Il 2022 è iniziato un po’ in sordina, azzoppato dalla variante Omicron che sta condizionando la vita di mezzo mondo. Omicron, nell’alfabeto greco, è la lettera «o», presente due volte nella parola mondo e nel suo omologo greco cosmo. Invece di essere come le ruote di una bicicletta (o di una moto), è diventata come due macigni che appesantiscono e frenano.
Ventuno anni fa siamo entrati in pompa magna nel terzo millennio, ma guardando a quanto sta succedendo nel mondo, verrebbe da dire che siamo tornati alla preistoria. Con tutto il rispetto per la preistoria, quando forse si viveva più «umanamente» di quanto facciamo noi oggi, quando un guaio combinato da qualcuno aveva conseguenze solo locali. Nonostante oltre cinquemila anni di storia documentata, nonostante la conoscenza e lo studio di religioni e filosofie di tutti i popoli, nonostante il progresso scientifico e tecnologico e gli incredibili sviluppi della comunicazione, nonostante tutto questo, stiamo vivendo la distruzione ambientale, l’aumento delle ingiustizie sociali e delle guerre, con i ricchi che diventano più ricchi a spese dei poveri, degli sfruttati e della salute del nostro pianeta, e i potenti che, invece di investire nella pace, usano la guerra e l’intolleranza per dominare, sostenuti dalle derive fondamentaliste delle grandi religioni, anche del cristianesimo.
Viene da domandarsi: perché questo imbarbarimento? Perché non abbiamo imparato nulla dalla storia? Perché duemila anni di cristianesimo sembrano persi nel dimenticatoio di fronte alla logica del profitto, del consumismo, del benessere, del materialismo? Com’è che moltiplichiamo leggi e regolamenti e non cambiamo il cuore?
Come può succedere che un capo di stato chieda – applaudito – che l’aborto diventi un diritto umano universale pari al diritto alla vita, alla libertà in tutte le sue espressioni, alla sicurezza, all’istruzione, al riposo e al gioco, al cibo, alla casa e al lavoro?
Sappiamo poi molto bene che se ci fosse una guerra atomica tutti e tutto ne pagheremmo il prezzo. Perché, allora, sembra impossibile liberarsi dalle armi atomiche? Perché troppe nazioni rifiutano di ratificare il Trattato di non proliferazione nucleare, promosso dalle Nazioni Unite?
Terribile è poi l’ipocrisia sui migranti. Si trovano i soldi per costruire muri, per armare e mantenere reparti di polizia specializzati contro i migranti, come la discutibile guardia costiera libica, si costruiscono campi che diventano il limbo in cui sono fatti sparire, ma poco viene fatto per curare le cause che sono all’origine di un così grande esodo di genti: povertà, sfruttamento, dittature, guerre, persecuzioni, cambiamento climatico. E poi si chiudono tutti e due gli occhi sul caporalato, la tratta delle persone, il traffico della prostituzione, lo sfruttamento dei lavoratori in nero, il lavoro dei bambini, le nuove forme di schiavitù. E si rifiuta lo jus soli. Fa poi comodo usare i migranti per la propaganda politica come se essi fossero la causa di tutti i mali, come se davvero tenerli fuori dai nostri confini risolvesse i nostri problemi di lavoro, sicurezza, sanità, giustizia sociale, invecchiamento della popolazione, spopolamento.
Nell’elenco ci sarebbe da aggiungere il rinascere del razzismo, la manipolazione della storia, il crescere dell’ignoranza, l’incapacità di dialogo, il narcisismo sociale e politico, l’illusione che l’avere di più dia più felicità, l’aggressività sui social, la contraffazione mediatica, l’invasione della privacy.
Mentre scrivo mi arrabbio con me stesso, perché sono bravo a elencare, a fare liste, a piangermi addosso. Ma a cosa serve?
In tutto questo c’è una luce di speranza, una profezia di vita e libertà. Ci è offerta dai poveri del mondo, con i quali vivono tanti dei miei confratelli e consorelle missionari. Poveri che hanno una resilienza incredibile e un’infinita voglia di riscatto. Viene dal guardare a quella croce che domina nelle nostre chiese, che è sui muri di tante stanze, che è al collo di tante persone. Una croce, un crocefisso, che durante questo tempo di quaresima siamo invitati a reincontrare perché non rimanga solo un segno esterno. Il «prendere la croce e seguirlo» deve diventare un modo di essere e uno stile di vita che promuova la vita, ogni forma di vita, tutta la vita. Che sia una via alternativa al tran-tran disumanizzante e cosificante del consumismo, alla logica del più forte e del più ricco, alla rassegnazione alla paura, all’ansia per il futuro, alla chiusura all’altro. Una verità che decodifichi le fake news, gli inganni, le alienazioni dell’uomo e, invece, promuova un uomo libero e liberante, creativo, resiliente e soggetto della storia, non spettatore rassegnato.
Per costruire la pace: educazione, lavoro e dialogo
Papa Francesco, nel messaggio per il 1° gennaio, giornata mondiale della pace, indica tre ambiti necessari per costruire una pace duratura: educazione, lavoro e dialogo. Tre spazi d’azione non scelti a caso, ma che richiamano alcuni degli obiettivi di sviluppo sostenibile che le Nazioni Unite si sono proposte di raggiungere entro il 2030, e per i quali nel 2000 hanno anche lanciato il Global Compact per le aziende con dieci obiettivi nel campo dei diritti umani, del lavoro, dell’ambiente e della lotta alla corruzione.
Questi tre ambiti, definiti ovviamente con una terminologia diversa, sono parte integrante del metodo missionario dell’Allamano. Egli ha voluto infatti che i suoi missionari, fin dall’inizio, fossero in dialogo profondo con la gente, imparandone la lingua, conoscendone i costumi, entrando nel cuore della cultura. Allo stesso tempo, da subito ha promosso l’educazione, stimolato anche dal capo kikuyu Karoli, che a Tuthu, in Kenya, nel 1902, volle i missionari soprattutto per iniziare una scuola. E poi, il nostro fondatore, vedeva nel lavoro uno strumento per «elevare l’ambiente», migliorare la vita, vincere la povertà, rendere le persone soggetti della propria storia.
Di questi tre ambiti, quello che oggi mi tocca di più è il lavoro: guardo, infatti, alla situazione che stiamo vivendo e provo sgomento di fronte alla sua assurdità. Una multinazionale licenzia dipendenti tramite una videoconferenza in Zoom. Un’altra licenzia via mail. Non si contano poi quelle che spostano le loro fabbriche da un paese all’altro per pagare salari da fame ed essere libere da vincoli sindacali, ambientali, fiscali… A Cabo Delgado, in Mozambico, le multinazionali dell’energia e dei minerali preziosi, sostenute da politici corrotti, cacciano pescatori e cercatori di rubini locali per costruire la loro mega «città estrattiva», riducendo la popolazione locale alla fame e disperazione (e fomentando una guerra civile). Lo stesso avviene in Congo, dove, invece di pagare il giusto e le relative tasse, le multinazionali preferiscono finanziare bande armate che garantiscano coltan, legname e quanto altro a prezzi stracciati, lasciando la gente locale nella fame, nell’insicurezza e nell’asservimento più totale che non risparmia i bambini.
