chiaro a tutti che la Germania era ben lontana dal confezionare un ordigno simile. Quando, il 6 agosto 1945, la Bbc diede l’annuncio dello scoppio della bomba su Hiroshima, Werner Heisenberg, il più celebre tra i fisici coinvolti nell’Uranverein, non credette ad una parola: «Posso solo supporre che qualche dilettante in America, con scarse conoscenze in materia, li abbia ingannati dicendo: “Se sganciate questa ha l’equivalente di 20.000 tonnellate di esplosivo ad alto potenziale”, ma in realtà non funziona per niente»2.
Eisenhower e gli «atomi di pace»
Dopo Hiroshima e Nagasaki il mondo iniziò ad interrogarsi sull’etica della scienza e sul pericolo nucleare. Nel 1956 Robert Jungk mise sotto accusa gli scienziati che avevano collaborato al Progetto Manhattan nel suo libro Gli apprendisti stregoni. Già il fisico tedesco dell’Uranverein, Carl Friedrich von Weizsacker ebbe a dire che «La storia ricorderà che gli americani e inglesi hanno fatto una bomba mentre i tedeschi, sotto il regime di Hitler, hanno prodotto un motore capace di funzionare. In altre parole, in Germania sotto il regime di Hitler si è avuto lo sviluppo pacifico del motore a uranio, mentre americani e inglesi hanno sviluppato questa terrificante arma da guerra»3.
Ma in un mondo sempre più energivoro diveniva indispensabile trovare fonti di energia a basso costo e ad alto rendimento per sostenere lo sviluppo industriale e sociale che si andava delineando a partire dagli anni Cinquanta. Come fare a convincere il mondo intero a utilizzare una tecnologia che aveva dimostrato di essere così distruttiva e che, dopo la guerra, continuava a terrorizzare l’umanità nella contrapposizione tra Est e Ovest? Fu Eisenhower a indicare alle Nazioni Unite un piano di controllo nucleare presentandosi l’8 dicembre 1953 all’Assemblea generale con un discorso che viene considerato lo spartiacque tra il nucleare a scopo bellico e quello a scopo civile: Atomi per la pace4. Il pianeta aveva appena sfiorato un nuovo conflitto nucleare nella guerra di Corea, Stalin era morto da poco e non si sapeva che strada avrebbe preso l’Urss sotto la guida del nuovo segretario del partito. Eisenhower propose un ente sovranazionale che controllasse le scorte di materiale fissile (il combustibile nucleare) «destinato ad essere usato per uno scopo pacifico […] nell’agricoltura, medicina e altre attività pacifiche […] al fine di fornire energia elettrica in abbondanza alle aree del mondo di essa più affamate».
Il 27 giugno 1954 la centrale di Obninsk, in Unione Sovietica, fu il primo impianto nucleare ad essere collegato alla rete elettrica nazionale inaugurando così l’epoca del nucleare a scopo civile. Si sarebbe dovuto attendere il 26 agosto 1956 per vedere la prima centrale nucleare costruita appositamente per generare energia elettrica, la Calder Hall del Regno Unito, entrare in operazione. Da allora la fissione dell’atomo divenne sempre più alla portata di tutti, ed oggi i 448 reattori nucleari sparsi in 31 paesi del mondo producono circa l’11% dell’energia elettrica prodotta nel pianeta e il 5,86% del consumo energetico assoluto5,6,7,8.
Anche l’Italia entrò con entusiasmo nel club del nucleare il 12 maggio 1963, quando venne inaugurata la prima centrale atomica a Latina. Solo tre anni più tardi il nostro paese era il terzo produttore al mondo di energia nucleare9. Sembrava che nulla potesse arrestare l’avanzata della fissione, ma all’eccitazione iniziale seguì una più ponderata disamina dei pro e dei contro.
Il movimento «No Nukes»
Con le contestazioni studentesche del Sessantotto cominciarono ad affacciarsi anche i primi movimenti «No nukes». Diversificati nelle intenzioni, nei metodi e nelle idee, gli attivisti convogliavano i loro timori verso la sicurezza, sia ambientale che umana, e la pericolosa complementarietà dell’industria nucleare civile e militare. Le prime centrali nucleari cominciavano a produrre quantità considerevoli di scorie radioattive che destavano preoccupazione tra la popolazione in quanto di difficile smaltimento. Inoltre i reattori, utilizzando uranio arricchito (uranio con alta percentuale di isotopo 235) e producendo plutonio-239, potevano essere sfruttati dall’industria militare per la produzione di bombe nucleari. Infine, dato che la teoria della fissione e fusione nucleare è identica sia per produrre ordigni che per produrre energia ad uso civile, ogni sviluppo tecnologico dell’uno poteva essere applicato nell’altro campo. Non è un caso che tutti i paesi che possiedono o hanno posseduto un arsenale nucleare abbiano sul loro territorio centrali nucleari per produrre energia a scopo civile o reattori di ricerca10.
Durante gli anni Settanta si moltiplicarono le manifestazioni contro la proliferazione nucleare: si organizzavano concerti, si giravano film, scendevano in campo star dello spettacolo e della politica. Nel 1975 la ventunenne Anne Lund, un’attivista antinucleare danese appartenente alla Organisationen til Oplysning om Atomkraft (Organizzazione per l’informazione sulle centrali nucleari) disegnò uno dei loghi più famosi e utilizzati nella storia della grafica: il sole che ride e che alla domanda «Energia nucleare?» risponde con un gentile, ma perentorio, «No, grazie».
I più gravi disastri nucleari
Alle obiezioni degli attivisti e delle organizzazioni ambientaliste, le compagnie impegnate nel nucleare, appoggiate dai governi, rispondevano assicurando tutti sulla sicurezza e sulla necessità di avere una fonte energetica pulita, efficiente e, soprattutto stabile e economica.
Ma la sicumera mostrata dai fautori del nucleare sembrò frantumarsi di fronte ad una serie di incidenti: la perdita di refrigerante con conseguente parziale fusione del reattore avvenuta il 28 marzo 1979 a Three Miles Island, negli Stati Uniti, fu solo il preludio di quello che, il 26 aprile 1986 accadde a Chernobyl, considerato il più grave incidente della storia del nucleare a scopo civile, seguito, l’11 marzo 2011, da quello, altrettanto pericoloso, di Fukushima, in Giappone. In tutto, dal 1957 ad oggi, nel mondo ci sono stati 14 incidenti che hanno coinvolto reattori nucleari, di cui dieci con conseguenze dirette sull’ambiente e la popolazione circostante11.
Le sciagure di Chernobyl e Fukushima furono manipolate da entrambe gli schieramenti pro e contro il nucleare per portare acqua al proprio mulino, in modo cinico e presentando in modo approssimativo, per non dire fraudolento, mappe, grafici, dati e cifre. In Italia, a seguito dell’incidente di Chernobyl venne indetto un referendum che sancì, con un consenso dell’80,57% dei votanti, la chiusura delle 4 centrali nucleari presenti sul territorio nazionale: Trino Vercellese, Caorso, Latina, Sessa Aurunca. Un tentativo di reintrodurre la fissione venne fatto nel 2011 ma, a poche settimane dal voto, Fukushima determinò l’esito delle urne con un 94,75% di contrari12,13.
La resistenza del nucleare e la crescita delle fonti rinnovabili
L’ondata di scetticismo verso l’energia atomica sembra, però, non aver intaccato l’avanzata del nucleare nel mondo. I 363 reattori nucleari che nel 1985, prima dell’incidente di Chernobyl, producevano 245.779 MWe (= megawatt elettrico, ndr) di energia, nel 2010 (prima di Fukushima) erano saliti a 441 con una produzione elettrica di 375.227 MWe per raggiungere un totale di 391.116 MWe nel 2017. E con 61 reattori in costruzione per 61.264 MWe di potenza, il nucleare sembra essere ancora una fonte energetica attraente, nonostante nei prossimi 10-20 anni dovranno essere smantellati più della metà dei reattori perché troppo vecchi15,16.
Tra i paesi che nel 2010 avevano un contributo energetico dato dal nucleare, solo Germania e Giappone hanno deciso di diminuire in modo sostenuto (ma non annullare del tutto) l’apporto atomico nel loro consumo energetico dopo la catastrofe di Fukushima. Nel primo caso si è passati dal 22,6% del 2010 al 13,1% nel 2016; nel secondo caso dal 29,2% al 2,2%17. Tutte le altre nazioni, comprese alcune di quelle considerate più sensibili ai temi ambientali, come Finlandia, Svezia, Svizzera, Canada, hanno mantenuto attive le proprie centrali18,19.
I motivi di questa tendenza al rialzo sono da ricercarsi in diverse ragioni. Le energie rinnovabili (è anche il caso di ricordare che «rinnovabile» non è sinonimo di energia «pulita»), pur in forte e costante aumento sono ancora troppo suscettibili agli eventi naturali e non sempre possono essere disponibili ad un uso immediato (ad esempio, la carica di un’auto elettrica dura in media tra i 20 e i 40 minuti). Inoltre la crescente richiesta energetica mondiale obbliga le compagnie a rifornire in modo sempre più cospicuo e costante la rete. Gli impianti di produzione di energia rinnovabile, come eolica o fotovoltaica sono ancora troppo costosi, poco concorrenziali, dipendenti dalle condizioni atmosferiche e non in tutte le regioni possono essere installati (i pannelli fotovoltaici, ad esempio, occupano ampie superfici sottraendo aree che potrebbero, ad esempio, essere utilizzate in agricoltura). Le fonti energetiche fossili, come carbone, petrolio, gas naturale oltre che inquinare, hanno forti implicazioni geopolitiche, le scorte sono limitate e la loro estrazione, mano a mano che i giacimenti superficiali si esauriscono, diviene sempre più costosa e tecnologicamente impegnativa.
Infine, parametro certo di non poco conto, tra tutte le fonti energetiche a disposizione, il nucleare è di gran lunga quella che, a parità di unità di combustibile arricchito, genera la maggior quantità di energia20.
Pur non esistendo un parametro oggettivo e universalmente riconosciuto per valutare la convenienza o meno di una fonte energetica rispetto ad un’altra, le compagnie si affidano all’Eroi (Energy Returned On Investment, «ritorno energetico sull’investimento energetico») un valore che indica quanto conveniente è una determinata fonte energica pronta al consumo ottenuto dividendo l’energia prodotta durante tutto il ciclo di attività dell’impianto per l’energia spesa nella produzione, dalla costruzione allo smantellamento dell’impianto stesso, compresi i costi di manutenzione durante il ciclo di vita. Più alto è il suo valore più conveniente è produrre quel tipo di energia. L’Eroi, però, non tiene conto dei costi di produzione delle materie prime e del loro trasporto; di conseguenza i valori per una stessa fonte energetica variano in misura notevole a seconda del periodo, del luogo in cui l’energia è prodotta e consumata, del costo delle materie prime, della manodopera, etc. Ad oggi l’Eroi rimane comunque l’unico parametro scientifico per determinare l’effettiva economicità energetica ed è su questa base che governi e industrie programmano la loro politica energetica. Il nucleare rimane ancora una fonte tra le più convenienti dopo l’idroelettrico e il petrolio21. L’introduzione dei reattori di quarta generazione, prevista tra 10-20 anni, aumenterebbe ancor più l’Eroi.
Le lobbies mondiali e le riserve di uranio
Contrariamente al sentito dire, dal 1985 ad oggi gli investimenti nel nucleare sono in continua diminuzione. L’Oecd ha stimato che nel 2015 sono stati spesi nel campo della ricerca e sviluppo energetico 12,7 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali sono confluiti nel campo della sicurezza, dei problemi ambientali e sociali. I governi tendono a finanziare ricerche in programmi energetici a medio-lungo termine atti ad essere commercializzati, in modo da recuperare, in parte o totalmente, gli investimenti. I capitali privati, invece, sono focalizzati ad investimenti a corto termine migliorando tecnologie già esistenti. Se negli anni Settanta più del 70% degli investimenti in ricerca e sviluppo erano diretti nel campo nucleare, nel 2015 questi si sono ridotti al 20%. Al tempo stesso è aumentato l’interesse verso le fonti energetiche rinnovabili e l’efficienza energetica, campi verso i quali sempre più lobbies industriali guardano con partecipazione, anche per via dei forti incentivi economici offerti dai governi22. Risulta quindi sempre più difficile parlare di ostacoli verso le energie rinnovabili posti da cartelli di grosse multinazionali. Oramai anche le maggiori compagnie impegnate nel campo nucleare destinano una parte sempre più cospicua dei loro investimenti nelle rinnovabili (in particolare solare e eolico).
Tutto questo, però, non esclude che attorno al nucleare vi siano ancora interessi enormi, in particolare per quelle compagnie che operano nei paesi dove i piani energetici nazionali concedono ampi spazi a questa forma di energia. I principali gestori di impianti nucleari sono la francese Edf (58 reattori gestiti), la russa Rosenergoatom (35 reattori gestiti e 7 in costruzione), la sudcoreana Korea Hydro and Nuclear Power Co. (25 reattori gestiti, 3 in costruzione) e l’indiana Nuclear Power Corporation of India Ltd (22 reattori gestiti, 4 in costruzione)23,24.
Più conosciute al grande pubblico, perché presenti sul mercato dei consumatori, sono le multinazionali che si occupano della manutenzione e della costruzione di impianti nucleari: la parte del leone la fanno la Westinghouse (manutenzione di 70 reattori e altri 6 reattori in costruzione), l’Areva (66 reattori in manutenzione, ma appena salvata dal fallimento dallo stato francese, ndr), la General Electric (44 reattori in funzione e 2 in costruzione), la Mitsubishi Heavy Industries, la Toshiba, la Siemens, la Skoda25.
Come si può vedere la galassia delle ditte impegnate nel nucleare è molto variegata e non esclude quegli stessi paesi che al nucleare hanno rinunciato o stanno per rinunciare. A queste si aggiungono le compagnie che estraggono e lavorano l’uranio, metallo che, dopo l’arricchimento, viene utilizzato come combustibile nei reattori nucleari.
Due terzi dell’estrazione mondiale di uranio provengono dal Kazakistan (39% della produzione mondiale nel 2016), Canada (22%) e Australia (10%). Niger e Namibia, serbatornio per il combustibile nucleare francese estraggono ciascuno il 4% della quantità mondiale di uranio26.
Ma se in Kazakistan, in Canada e in Russia le compagnie che estraggono e lavorano uranio o appartengono allo stato o sono ditte a capitale privato per maggioranza locale, in Niger solo il 34% delle compagnie sono statali (il restante 66% sono straniere) mentre in Namibia, dove solo l’1,2% delle compagnie sono locali, la situazione è ancora più spostata verso il mercato straniero27. La chiusura del mercato giapponese e la diminuzione delle centrali in Germania hanno fatto crollare il prezzo del minerale. A seconda dei costi di estrazione e di lavorazione del materiale grezzo, il prezzo medio si aggira sui 130 dollari per kg (con riserve stimate attorno a 5.718.000 ton) per raggiungere i 260 dollari al chilo per l’uranio di difficile estrazione o di bassa purezza iniziale (con riserve stimate pari a 7.641.600 ton)28,29.
L’Australia è la nazione che possiede le riserve mondiali più cospicue (29%), seguita da Kazakhstan (13%), Russia e Canada (9% ciascuno), Sud Africa (6%) e infine Niger, Brasile, Cina, Namibia (5% ciascuno)30.
La produzione nel 2017 è stata di 68.000 tonnellate, 27% delle quali (19.000 ton) dirette verso gli Stati Uniti, 12% verso la Francia (8.000 ton), e poi in Russia, Corea, Cina, Ucraina31. Il forte incremento di domanda energetica cinese, ha indotto questo governo a iniziare una serie di manovre per diminuire la dipendenza verso il mercato estero, in particolare petrolifero. Così, oltre all’impulso dato alle fonti energetiche rinnovabili, è in progetto il raddoppio del contributo dato dal nucleare. La Cina è il paese al mondo dove si sta riscontrando il maggior incremento di energie rinnovabili; oggi il 25% dell’energia prodotta in Cina proviene da fonti energetiche rinnovabili e il 2% dal nucleare; nel 2040 si stima che il nucleare passerà al 4%, mentre il rinnovabile al 57%32. Questo porterà Pechino a importare una quantità di uranio tra le quattro e le cinque volte superiore a quella attuale (tra 14.400 e le 20.500 tonnellate di uranio nel 2035 contro le 4.200 attuali) trasformando la Repubblica popolare nel primo paese al mondo importatore del minerale fissile superando anche gli Stati Uniti33. Allo stesso tempo la domanda di uranio aumenterà per altri mercati che stanno rafforzando la presenza nucleare nel loro scenario energetico: India, Argentina, Giappone, ma anche con new entry come Polonia, Turchia, Emirati Arabi e Viet Nam34. Sebbene la richiesta sarà destinata ad amplificarsi, le riserve di uranio sono talmente vaste che, anche con uno scenario pessimista, potranno durare secoli35.
La radioattività e le scorie
Uno dei principali problemi che nascono dalla fissione nucleare è quello dei rifiuti radioattivi. Per una malsana informazione, ogni qualvolta si pronuncia la parola «radioattività» si ha un sobbalzo di terrore. In realtà tutti noi viviamo immersi nella radioattività. Continuamente. In ogni luogo del mondo. Occorre, quindi, distinguere tra radiazione naturale e radiazione artificiale individuando anche, oltre alla tipologia di radiazione emessa dai singoli componenti, anche la quantità.
Le centrali nucleari producono materiali radioattivi, ma non sono le sole sorgenti di scorie prodotte dalle attività umane. Limitandoci quindi ai soli reattori in funzione a scopo civile, i rifiuti considerati radioattivi si dividono in tre categorie: Llw (Low-Level Radioactive Waste, rifiuti radioattivi a basso tasso di radioattività), Ilw (Intermediate-Level Radioactive Waste, rifiuti a medio tasso di radioattività) e Hlw (High-Level Radioactive Waste, rifiuti ad alto tasso di radioattività). Mentre i Llw costituiscono il 90% del volume totale e non danno particolari problemi di smaltimento, i Ilw e i Hlw sono quelli su cui si innestano i principali e più accesi dibattiti tra chi osteggia e chi, invece, propugna la scelta nucleare. Le scorie Hlw ammontano al 3% dell’intera gamma di rifiuti prodotti da una centrale e all’interno di questa sezione vengono classificati anche i combustibili spenti, le barre di uranio che hanno terminato il loro ciclo vitale all’interno del reattore e che, quindi, posseggono una radioattività molto elevata. Il combustibile spento costituisce lo 0,2% del totale dei rifiuti radioattivi, pari a circa 34.000 m3 annui e di questi circa il 20-25% viene inviato ai cicli di riprocessamento36. Il resto viene trattato con un metodo chiamato vetrificazione.
I Llw sono stoccati in depositi superficiali a causa della loro (relativa) bassa pericolosità, mentre i Ilw e gli Hlw devono essere conservati per anni (da decine a migliaia, a seconda del livello di radioattività emanato) in luoghi geologicamente sicuri e sotterranei facendo levitare in modo sostanziale i costi del ciclo vitale di una centrale atomica.
Per poter essere maneggiati con sufficiente sicurezza, i rifiuti Hlw vengono lasciati in depositi temporanei; il combustibile esausto è mantenuto in media per 5 anni nelle piscine di stoccaggio; durante questo periodo il materiale perde il 90% della sua radioattività. Prima di essere inviato ai centri di riprocessamento, però, le scorie nucleari vengono separate secondo i loro componenti. La composizione media del combustibile esausto contiene il 93,4% di uranio-238, lo 0,71% di uranio-235, 5,15% di prodotti di fissione e 1,3% di plutonio37.
Appare chiaro che, oltre alla pericolosità intrinseca delle scorie, vi è anche il rischio (spesso reale, come abbiamo già scritto) che parte del plutonio generato come scarto di produzione possa essere utilizzato nel campo militare per la costruzione di ordigni nucleari.
Dopo alcune decine di anni, i rifiuti di tipo Hlw possono essere classificati come Ilw, ma la radioattività di tali scorie torna a livelli originari solo dopo migliaia di anni. Rifiuti a basso e medio livello di emissione radioattiva che hanno un emivita38 di 30 anni, possono essere depositati in depositi superficiali o in grotte poco profonde e se, per questo tipo di rifiuti, alcuni siti sono già operativi, molto più dibattuta è la scelta delle aree da destinare alla conservazione dei rifiuti Hlw39. Il deposito del monte Yucca, nel Nevada, che avrebbe dovuto accogliere 70.000 tonnellate di Hlw, è stato definitivamente bocciato nel 2010 dopo 32 anni di verifiche, sopralluoghi, progetti, mentre i siti di Onkalo, in Finlandia, e di Forsmark la cui operatività permetterebbe di contenere combustibile esausto a 450 metri di profondità sono in fase di ultimazione40,41.
Il nucleare in Italia
In paesi come l’Italia, dove per due volte si è respinta la possibilità di dotare il paese di un piano energetico che comprendesse anche il nucleare, il problema del trattamento e deposito delle scorie è oggi il principale tema sul quale si dibatte il tema dell’atomo. Attualmente vi sono cinque i reattori nucleari in funzione, tutti a scopo di ricerca: tre sono gestiti dall’Enea («Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile»), uno dall’università di Palermo e uno dal Laboratorio energia nucleare applicata dell’università di Pavia42.
Le quattro centrali costruite tra gli anni Sessanta e Settanta – Latina, Garigliano (Caserta), Trino Vercellese (Vercelli) e Caorso (Piacenza) – sono in corso di disattivazione assieme agli impianti sperimentali di riprocessamento di combustibile nucleare di Eurex e Itrec, all’impianto di plutonio dell’Enea a Casaccia (Roma) e al reattore Essor del Centro comune di ricerche (Ccr) di Ispra (Varese).
Tutte queste attività hanno generato rifiuti radioattivi a cui si aggiungono annualmente nuove scorie nucleari provenienti dalle attività mediche e dai ciclotroni per la produzione di radiofarmaci. Oggi sono centinaia i centri nel nostro paese che conservano rifiuti radioattivi (la maggior parte provenienti da attività mediche), mentre 19 sono le strutture principali da cui le scorie verranno trasferite per confluire in un deposito nazionale la cui individuazione geografica non è ancora stata decisa43. Questa incredibile lacuna (la gestione delle scorie dovrebbe essere una delle priorità che accompagnano un progetto energetico nazionale che includa il nucleare) dimostra la miopia e la leggerezza con cui la classe politica italiana del passato ha trattato il programma energetico, le cui conseguenze – sia economiche che sociali – oggi paghiamo a caro prezzo.
Il futuro del nucleare
Alla luce di quanto scritto, che futuro avrà il nucleare nel panorama energetico mondiale?
Con lo sviluppo delle energie rinnovabili, i forti incentivi che vengono offerti a chi fa ricerca nel campo e a chi opta per installare impianti e, soprattutto, la paura di un ennesimo incidente, il nucleare potrebbe non essere in grado di competere. Inoltre nei prossimi due o tre decenni la metà dei reattori oggi in funzione dovrà essere smantellata con costi e problematiche di smaltimento enormi. Al loro posto potrebbero subentrare i reattori di IV generazione meno costosi, poco adatti a sviluppi militari e, soprattutto, più sicuri e, successivamente, i reattori che si rifanno al progetto Inpro (International Project on Innovative Nuclear Reactors and Fuel Cycles) coordinato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea). Nel frattempo, però, la transizione tra lo smantellamento degli impianti obsoleti e l’avvio della IV generazione verrebbe occupata dai reattori di piccola portata facili da costruire e semplici da mantenere verso cui hanno mostrato interesse tutti gli stati che nel prossimo futuro dovranno fermare i propri impianti. In tutti questi nuovi progetti l’Italia è presente con i propri ricercatori.
Ma quello a cui il futuro lontano sta guardando con maggior attenzione è la fusione nucleare, una tecnologia basata non più sulla fissione (divisione) del nucleo atomico, bensì sul processo inverso, cioè l’unione di due nuclei. La reazione, più o meno quella che avviene nelle stelle, produrrebbe una quantità enorme di energia (circa 4 volte quella che si verificherebbe nella fissione di una pari massa di uranio-235 e 4 milioni di volte maggiore a quella che si sprigionerebbe da una pari massa di combustibile fossile) accompagnata da una produzione di scorie poco significative44.
Sebbene la ricerca sulla fusione e su un processo che possa essere convenientemente adottato per produrre energia quasi pulita a scopo civile sia stato avviato sei decenni fa, il traguardo sembra ancora lontano. Le difficoltà tecniche sono enormi. In primo luogo, la temperatura: per innescare e mantenere una fusione nucleare occorrono temperature che si aggirano sui 100-150 milioni di gradi. E non vi è alcun materiale che sia in grado di sostenere tale temperatura e contenere il plasma che si forma: ogni contatto con le pareti del contenitore raffredderebbe il plasma interrompendo la reazione. Inoltre ogni contatto con un elemento estraneo inquinerebbe il plasma stesso.
Per fortuna la tecnologia e la ricerca (anche italiana) sulla fusione è riuscita a trovare soluzioni, seppur costose e ancora in fase di sviluppo e sperimentazione, come il contenimento magnetico del plasma. Al primo Tokamak45, il reattore nucleare a fusione costruito nella seconda metà degli anni Sessanta, sono seguiti un’altra ventina di impianti pilota sino a quando un consorzio che comprende Unione europea, India, Cina, Russia, Giappone, Corea e Stati Uniti ha dato inizio al più ambizioso progetto nel campo della fusione nucleare: l’Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), in fase di costruzione a Cadarache, in Francia, che costerà 15 miliardi di dollari (rispetto ai cinque inizialmente preventivati nel 2001) e potrà entrare in funzione nel 203546. Nella migliore delle ipotesi l’uomo potrebbe consumare energia proveniente dalla fusione solo nella seconda metà del secolo. Un intervallo di tempo ancora troppo lungo perché il nostro pianeta possa sopportare un depauperamento delle materie prime e un inquinamento cui è sottoposto a livello attuale.
Nel frattempo, il mondo dovrà funzionare con l’energia disponibile che, qualunque sia la fonte, non è né pulita né infinita.
Piergiorgio?Pescali
Atomi e isotopi
Ogni atomo è formato da elettroni che roteano attorno ad un nucleo formato da protoni e neutroni (disegno). Nonostante l’elettrone abbia una massa 1.836 volte inferiore a quella del protone, la carica delle due particelle è uguale, ma di segno opposto. L’elettrone ha una carica negativa, mentre il protone una carica positiva. Quando in un atomo il numero di protoni è identico a quello degli elettroni, le cariche si annullano a vicenda e l’atomo è neutro. Se, invece, il numero degli elettroni è superiore a quello dei protoni l’atomo si trasforma in ione negativo; all’opposto, si ha uno ione positivo.
La quasi totalità della massa di un atomo è data dal nucleo (99,98% della massa, il restante 0,02% è data dagli elettroni) che, come accennato, contiene, oltre ai protoni, anche i neutroni, particelle di massa simile a quella dei protoni, ma di carica neutra.
Ogni elemento che troviamo in natura, dall’elio con cui sono gonfiati i palloncini, al mercurio al ferro, è definito esclusivamente dal numero di protoni presenti nel nucleo. Il carbonio, ad esempio, ha 6 protoni, l’elio ne ha due, l’idrogeno uno, l’uranio 92.
Il numero di protoni determina il numero atomico (Z) ed è quello che individua la proprietà chimica di un elemento, mentre la somma di protoni e neutroni è detta numero di massa (A).
Stessi elementi possono avere un numero di neutroni (N) diverso all’interno del loro nucleo. In questo caso parliamo di isotopi: sono atomi le cui caratteristiche chimiche rimangono identiche, ma varia il numero di massa.
L’idrogeno, ad esempio, ha un nucleo formato da un solo protone, ma quando accanto al protone troviamo anche un neutrone abbiamo il deuterio, mentre se i neutroni sono due abbiamo il trizio. Deuterio e trizio sono elementi utilizzati nella fusione nucleare.
P.Pescali
Fissione e fusione
I nuclei atomici possono dividersi per formare atomi di numero atomico e numero di massa inferiore, o unirsi per formare atomi di massa maggiore. Nel primo caso si parla di fissione nucleare, nel secondo caso di fusione.
L’elemento utilizzato per produrre energia nelle centrali nucleari a fissione è, generalmente, l’uranio. Non tutto l’uranio è, però, fissile. L’uranio ha 92 protoni nel proprio nucleo ed un peso atomico di 238 (viene indicato come 238U, 92U238 o semplicemente uranio-238). Sino ad oggi conosciamo 11 isotopi dell’uranio; tutti hanno lo stesso numero di protoni (92), ma un numero diverso di neutroni che variano da 138 a 148. Quando viene estratto il minerale è composto da isotopi presenti in diversa percentuale: il 99,3% è uranio-238 (uranio con 92 protoni e 146 neutroni), mentre lo 0,7% è uranio-235 (uranio con 92 protoni e 143 neutroni). Dato che la fissione dell’uranio-238 non dà luogo ad una reazione a catena, il combustibile utilizzato nelle centrali nucleari è l’uranio-235. Ecco perché, una volta estratto, il minerale deve essere arricchito per portare la concentrazione di uranio-235 al 3-5%.
Bombardando l’uranio-235 con un neutrone, il nucleo assorbe la particella trasformandosi in uranio-236 (236U, isotopo dell’uranio con 92 protoni e 144 neutroni). L’altissima instabilità dell’uranio-236 fa sì che il suo nucleo di divida in due nuclei più piccoli liberando altri neutroni che andranno a colpire altri nuclei di uranio-235. Ad ogni fissione si libera una quantità di energia che va a creare calore riscaldando l’acqua attorno al reattore la quale genera vapore che andrà ad alimentare la centrale. A parità di massa, una centrale a fissione può generare energia un milione di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile; una centrale a fusione sarebbe – invece – di 4 milioni di volte superiore.