Da noi, i giovani faticano a trovare un lavoro stabile, e quello che trovano è sottopagato e frustrante. Allo stesso tempo nascono (e muoiono) pseudo cooperative – che di per sé dovrebbero curare anzitutto il benessere dei propri soci – all’unico scopo di manipolare manodopera a salari da fame, e magari coprire quello che in realtà è caporalato bello e buono. Altro che «eliminare tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio» o «assicurarsi di non essere, seppure indirettamente, complici negli abusi dei diritti umani», come dichiarano due degli obiettivi del Global Compact.
Aggiungi poi i dati offerti dal World inequality report 2022, pubblicati il 7 dicembre, con i quali si documenta che la diseguaglianza tra ricchi e poveri è aumentata ancora: il 50% della popolazione mondiale (i poveri) possiede il 2% della ricchezza totale; il 40% (la classe media) il 22%; il 10% (i ricchi) il 76% di tutto, con il 38% concentrato nelle mani dell’1% (i super ricchi). Questo è reso possibile e accelerato, tra l’altro, dalla pandemia del Covid-19, ma pure da «una concorrenza all’ultimo sangue tra le multinazionali, giocata anche attraverso il trasferimento della produzione in quei paesi dove la miseria è così acuta da indurre la gente a lavorare per salari miseri e senza alcuna tutela» (Francesco Gesualdi, Avvenire 8/12/2021).
Qualcuno dirà che questi non sono fatti che riguardano una rivista missionaria. Tutt’altro.
I nostri confratelli sono inseriti nelle zone più calde del mondo, interpellati quotidianamente dalla sofferenza della gente con cui condividono vita, sogni, dolori e speranze. Dall’Etiopia al Congo, dalle foreste dell’Amazzonia alle immense pianure della Mongolia, dalle periferie urbane di quattro continenti (Europa compresa) ai campi minati dell’Angola. Lì sono e lì rimangono, radicati in Colui che sulla croce, donando la sua vita, ha reso possibile un mondo nuovo che mette al centro l’uomo nella sua integralità.
Guardando Lui, in questo nuovo anno, diventiamo insieme inguaribili costruttori di pace.
Se la pace è solo uno slogan
testo di Piergiorgio Pescali |
Il quarto conflitto tra Israele e Hamas si inserisce in una problematica complessa e mai risolta: la questione palestinese. Conversazione con monsignor Pierbattista Pizzaballa, già custode di Terrasanta, oggi patriarca di Gerusalemme.
Il francescano padre Pierbattista Pizzaballa non è solo l’autorità ecclesiastica cattolica più elevata in Terrasanta, è anche una delle figure più esperte e soprattutto rispettate nella difficile situazione politica, culturale e religiosa che caratterizza la tormentata regione mediorientale. Arrivato in Terrasanta nel 1990, è stato «custode di Terrasanta» tra il 2004 e il 2016 (poi sostituito dal trentino Francesco Patton). Successivamente, ha ricoperto il ruolo di amministratore apostolico di Gerusalemme dei Latini per divenire poi patriarca della città il 24 ottobre 2020.
Lo abbiamo intervistato per chiedergli una sua opinione sull’ultimo conflitto israelo-palestinese e su quali potrebbero essere nuove vie in grado di aprire spiragli di dialogo che, ad oggi, sembrano essere preclusi.
La questione Gerusalemme
Lo scorso 21 maggio il quarto conflitto tra Hamas e Israele ha raggiunto una tregua. Da dove ricominciare per evitare che questo sia solo il preludio per un’altra serie di scontri?
«Credo si dovrebbe usare il condizionale: da dove si dovrebbe cominciare. Perché i motivi del conflitto sono sempre gli stessi, non sono cambiati, anche se ogni volta ci sono delle novità, una sorta di corsi e ricorsi alla Giambattista Vico. Ma, fino a quando non si risolverà la questione palestinese, noi saremo costretti a rivedere questi episodi. Quello che in questo momento ha scatenato la violenza è stata Gerusalemme, che rimane il cuore del problema. La questione di Sheikh Jarrah (il piccolo quartiere a Gerusalemme Est dove ebrei e palestinesi si contendono terreni e case, ndr) è stata presentata come una questione legale, quale in effetti è, ma è, prima di tutto, una questione politica.
Mi pare di capire che la nuova generazione, quella dopo la seconda intifada, sia ben connessa con la comunità internazionale, preparata anche culturalmente, determinata e disposta a tutto. Gerusalemme è diventata un punto sul quale non si può scendere ad alcun compromesso. Non più, proprio non più.
Quindi, queste sono le due cose da risolvere perché si possa evitare un nuovo conflitto: primo, la questione palestinese; secondo, riconoscere l’universalità di Gerusalemme, su cui tutti hanno eguali diritti».
Sull’universalità della città santa, l’Onu si è già espressa più volte e, sin dal 1948, ha riconosciuto a Gerusalemme e Betlemme uno status internazionale che nessuno dei due contendenti vuole riconoscere. Sia Israele che Palestina considerano Gerusalemme loro capitale. E qui possiamo passare a una delle cause principali del perdurare del conflitto tra Israele e Palestina: la mancanza assoluta di una volontà di dialogare. Da quando esiste il problema israelo-arabo-palestinese tutti parlano di necessità del dialogo in Terrasanta, ma alla luce dei comportamenti e delle prese di posizione da tifosi da stadio (non solo da parte dei principali attori, ma anche di chi osserva il conflitto dall’esterno), oramai questa dichiarazione d’intenti ha perso credibilità. A me sembra che nessuno abbia intenzione di trovare una via al dialogo.
«Parlare di dialogo, adesso e qui, è soltanto uno slogan. Perché ci sia dialogo debbono, in primo luogo, sussistere delle condizioni su cui fondarlo. Il dialogo, innanzitutto, presuppone che ci sia un desiderio di incontro e scambio che significa volontà di riconoscere l’altro o, per lo meno, di ascoltare le sue ragioni».
E evidentemente non c’è né l’uno né l’altro.
«No, non c’è. Si sta andando verso la colonizzazione politica e – ahimè – anche religiosa, perché le due cose si mischiano. I palestinesi in questo conflitto non gridavano “Palestine”, ma “al-Aqsa” (nome della moschea della vecchia Gerusalemme, ndr). È vero che al-Aqsa è anche il simbolo della Palestina libera, ma il cambio di slogan è simbolico di come stia cambiando il clima.
E questo, come dicevi tu, è il clima generale del Medio Oriente. Non si va verso una cittadinanza che precede le appartenenze settarie e identitarie, ma sono le appartenenze settarie e identitarie che divengono i canali attraverso i quali passa il concetto di cittadinanza. Purtroppo, questo non è un buon segnale per il futuro».