La fusione è, semplificando al massimo, il processo inverso: due nuclei, generalmente di deuterio e trizio, di fondono per formarne uno più grande (elio). Il deuterio è un elemento comune, lo si può estrarre dall’acqua marina, mentre il trizio, che non esiste in natura in quantità elevate, lo si ricava dal litio, elemento presente nella crosta terrestre. 150 kg di deuterio e 2-3 tonnellate di litio sono sufficienti per generare elettricità per un anno in una città di un milione di persone. L’ostacolo principale della fusione è il confinamento del plasma, che si trova ad una temperatura di centinaia di milioni di gradi. Negli impianti sperimentali si utilizza il confinamento magnetico, che “chiude” il plasma in un campo magnetico impedendogli di entrare a contatto con le pareti del contenitore. Ogni reazione di fusione, oltre che un nucleo di elio produce un neutrone che, essendo di carica neutra, non verrà trattenuto dal campo magnetico e andrà a cedere la sua energia alle pareti del “blanket”, il contenitore toroidale, che si riscalderà. Un fluido asporterà il calore del blanket entrando in un generatore di vapore che farà funzionare una turbina a vapore. A parità di massa, una centrale a fusione può generare energia 4 milioni di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile.
P.P.
La radioattività
La stabilità di un atomo è data dal rapporto tra numero di neutroni e protoni (N/Z) all’interno del nucleo. I protoni, infatti, essendo particelle dotate della stessa carica positiva, tendono a respingersi a vicenda: le forze nucleari attrattive dei soli protoni non sono in grado di prevalere su quelle repulsive. I neutroni, essendo di carica neutra, aumentano proprio le forze nucleari attrattive che riescono a tenere i protoni confinati all’interno del nucleo. Questo equilibrio è ottimale quando il rapporto tra neutroni e protoni si attesta tra 1 e 1,5; quando questo valore viene superato l’atomo diventa instabile.
A questo punto l’isotopo instabile tende a rilasciare energia per riconfigurarsi in un isotopo più stabile. Questo rilascio di energia determina la radioattività e continua sino a quando il rapporto N/Z raggiunge un valore ideale. A seconda dell’isotopo, il rilascio di energia può durare da frazioni di secondo a migliaia di anni e la velocità con cui questa energia è emessa si chiama tempo di dimezzamento. Più il tempo di dimezzamento è breve, più radioattivo sarà l’isotopo. Dato che ad ogni ciclo di emivita il decadimento radioattivo è esponenziale, dopo 7 cicli di dimezzamento l’isotopo contiene meno del’1% della radioattività iniziale.
L’uomo da sempre convive con la radioattività. Raggi cosmici, terreno, cibi contengono isotopi che emettono in continuazione attività radioattiva. In media ogni individuo assorbe annualmente una dose di radiazioni naturali tra i 2,4 e i 3,3 millisievert (il valore varia da luogo a luogo in quanto la radioattività rilasciata dal suolo e dai raggi cosmici non è uniforme su tutto il pianeta).
Questi valori rappresentano circa il 50-70% delle radiazioni totali assorbite dall’uomo in quanto si devono aggiungere le dosi dovute alle attività umane, la quasi totalità delle quali (2,6 millisievert) è dovuta alle attività mediche (radiografie, medicina nucleare, tomografie). Le radiazioni dovute alle attività industriali corrispondono a meno dello 0,1% del totale della dose annuale assorbita (0,003-0,01 mSv).
In genere, però, le radiazioni naturali non hanno alcun effetto sulle nostre cellule o, tuttalpiù, possono essere riparate dalle cellule stesse. Il pericolo avviene quando l’energia delle particelle radioattive è elevata a tal punto da «ferire» la cellula senza che questa riesca a curarsi. In questo caso può continuare a vivere rischiando però di infettare altre cellule, oppure morire. Perché una cellula muoia occorre che la quantità di energia somministrata sia intensa e di breve durata: è il caso peggiore.
Le radiazioni emesse dai reattori nucleari sono di tre tipi:
alfa
beta
gamma
Le particelle alfa sono formate da due protoni e due neutroni. Dotate di bassa energia, posso essere fermate da un semplice foglio di carta.
Le particelle beta sono elettroni. Hanno energia superiore alle particelle alfa, ma non sufficiente da penetrare a fondo nella pelle (sono fermate da fogli di alluminio spessi pochi millimetri). Possono percorrere solo pochi metri nell’aria.
Le particelle gamma sono onde elettromagnetiche simili ai raggi X, quindi dotate di alta energia. Per fermarle occorrono materiali ad alta densità, come il piombo. Nell’aria possono percorrere anche diverse centinaia di metri prima di perdere la loro carica energetica. Al contrario delle particelle alfa e beta, che sono corpuscolari, le particelle gamma sono molto simili ai fotoni della luce (da cui variano solamente per avere una lunghezza d’onda minore). Generalmente, l’emissione delle radiazioni gamma è accompagnata da quelle alfa e beta.
Vi è, infine, un quarto tipo di radiazione, formato da neutroni. Sono particelle ad altissima energia che sono fermate da spessi strati di cemento e di acqua.
P.P.
Hanno firmato questo dossier:
Piergiorgio Pescali– Giornalista e scrittore, laureato in fisica, storia e filosofia, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, Giappone e penisola coreana. Dal 1996 visita con regolarità la Corea del Nord. Da anni collaboratore di MC, suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire, Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e Cnn. Il suo blog è: www.pescali.blogspot.com.
A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC
Note
(1) Philip Ball, How 2 Pro-Nazi Nobelists Attacked Einstein’s “Jewish Science”, Scientific American, 13 febbraio 2015.
(2) Jeremy Bernstein, Hitler’s Uranium Club: The Secret Recordings at Farm Hall, Springer Science+Business Media New York, 2001, p. 116.
(3) Jeremy Bernstein, ibidem, p. 138.
(4) La trascrizione dell’intero discorso, assieme all’audio originale, è consultabile sul sito della World Nuclear University.
(5) AEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, References Data Series n. 1, 2017.
(6) AEA, Vienna, Maggio 2017.
(7) IAEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, ibidem, p. 18.
(8) La differenza tra i due dati: l’11% si riferisce al contributo dato dal nucleare alla sola rete elettrica; altre fonti di energia elettrica sono l’idroelettrica, il solare, l’eolica. Il 5,86% si riferisce al contributo dato dal nucleare al consumo energetico assoluto rapportato, quindi, anche con il contributo dato dal petrolio, gas naturale, geotermia, bioenergia.
(9) ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, Comunicazione e informazione in tema di energia nucleare, di G. Forasassi, R. Lofrano, L. Moretti, Documento CERSE-UNIPI RF 1068/2010, Report RdS/2010/153, settembre 2010.
(10) Dei nove paesi che possiedono armi nucleari solo due (Israele e Corea del Nord) non hanno centrali per produrre energia a scopo civile, ma entrambe hanno istituti e impianti nucleari a scopo di ricerca.
(11) The Economist, 12 aprile 2011. La gravità di un incidente nucleare è classificata secondo una scala INES (International Nuclear and Radiological Event Scale) che va da 1 (semplice anomalia) a 7 (incidente catastrofico). Dalla scala 4 l’incidente nucleare ha conseguenze locali. Dal 1957 ci sono stati 2 incidenti su scala 7 (Chernobyl e Fukushima), 1 su scala 6, 3 su scala 5, 4 su scala 4, 2 su scala 3, 1 su scala 2 e 1 su scala 1 (fonte IAEA, The Economist).
(14) Interessante, sul cambio di consenso degli italiani sul nucleare, il citato rapporto ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, del settembre 2010 in cui – alle pagine 7/8 – si afferma che alla fine del 2010, pochi mesi prima di Fukushima, il 44% degli italiani sarebbe stato favorevole al ritorno del nucleare in Italia.
(15) IAEA, Vienna, Maggio 2017.
(16) Secondo un rapporto IAEA del maggio 2017, sui 448 reattori in funzione, 65 hanno un’età tra i 41 e 47 anni, 181 hanno tra i 31 e i 40 anni e 108 tra i 21 ed i 30 anni. La vita media di un reattore nucleare di I, II e terza generazione si aggira sui 40 anni, prolungabile a 60 per quelli di III generazione.
(20) A parità di massa la quantità di energia prodotta dalla fissione nucleare è superiore di sei ordini di grandezza (un milione di volte) quella del petrolio.
(21) ASPO Italia, «Associazione per lo studio del picco del petrolio», 2005.
(22) OECD International Energy Administration (IEA), 2015.
(23) IAEA, Vienna, Maggio 2017.
(24) Il numero di reattori nucleari non coincide necessariamente con il numero di impianti nucleari in quanto in uno stesso sito possono essere in funzione più reattori nucleari.
(25) IAEA, Vienna, Maggio 2017.
(26) World Nuclear Association (WNA), luglio 2017.
(27) Le principali compagnie che estraggono, lavorano e smerciano uranio solo la kazaka KazAtomProm (21% del mercato mondiale), la canadese Cameco (17%), la francese AREVA (13%), la russo-canadese ARMZ-Uranium One (13%) e l’australiana BHP Billiton (5%) (fonte: WNA, luglio 2017).
(28) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, OECD 2016, p.9.
(29) I principali siti minerari da cui viene estratto la pechblenda, il minerale che contiene uranio, sono: la McArthur River (Canada), proprietà della Cameco per il 69,8%, che estrae l’11% dell’uranio mondiale, la Cigar Lake (Canada), proprietà della Cameco al 50% (11% dell’uranio mondiale), la Tortkuduk & Myunkun (Kazakhstan), di proprietà del consorzio KatcoJV/Areva (6% dell’uranio mondiale), l’Olimpic Dam (Australia), proprietà della BHP Billiton (5% dell’uranio mondiale), l’Inkai (Kazakhstan), di proprietà del consorzio Inkai JV/Cameco, 5% dell’uranio mondiale e SOMAIR (Niger), per il 63,6% di proprietà dell’Areva, 4% dell’uranio mondiale (fonte: WNA, luglio 2017) .
(30) World Nuclear Association, luglio 2017.
(31) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100.
(32) IEA, World Energy Outloook 2017.
(33) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016, ibidem.
(34) Ibidem.
(35) Attualmente le riserve totali stimate sono sui 16.130.000 tonnellate; anche presupponendo lo scenario di richiesta più elevato proposto per il 2035 dall’IAEA (93.510 tonnellate totali nel mondo), le riserve basterebbero per 170 anni. (fonte: Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100).
(36) IAEA, Estimation of Global Inventories of Radioactive Waste and Other Radioactive Materials, June 2008, p.13.
(38) L’emivita (o tempo di dimezzamento) di un isotopo radioattivo è definita come il tempo occorrente perché la metà degli atomi di un campione puro dell’isotopo decadano in un altro elemento.
(39) I depositi ILW e LLW sono situati nel Regno Unito (LLW Repository a Drigg, in Cumbria gestito da un consorzio formato da AREVA, Serco e Studsvik UK), Spagna (El Cabril gestito da ENRESA), Francia (Centre de l’Aube gestito dall’Andra), Giappone (LLW Disposal Centre a Rokkasho-Mura gestito da Japan Nuclear Fuel Limited), USA (in 5 siti, Texas Compact vicino al confine col New Mexico, gestito da Waste Control Specialists; Barnwell, South Carolina gestito da EnergySolutions; Clive, Utah gestito da EnergySolutions; Oak Ridge, Tennessee gestito da EnergySolutions e Richland, Washington, gestito da American Ecology Corporation), Svezia (a Forsmark, in un deposito situato a 50m sotto le rive del Baltico, gestito dal Swedish Nuclear Fuel e dal Waste Management Company) e Finlandia, nel deposito di Onkalo a Olkiluoto e Loviisa, con profondità a 100 metri.
(42) Elaborazione ISPRA dei rapporti attività dei gestori impianti e ARPA/APPA, 2014.
(43) I 19 siti principali che oggi custodiscono i rifiuti nucleari sono le 4 centrali nucleari (gestiti da Sogin), 4 impianti di riciclo di combustibile esausto (gestiti da Enea e Sogin), 7 centri di ricerca nucleare (ENEA di Casaccia, CCR Ispra, Deposito Avogadro, LivaNova, CESNEF -Centro Energia e Studi Nucleari Enrico Fermi- Università di Pavia, Università di Palermo), 3 centri del Servizio Integrato ancora attivi (Nucleco, Campoverde e Protex) e 1 centro di Servizio Integrato non attivo (Cemerad).
Testo di Marco Bello, foto di Archivio dell’Ong LVIA |
Nel paese, in conflitto dal 2012, è crisi umanitaria. Centinaia di migliaia di sfollati, mancanza di acqua, cibo e assistenza medica. Gli attacchi sono quotidiani e le violazioni dei diritti una costante. Spuntano anche le fosse comuni di civili. In mezzo a tutto questo una Ong piemontese, la Lvia, propone la sua via per la pace. Abbiamo incontrato il suo rappresentante.
Parigi, 26 maggio 2018. Mamoudou Gassama, è un immigrato clandestino di 22 anni. Nel diciottesimo arrondissement salva un bimbo appeso a un balcone, arrampicandosi a mani nude, con l’agilità di un gatto, fino al quarto piano di un palazzo. Ricevuto all’Eliseo dal presidente francese Emmanuel Macron, gli viene immediatamente concessa la nazionalità francese e gli è proposto un lavoro come vigile del fuoco.
San Calogero (Vibo Valentia, Calabria), 2 giugno. Tre immigrati vengono presi a fucilate da un italiano. Stavano cercando vecchie lamiere in una fabbrica abbandonata per costruire baracche. Sacko Soumayla, 29 anni, regolare e sindacalista, cade a terra morto. Il giorno prima al Quirinale ha giurato il governo Lega – Movimento 5 stelle, detto «del cambiamento».
Mamoudou e Sacko, entrambi migranti, entrambi maliani. Due storie simili, due destini diversi.
Anche Ousmane ag Hamatou, 37 anni, è del Mali. Lui lavora a Bamako, la capitale, per una Ong italiana, l’Lvia di Cuneo, della quale è il responsabile nel paese africano. Ousmane non ha nessuna intenzione di migrare. È in Italia, su invito della sua Ong, per formazione e una serie di incontri, poi tornerà in patria dalla sua famiglia e al suo lavoro.
Lo incontriamo, per farci spiegare cosa sta succedendo in Mali, e per provare a capire perché, ragazzi come Mamadou e Sacko sono scappati dal paese e molti altri continuano a farlo.
Perché si scappa dal Mali
Ma facciamo un passo indietro. Il Mali, paese cerniera tra l’Africa subsahariana e il Sahara, nel 2012 precipita in una crisi profonda, dopo un ventennio di relativa stabilità (cfr. MC giugno 2017). Il Nord del paese, l’Azawad, ha visto, negli anni precedenti, l’infiltrazione di gruppi estremisti islamici (jihadisti) dall’estero, in particolare dall’Algeria, che si sono inizialmente alleati con le milizie locali indipendentiste di etnia tuareg. Insieme conquistano il territorio del Nord, occupando le città e imponendo la loro legge. I soldati regolari fuggono a Sud. Ma l’alleanza si rompe e i jihadisti hanno la meglio sui Tuareg. A gennaio 2013 puntano addirittura sulla capitale Bamako. È per questo che intervengono prontamente i militari francesi, in protezione dell’ex colonia (e dei propri interessi). L’operazione francese Sérval respinge i miliziani e riconquista le città del Nord. Islamisti e indipendentisti si rifugiano nello sconfinato territorio desertico. Quando l’operazione Barkhane sostituisce Sérval, intervengono i caschi blu, con la Minusma: missione composta da soldati africani dei paesi vicini, ma anche da un grosso contingente tedesco. Gli eserciti stranieri affiancano quello maliano, le Forze armate del Mali (Fama), che sono allo sbando.
«La situazione oggi è complessa e molto volatile – commenta Ousmane -, perché dopo la firma degli accordi di pace tra il governo e i gruppi armati nel giugno 2015 (solo alcuni dei gruppi, quelli indipendentisti tuareg non radicalizzati, ndr), c’è stata una mancanza di volontà, in primo luogo dello stato, di mettere in pratica le condizioni sancite dagli accordi stessi (L’accordo prevede, tra l’altro, la smobilitazione dei combattenti; la creazione di pattuglie miste governo – ex ribelli; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, per una definizione politica dell’Azawad).E c’è anche una certa reticenza da parte dei gruppi armati per quanto riguarda il processo di disarmo, perché le armi sono l’unica garanzia che hanno per poter fare un’eventuale negoziazione». La non applicazione degli accordi crea una situazione di vuoto istituzionale, che ha ripercussioni importanti. «Lo stato non è presente in certe zone e i gruppi armati “firmatari” non si incaricano della sicurezza territoriale. Questo fa sì che sul terreno ci sia un’avanzata delle forze islamiste, che approfittano della situazione di abbandono del territorio. Assistiamo inoltre, per lo stesso motivo, a una disgregazione dei gruppi armati in tanti gruppuscoli più piccoli, con tendenza a diventare formazioni a carattere comunitario, ovvero a base etnica. Ogni comunità si organizza e si dissocia dai gruppi principali che sono i firmatari degli accordi. Esse temono, infatti, che se un giorno ci saranno i dividendi degli accordi, non tutte le comunità rimaste nei grossi gruppi saranno soddisfatte».
Molti attori sul terreno
Oltre alla Minusma e all’esercito maliano – tornato nel Nord, dove controlla oggi le città, grazie all’intervento militare francese nel 2013 – la realtà degli attori sul terreno è complessa e variabile. Racconta Ousmane: «C’è il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma), il quale costituisce l’insieme dei grossi movimenti armati indipendentisti che hanno proclamato l’indipendenza dell’Azawad, poi ci sono diversi gruppi islamisti radicali, alcuni gestiti da maliani, altri da stranieri (in particolare algerini, ndr). Oltre a questi ci sono tante piccole milizie locali, comunitarie, che son state create e contribuiscono a rendere il clima pesante. Sono anche presenti bande di malviventi che operano e ostacolano il lavoro delle Ong, rubando le loro auto e compiendo assalti. Un insieme di attori armati che rende la situazione piuttosto complessa».
La popolazione è la principale vittima di questa situazione di insicurezza e instabilità, nella quale gli assalti si susseguono quotidianamente. Continua Ousmane: «La popolazione del Nord Mali cerca di capire cosa stia succedendo, perché ci sono stati troppi cambiamenti in questi ultimi tempi. Siamo partiti nel 2012 con uno stato maliano centrale relativamente forte, per arrivare a una situazione in cui il Nord è caduto nelle mani di diversi gruppi armati, uno stato autoproclamato dell’Azawad, per poi passare a uno stato islamista, perché gli jihadisti hanno cacciato gli indipendentisti. Siamo quindi ritornati a uno stato maliano diverso da quello del 2012, appoggiato da forze straniere e delle Nazioni Unite».
Oltre alla sicurezza sono i servizi a mancare: «La violenza è a tutti i livelli, anche nei piccoli villaggi, in zone dove lo stato non esiste più e i servizi sociali di base, come l’acqua, l’educazione, la salute, non sono garantiti. Per questo motivo c’è un grande numero di sfollati, sia verso paesi confinanti sia all’interno del Mali in direzione del centro e Sud del paese». I dati delle Nazioni Unite di aprile 2018 parlano di circa 60.000 persone sfollate all’interno e 137.000 rifugiate in Burkina Faso, Niger e Mauritania.
Anche nel centro del Mali la situazione è divenuta complessa. «Le condizioni nella zona centrale non sono diverse, è la stessa crisi del Nord che avanza nel centro, con gli stessi attori. Dato che non si trova soluzione alla base, la crisi si estende anche verso il Sud e ora tocca paesi limitrofi come il Sahel burkinabè (il Nord del Burkina Faso, ndr), che è stato contagiato dalla crisi, e la frontiera con il Niger (Nord Est, ndr). È tutta un’area geografica che vede la crisi estendersi».
In particolare il centro del paese è diventato teatro di scontri tra diverse etnie (cfr. MC giugno ‘17). «La Lvia interviene a Mopti, insieme all’Ong Cisv e con finanziamenti di emergenza del ministero per gli Affari esteri italiano, appoggiando i centri di salute. La particolarità di questa zona sono gli scontri intercomunitari tra la popolazione Peulh, allevatori, che si organizza in milizie, e quella Dogon, agricoltori, che inizia a prendere le armi».
Costretti all’emergenza
Lvia lavora in Mali da 30 anni, ed essendo una Ong che si occupa di sviluppo, ha sempre lavorato su programmi di lunga durata. Ousmane ci spiega cosa è cambiato con la crisi: «Non siamo una Ong di emergenza, ovvero non andiamo di proposito in quei paesi dove c’è la guerra per intervenire, ma in Mali siamo in un contesto che conosciamo bene, abbiamo molti contatti, siamo riconosciuti dalle comunità, dagli enti locali e anche dal governo. Abbiamo fatto tesoro di questo riconoscimento e della nostra conoscenza del terreno per realizzare progetti di emergenza umanitaria. Sono programmi su temi che abbiamo sviluppato anche in contesto non di crisi, come le infrastrutture idrauliche (pozzi artesiani, ndr), per dare acqua potabile alla gente. Per noi il fatto importante che cambia, è che oggi, con la crisi, ci sono bisogni primari da soddisfare, in modo anche urgente. Ad esempio, nell’ambito della nutrizione, perché gli indicatori di malnutrizione nel Nord del paese sono piuttosto alti. Sosteniamo alcuni centri di salute, quelli ancora funzionanti, per accogliere i bambini denutriti e seguirli. Facciamo anche molta sensibilizzazione e accompagnamento delle comunità, nell’ambito della valorizzazione dei prodotti agricoli locali e la loro integrazione nell’alimentazione di base».
Non sparate sulle Ong
In un contesto di crisi, oltre alle normali difficoltà c’è anche un altro problema per le Ong, quello della sicurezza dei propri operatori. «È una grande sfida, perché occorre abituarsi a lavorare in un contesto di sicurezza imprevedibile, dove anche se le nostre organizzazioni non sono prese particolarmente di mira, operiamo in un clima nel quale tutto può succedere. Abbiamo avuto incidenti come furti di auto o assalti a mano armata. È un contesto non controllabile, per cui occorre adattare la nostra missione, i nostri interventi, ogni giorno, informandoci in modo continuo e seguendo alla lettera le raccomandazioni di sicurezza».
Politica: evoluzione?
Il Mali sta vivendo anche un periodo di transizione politica, perché il 29 luglio si terranno le elezioni presidenziali (leggerete queste righe ad elezioni avvenute; pubblicheremo un resoconto delle stesse su www.rivistamissioniconsolata.it), che però non dovrebbero portare particolari sorprese. Oltre al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keita (detto Ibk), eletto nel 2013, favorito, sono una ventina gli altri candidati. A inizio giugno una manifestazione di una coalizione di opposizione è stata repressa sul nascere mediante l’uso di gas lacrimogeni. I manifestanti chiedevano più trasparenza e più equità sui media nazionali per la copertura della campagna elettorale.
Chiediamo a Ousmane cosa ne pensa. «Visto il clima d’insicurezza che regna nel paese, con continui attacchi, penso che il contesto non sia propizio alla tenuta di elezioni libere, trasparenti e soprattutto credibili. C’è piuttosto un’urgenza nel mettere in sicurezza il paese e migliorare le condizioni di vita della popolazione più che organizzare delle elezioni.
L’impressione è quella che chi è al potere, ma anche chi vive nel Sud del Mali, dove c’è un piccolo spazio in sicurezza e normalità, non sia molto cosciente di cosa succede nel resto del paese. Il Nord non è mai stato una priorità per le autorità centrali e lo è ancora meno adesso. Colpisce anche il fatto che si organizzino elezioni quando molta gente è fuori dal paese o dalla sua zona di residenza abituale. Non è logico organizzare delle elezioni quando la popolazione non può votare». Occorre considerare che il paese, la cui superficie è di oltre 1,2 milioni di km2 (quasi quattro volte l’Italia) ha una vasta fetta di deserto del Sahara, l’Azawad appunto, che occupa una superficie di 822.000 km2. La capitale dello stato, Bamako, si trova invece nell’estremo Sud del paese.
«Bisogna riconoscere che il presidente attuale ha assunto la carica in un momento piuttosto particolare. È arrivato nel 2013 quando il paese attraversava una crisi molto grave, difficile da gestire. Gli si può però contestare che certi impegni presi nell’ambito dell’accordo di pace non sono stati applicati. Questo è un punto importante sul quale il governo ha fallito». Il Mali è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è anche il capo dell’esecutivo. Un cambio del presidente prevede anche un nuovo governo.
«L’opinione pubblica a Bamako è molto divisa su Ibk. C’è chi pensa che questo governo, in un secondo mandato non possa fare meglio di quanto ha già fatto, altri che pensano occorra un vero cambiamento. Io personalmente, tra i candidati, non vedo nulla di nuovo, sono le stesse figure che hanno contribuito, negli anni, a portare questo paese a terra. Resta la stessa generazione di politici maliani che, ormai da decenni, non riesce a far uscire il paese da questa situazione».
Il pantano degli scontri etnici
La novità degli ultimi due anni sono gli scontri a base etnica nelle due regioni centrali di Mopti e Ségou, che nulla hanno a che vedere con l’Azawad e i Tuareg, ma dove si sono inaspriti conflitti atavici tra gli allevatori peulh e gli agricoltori dogon, con la compiacenza dei Bambara del Sud. Sovente i cacciatori bozo di etnia bambara fanno il lavoro sporco coperti dai militari.
È del giugno scorso la scoperta di almeno tre fosse comuni di civili uccisi, sembra giustiziati, anche per rappresaglie, dall’esercito maliano. Il 19 giugno, in seguito a un’operazione militare, erano scomparse 18 persone dalla località di Gassel (dipartimento di Douentza, regione di Mopti), tutte di etnia peulh. Il 20 è stata scoperta una fossa con almeno 7 corpi. Pochi giorni prima, il 15 giugno a Nantaka e Kobaka, nel comune di Sokoura, i corpi di 25 persone erano stati scoperti in tre fosse comuni. Anche loro, con tutta probabilità, peulh. Le responsabilità sarebbero dell’esercito regolare, fatto questa volta confermato da un comunicato del ministero della Difesa.
Scontri nei quali si sono insinuati gli islamisti radicalizzati, come Amadou Koufa, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, legato al capo tuareg radicale Iyad ag Ghali (lui di Kidal, nel Nord). Fronte che ha avuto come filiazione il primo gruppo di combattenti jihadisti del Burkina Faso, Ansarul Islam (cfr. MC giugno ‘17), nato nella confinante provincia del Sahel burkinabè.
Crisi senza soluzione?
In una situazione così ingarbugliata è difficile vedere una via d’uscita. Chiediamo a Ousmane, uomo del Nord, che vive in capitale e che ha una visione d’insieme, di dirci quale sarebbe, secondo lui, una pista per la soluzione. «Secondo me è difficile prevedere. L’insicurezza ha gravi ripercussioni sulla situazione umanitaria e su quella politica. Tutto è molto complesso.
La prima cosa da fare è applicare l’accordo di pace di Algeri, per cominciare a trovare una soluzione politica alla ribellione tuareg nel Nord del Mali. In questo modo si farebbe un grande passo in avanti e ci si potrebbe occupare degli altri problemi, che sono nell’insieme una conseguenza di questa guerra.
Il presidente che arriverà dovrà prendere di petto l’applicazione di questi accordi, per farci andare avanti nella via della prosperità e della pace».
Ma i jihadisti, in particolare quelli stranieri, non hanno partecipato agli accordi. Con loro non si può negoziare? «I jihadisti non hanno nulla da negoziare. Lo hanno detto quando hanno conquistato il Nord, che non erano venuti per negoziare uno stato o una soluzione politica, erano venuti per instaurare uno stato islamico in Mali. Per cui occorre che il governo maliano trovi una soluzione politica alla situazione dei Tuareg nel Nord del Mali e a questo punto, tutti noi maliani, ci possiamo mettere insieme per combattere gli islamisti. Io penso che non resisterebbero a un Mali unito, ma nelle condizioni attuali sono loro che approfittano e creano ogni giorno il caos sulla nostra terra».
Ci sono islamisti stranieri ma anche maliani che si sono radicalizzati. In particolare il capo più importante del momento è il tuareg Iyad ag Ghali. Già leader delle grandi ribellioni tuareg dal 1991 in avanti, si è poi islamizzato, ha fondato il gruppo Ansar Dine, tra i fondatori di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), e nel 2017 ha riunito in un fronte comune diverse formazioni nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim).
«Io penso che rispetto agli islamisti maliani si possa trovare una soluzione. Secondo me, la maggior parte di loro si sono radicalizzati perché hanno visto questo passaggio come un modo per continuare la lotta politica per l’indipendenza del Nord. Se invece sentissero che c’è una reale volontà per una soluzione politica con i gruppi armati tuareg o di altre comunità del Nord, sarebbe possibile negoziare con loro. Per gli altri islamisti che non sono maliani, l’unica soluzione è combatterli. Con o senza l’appoggio delle forze straniere. Non abbiamo necessariamente bisogno di eserciti stranieri, ma è invece obbligatorio ritrovare quello che ci unisce come maliani, come nazione, e a quel punto possiamo vincere la guerra contro gli islamisti, contro il sottosviluppo, e ben altre sfide».
Marco Bello
Don Tonino Bello, il vescovo degli ultimi
Memoria di don Tonino di Rocco Marra |
Il 20 aprile scorso papa Francesco ha reso omaggio a uno dei vescovi italiani più amati. Nel 25esimo anniversario della morte di don Tonino, il pontefice è andato a pregare sulla sua tomba. Un segno che il messaggio del vescovo pugliese è sempre di grande attualità. In queste pagine il ricordo appassionato di un missionario della Consolata, che è stato suo allievo.
Carissimo don Tonino, ho deciso a scriverti una lettera, conscio che tu la conosci già. Scrivo una lettera pur sapendo che, come al solito, non mi risponderai, per di più non me la boccerai come «fuori tema» e forse neanche la leggerai.