Arabi ed ebrei
Cittadinanza che, all’interno dello stesso stato di Israele, viene messa in discussione per gli israeliani di etnia araba e questo è forse uno degli elementi nuovi che sembra aver elevato la tensione tra Israele e il mondo arabo: l’attrito interno tra arabi israeliani ed ebrei israeliani. Su questo punto in particolare, quanto reale è il rischio di una guerra civile, specialmente dopo che, il 19 luglio 2018, il parlamento israeliano ha adottato una legge che definisce Israele «stato-nazione del popolo ebraico»?
«Se è fuori discussione che gli arabo-israeliani vivono in condizioni decisamente migliori rispetto a qualsiasi altra entità sia in Palestina, che negli altri paesi mediorientali, è anche vero che queste comunità hanno un grosso problema di identità. Un problema che si trascina da molto tempo e che è diventato evidente innanzitutto con la legge basica di tre anni fa, la quale definisce lo stato ebraico senza alcuna menzione della minoranza non ebraica. Va poi detto che, in questi ultimi anni, abbiamo assistito a una maggiore polarizzazione della politica israeliana spostata sempre più a destra e sempre più antagonista verso il mondo arabo. Un antagonismo che si esplica anche con un linguaggio spesso violento e sprezzante che ha approfondito il solco tra le due parti. C’è da dire che forse non ci eravamo resi conto di quanto fosse profondo».
Netanyahu e la destra
In questo spostamento della politica israeliana verso destra e nello scavare in profondità questo solco tra arabi e israeliani, Netanyahu ha giocato un ruolo preponderante. È il vero responsabile dell’attuale situazione e tre delle quattro guerre con Hamas sono scoppiate durante i suoi mandati. È anche vero che gli israeliani negli ultimi undici anni sono andati sette volte alle urne e ogni volta hanno scelto Netanyahu.
«Netanyahu si sposta sempre più a destra e questo è evidente. Pare che Israele non riesca a trovare un’alternativa a Netanyahu. Prima di questo conflitto abbiamo visto che c’era la possibilità di sostituirlo. La nuova guerra tra Hamas e Israele ha rimescolato le carte riportandolo al centro della politica nazionale. Non bisogna farsi illusioni: Israele ideologicamente naviga decisamente a destra. Qualunque sia il primo ministro, sarà molto difficile che la questione palestinese venga affrontata in maniera sistematica come invece sarebbe stato possibile un paio di generazioni fa».
(A inizio giugno, è stato formato un nuovo governo che esclude Netanyahu e il suo Likud. Primo ministro è diventato – per il momento – Naftali Bennet,ndr).
Iran, Turchia e Stati Uniti
Hamas e il Palestine islamic jihad godono di appoggi iraniani e turchi. Al netto delle incomprensioni storiche tra palestinesi ed ebrei, è possibile vedere l’attuale conflitto come una ritorsione della Turchia e dell’Iran contro gli «Accordi di Abramo» (tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, ndr)? Se così fosse, come mai Teheran ha aspettato l’arrivo di Biden alla Casa Bianca e non ha invece iniziato la sua offensiva tramite terzi quando c’era Trump, il vero scardinatore dei delicati equilibri regionali?
«Non credo che queste situazioni siano state scatenate dall’esterno. L’Iran e la Turchia hanno “preso l’autostop”, come si dice qui. Sono salite sul carro e hanno approfittato della situazione per fare quello che desideravano fare. Credo però che si debba prendere atto che le situazioni sono state scatenate qui e si risolvono qui. La comunità internazionale, che sia Biden o che sia Erdogan o Khamenei, possono contribuire in un senso o nell’altro, ma non possono sostituirsi ai due attori principali che sono Israele e la Palestina».
Gli incontri interreligiosi
Incontri interreligiosi tra musulmani, cristiani e, in misura minore, con gli ebrei ce ne sono stati, ma non hanno mai portato a sviluppi concreti nel processo di pace. Si era parlato anche di «educare alla pace» le nuove generazioni, fondando scuole, villaggi interreligiosi, anche scuole musicali. Tutto questo cosa serve se poi, una volta nei loro quartieri, tra i loro amici e magari anche in famiglia, ognuno torna ad essere antiqualcosa?
«Bisogna distinguere: ci sono dialoghi interreligiosi visti come grandi eventi, che lasciano senz’altro il tempo che trovano. Credo che si debba continuare a farli perché, nell’era delle immagini, esse contano e sono importanti. Il problema di questi incontri religiosi ad alto livello è che non arrivano al territorio e i leader che li guidano o che partecipano, molto spesso non hanno un concreto legame con il territorio. In secondo luogo, bisogna dire che, soprattutto nel caso di ebraismo e islam, non esiste un’autorità comune a tutti. Quindi, tu puoi trovare l’ebreo che partecipa, ma ce ne sarà un altro che la pensa esattamente al contrario; non c’è un’autorità che unifica e che accompagna tutti. Questo rende tutto oggettivamente molto più complesso. A livello di territorio ci sono, è vero, tantissime iniziative, a partire dalle scuole. A cosa servono? Servono innanzitutto a noi perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di incontrare e trovare gente che ci crede e che ti dà un respiro, che credono nell’azione. È vero, molti di questi torneranno a essere sostenitori di Hamas o di Bennet, forse della destra estrema di qui o di là, ma non tutti. Credo, quindi, che sia importante avere queste piccole oasi di antivirus che non riusciranno certo a fermare la malattia, però qualche anticorpo resterà in circolo. Non guardiamo all’esito perché, se guardassimo solo a esso, non faremmo nulla. Bisogna agire innanzitutto perché ci crediamo».
Hamas, tra ideologia e pragmatismo
Nel 2017, Hamas ha emesso un documento in cui accetterebbe i confini dello stato palestinese del 1967, senza però riconoscere Israele. È una contraddizione o un primo passo verso il riconoscimento o, almeno, verso la coesistenza di «due popoli e due nazioni»?
«Hamas è una galassia, non è un partito solo. In lei convivono l’ala militare, l’ala pragmatica, l’ala ideologica; c’è quindi un po’ di tutto. Credo che anche loro siano molto pragmatici e sanno molto bene che Israele non sparirà. D’altro lato, penso che sia molto difficile anche per loro rinnegare quello che è il loro mainstream, quella che è stata la loro ideologia di un rifiuto dello stato di Israele per tutti questi anni. C’è, quindi, da un lato un senso di pragmatismo e dall’altro la difficoltà a cambiare quella che è la loro ideologia principale. Credo che il Medio Oriente non sia mai “aut-aut”, ma piuttosto è sempre “et-et”».
Meno di mille cristiani
I cristiani a Gaza sono una piccola minoranza, meno di mille persone su due milioni di abitanti. Che ruolo hanno nella vita sociale della Striscia?
«I numeri parlano da soli: 800 persone su due milioni sono ben poca cosa. Però, nel loro piccolo, le attività sono tante, forse in proporzione anche maggiori rispetto al loro numero reale. Ci sono scuole, una casa per disabili, cliniche mobili della Caritas al servizio della popolazione, soprattutto là dove non ci sono ospedali. Quella cristiana, seppur piccola, è quindi una realtà molto attiva e aperta ai bisogni generali della popolazione».