So che a te piace leggere, nonostante viviamo in un’epoca in cui si scrive per masse che non leggono e si insegna a persone che non ascoltano. Ultimamente avrai notato che si scrive moltissimo su di te, specialmente ora che è ufficiale: il papa Francesco è venuto a pregare sulla tua tomba monumentale, ad Alessano, e a celebrare l’Eucarestia a Molfetta, proprio nell’anniversario del tuo Dies Natalis (in questo caso, 25° anniversario della morte, avvenuta il 20 aprile 1993, ndr).
Tutto fa capire che sei prossimo a essere riconosciuto «beato» e «santo profeta» del XX secolo. Veramente, per i poveri di Gesù che ti hanno conosciuto, sei santo da quando hanno saputo che non saresti più andato a trovarli perché eri andato in cielo. Di certo intercedi per la conversione di molti, perché accolgano l’amore di Dio nella loro vita e diventino canali di misericordia per i meno amati di questa umanità, come sei stato tu.
Scrivono molto su di te, ma mi chiedo con linguaggio salentino: «Sarà tutto oro quello che cola?». Certamente meriti anche di più, sono sicuro che, se la gente comune potesse scrivere qualcosa, scriverebbe la buona notizia che ancora traspare dalla tua indimenticabile vita.
Tu, echeggiando gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ci insegnavi che per grazia del battesimo non solo individualmente, ma anche comunitariamente, siamo incoraggiati dallo Spirito a crescere e camminare come «chiesa santa e gioiosa» che trasuda l’amore di Dio in azione: comunità profetica, sacerdotale e regale. Non mi sorprenderei se tu volessi continuare a tirare le orecchie a tanti di noi e a sussurrare a papa Francesco il tuo dispiacere di essere proclamato beato da solo. Sicuramente il tuo desiderio sarebbe che il pontefice proclamasse beata o santa la parrocchia «Natività beata Maria Vergine» di Tricase, o la «Chiesa locale di Molfetta», o il movimento «Pax Christi». Sì, avrebbe più senso e più incisività per il mondo in cui viviamo. Se un testimone come te provoca uno scossone di rinnovamento nello Spirito di Dio, certamente una parrocchia o diocesi santa, provocherebbe un terremoto di grazia per scardinare fin dalle fondamenta il regno diabolico che ci strangola.
Esci dalla tua terra
Sono contento di ricordarti, perché sei stato un uomo che ha dato senso e gusto alla propria vita e a quella di chi ha incontrato. Come le cacce al tesoro che organizzavi per noi, per farci sognare, per ricercare su riviste e libri gli avvenimenti e le scienze del mondo, per aiutarci a non aver paura a scorgere l’amico Gesù sul cammino di ogni giorno, vissuto con semplicità e responsabilità.
Conoscevi molto bene e a memoria la Parola di Dio, la Divina Commedia e altri scritti della letteratura italiana, ma conoscevi anche ogni tuo «pargolo» spirituale. Mi ricordo la relazione del primo anno di seminario, corrispondente alla mia prima media: «Rocco è un ragazzo buono». Queste sono le prime parole di Dio di fronte al suo creato, così me le hai scritte tu, lette dal parroco, monsignor Giuseppe Zocco e da mio padre Riccardo, seguite da parole d’incoraggiamento da parte loro.
Tu hai parlato con simboli, come i presepi, il primo che mi ricordo, nel 1973, costruito nel parlatorio del seminario di Ugento. Sulla porta avevi collocato dei compensati con alcuni articoli di giornali appiccicati sopra, chiaramente notizie scelte da tutto il mondo, poi davanti c’erano le immagini della natività, con delle catene intorno alla culla di Gesù. Chi ammirava la culla poteva soprattutto leggere: «Signore vieni a sciogliere le nostre catene». Come fanciullo, non mi interessavano più gli effetti delle lampade a mercurio poste sulle montagne e vallate, percorse dai pastori e le loro pecore, ma volevo sapere il significato di quelle parole vicino alla culla.
Che dire dei canti liturgici? Non mi ricordo quale novena fosse quando ci hai portati tutti e trenta in una delle confraternite di Ugento. Ricordo però il contenuto della tua predica, la spiegazione del canto conosciuto da tutti: «Esci dalla tua terra e va’». Ancora adesso mi rammento quello che hai detto e cresce d’intensità con la mia esperienza missionaria e il ricordo della tua testimonianza di vita.
Durante quella messa, quando una disabile cercava di scambiare il segno di pace rivolgendosi verso di te, tu sei sceso dall’altare, non solo per stringerle la mano, ma anche per abbracciarla.
Don Tonino, certamente il tuo gesto più espressivo, per noi del seminario Minore di Ugento, è stato in terza media, quando hai ospitato una famiglia sfrattata. È stato come un seme di mille altri semi che hai sparso nel tuo andare nel campo del Signore.
Come il Buon Pastore
Hai parlato spesso della Madonna e di tua madre, due donne che portano lo stesso nome. Ci portavi a pregare Gesù all’ombra di Maria, e negli anni in cui ti ho conosciuto, tra il 1973 e il 1976, quando frequentavo le scuole medie da seminarista, quasi tutti i giorni pregavamo il rosario insieme, a volte anche completo e di solito passeggiando.
Ci parlavi poco, invece, di tuo padre Tommaso, maresciallo dei carabinieri, forse per evitare momenti di commozione. Lo avevi perso infatti all’età di circa sei anni. Non vivevi però quest’assenza come un vuoto, essendo tu stesso diventato come un padre per i tuoi due fratelli più giovani e poi per noi seminaristi. Un anno, prima della celebrazione del 4 novembre, considerando le medaglie presso il monumento dei caduti, hai condiviso alcuni tuoi sentimenti con un gruppo di noi seminaristi. Praticamente, quelle medaglie al valore militare non potevi sopportarle, pensando a tante mogli private dei loro mariti e a genitori cui erano stati strappati i figli. Le medaglie al valore militare non avevano per te lo stesso significato delle medaglie e dei trofei vinti dai tuoi seminaristi nelle competizioni sportive o per la costruzione del miglior presepio della provincia.
Non credo che tu, don Tonino, facessi distinzioni e contrapposizioni tra «casa» e «chiesa». La «chiesa del grembiule», divenuta famosa fin dai primi anni del tuo episcopato, ebbe sicuramente la sua origine nella tua casa di Alessano, così come la riflessione sulla «stola» trovò origine nella chiesa della tua parrocchia natale.
Ricordo che una volta, in seminario, ci hai presentato il significato della stola sulle spalle del prete. Mi colpì molto l’invito a prepararci per indossarla come segno della nostra partecipazione alla missione del Buon Pastore, venuto a cercare la pecorella smarrita per riportarla all’ovile, caricandosela con dolcezza sulle spalle. Grembiule e stola, tue immagini preferite, mi hanno sempre aiutato a ripensare il servizio cristiano come servizio fatto con umiltà e dinamismo di carità.
La stola, poi, mi ricorda in particolare che il potere e l’autorità del pastore cristiano stanno nel servizio che scaturisce da quel «Pane spezzato per tutti», fonte di tutto il significato teologico di ministro e ministero.
Contemplazione e azione
Insistevi perché andassimo oltre il perimetro delle nostre amicizie, delle nostre certezze e anche della chiesa per incontrare quelle pecorelle, e accompagnarle con saggezza e tenerezza. Sottolineavi la necessità di avere un «amore vigoroso», capace di farsi carico e di caricarci sulle nostre spalle coloro che non avevano la forza di camminare da soli. E ribadivi che santi come Luigi Gonzaga erano grandi sì a causa della loro preghiera, ma soprattutto per aver avuto il coraggio di caricarsi alcuni ammalati per portarli all’ospedale. Contemplazione e azione sono state caratteristiche inscindibili della tua esperienza di vita, aureole che ti proclamano tra i santi missionari del nostro tempo. Credo che per conoscerti bene, don Tonino, non basti leggere i tuoi innumerevoli scritti. Occorrerebbe penetrare nel cuore del popolo che ti ha conosciuto, che vibrava alle tue parole e che con te ha celebrato l’Eucarestia, per conoscere meglio i valori che proponevi e la potenza di contagio che avevi sulla gente. Eri un pastore capace di trasfondere in chi incontravi l’amore del Signore e dei fratelli.
Avevi una capacità di comunicazione e di relazione straordinaria, vero profeta anche in questo areopago moderno. Sapevi evidenziare gli aspetti positivi presenti in ogni persona, per dare sempre coraggio e speranza.
E chissà come è stato bello l’incontro con il Padre celeste, visto che hai saputo sempre essere propositivo nel travaglio nostalgico della ricerca del suo volto paterno.
Rocco Marra
Solo Dio può salvare il Centrafrica
Centrafrica, dal Carmel di Bangui ci scrive padre Federico Trinchero |
Il primo maggio 2018, durante la messa a Notre Dame de Fatima, – una parrocchia di Bangui capitale della Repubblica Centrafricana (Centrafrica) – un gruppo di miliziani ha lanciato un attacco con granate sui fedeli. Sedici i morti – tra i quali il sacerdote – e un centinaio i feriti. È l’ennesimo atto di una guerra di potere iniziata nel 2012, e che è stata trasformata in conflitto etnico-religioso. La testimonianza di un missionario a Bangui.
«Nei momenti più difficili emergono degli eroi e non dubito che degli eroi esistano nel Centrafrica per alzarsi, come un solo uomo, per dire no alla violenza, no alla barbarie, no alla distruzione di se stessi». È questo l’appello che l’arcivescovo di Bangui, il cardinale Dieudonné Nzapalainga, ha rivolto alla capitale e all’intera nazione in questi giorni drammatici, carichi di tensione e di tristezza.
Cos’è successo a Bangui?
La mattina del primo maggio, durante una celebrazione nella parrocchia di Notre Dame de Fatima (a poca distanza dal nostro convento), un gruppo armato proveniente dal quartiere Km5 (Pk5 è un’enclave a maggioranza musulmana, da anni il focolaio principale delle tensioni della capitale) ha aperto il fuoco sulla gente in preghiera provocando 16 morti e un centinaio di feriti. L’incursione è avvenuta come rappresaglia in reazione a un tentativo da parte delle forze dell’ordine di catturare alcuni elementi di questo gruppo armato che, di fatto, tiene in ostaggio la capitale e alcuni degli stessi musulmani del quartiere.
I fedeli a Fatima avevano appena proclamato la loro fede e stava per iniziare l’offertorio. Ma la messa è continuata con il sacrificio di sedici cristiani, tra i quali un sacerdote, l’abbé Albert Tungumale Baba. Lo scontro è poi continuato per giorni in altri quartieri della città provocando altri morti, altri feriti e la distruzione di due moschee.
nella Repubblica Centrafricana un massacro tira l’altro
L’episodio del primo maggio, che ha ferito e lasciato quasi incredula l’intera città, è avvenuto inoltre a poche settimane dell’uccisione a Séko (nel centro del paese) di un altro sacerdote, l’abbé Désiré Angbabata, insieme a undici suoi parrocchiani (assassinio avvenuto il 21 marzo 2018).
L’abbé Albert, settantun anni, tra i sacerdoti più anziani del clero di Bangui, era un pastore stimato e conosciuto per la sua semplicità e simpatia, e soprattutto per la sua opera discreta e infaticabile in favore della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Durante le fasi più acute della guerra aveva accolto per diversi anni, nella sua parrocchia vicinissima al Km5, migliaia di profughi provenienti dai quartieri vicini. L’abbé Albert, inoltre, era a tutti noto per il suo grande amore per il sango, la lingua nazionale della Repubblica Centrafricana, non particolarmente ricca di vocaboli. L’abbé Albert riusciva a tradurre ogni parola (senza usare il francese), con soluzioni geniali o giri di parole divertenti. Una volta, mentre eravamo in macchina insieme, tradusse pure il mio nome, decretando che mi si doveva chiamare Bwa (che in sango significa sacerdote) Federiki.
Salvare il Centrafrica
In un’intervista l’abbé Albert aveva detto che solo Dio può ormai salvare il Centrafrica. Non aveva tutti i torti. A salvare il Centrafrica ci hanno provato, e ci stanno ancora provando, in tanti: l’esercito nazionale, le truppe dell’Unione africana, la missione francese (che ha comunque il grande merito di aver impedito che il conflitto diventasse un massacro), i soldati dell’Unione europea, poi la Minusca, la grande missione dell’Onu (che, pur con tutti i suoi limiti, resta al momento l’unica soluzione possibile) e ora sono all’orizzonte anche i russi. Ci ha provato pure papa Francesco che, con la sua visita nel novembre del 2015, era riuscito a regalare una tregua sufficiente per eleggere democraticamente un nuovo presidente. Con il tempo, purtroppo, l’effetto di quella visita è come svanito e l’occasione di voltare pagina è stata per l’ennesima volta sprecata. Gli scontri si sono moltiplicati su tutta l’estensione del paese e quella pace, che avevamo appena accarezzato, sembra quasi più lontana di prima.
Una guerra, perché?
Perché è iniziata questa guerra? E perché sembra impossibile arrestarla? Le guerre sono sempre complesse, iniziano per tanti motivi ed evolvono nel tempo. Anche per chi abita qui da anni è difficile spiegare le vere ragioni del conflitto e, ancor di più, suggerire la soluzione giusta per spegnere l’incendio evitando che si propaghi ora qui, ora là – quasi come i fuochi della savana – lasciando solo morti, distruzione, paura e scoraggiamento. Attualmente i due campi avversari non sono neppure così nettamente distinguibili, come nei primi anni della guerra, tra Seleka (la coalizione delle milizie a maggioranza musulmana, tra cui anche mercenari di altri paesi) e gli anti-balaka (le milizie di autodifesa, sorte a difesa della popolazione del paese, a maggioranza cristiana, ma dalle quali i vescovi hanno sempre preso le distanze). La Seleka è ufficialmente sciolta. Ogni gruppo di ribelli ha il suo capo, i suoi obiettivi e la sua zona d’influenza (ad esempio l’Unione per la pace in Centrafrica è il gruppo che ha compiuto l’attacco a Séko, ndr). Non c’è più quella guerra casa per casa, quartiere per quartiere che Bangui aveva conosciuto nel 2013 e nel 2014. Ora si tratta di battaglie che hanno per protagonisti gruppi di autodifesa, i soldati dell’Onu o le forze dell’ordine. Tre quarti del paese sono come fuori dal controllo dell’autorità dello stato.
Guerra per le risorse
La guerra nel Centrafrica, iniziata di fatto già nel 2012, non è uno scontro confessionale o etnico. Si tratta piuttosto dell’ennesimo conflitto per la conquista del potere e per lo sfruttamento delle ricchezze di cui abbonda il sottosuolo (ad esempio i diamanti, ndr). Purtroppo, l’elemento confessionale si è inserito violentemente, avvelenando quella convivenza tra cristiani e musulmani che faceva del Centrafrica – in un tempo ormai lontano – un esempio di coabitazione pacifica. Seko e Fatima confermano che per ritornare alla situazione precedente la strada è ancora lunga.
Durante l’omelia, in occasione dei funerali del sacerdote ucciso e di alcune delle vittime, il cardinale di Bangui ha messo tutti con le spalle al muro denunciando l’inerzia del governo, la lentezza dell’Onu e il rischio che i cristiani cedano allo sconforto o, peggio ancora, alla logica della violenza e della vendetta. C’è un nemico insidioso che sta distruggendo il Centrafrica. E questo nemico, ha scandito il Cardinale, è il diavolo. Solo le armi della fede possono vincerlo.
Bangui, ferita al cuore della sua fede, non è arrabbiata con Dio. È arrabbiata piuttosto con quegli uomini che non vogliono la pace e, quasi obbedendo a un’agenda nascosta, si ostinano a bloccare il paese, come se fosse ineluttabilmente condannato alla miseria e alla guerra. Bangui e tutto il Centrafica sono in cerca di eroi – tra i governanti, i soldati, i giovani – che si alzino come un solo uomo e dicano no alla guerra e sì alla pace.
In seguito al massacro di Fatima, e al linciaggio di due musulmani per rappresaglia, il cardinale Dieudonné Nzapalainga invita alla calma: «Cosa abbiamo fatto di questo paese? Colpi di stato, ammutinamenti, ribellioni a ripetizione. I risultati sono davanti a noi: abbiamo morti, saccheggi e distruzione. Gli ultimi drammatici avvenimenti ci ricordano che la violenza non porta soluzioni ai nostri problemi».
Pubblichiamo parte della sua predica al funerale delle vittime del primo maggio.
Cari fratelli e sorelle,
l’arcidiocesi di Bangui è in lutto. Piange i suoi figli. Le nostre lacrime non si fermano da quando abbiamo saputo dell’atto terroristico, barbaro, commesso alla parrocchia Notre Dame de Fatima, durante la grande celebrazione eucaristica del primo maggio scorso. Un sentimento di tristezza, di collera, di desolazione abita il nostro cuore e ci fa sprofondare in una dura prova. Che fare?
Dopo alcuni momenti di preghiera e di riflessione, abbiamo la certezza che il Signore non abbandona mai coloro che credono in lui. Nei momenti di grande tribolazione viene in loro soccorso per liberarli, consolarli, medicare le loro ferite e asciugare le loro lacrime. Ecco perché abbiamo scelto di tenere gli stessi testi liturgici letti a Fatima. Non chiudiamo il nostro cuore, ma ascoltiamo la voce del Signore che ci parla, perché lui solo è nostro rifugio, nostra salvezza.
Nella prima lettura, Paolo ha subito l’aggressione dei giudei venuti da Antiochia. L’hanno lapidato e portato fuori dalla città pensando che fosse morto. Il loro piano era di mettere fine all’annuncio della Buona novella in quella città. Per questo, occorreva uccidere Paolo. Ma hanno fallito. Il testo continua: «Il giorno successivo con Barnaba, Paolo parte per Derbé. Annunciarono la Buona novella … e fecero un buon numero di discepoli». […]
Questo testo è una vera profezia. L’abbé Tungumale Baba è stato aggredito, ucciso. Il suo corpo trascinato nella città di Bangui. I suoi aggressori hanno pensato di aver vinto. No, non potranno mai eliminare la Chiesa cattolica. Non potranno mai mettere fine all’annuncio della Buona novella a Fatima. Paolo dopo l’aggressione diceva: «Dobbiamo passare molte prove, per entrare nel regno di Dio». Sì, nel nome della nostra fede, l’abbé Tungumale Baba e gli altri fedeli che hanno trovato la morte a Fatima, hanno vissuto le loro prove e sono oggi nel regno di Dio.
Nel Vangelo proclamato Gesù diceva ai suoi discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non è alla maniera del mondo che ve la do. Che il vostro cuore non sia sconvolto né spaventato». Ecco un’altra frase profetica che descrive la situazione che viviamo. Tutti noi siamo sconvolti. Tutti noi siamo spaventati. Il nostro vivere insieme, la nostra coesione sociale, la nostra unità nazionale è stata violata e rimessa in questione dai nemici della pace.
L’ora è grave, perché la crisi è profonda e multidimensionale, con aspetti nascosti, di chi tira i fili, nell’ombra, e chi non ha alcuna considerazione per l’uomo. I nemici della pace hanno il loro piano; è per questo che dobbiamo essere vigilanti per non cedere ad alcuna manipolazione. Dobbiamo prendere le distanze e giocare il nostro ruolo di sentinelle, di vedette, di chi guarda lontano e agisce con prudenza e virtù.
Il discorso di papa Francesco durante la sua visita a Bangui, può aiutarci a capire la nostra crisi. Il papa afferma che la violenza è un’azione del diavolo; le persone cadono sotto il potere del male: «Tutte le nostre comunità soffrono indistintamente dell’ingiustizia e dell’odio cieco che il diavolo libera», diceva il santo Padre. Per conseguenza, noi siamo impegnati in una battaglia spirituale […]. Il diavolo si scatena contro di noi, perché siamo la capitale spirituale del mondo. La prima Porta santa del giubileo della misericordia, la terra benedetta da Dio. Noi andiamo a combattere e vincere con le armi della fede. Per questo facciamo nostre le raccomandazioni di san Paolo […].
A coloro che ci governano noi esprimiamo la nostra riconoscenza per gli sforzi fatti nella formazione dei nostri militari. D’altronde noi vi lanciamo questo appello: prendete in maniera risoluta e determinata la vostra responsabilità. Il popolo soffre e chiede protezione. Domani rischia di essere tardi. Il nemico che abbiamo di fronte non ha pietà per nessuno. È pronto a colpire ad ogni occasione. Il ritardo nell’intervento ha lasciato il campo libero al nemico. Noi contiamo i nostri morti e i nostri feriti. Vi chiedo di rivedere il vostro sistema di difesa e la vostra strategia per un’azione coordinata ed efficace delle nostre forze di difesa nazionale.
Alla comunità internazionale, e in particolare alla Minusca (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Centrafrica, ndr): noi vi ringraziamo per la vostra presenza al capezzale della nazione centrafricana, e l’appoggio al processo di pace in corso. Ciò nonostante vogliamo attirare la vostra attenzione sulla lentezza degli interventi e la mancanza di professionalità di certi contingenti. Noi sappiamo che voi avete efficaci mezzi di comunicazione. Quando sentite il nostro Sos, per favore, venite presto per proteggerci e salvarci. E siamo convinti che Dio ci darà la forza di fare sempre meglio. Noi vi reiteriamo il desiderio della popolazione di vedere una buona coordinazione tra la Minusca e le forze di difesa nazionale. Assumetevi la vostra responsabilità, in nome di Dio.
Cari fratelli e sorelle, certo abbiamo perso dei cari membri della nostra famiglia, ma teniamo le testimonianze viventi del loro passaggio in mezzo a noi. […]
Figlio mio Baba, ci mancherai. Ho di te il ricordo di un pastore instancabile che amava il suo ministero. Un prete umile. Non una sola volta ti ho visto in collera. Tu accettavi volentieri gli scherzi dei tuoi confratelli. Il tuo amore per il sango (la lingua africana più diffusa, ndr) ci appassionava. Tu eri un prete coraggioso. Amavi l’Eucarestia e la celebravi ogni giorno. In carica nella Commissione diocesana giustizia e pace, operavi per il dialogo interreligioso e per la pace. Hai fatto la scelta di abitare in una casa molto vicina alla tua parrocchia, anche se questa abitazione era vicina a Km5. Sì, figlio, tu hai vissuto quello che predicavi.
Il Signore ti ha dato la grazia. Hai trovato la morte durante la celebrazione dell’Eucarestia che amavi. Il Vangelo proclamato quel giorno parlava della pace per la quale tu operavi. Fedele servitore, entra nella gioia del tuo maestro. […] Non dimenticarti della tua famiglia. Due giorni prima di morire, a un funerale, all’omelia dicevi di non aver paura della morte, ma di considerarla come un’amica, perché ci permette di vedere Dio. […]
Tra vendetta e perdono, intervista di Paolo Moiola con padre Leonel Narváez Gómez |
Il prossimo 24 novembre saranno trascorsi due anni dalla firma degli accordi di pace. La Colombia è ancora un paese polarizzato, con politici e popolazione divisi tra vendetta e perdono. A dispetto dei problemi, padre Leonel Narváez Gómez, fondatore e presidente della pluripremiata Fundación para la reconciliación, è ottimista. Secondo il missionario, gli accordi di pace sono tra i migliori mai sottoscritti nel mondo. È però indispensabile passare da una «economia politica dell’odio» a una «cultura del perdono e della riconciliazione». Partendo da questo cambio individuale e collettivo sarà possibile raggiungere una «pace sostenibile».
Bogotá. Quando parla, usa molto le mani come per dare più forza alle sue parole. Parole comunque scelte con cura, mai banali. La storia personale di padre Leonel Narváez Gómez, colombiano e missionario della Consolata, è ricca di tappe ma sempre in un’unica direzione. Sembra infatti che, fin dall’inizio, la sua strada fosse segnata da uno scopo preciso: affrontare e superare le problematiche psicologiche e sociali che la guerra induce nelle persone e nella collettività.
Padre Leonel è originario dello stesso luogo (Genova, Quindio) nel quale nacque Pedro Antonio Marín Marín (alias Manuel Marulanda Vélez detto Tirofijo, 1930-2008), il fondatore delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie di Colombia. «La cosa curiosa è che non solo eravamo della stessa cittadina ma compivamo gli anni nello stesso giorno, il 13 maggio. Molti anni dopo queste coincidenze mi daranno l’opportunità di stringere un’amicizia – se così possiamo chiamarla – con il gran capo delle Farc». A parte il luogo e il giorno di nascita, le strade intraprese dai due compaesani sono molto diverse: Leonel – di 19 anni più giovane – studia per diventare sacerdote, Manuel imbocca la strada della lotta armata. I due si troveranno per la prima volta faccia a faccia in circostanze particolari.
Diventato missionario, nel 1977 padre Leonel parte per il Kenya, dove rimarrà per 11 anni. Qui ha modo di toccare con mano le conseguenze dei conflitti in Sudan, Etiopia, Mozambico, Rwanda, Eritrea, Somalia, Sudafrica. Tornato in patria, nel 1989 va in Caquetá e Putumayo (Amazzonia colombiana), dove la guerra civile tra l’esercito (e milizie paramilitari) e le Farc è quotidianità.
Forte della sua conoscenza del compaesano Marulanda e degli altri leader del movimento guerrigliero, il missionario affianca mons. Luis Augusto Castro, mediatore ufficiale per il governo dell’allora presidente Andrés Pastrana, nei negoziati con le Farc. Nel frattempo, è anche assessore del Comitato generale e della sicurezza del municipio di San Vicente del Caguán, centro della cosiddetta zona di distensione durante i tre anni di negoziati (dal 1998 al 2001). All’epoca l’accordo non verrà raggiunto.
Dopo un decennio in Amazzonia, padre Leonel decide di prendersi tre anni sabbatici per approfondire il tema del conflitto nelle Università di Cambridge e Harvard. È nel famoso ateneo statunitense che elabora una proposta metodologica per insegnare il perdono e la riconciliazione in ambiti di guerra. Rientrato in Colombia, per concretizzare la propria idea, nel 2003 crea la Fundación para la reconciliación, istituzione di cui è tuttora presidente. Avendo come obiettivo ultimo la soluzione dei conflitti e la conquista di una pace duratura, in 15 anni di vita la Fondazione elabora modelli pedagogici e di alfabetizzazione emozionale e crea centri e scuole di perdono e riconciliazione (queste ultime note con l’acronimo di EsPeRe). Per il suo operato l’istituzione guidata da padre Leonel ottiene vari riconoscimenti, nazionali e internazionali, tra cui il Premio Unesco di educazione alla pace (2006).
«Oggi siamo presenti in 21 paesi del mondo», precisa con comprensibile orgoglio.
Gli accordi migliori del mondo
Padre Leonel, partiamo dagli accordi di pace tra governo e Farc sottoscritti nel novembre del 2016. Lei come li giudica?
«Voglio essere il più neutrale possibile, ma i negoziati colombiani hanno prodotto i migliori accordi di pace mai sottoscritti nel mondo, almeno fino a questo momento. Non lo sostengo io ma esperti ed accademici. Adesso è il tempo della loro applicazione».
Su quali elementi si basa questo giudizio largamente positivo?
«Sul fatto che i negoziati hanno affrontato sei questioni chiave divenute altrettanti pilastri degli accordi finali.
I sei pilastri sono i seguenti: riforma rurale e terra, inserimento e partecipazione politica degli ex combattenti, fine del conflitto, droga e coltivazioni di coca, questione delle vittime e verifica degli accordi».
Rispetto al primo, quello della terra, si ritiene che esso sia stato elemento scatenante del conflitto.
«In Colombia la distribuzione delle terre è sempre stata molto diseguale. Si calcola che sia uno dei paesi più diseguali in tema di proprietà terriera. La pace passa senz’altro per una riforma agraria che ha avuto molti tentativi di soluzione politica ma che mai sono stati portati a termine. Non so se raggiungeremo l’obiettivo in quest’occasione. Personalmente lo ritengo molto difficile a causa della difficoltà a recuperare le terre perdute e della quantità delle persone allontanate dalle campagne. Il problema è molto grave».
Sull’inserimento e sulla partecipazione politica degli ex guerriglieri il dibattito e le polemiche sono state (e tuttora sono) fortissime.
«Per fortuna, è già stata approvata la partecipazione politica di 10 candidati ex Farc (le persone – 2 donne e 8 uomini – sono già state designate: 5 al Senato e 5 alla Camera, ndr). Ciò ha generato molte discussioni nella popolazione, perché non si riesce a immaginare che alcuni supposti criminali ora possano diventare legislatori del paese.
Il problema è: se debbono essere giudicati prima o possono già entrare in politica. Sono già entrati e ora si dibatte su cosa succederà se fossero giudicati colpevoli».
Cosa s’intende concretamente per fine del conflitto?
«La consegna delle armi, la concentrazione degli ex combattenti in 28 zone rurali del paese, il processo di smobilitazione e di reinserimento nella società. Questo è un processo in stato molto avanzato. La consegna di armi, la smobilitazione sono state un successo.
Debbo segnalare che al loro passaggio i guerriglieri sono stati celebrati e applauditi dalla popolazione. C’era felicità nel vedere queste donne e uomini andare a consegnare le armi».
Il quarto pilastro degli accordi di pace riguarda le coltivazioni illecite.
«Il problema delle droghe è enorme. Si calcola che in Colombia ci siano 400mila famiglie che dipendono dalla coltivazione della coca (e, meno, di oppio e marijuana), che qui trova un terreno molto adatto. La Colombia ha, inoltre, migliaia di chimici esperti nella produzione della pasta basica di cocaina.
Il fatto è che dall’estero c’è una domanda tremenda. E anche la Colombia ha incrementato il proprio consumo. Insomma, c’è più domanda che offerta. Per il campesino l’attrazione non è tanto il denaro, quanto il cash immediato, la commercializzazione assicurata, la facilità di trasporto, i prezzi allettanti, l’assistenza di esperti in loco, la facile reperibilità dei prodotti chimici. Se parliamo di coltivazioni sostitutive, soltanto un prodotto che offra tutto questo potrà avere successo.