Gli aiuti e la corruzione
Cosa può fare la comunità europea – e intendo la società e le organizzazioni civili, non i governi o la politica – per favorire la crescita del dialogo?
«Favorire innanzitutto lo sviluppo di questi territori. La gente vive ancora in condizioni miserrime dal punto di vista sociale. Non ha senso parlare di dialogo e di pace quando si vive in condizioni disumane. Paolo VI diceva che sinonimo di pace è sviluppo. Bisogna fare attenzione anche ai bisogni fondamentali di queste popolazioni e poi favorire tutte le occasioni di incontro e dialogo, di attenzione e vicinanza. Insomma, far sentire che c’è qualcuno che li ascolta».
Non c’è il rischio che la politica palestinese, corrotta e inefficiente, dilapidi gli aiuti economici?
«Occorre trovare altre forme per far arrivare questi aiuti, che già ci sono. Bisogna individuare forme di sostegno che non passino dai governi palestinesi attraverso le comunità locali e le Ong che sono sparse sul territorio. Le soluzioni si trovano».
Piergiorgio Pescali
autore del libro Il custode di Terrasanta. Un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa, Add Editore, Torino 2014
Un viaggio in sospeso fino all’ultimo, in una terra gravida di violenze, in dialogo con leader religiosi, politici e civili, e con le ferite di un popolo. La fratellanza umana cercata nella culla della civiltà. Il papa in Iraq secondo due esperti del paese.
«Se Dio è il Dio della vita, e lo è, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace, e lo è, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore, e lo è, a noi non è lecito odiare i fratelli». L’appello di papa Francesco alla pace, al dialogo e alla fratellanza umana, non è nuovo. Ma ha avuto una forza speciale durante il suo viaggio in Iraq dal 5 all’8 marzo scorso.
Già da tempo il pontefice voleva visitare il paese dei due fiumi, la terra di Ur dei Caldei dove nacque Abramo, padre della fede per ebrei, cristiani e musulmani, e finalmente ci è riuscito.
In mezzo alla tempesta della pandemia, il suo primo viaggio dopo più di un anno, papa Bergoglio l’ha compiuto là, dove la tradizione colloca l’Eden, il giardino bello e fertile della prima coppia umana, oggi mosaico di etnie e religioni e campo di battaglia bagnato dal sangue di troppi conflitti.
La terra di Ur dei caldei
«Dopo la prima guerra del Golfo del 1991, e la seconda del 2003, sull’Iraq c’è stato il silenzio per troppo tempo, fino all’arrivo dell’Isis nel 2014». Don Renato Sacco, parroco di Cesara (Vb), è coordinatore di Pax Christi Italia, legato all’Iraq e amico del cardinale Louis Raphaël I Sako, dal 2013 patriarca della chiesa caldea a Baghdad, fautore del viaggio apostolico e in particolare dell’incontro tra Francesco e il grande ayatollah ʿAlī al-Husaynī al-Sīstānī a Najaf, città santa dell’islam sciita.
«L’Iraq è la mezza luna fertile, il paradiso terrestre della Genesi, la terra dei monasteri del Nord, dove c’è Mosul, l’antica Ninive convertita da Giona. È anche la terra di Nabucodonosor e dell’esilio: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion” (Sal 137). Infine, è la terra di Ur dei Caldei, di Abramo.
In un paese che ha visto guerre coperte da motivazioni religiose, sancire un dialogo di religione e non una guerra di religione è stato estremamente importante».
Terra di persecuzione
Francesco è stato il primo papa a visitare l’Iraq. Ha realizzato un sogno che era stato già di Giovanni Paolo II, che sarebbe voluto andarci nel 2000. Centro del suo viaggio è stato l’incontro con i musulmani sunniti e sciiti, e con le minoranze etniche e religiose del paese, come gli yazidi e i mandeisti, ma altrettanto centrale è stato l’incontro con le chiese cristiane, eredi di alcune delle comunità più antiche.
A inizio Novecento i cristiani in Iraq rappresentavano il 6,4% della popolazione (vedi box), nel 2005 erano il 2%, e oggi circa lo 0,6%. Se nel 2003 erano 1,4 milioni, oggi sono circa 250mila.
«La chiesa irachena fonda le sue origini sulla predicazione dell’apostolo Tommaso. È sempre stata una chiesa di testimonianza e di martirio, e lo è anche adesso. Quando Sako è diventato patriarca, ha chiesto ai cristiani di non lasciare il paese. Anche perché, come dicono pure i musulmani, l’Iraq sarebbe più povero senza di loro.
Il papa è stato a Mosul, nella piana di Ninive, e a Qaraqosh, una delle rare cittadine irachene a maggioranza cristiana, per incoraggiare quelle comunità. Io ci sono stato. È una chiesa viva che non ha perso la speranza».
Forte simbolismo
Nei tre giorni di visita, le tappe del papa sono state molteplici, tutte fortemente simboliche. Ha incontrato i governanti a Baghdad e le autorità civili del Kurdistan iracheno a Erbil, ha visitato il grande ayatollah ʿAlī al-Sīstānī, punto di riferimento dell’islam sciita a Najaf, e ha partecipato all’incontro interreligioso nella piana di Ur, infine ha portato il suo sostegno ai cristiani di Mosul, di Quaraqosh e di tutto l’Iraq.
«Il papa ha incontrato le autorità, alle quali fa bene sentirsi dire che devono essere al servizio del popolo e non della corruzione o di poteri esterni; i capi religiosi; poi le vittime dell’Isis e, più in generale, le vittime della guerra, perché ricordiamoci che prima dell’Isis ci sono state le due guerre del Golfo.
L’America nel 2003 ha tolto tutte le responsabilità politiche, militari, amministrative a chi era stato legato a Saddam Hussein, e il paese è rimasto sguarnito.
Il silenzio sull’Iraq non si è rotto nemmeno con il rapimento e l’uccisione nel 2008 dell’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Paulos Faraj Rahho. Io ero stato da lui pochi giorni prima del rapimento. Lo hanno fatto poi trovare morto in una discarica. Però di tutto questo non si è parlato, così, quando nel 2014 è arrivato l’Isis, molti lo hanno interpretato come un fungo nato all’improvviso, ma l’Isis non è un fungo, è il frutto di una gestione economica, politica, militare che ha alimentato rabbia e odio».
al-Sīstānī, Sako e il papa
Nella prima bozza di programma del viaggio, la tappa di Najaf per l’incontro con il novantenne leader sciita non era prevista.
Fin da subito, il cardinal Sako si è speso perché venisse inserita. Il suo auspicio era quello che i due leader firmassero il documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, punto di riferimento per l’islam sunnita. Il papa avrebbe così avuto, in qualche modo, anche un ruolo di mediazione tra l’islam sciita e l’islam sunnita.
Il tempo a disposizione per maturare un passo così importante, però, non era sufficiente. Ciò non toglie che l’incontro sia stato un evento fruttuoso con possibili risvolti futuri: «Presto ci recheremo in Vaticano per assicurarci che questo dialogo continui, si sviluppi e non si fermi qui», ha detto, infatti, dopo la visita papale Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei, uno degli esponenti di spicco del mondo sciita iracheno, segretario generale dell’Istituto Al-Khoei di Najaf.
Don Renato Sacco ci racconta che lo stesso Sako si trova a svolgere quotidianamente un ruolo di mediazione tra le diverse fedi ed etnie irachene: «Da sempre, fin da quando era parroco a Mosul, Sako crede nel dialogo. Ricordo che una volta a Kirkuk, dove è stato vescovo, mi sono trovato a una cena di Sako con tutti i capi religiosi e politici della zona. Tutti erano venuti con la scorta, con tanto di kalashnikov. A un certo punto nel salone è andata via la luce. Al buio, con tutti questi capi l’uno contro l’altro armati, ho avuto paura. Ma non è successo niente.
Sako mi aveva detto che quei capi sarebbero andati volentieri alla cena da lui, perché da soli non sarebbero mai riusciti a incontrarsi. Sako faceva da mediatore, da punto di riferimento.
L’incontro del papa con al-Sīstānī è conseguenza di questo cammino. È un messaggio per l’Iraq e per il mondo: i capi dialogano».
Il viaggio e la pandemia
In un suo intervento su «La Civiltà cattolica», Antonio Spadaro dà un’interpretazione forte a questo primo viaggio del papa dopo i mesi di stop dovuti alla pandemia. Scrive: «Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto “ospedale da campo”. Il luogo ideale per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive». E prosegue: «Il Pontefice ha identificato in questi mesi […] un chiaro punto focale della sua missione: la fratellanza umana, per la costruzione della quale le religioni possono offrire un “prezioso apporto” […]. Per questo ha deciso di ripartire da Baghdad». La chiesa «ospedale da campo» trova nella lotta alla pandemia il simbolo di una possibile lotta delle fedi religiose unite per il bene comune nella fratellanza umana.
«Condivido molto quello che scrive Spadaro», dice il coordinatore nazionale di Pax Christi. «Il motto del viaggio in Iraq era il versetto di Matteo che dice “Voi siete tutti fratelli”, scritto in caldeo, arabo, inglese e curdo.
Andare in Iraq accanto alle vittime, recitare l’angelus a Qaraqosh, un luogo di sofferenza e di speranza, ha voluto dire scegliere da che parte stare.
Il viaggio poi è stato un sostegno anche per chi lavora lì nel silenzio accanto ai profughi, alle vittime della violenza, a chi ritorna nelle proprie case e le trova distrutte, e continua a farlo, a chi lotta per la pace».
Luca Lorusso
Le chiese irachene
In Medio Oriente si stima che vivano circa 15 milioni di cristiani. In alcuni paesi crescono di numero grazie alle migrazioni, soprattutto nella penisola arabica; in altri, come la Siria e l’Iraq, diminuiscono in modo drastico svuotando alcune tra le comunità più antiche del mondo. Se in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, nel 1900 i cristiani erano prossimi allo 0% della popolazione, oggi rappresentano il 4% e il 13%. Al contrario, se in Siria e Iraq nel 1900, i cristiani erano rispettivamente il 18% e il 6,4%, oggi sono il 2% e lo 0,6%. Con un calo esponenziale a partire dal 2010 in Siria e dal 2003 in Iraq.
Il rapporto di Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre), I cristiani in Iraq, pubblicato a gennaio e scaricabile dal sito acs-italia.org, parla di un esodo provocato soprattutto negli ultimi 20 anni dai conflitti, dalla povertà e dalle persecuzioni.
Pluralità di confessioni
In Iraq i cristiani sono concentrati soprattutto nel Nord (Erbil, Dohuk, Sulaymaniyah, Kirkuk e nella provincia di Ninive). Dagli anni 70, molti sono emigrati a Baghdad e a Bassora, ma dopo il 2003 si è registrato un corposo fenomeno di ritorno.
Una delle caratteristiche più vistose dei cristiani iracheni è la pluralità di confessioni alle quali appartengono. La più consistente è la chiesa cattolica caldea, il cui patriarca, dal 2013, è il card. Louis Raphaël I Sako. Essa raduna il 67,5% dei cristiani del paese. Le altre chiese cattoliche sono quella cattolica siriaca (6,5%), la cattolica armena (0,5%) e la cattolica latina (0,5%). Le chiese ortodosse sono invece quella assira orientale (13%), l’ortodossa siriaca (6%), l’apostolica armena (4%) e la greco ortodossa (0,5%). Mentre gli evangelici contano circa l’1,5% dei cristiani.
Esodo e timori
Il rapporto di Acs, ripercorrendo le varie fasi dell’esodo, ricorda che all’arrivo dell’Isis a Mosul e nella piana di Ninive nell’estate 2014, 120mila cristiani sono fuggiti in pochi giorni nelle zone curde. Negli anni tra il 2014 e il 2019, le persone uccise a causa della guerra sono state in totale 73mila, solo nella zona di Mosul si sono contati 384mila sfollati.
E riguardo ai timori che i cristiani della piana di Ninive hanno ancora oggi, Acs scrive: «Sconfiggendo [l’Isis], il paese ha piegato il peggior nemico della libertà religiosa […]. La minaccia però non è annientata perché molti dei suoi combattenti […] si sono dati alla clandestinità, attaccando occasionalmente le minoranze religiose anche negli ultimi anni». Riguardo alle milizie sciite: «La preoccupazione più immediata per la sicurezza nella Piana di Ninive è rappresentata dalle milizie sostenute dall’Iran che […] hanno aiutato a sconfiggere l’Isis. Tuttavia, alcuni cristiani le accusano di corruzione e di violazioni dei diritti umani». Infine, riguardo alla Turchia: «Gli interventi turchi nel Nord dell’Iraq diretti contro i militanti del Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, nda) stanno colpendo diverse minoranze religiose tra cui cristiani e yazidi. Dall’inizio del 2020 almeno 25 villaggi cristiani nel Nord del paese sono stati svuotati […]».
L.L.
Mosaico di religioni
Dei circa 40 milioni di abitanti iracheni, si stima che gli arabi siano il 75-80%, i curdi il 15-20%, e che un restante 5% sia costituito da una pluralità di minoranze etniche come turkmeni, assiri, persiani.
La stragrande maggioranza della popolazione è di fede musulmana, il 98% circa. Tra le fedi minoritarie che formano il restante 2%, la cristiana, la mandeista, la yazida.
All’interno della vasta maggioranza musulmana vanno distinti poi tre gruppi principali: gli arabi sciiti che rappresentano la maggioranza, circa il 64%, concentrati soprattutto nella parte Sud orientale del paese, gli arabi sunniti, 17%, nell’Iraq centro meridionale, e i curdi sunniti, 17%, nella zona Nord, l’area maggiormente abitata dalle minoranze (vedi cartina pag. 30).
Gli sciiti
All’interno dell’islam, gli sciiti si caratterizzano per il ruolo speciale assegnato ad Ali, cugino e genero del profeta Muhammad, e alla sua discendenza attraverso Fatima, figlia del profeta.