Il problema della coca è internazionale perché è una catena produttiva che comporta l’utilizzo di prodotti chimici e varie intermediazioni. Sfortunatamente, quasi sempre si finisce con il colpire l’anello più debole di questa catena: il contadino, colui che ha la colpa minore. Nell’accordo tra governo e guerriglia c’è anche il divieto alla fumigazione (distruzione delle piantagioni attraverso la dispersione di glifosato con aerei o – è cosa recentissima – con droni, ndr). Su questo c’è però un’enorme pressione contraria degli Stati Uniti perché si riveda la decisione e si torni al grande business dei prodotti chimici e della fumigazione».
Il quinto pilastro riguarda le vittime, che si contano in quasi otto milioni.
«Il cuore di tutto, secondo me. I mediatori hanno messo le vittime al centro delle negoziazioni di pace e questa è una novità positiva rispetto alle altre trattative che sono state fatte nel mondo. Ricordo che i rappresentanti delle vittime sono stati portati a L’Avana tra i negoziatori. Qui esse hanno potuto raccontare le loro esperienze e da allora i negoziati sono cambiati».
L’apparato – Sistema integral de Verdad, Justicia, Reparación y no Repetición – concepito per affrontare il tema delle vittime pare piuttosto complesso.
«L’apparato include tre commissioni con compiti specifici. La prima è la “Commissione della verità”, che non è un ente giuridico ma storico. Si tratta di dire al popolo colombiano qual è la verità del conflitto, soprattutto nella prospettiva della riconciliazione. Durerà per tre anni.
La seconda è la “Commissione per la ricerca degli scomparsi”. In questo momento in Colombia si stimano 80mila persone scomparse. Per quanto mi riguarda ci sono tre persone vicine alla mia famiglia che da 18 anni non sappiamo dove siano. Uno dei dolori più profondi è quello provato da una persona che non sa dove sia un suo caro. È un dolore che si tiene dentro per uno, due, dieci, venti anni. È un martirio, una tortura continua. Sono persone che soffrono troppo, affette da quello che gli psicologi chiamano il “trauma complesso” (sintomi prodotti da traumi cumulativi prolungati nel tempo: violenze, guerre, prigionie, migrazioni forzate, ndr).
La terza è la “Commissione per la riparazione”. Come si debbono ripagare le vittime e come fare perché le riparazioni siano integrali: dalle persone scomparse al ritorno nei propri luoghi fino al recupero delle terre, del lavoro, delle case».
La «giustizia riparativa»
Quelli che ha spiegato sono tutti organi extragiudiziali. C’è però anche un organo giudiziale, anche se con caratteristiche particolari.
«Sì, si tratta dell’organo – anch’esso molto dibattuto (infatti il nuovo governo di Iván Duque ha fatto rimandare l’emanazione del regolamento, ndr) – denominato Jurisdicción Especial para la Paz. Essa è una giustizia parallela alla giustizia ordinaria. Questa istituzione ha già 51 magistrati che dovranno affrontare il tema della giustizia cosiddetta “transizionale” (justicia transicional).
Perché è importante? Se gli ex guerriglieri confessano la verità prima di essere giudicati, essi avranno non più di otto e non meno di due anni di condanna in carceri aperte, senza sbarre.
Se invece non confessano la verità o se la dicono dopo o se questa viene scoperta successivamente, gli ex guerriglieri rischiano fino a 20 anni da trascorrere in prigioni tradizionali, con le sbarre.
Si tratta di misure di giustizia transizionale che verranno applicate solamente per i prossimi 10 anni. Questa giustizia è una giustizia restaurativa (riparativa, riconciliativa, di transizione sono tutti sinonimi, ndr) che cerca di “riparare” le vittime e la società.
E soprattutto ha un concetto innovativo di castigo perché non si pensa di mettere le persone in carcere ma in luoghi diversi dove possano rimanere assieme, fare attività in un luogo aperto anche se vigilato. Il contrario del concetto perverso di carcere chiuso».
Padre Leonel, il tema della «giustizia restaurativa» invece della «giustizia punitiva» le è molto caro. Tuttavia, è risaputo che una parte consistente della stessa gerarchia cattolica colombiana non è dello stesso avviso, adottando in toto le posizioni dell’ex presidente Álvaro Uribe.
«Debbo dirlo chiaramente: la Chiesa in Colombia e tanti vescovi sono divisi tra le due istanze: giustizia punitiva o giustizia restaurativa? Ci sono vescovi – io ne sono testimone – che dicono: “No, questi criminali vanno messi in carcere”. Se potessero dirlo chiederebbero la pena di morte che però in Colombia non esiste.
Le carceri sono la soluzione più perversa, sono la negazione dell’immaginazione umana, sono i luoghi peggiori della società, sono le università del crimine. Questi luoghi sono i luoghi dell’inferno che troppi vescovi ancora predicano».
L’«economia politica dell’odio»
Lei utilizza un termine particolare: «economia politica dell’odio». Cosa intende con esso?
«I partiti sono stati venditori perversi di odio. E loro rappresentanti hanno guadagnato sulla base di questo. La stessa guerriglia sa di aver venduto odio. Io non voglio dire chi è di più e chi di meno. Tuttavia, la cultura politica della Colombia si è trasformata in una distillazione di odio che genera una cultura della vendetta.
Concretamente questa si è trasformata in più carceri, più stazioni di vigilanza nelle strade, più uomini nell’esercito, più armi. Tutto questo è cultura della violenza e dell’odio. E la gente, la base umana è ansiosa di ricevere questo tipo di proposte.
Ciò spiega perché quando si è trattato di fare il referendum sull’approvazione o meno delle negoziazioni, più del 50 per cento dei votanti hanno detto “no”. Facendo chiaramente intendere che questi criminali delle Farc avrebbero dovuto essere ammazzati. E che, se si fosse potuto, si sarebbe dovuto non solo mandarli a morte, ma mandarli a morte per tre volte. Ci siamo resi conto che il paese è ancora dominato dall’odio. La parte più animale, più arcaica, più primitiva di noi sta ancora presente nei nostri cuori. In questo momento la grande sfida della Colombia, oltre ai problemi che conosciamo (terra, droga, vittime, reinserimento dei guerriglieri, eccetera), è quella di capire come trasformare la cultura della vendetta insita nella popolazione. E soprattutto come trasformare questa “economia politica dell’odio” che ci hanno venduto e che continuano a venderci».
La scelta del perdono
Padre, dopo 52 anni di guerra civile, 220mila morti, milioni di sfollati, non è difficile parlare di perdono?
«Per prima cosa, intendiamoci bene su cos’è il perdono. Il perdono non è dimenticare, non è negare la giustizia, non è negare il dolore che ho dentro. Il perdono è un esercizio meraviglioso che passa dalla vendetta alla compassione, alla misericordia, che alla fine – e qui parlo da missionario – è il cuore della predicazione di Gesù. Tutto questo necessita di una “tecnologia”, di un filo metodologico che ci conduca dalla memoria ingrata (rabbia e rancore) a quella grata (compassione).
Misericordia, compassione, perdono sono l’espressione massima del regno di Dio. Il perdono elevato alla massima conseguenza. Sempre, fino a perdonare l’imperdonabile».
Il perdono e la riconciliazione si possono insegnare?
«In questi ultimi 15 anni io e i miei collaboratori abbiamo lavorato per generare metodi e pratiche concrete, quotidiane, replicabili, moltiplicabili, di perdono e riconciliazione. Considero la Fondazione per la riconciliazione unica in America Latina e forse nel mondo. Di certo è l’istituzione che più lavora sul tema specifico della “tecnologia del perdono”. O, se vogliamo usare un altro termine, dell’“ecologia dell’anima”, che poi è il tema del perdono, della compassione, della misericordia. Secondo me, questo dovrebbe essere il cuore del lavoro di un missionario».
Dunque, secondo lei la cultura della pace e della riconciliazione si sta diffondendo?
«Voglio essere ottimista. Stando accanto alle vittime io vedo che, a poco a poco, si sta instaurando una cultura di riconciliazione. A poco a poco il paese si sta incamminando su questa strada. Sfortunatamente questo non sta succedendo nelle élites, sia politiche che economiche. Non so – qui debbo usare un punto di domanda – se sta accadendo nelle gerarchie ecclesiali.
L’importante è che la giustizia restaurativa e questo nuovo concetto di pace stiano progredendo. Tutto questo è possibile se noi inculchiamo la cultura e la spiritualità del perdono, l’ecologia dell’anima. Di certo non ci può essere una “pace sostenibile” se non c’è un processo di perdono. E i processi di perdono – ecco il paradosso – sono quelli che proprio i cattolici e i cristiani conoscono meno. Si prova vergogna a ricordarlo, ma il continente latinoamericano è quello più povero, più diseguale, più violento e più cattolico. Che significa questo? Che abbiamo appreso un cattolicesimo e un cristianesimo di molta liturgia ed esteriorità. Ma non abbiamo assunto il mandato di avvicinarci al prossimo. Mi pare che questo ci costi molto. Insomma, la sfida è grande».
Iván Duque e il nuovo governo
Tornando alle questioni meramente pratiche, che problemi sta comportando o comporterà la transizione dalla guerra alla pace?
«Nel processo di transizione verso la pace ci sono due caratteristiche negative che riguardano tutti i paesi impegnati in questo passaggio. La prima è che essi sperimentano 3-5 anni di violenza a volte addirittura maggiore rispetto a quella del conflitto perché è violenza disorganizzata. Girano molte più armi libere perché il business è terribile. Molte persone che erano implicate nella guerra continuano a pensare in quest’ottica. Ci sono un gran numero di vittime – in Colombia sono 8 milioni di persone – che continuano a vivere con molta rabbia e voglia di vendetta. La seconda conseguenza è che, a causa dei costi impliciti in un processo di pace, i paesi possono cadere in depressione economica. Attualmente lo sforzo compiuto della Colombia è molto elevato, soprattutto in un paese dove l’intervento dello stato è stato sempre assai limitato.
C’è infine una variabile politica: il nuovo governo. Nell’ottobre 2017 la Corte costituzionale colombiana ha blindato le negoziazioni per 12 anni. Ovvero nessuno dei tre prossimi presidenti potrà cambiare gli accordi siglati nel 2016. Quello che invece senz’altro farà la destra uribista (legata cioè all’ex presidente Álvaro Uribe e vincitrice delle elezioni di giugno, ndr) sarà di rallentare la loro applicazione e insistere sulla giustizia punitiva».
Paolo Moiola
Le parole in gioco
Ricomporre un tessuto sociale distrutto da decenni di guerra è un’impresa molto complicata. Per questo occorre conoscere le parole che entrano in gioco.
La guerra
economia politica dell’odio: strategia promossa dalle élites (politiche, sociali, economiche, religiose) del paese per catturare l’attenzione (e il voto) della massa;
cultura della vendetta: è la conseguenza dell’odio non superato;
rabbia, rancore, rivalsa: sentimenti generati dal torto subito, dalla violenza e dall’ingiustizia;
filosofia del nemico interno: non è un semplice oppositore, ma un soggetto che deve essere eliminato;
narcotraffico: elemento moltiplicatore di violenza, barbarie, vendetta;
giustizia punitiva: è il sistema che si limita all’applicazione per i responsabili degli abusi dello strumento punitivo-vendicativo (in primis, del carcere).
La pace
pace sostenibile: si raggiunge quando si dà risposta a una serie di necessità; trova raffigurazione in un albero (radici, tronco, rami);
necessità oggettive di base: sanità, lavoro, istruzione, terra, alimentazione;
necessità ecologiche della pace: verità, giustizia, indennizzo, inclusione, rispetto dei diritti umani;
necessità soggettive delle vittime e dei sopravvissuti: affrontare e superare rabbia, rancore, rivalsa (vendetta);
cultura civile del perdono e della riconciliazione: è la risposta alle necessità soggettive;
perdono: è ricordare con altri occhi, è un esercizio attraverso il quale la vittima smette di essere tale; non significa dimenticare o negare il diritto alla giustizia;
riconciliazione: passaggio dalla sfiducia alla fiducia;
giustizia riparativa: è il sistema che si concentra sulla riparazione del danno subito dalla vittima più che sulla punizione del reo.
Fonte: Leonel Narváez Gómez, Entre economía política del odio y cultura ciudadana de perdón, in «Venganza o perdón? Un camino hacia la reconciliación», Editorial Planeta Colombiana, aprile 2017.
Il successore di Manuel Santos: «Títere» o presidente?
Il nuovo presidente della Colombia è Iván Duque Márquez, delfino dell’ex presidente Álvaro Uribe, fermo oppositore degli accordi di pace del novembre 2016.
Iván Duque Márquez è stato eletto successore di Manuel Santos alla presidenza della Colombia. Avvocato di 41 anni, Duque è stato allevato nella scuderia dell’ex presidente Álvaro Uribe, padre e padrone della destra colombiana, nonché duro oppositore degli accordi di pace del novembre 2016.
Detto questo, senza esagerare in ottimismo, va segnalato che le presidenziali 2018 sono state caratterizzate da segnali positivi e importanti discontinuità. In primis, sono state elezioni pacifiche. E partecipate (per gli standard colombiani e latinoamericani): l’astensione si è infatti fermata al 47% degli aventi diritto. Al ballottaggio del 17 giugno con la destra uribista non è arrivato alcun esponente dei due partiti storici della Colombia, quello conservatore (fondato nel 1849) e quello liberale (del 1848). Vi è invece giunto – vivo e vegeto – un candidato di sinistra, Gustavo Petro, già membro del movimento guerrigliero M-19 e sindaco di Bogotà, che ha anche ottenuto un risultato importante: 8 milioni di voti pari al 42% (contro il 54% di Duque).
Tra le note positive, è da segnalare che anche Rodrigo Londoño, ex leader del gruppo guerrigliero e attuale presidente del partito Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común), si sia felicitato con il nuovo presidente elogiando nel contempo il cammino intrapreso dal paese con gli accordi di pace.
Per parte sua, nel suo primo discorso da vincitore, Duque ha usato toni molto concilianti, precisando che occorre superare la polarizzazione e le lamentele. «Non conosco nemici in Colombia – ha dichiarato -, non governerò con l’odio, non esistono nella mia mente e nel mio cuore né vendette né rivalse. Si tratta di guardare al futuro per il bene di tutti i colombiani».
Sul tema più controverso, quello degli accordi di pace, ha assicurato che non verranno fatti a brandelli, ma che saranno introdotte delle correzioni.
Già le prime mosse del suo governo ci diranno se Iván Duque è un títere (cioè un burattino di Uribe) o un presidente.
Paolo Moiola
Fondazione: Bogotá, 2003.
Fondatore e presidente: Leonel Narváez Gómez.
Organici: 40 dipendenti e 2.200 animatori volontari.
Programmi:
– alfabetizzazione: si insegna a leggere e scrivere con il metodo della pedagogia di Paulo Freire e, nel contempo, si offrono soluzioni emozionali per i conflitti legati a rabbia, rancore e rivalsa;
– pedagogia della cura e della riconciliazione: si insegna nelle scuole pubbliche e private;
– Centri di riconciliazione: si tratta di appartamenti presi in affitto in zone a rischio per svolgere i programmi della Fondazione;
– Scuole di perdono e riconciliazione (EsPeRe): corsi interattivi e ludici costituiti da 12 moduli, ognuno di 4 ore.