Gli sciiti rappresentano il 10-15% di tutti i musulmani del mondo (circa 130-195 milioni), e rappresentano l’80% della popolazione che vive sui giacimenti di petrolio del golfo.
Le tre principali etnie che compongono l’islam sciita sono l’araba, l’iraniana persofona, e l’azera turcofona.
Gli sciiti arabi iracheni sono la più grande comunità sciita del mondo arabo. Le altre si trovano in Libano (20% della popolazione), Siria (10-12%), Kuwait (20-25%), Arabia Saudita (10-15%), Bahrain (50-70%), Yemen (35%), Turchia (20%).
In Iran, gli sciiti persiani e azeri costituiscono oltre il 90% del paese. In Azerbaigian gli sciiti sono il 75-80%, in Afghanistan il 20-25%, in Pakistan il 20%.
I santuari
I luoghi nei quali la tradizione colloca le sepolture di alcuni dei membri della famiglia del profeta Maometto, sono quelli nei quali sorgono i più importanti santuari che svolgono un ruolo centrale nella fede sciita.
Il santuario di Najaf, dove riposano le spoglie di ‛Alī ibn Abī Ṭālib, cugino a genero del profeta, è considerato il più importante, e sede della più prestigiosa scuola teologica sciita. Suo «rivale» in Iran è il santuario di Qom, dove è seppellita Fa’ṭima, sorella dell’ottavo imām ‛Alī ibn Mūsā ar-Riḍā, anch’esso sede di un’importante scuola teologica secondo i caratteri iraniani.
L.L.
Lo sciismo dialogante di ʿAlī al-Sīstānī
Il grande ayatollah di Najaf è il massimo interprete di una lettura «quietista» dell’Islam sciita, rifiutando l’interferenza religiosa nella politica. Nonostante ciò, ha oggi un ruolo centrale nello scenario iracheno, ed è considerato un fattore di stabilità nel suo paese. È per questo che il cardinale Sako guarda a lui come un punto di riferimento nel dialogo, e che la «visita di cortesia» del papa a Najaf è stata uno dei momenti più significativi del suo viaggio in Iraq.
Abbiamo sentito Andrea Plebani, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Associate research fellow all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), vicedirettore scientifico del Centro studi internazionali di geopolitica. I suoi interessi di ricerca sono concentrati sull’evoluzione dello scenario geopolitico mediorientale, con particolare attenzione a Iraq, Siria ed Egitto, e sulle dinamiche interne alla galassia islamista.
Qual è il ruolo del grande ayatollah al-Sīstānī?
«‘Alī al-Husaynī al-Sīstānī è il massimo rappresentante del quietismo sciita che riconosce la centralità del ruolo dei giurisperiti (esperti di diritto islamico, nda), ma prevede un loro non coinvolgimento diretto nell’ambito politico. L’opposto dello sciismo khomeinista che in Iran si è affermato dalla rivoluzione del ’79.
Questa diversità si riflette in una competizione tra i due santuari chiave dello sciismo: quello di Najaf, e quello di Qom in Iran.
Ciò detto, c’è anche da dire che l’impostazione quietista di al-Sīstānī non gli ha impedito negli ultimi decenni di giocare comunque un ruolo chiave sul piano politico. Ad esempio, nel 2014, quando l’Isis è entrato a Mosul, ha emanato una fatwa per chiamare gli iracheni (non solo gli sciiti, ma tutti, e questo è significativo) a imbracciare le armi. Cosa che ha contribuito non poco alla vittoria contro i terroristi.
La sua centralità informale sul piano politico è sempre stata segnata da un ruolo di mediatore, dall’appello al dialogo, al rispetto delle minoranze. Consideriamo che l’Iraq post 2003 è un paese che ha subito dei cambi di equilibri interni fortissimi che l’hanno destabilizzato sotto molti profili.
In questa realtà così frammentata e dilaniata, al-Sīstānī ha giocato un ruolo di moderatore, invitando, ad esempio, a non rispondere alla violenza con altra violenza anche in tempi difficili come gli anni dal 2004 al 2006 nei quali gli attacchi colpivano in modo sempre più duro la popolazione civile.
Da sempre, poi, non esita a far sentire la sua voce in favore dei diritti dei più deboli. Penso alle manifestazioni di protesta che sono esplose nel 2019: quando i manifestanti hanno chiesto il suo intervento, lui, mentre il governo reprimeva anche nel sangue le proteste, ha risposto chiedendo che i loro diritti venissero tutelati.
Al-Sīstānī ha una statura unica nel sistema iracheno: in un paese destabilizzato, negli ultimi decenni lui è stato una costante che è riuscita a tenerlo assieme».
La visita del papa ad al-Sīstānī può aver irritato l’Iran?
«Non penso. Ho parlato di competizione tra le due visioni sciite, ma la competizione non implica necessariamente ostilità. Il papa, con la sua visita ad Al-Sīstānī gli ha voluto anche riconoscere il fatto che si è speso molto per creare un clima non ostile alle minoranze, un clima di dialogo. Questo non vuol dire che le minoranze siano tranquille in Iraq, ma il tentativo di al-Sīstānī va evidenziato».
Riguardo alle proteste, quali erano, e sono, le loro istanze?
«Sono proteste molto frammentate, senza una leadership univoca, che hanno riunito anime diverse: dagli studenti, anche giovanissimi, ai giovani disoccupati (il 57% della popolazione in Iraq ha meno di 24 anni, l’età media è di 21, nda). Non sono manifestazioni settarie, di una componente che mira ad affermare la sua centralità.
Uno dei loro slogan più significativi è: “Noi vogliamo una patria”. Cioè, da un lato, che il paese sia realmente indipendente, non soggetto all’influenza degli Usa, dell’Iran, ma anche che l’Iraq non sia ostaggio di una cricca di politici i cui interessi sono diversi da quelli della collettività.
L’Iraq è un paese potenzialmente ricchissimo, non solo per gli idrocarburi. È una terra fertile. Ha uno sbocco sul Golfo Persico, ha buone capacità industriali.
Anche sulla base di queste considerazioni, le proteste chiedono risposte a istanze basilari: che i diritti degli individui vengano tutelati, che ci siano opportunità lavorative, che sia garantita la dignità. Si chiede un netto cambiamento. E che vengano realizzate le aspettative generate dalla caduta del regime di Saddam».
Una delle problematiche è anche la suddivisione «settaria» delle cariche istituzionali.
«Il sistema iracheno non è consociativista come quello libanese nel quale è previsto che alcune cariche vengano affidate a esponenti di specifiche comunità. Nel sistema iracheno la costituzione non dice nulla in tal senso, però di fatto, sul piano sostanziale, dal 2005 il primo ministro è un arabo sciita, il presidente è curdo, lo speaker del parlamento è arabo sunnita, il ministro dell’Interno è un arabo sciita, quello della difesa è un arabo sunnita, e così via. È anche questo uno degli aspetti contro i quali i manifestanti si scagliano: il settarismo è rifiutato da sempre dalla popolazione irachena».
Un ulteriore elemento di complessità nel quadro iracheno è aggiunto dalla regione autonoma del Kurdistan.
«Nell’autunno 2017, quando la lotta contro l’Isis volgeva al termine, la classe dirigente del Kurdistan iracheno ha indetto un referendum sull’indipendenza. Questo anche alla luce del notevole credito internazionale acquisito grazie agli sforzi nella lotta all’Isis.
Il Kurdistan porta avanti almeno dal 2003 una campagna che tende a rappresentarlo come una realtà diversa dal resto dell’Iraq. Nella prima decade del 2000 c’era una campagna pubblicitaria che presentava il Kurdistan come l’altro Iraq, quello che funziona, che cresce, si sviluppa, dove si rispettano i diritti, ecc.
Con il ritiro delle forze di sicurezza irachene nel 2014 da Mosul, le forze curde, ex peshmerga, avevano occupato molti dei territori contesi da tempo tra Baghdad ed Erbil, territori chiave dal punto di vista sociale, culturale, storico, ma anche economico. In particolare la città di Kirkuk attorno alla quale ci sono giacimenti che avrebbero garantito le basi economiche del Kurdistan iracheno indipendente.
Il problema è che la questione non è solo tra Baghdad ed Erbil. Ci sono comunità curde in Siria, ma soprattutto in Turchia e Iran. La Turchia ha da sempre una linea di opposizione nei confronti di un Kurdistan indipendente, e questi si è di fatto trovato circondato dall’opposizione di Ankara, Teheran e Baghdad, e abbandonato dagli Usa».
Fino all’ultimo, il viaggio del papa è stato in bilico. I timori per la sicurezza erano forti.
«Anche io ero molto preoccupato, perché l’Iraq è un paese con problemi di sicurezza enormi. Sono felice che sia andato tutto bene. La visita di un’autorità come il papa ha restituito all’Iraq la centralità che dovrebbe sempre avere. È stata, oltre che uno strordinario atto di coraggio personale e di amore nei confronti della popolazione irachena, non solo cristiana, l’occasione per dare centralità a chi spesso è stato dimenticato».
Dagli accordi di pace siglati nel 2016 sono trascorsi oltre quattro anni. Il lunghissimo conflitto colombiano è mutato, ma non è terminato. E le cause che lo hanno prodotto sono ancora irrisolte.
Le parole sono importanti, ma spesso insufficienti, sopravvalutate o inutili. La Costituzione colombiana, promulgata nel luglio del 1991, parla di pace in tre circostanze: nel preambolo, nell’articolo 22 e nel 95. Nel preambolo si dice che il potere sovrano assicura ai cittadini «la vita, la convivenza, il lavoro, la giustizia, l’eguaglianza, l’istruzione, la libertà e la pace». L’articolo 22 afferma che «la pace è un diritto e un dovere di realizzazione obbligatoria». Infine, secondo l’articolo 95, tra i doveri della persona e del cittadino c’è quello di «promuovere il raggiungimento e il mantenimento della pace». Eppure, nonostante le parole solennemente scritte nella Carta costituzionale, in Colombia la pace è largamente incompiuta. Ancora oggi essa rimane una promessa di molti e una speranza di tanti.
I numeri del conflitto possono cambiare a seconda delle modalità di raccolta dei dati e dei soggetti che li raccolgono. In tutti i casi si tratta di numeri impressionanti. Il Centro nacional de memoria histórica, tramite l’Observatorio de memoria y conflicto, conta le vittime del conflitto distinguendo tra undici modalità di violenza: azioni di guerra, danni a beni civili, uccisioni selettive, attacchi alla popolazione, attacchi terroristici, sparizioni forzate, massacri, mine antiuomo, ordigni esplosivi improvvisati e ordigni inesplosi, reclutamento e utilizzo illeciti di bambine, bambini e adolescenti, sequestri, violenze sessuali.
Le informazioni, raccolte e minuziosamente catalogate dall’istituzione, disegnano un quadro dettagliato di cosa abbia significato e significhi il conflitto interno per i colombiani. Secondo questa fonte, nel periodo 1958-2020 le vittime mortali (víctimas fatales) della guerra sono state 266.988.
Gli attori principali del conflitto sono quelli conosciuti: la guerriglia (politicamente di sinistra), i gruppi paramilitari (politicamente di destra), gli agenti dello stato, banditi, altri gruppi non identificati.
Leggendo i dati dell’Observatorio de memoria y conflicto, non mancano però le sorprese. Per esempio, la vulgata comune, sia in Colombia che all’estero, ha sempre attribuito le maggiori responsabilità del conflitto alla guerriglia (Farc, in primis). Invece, i colpevoli principali pare siano stati i gruppi paramilitari. Questi sarebbero i primi responsabili delle uccisioni mirate, delle sparizioni forzate, delle violenze sessuali e dei massacri. La guerriglia (Farc, Eln, M-19, Epl, Cgsb), invece, sarebbe in testa per i sequestri, gli attacchi a centri abitati, la distruzione di infrastrutture pubbliche e l’arruolamento nelle proprie file di minori. Gli agenti dello stato sarebbero i protagonisti della maggior parte delle azioni belliche. Dopo la firma dell’accordo di pace del 2016 (prima respinto dal referendum, poi modificato e approvato dal Congresso), la situazione sul campo è mutata, ma non i risultati. In alcune zone sono tornate le Farc con gruppi di dissidenti (identificati come Gao-r), mentre vari attori legati al narcotraffico hanno esteso il proprio dominio. Perché dunque, dopo decenni di lutti e devastazione, la guerra non ha ancora termine? Una delle cause principali è il persistere nel paese di condizioni di povertà e diseguaglianza. Per citare soltanto un dato, nel 2019 la povertà interessava il 35,7% dei colombiani (Departamento administrativo nacional de estadística, Dane). Con percentuali molto più alte in alcune regioni (con un massimo di 68,4% nel dipartimento del Chocó) e nelle zone rurali e amazzoniche.
Queste ultime ospitano anche le zonas cocaleras. Secondo il White House office of national drug control policy (Ondcp, marzo 2020), nel 2019 erano coltivati a coca 212mila ettari per una produzione di 951 tonnellate di cocaina. Invece, secondo lo United Nations office on drugs and crime (Unodc), gli ettari coltivati sono di meno (154mila), ma la produzione maggiore (1.136 tonnellate nel 2019). Quali che siano i dati corretti, la realtà mostra una produzione enorme di cocaina con il coinvolgimento di migliaia di famiglie contadine costrette a coltivare piante di coca non per arricchirsi ma per sopravvivere.
Secondo l’organizzazione non governativa Planeta paz, la pace va costruita e suppone la creazione di condizioni politiche, sociali ed economiche. Essa non significa semplicemente superare il conflitto armato. È necessario «sradicare dalla vita sociale colombiana lo stato di guerra in cui vive la maggior parte dei suoi abitanti a causa dell’incertezza sull’ottenimento dei mezzi necessari per garantire la vita biologica e una vita dignitosa».
In questo quadro, nell’ultimo anno si è anche inserita la pandemia da coronavirus. Una tessera in più da sistemare nel complicato puzzle colombiano.