Presenza:
– in 21 paesi del mondo.
Riconoscimenti:
– Orden Civil al Mérito José Acevedo y Gómez del Concejo de Bogotá (2004);
– Premio Unesco Educación para la Paz (2006);
– Orden de la Democracia del Congresso de la República de Colombia (2007);
– Emprender Paz (2011, con Nestlé Colombia);
– Premio Nacional de Paz (2014, secondo posto).
Tutto nasce nei primi anni ’60. Un movimento, nei paesi del Nord, che vuole porre fine a fame e sottosviluppo. Il momento storico è propizio. Sembra possibile rendere il mondo migliore. La motivazione di chi parte è alta e, di seguito, arriva la formazione. Poi le prime leggi e le Ong. Ma i cooperanti «professionisti» di oggi sono i discendenti dei primi volontari?
In ogni dizionario che si rispetti la figura del cooperante è definita come quella di «chi nei paesi in via di sviluppo si occupa di un programma di cooperazione». A inquadrare meglio questa figura singolare ci aiuta Diego Battistessa, cooperante e coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’università Carlos III di Madrid, che in un’intervista del 2014 risponde alla domanda su cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il suo profilo ideale. Al riguardo Diego non ha dubbi: «Alta professionalizzazione». Poi ci spiega meglio: «Il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare. A partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il Pcm (Project cycle management, gestione del «ciclo del progetto»). Un buon esempio sono anche le Ict (Information and communication technologies), le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale».
Manager del bene?
È la chiara definizione di un manager in cui la competenza fa premio sullo spirito volontaristico.
In questo articolo vorrei approfondire il legame, se esiste, tra il primo volontario internazionale provvisto spesso di fede, ottimismo e buona volontà e l’ultimo cooperante, professionista formato e, non di rado, con precise e legittime ambizioni di carriera.
L’impressione è che questa figura, chiamata a cimentarsi con la dimensione progettuale di un programma di cooperazione (un tempo si sarebbe definito di aiuto allo sviluppo), è molto debitrice alla svolta attuata in Italia alla fine degli anni ’60 che ha trasformato i gruppi di appoggio alle missioni in organismi di volontariato.
In questo senso, si può tracciare una linea che unisce la figura di cooperante con quella dei primi volontari internazionali? C’è qualcosa in comune tra chi si occupa di Project cycle management e chi negli anni ’60 andava a «costruire la scuoletta» in qualche sperduta missione africana? O invece è qualcosa di completamente diverso tale da segnare una discontinuità o cesura determinata da altri fattori, non ultimo la globalizzazione che ha forzatamente delimitato la cooperazione a livello intellettuale?
Per provare a fronteggiare queste domande e temi, credo sia utile partire proprio da loro, i volontari.
Contro l’ingiustizia
Siamo nel momento, negli anni ‘60, in cui nasce in molti la richiesta ed esigenza di «fare qualcosa» per contrastare la fame nel mondo, permettere standard di vita decenti, assicurare i bisogni di base a una umanità sofferente e lontana eppure così vicina. Parlo della nascita di quel movimento all’interno dei paesi del Nord del mondo che si sente partecipe e responsabile dello sviluppo del Sud. Un’introduzione a questo immaginario la offre uno dei più noti volontari (non cooperante) del panorama italiano di quegli anni, Gino Filippini, in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1969: «L’esperienza di Kiremba ha cambiato la mia vita. Per un europeo andare laggiù significa trovarsi faccia a faccia con problemi insospettati: miseria, fame, dolore. Ci si accorge, allora, di quanto ognuno di noi si sia chiuso nel suo guscio, nel proprio angusto cerchio di egoismo, tutti presi come siamo dal desiderio di guadagnare, di primeggiare, di avere sempre più soldi, più cose materiali. A Kiremba ho imparato ad amare davvero il mio prossimo, a dimenticarmi di me stesso. Ho avuto la soddisfazione di vedere gli indigeni migliorare le loro condizioni di vita grazie anche ai miei modesti insegnamenti. E anche loro mi hanno insegnato tante cose: il senso della dignità umana, per esempio, e la vera, disinteressata amicizia. Se tu scendi dal tuo piedistallo di bianco, se ti mescoli a loro, elimini tutte le barriere, tutti i pregiudizi che per tanto tempo ci hanno diviso, trovi in loro dei veri, fedelissimi e leali amici, capaci di fare chilometri a piedi, capaci di sacrificarsi per darti una mano».
Filippini è in un certo senso una figura estrema. Un suo vecchio amico, Aldo Ungari, lo definisce come un uomo delle due culture. Una caratterizzazione che si percepisce dalla sua testimonianzanella quale narra la sua «iniziazione» all’esperienza di volontario nell’ospedale burundese di Kiremba costruito dalla diocesi di Brescia in omaggio al Papa bresciano Montini e che vide l’attiva partecipazione dei fedeli in termini di sensibilizzazione e mobilitazione. La gente partecipò non solo alla raccolta fondi ma anche alla progettazione e realizzazione in loco, tramite tecnici e volontari chiamati a supplire alle deficienze organizzative e di conoscenza dei «locali». Al teorema accettato quasi aprioristicamente della cosiddetta «assistenza tecnica», ben presto si ribelleranno i volontari di lungo corso alla Filippini, per l’appunto in nome di una visione meno paternalistica e assistenziale. Da loro, dal dibattito internazionale, dai limiti dell’aiuto allo sviluppo kennediano dei primi anni ’60 nasce l’impostazione più attenta alle dimensioni antropologiche, all’incontro con l’altro e a una cooperazione alla pari.
Un momento propizio
Non si sarebbe potuta manifestare in nessun altro periodo storico se non in quello. La decolonizzazione, l’apparire del «Terzo Mondo», l’immaginario della nuova frontiera, il Concilio e tutte quelle suggestioni di allora che con il carburante dato da figure di grande carisma e livello culturale (Helder Camara, Raoul Follereau, l’Abbé Pierre, Josué De Castro, Léopold Senghor, Julius Nyerere) hanno fatto percepire come possibile e vicino l’approdo a un mondo migliore senza l’incubo della fame e del sottosviluppo.
In quel contesto socioculturale irripetibile nasce il movimento – perché di movimento si tratta – del volontariato internazionale, vero e proprio incunabolo di formazione per il mondo della solidarietà internazionale. Un humus che, con il supporto dei volontari e le sollecitazioni esterne date dal dibattito in materia, permette di avviare quel percorso che agevola una impostazione progettuale per mezzo dell’intermediazione occidentale impersonata dal volontario, sia essa in ambito educativa, agricola o sanitaria.
Sviluppo come Pace
Inizia, con il passare del tempo, a farsi largo un’accezione diversa: non più organizzazione e pianificazione in toto qui in Italia, ma, con l’indispensabile intermediazione dei laici, studio e realizzazione del progetto lì, cercando di renderlo indipendente dalla presenza europea. Con ciò si rafforza un’impostazione più rispettosa – sulla carta – che cerca un minore impatto sulla cultura del luogo.
Una data cardine di questa evoluzione è il 1967. In un’Italia che, l’anno prima, ha visto una sorta di corsa alla solidarietà verso un paese in preda a una carestia, l’India, con una gigantesca e partecipata colletta diffusa, ha grandissima risonanza e impatto l’enciclica Populorum Progressio. In essa Paolo VI porta all’attenzione dei gruppi allora più attivi – quelli cattolici – lo «sviluppo» nella sua declinazione di «altro nome della pace» e come forma più lontana dall’idea di crescita e più vicina a quella di emancipazione sociale e di cambiamento. Il tutto con la richiesta dell’impegno di tutti, laici compresi.
Una chiamata alle armi dell’intervento individuale in favore dello sviluppo «integrale» dell’uomo e per l’uomo.
Non è un caso che la stragrande maggioranza di questi gruppi, quelli perlomeno più strutturati, passano, in quetli anni, oltre la fase spontanea della sensibilizzazione e mobilitazione per approdare a quella più professionale di formazione dei volontari e costituzione di reti, coordinamenti e federazioni allo scopo di irrobustire la loro capacità di produzione di una cultura della solidarietà internazionale. In quegli anni, proprio per tutelare quella massa di «gente che andava e veniva dal Terzo Mondo», nascono le prime forme di interscambio con la politica la quale capisce, perlomeno nei gruppi più accorti, che quello che sta germogliando non è qualcosa che riguarda un «fuori», ma interessa e coinvolge un mondo ampio, strutturato, esigente e molto attivo di cittadini.
La prima legge
Chi agevola questo cammino di interscambio reciproco è una «avanguardia» o, comunque, un gruppo della sinistra democristiana, che vede in Franco Salvi, Giovanni Bersani e Mario Pedini i propri cardini. Sono loro, insieme ad altri (Rampa, Pieraccini, Storchi), a ideare la legge 1222/71 (conosciuta come legge Pedini), entrata in vigore 10 giorni prima di Natale, che porta al riconoscimento del volontariato per il tramite della cooperazione tecnica.
Il nome della legge «Cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo» fa intravedere un’impostazione piuttosto ambigua già dal termine impiegato. Infatti da un lato l’idea di cooperazione è un deciso superamento dell’impostazione di aiuto. Mentre dall’altro il tornare (sottolineandolo) all’aspetto tecnico riduce l’ambito di intervento e marca ancora una volta la distanza tra «noi progrediti» e «loro arretrati». È comunque già molto, ove si consideri che si passa dal concetto di assistenza, utilizzato correntemente fin quasi alla fine del decennio, a quello di cooperazione tecnica. Un deciso arretramento rispetto al dibattito internazionale – oltre che delle organizzazioni e realtà italiane più impegnate ed evolute – che ruota, come si è visto, attorno all’idea di una partnership collaborativa finalizzata allo sviluppo come suggerito dalla commissione Pearson incaricata dalla Banca mondiale di redigere un testo «Partners in Development» che rimane una guida indispensabile per comprendere l’evoluzione del concetto di aiuto verso quello di supporto allo sviluppo endogeno per mezzo di un’azione di effettiva cooperazione.
Origine delle Ong
La lettura comune della legge del 1971 la considera un provvedimento confuso di raccordo tra «impulsi solidaristici e pressioni commerciali», per di più limitato alla tutela dei volontari cattolici che non rappresentano l’Italia ma solo se stessi e la propria carica ideale. Ma questa considerazione va temperata con alcune considerazioni: innanzitutto, si ha finalmente una legge organica, pur con tutti i suoi limiti, dopo anni di leggi semiclandestine di qualche riga. Legge che porta alcune novità a livello di organizzazione dello stato sia dal punto di vista del riassetto burocratico sia nella disponibilità di fondi per la cooperazione. Non va poi sottaciuto il fatto che la 1222/71 è il precedente e lo spiraglio per l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza approvata esattamente un anno dopo. La grande discontinuità sta nel riconoscimento degli organismi di volontariato, le proto organizzazioni non governative (Ong). Da questa legge essi infatti, vedono riconosciuto quel decennale lavoro di informazione, sensibilizzazione fatto da parrocchie, oratori e scantinati. Ed è proprio nel pieno riconoscimento di questi organismi che l’Italia si presenta come un paese al passo degli altri, strutturando il volontariato civile in appoggio prevalentemente alle missioni cattoliche.
Giovanni Bersani annotava come nel 1969 fossero oltre 600 le persone in servizio nei paesi del Terzo Mondo e molti di loro senza paracadute legislativi. E come nella loro formazione, avessero concorso realtà che creavano la prima ossatura delle future Ong e che s’incaricavano di essere le capofila nella formazione di volontari, non più «ragazzi che vanno a dare una mano», in partenza.
Chi forma i volontari?
In questo senso non è possibile fare una cronaca dettagliata di tutti gli organismi di volontariato, poiché ognuno esprime delle dinamiche e delle filosofie d’intervento imperniate su due «territori»: quello d’appartenenza e quello di missione. In quegl’anni le realtà che formano i volontari sono poche e alcune finiscono per fare da capofila. Troviamo il Cuamm di Padova, il Mlal di Verona, la Lvia di Cuneo e le milanesi Cooperazione Internazionale e Tvc (Tecnici volontari cristiani). Sono questi i principali – dati alla mano – fornitori e formatori di volontari nel «Terzo Mondo» fino a tutti gli anni ’70. Persone che iniziano da qui il lungo e contraddittorio processo di professionalizzazione che trasformerà non pochi di loro in «cooperanti».
Possiamo dire che dalla legge Pedini nasce la lunga marcia che porta alla professionalizzazione della figura del volontario? La mia impressione è che lo possiamo sostenere. Del resto lo stesso Salvi già durante la conferenza stampa di presentazione della Pedini, parlò di una possibile professionalizzazione della figura del volontario chiamato non più e non solo a «dare una mano» ma essere lo strumento operativo di un «piano» di sviluppo o cooperazione.
Da quel 1971 il tema della solidarietà internazionale per mezzo della figura del volontario/cooperante è stato attraversato da un dibattito continuo e da un dilemma che ha oggettivamente portato a moltissime riflessioni, non ultima la terzietà del volontario/cooperante rispetto all’essere parte di programmi e progetti governativi. In questo senso anche in Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) ci fu un dibattito molto forte: accettare i «soldi dello stato» per progetti di cooperazione? Per alcuni (non pochi) equivaleva a vendere le proprie motivazioni ideali. Cosa che fa sorridere del resto i moderni «manager della solidarietà». Questi ultimi ripropongono il nostro essere lì in chiave certamente più efficiente rispetto a prima ma senza probabilmente il corredo ideale dei pionieri. Il che, a guardare bene, è piuttosto ricorrente nella storia dell’uomo.
Antonio Benci
I media e lo scandalo Oxfam
Tutti giù per terra
Stiamo per pubblicare l’articolo di Antonio Benci quando scoppia il caso dei cooperanti di Oxfam ad Haiti. Operatori dell’Ong, anche di alto livello, che frequentavano alcune case di prostituzione a Port-au-Prince, all’indomani del terribile terremoto del 12 gennaio 2010. La notizia «buca» tutti gli schermi.
Un fatto sicuramente ignobile, ancorché aggravato dal particolare contesto nel quale si è verificato. Detto questo l’effetto dello scandalo porterà probabilmente a un discredito globale del mondo del volontariato internazionale e delle Ong. Il grande circo mediatico funziona così: non si ferma a capire o a discernere. Fatta l’etichetta, tutti quelli a cui si può appiccicare subiscono le conseguenze del comportamento di pochi.
In tutta franchezza posso testimoniare come sul campo operino decine di cooperanti onesti e integri, che compiono un lavoro eccellente. Compresi quelli di Oxfam, la più grande Ong del mondo. Sarebbe un peccato se tutta la categoria fosse messa all’indice a causa di un comportamento che, sì, esiste (non solo ad Haiti), ma che è una devianza, non la normalità. Talvolta è più facile nascondere comportamenti moralmente inaccettabili, proteggendosi dietro al logo di un organismo umanitario. Almeno fino a ieri.