Paolo Moiola
Colombia
Forma di governo:
Repubblica presidenziale.
Presidente: Iván Duque Márquez del
partito conservatore Centro democratico, guidato dall’ex presidente Álvaro Uribe.
Superficie: 1.141.748 km² (quasi quattro volte l’Italia).
Città principali: Bogotá (capitale), Medellín, Cali, Barranquilla, Cartagena de Indias.
Religioni: 79% cattolici, 12% protestanti; in rapida crescita le chiese evangeliche e pentecostali.
Economia: agricoltura molto varia, con il caffè e la coca al primo posto; allevamento, in primis di bovini; risorse minerarie come oro, smeraldi e petrolio; il paese ha sostituito il Venezuela come primo esportatore sudamericano di petrolio verso gli Usa.
Conversazione
Perdono, riconciliazione e… indifferenza
Nel conflitto e nel processo di pace colombiano, le variabili in gioco sono numerose. Proviamo a fare ordine con il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, studioso del conflitto.
Per chi ha pagato sulla propria pelle le conseguenze di un conflitto, dimenticare e magari perdonare sono passaggi complicati o forse impossibili. «In primo luogo – ci spiega il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, storico e studioso del conflitto -, occorre differenziare tra perdono e riconciliazione. Il perdono è una cosa più personale, che può includere anche caratteristiche religiose. La riconciliazione è una cosa più ampia, che include l’instaurazione di legami di fiducia. È meglio non iniziare un processo di pace con la parola perdono e utilizzare invece la parola riconciliazione».
Chiediamo se la società colombiana sia in grado di dimenticare oltre sessant’anni di conflitto interno. Il nostro interlocutore ha un’opinione particolare. «Non credo – dice – che il problema sia dimenticare, che, a volte, può essere in qualche misura un elemento salvifico. Io credo che, per la maggior parte dei colombiani, il grande problema sia quello dell’indifferenza, come abbiamo visto bene nel plebiscito del 2016. Erano più di 30 milioni le persone aventi diritto, ma solamente 13 milioni hanno partecipato. Inoltre, le persone che hanno votato per il “Sì” (all’accordo di pace) erano quelle che vivevano nei territori più colpiti dalla violenza. È qui che si è deciso di voltare pagina».
Mauricio Montoya ricorda Tzvetan Todorov. «Secondo il filosofo bulgaro – spiega -, ci sono due memorie: una letterale e una esemplare. Ci sono società che vogliono rimanere legate a una memoria letterale, che è quella che ricorda, commemora e – sfortunatamente – mette il dito nella piaga e in ogni occasione cerca vendetta. Con la seconda invece si commemora e si ricorda. Non dimentica, ma è disposta a voltare pagina perché la società del futuro non soffra e non ripeta queste situazioni. Perché la società vecchia sia d’esempio a quella nuova».
Dissidenti e banditi
«Già all’inizio c’erano persone che non erano disponibili ad accettare il processo di pace. In seguito altri – come Iván Márquez, Jesús Santrich, el Paisa y Romaña – si sono ritirati dicendo che non c’erano garanzie sufficienti e che non si stava compiendo quanto stabilito».
«Secondo me, questo è stato un errore. Avrebbero dovuto aspettare visto che il nostro sistema è lento e per questo richiede pazienza. Costoro sono dunque tornati alle armi formando la dissidenza che sta tentando di occupare il territorio che un tempo era dominio delle Farc. In molte zone sono in competizione con bande criminali dedite al narcotraffico. Io penso che i dissidenti abbiano un progetto politico sempre meno visibile e si avvicinino ai Bacrim (acronimo di Bandas criminales come los Urabeños, ndr), ovvero i gruppi paramilitari che non hanno accettato il processo di smobilitazione».
Tuttavia, non c’è soltanto la dissidenza. Ci sono anche notizie incoraggianti: «Un 70 per cento di ex combattenti delle Farc – precisa Mauricio – sta scommettendo sulla pace, anche con vari progetti produttivi: i cento ex guerriglieri e rispettive famiglie che si sono trasferiti su una terra di Mutatà, quelli impegnati nel turismo ecologico, o quelli che hanno aperto fabbriche di abbigliamento (marca “Manifiesta-Hecho en Colombia”) e di birra artigianale (“La Roja”)».
Si tratta di progetti d’inserimento nella società civile da incoraggiare, ma anche da difendere visto che, al 7 gennaio 2021, erano già stati assassinati almeno 252 ex membri delle Farc (un film già visto negli anni Ottanta quando i paramilitari sterminarono gli iscritti al partito Unión patriótica). Ancora più alte sono le cifre riguardanti l’assassinio di líderes sociales (difensori dei diritti umani, ambientalisti, attivisti indigeni e afrocolombiani). Negli ultimi quattro anni sarebbero stati 421, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Mentre la Defensoría del pueblo riporta oltre 700 morti. «Eppure – precisa Mauricio -, secondo alcuni, questi líderes sociales sono stati uccisi a causa di lios de faldas (letterale, “litigi per le gonne”, ndr) come fossero cioè problemi amorosi che non hanno nulla a che vedere con il contesto politico».
Chi vuole il fallimento?
Oltre ai dissidenti delle Farc e ai gruppi paramilitari, ci sono molti altri attori che lavorano per far fallire il processo di pace. Il nostro interlocutore non ha dubbi al riguardo.
«Dagli anni Ottanta – spiega – la pace è un tema elettorale. In questo senso, molti lo hanno manipolato per arrivare alla presidenza. È chiaro che ci sono persone che non vogliono che gli accordi si compiano nei modi sottoscritti a l’Avana e, dopo la sconfitta nel plebiscito, al Congresso. Il problema è quello degli approfittatori, dei mercenari che cercano di portare confusione e di preservare i propri interessi particolari. Costoro lavorano affinché le cose non si sappiano e da qui nascono gli attacchi alle istituzioni che operano per il processo di pace».
Dall’accordo di pace firmato dall’allora presidente Manuel Santos e dai vertici delle Farc-Ep, è nato il «Sistema integrale di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione» (Sistema integral de verdad, justicia, reparación y no repetición, in sigla Sivjrn). Incorporato nella Costituzione attraverso il decreto legislativo 01 del 2017, il Sistema è fondato su tre componenti: la «Commissione di chiarimento della verità, convivenza e non ripetizione» (Comisión de esclarecimiento de la verdad, la convivencia y la no repetición, Cev); l’«Unità per la ricerca delle persone date per scomparse» (Unidad para la búsqueda de personas dadas por desaparecidas, Ubpd) e la «Giurisdizione speciale per la pace» (Jurisdicción especial para la paz, Jep).
Tra i maggiori oppositori del processo di pace c’è Álvaro Uribe, l’uomo forte della Colombia, fondatore del partito Centro democrático (Mano firme. Corazón grande, «Mano ferma. Cuore grande») del quale è militante anche l’attuale presidente Iván Duque. «È ovvio – conferma Mauricio Montoya – che l’ex presidente Uribe ha avuto ed ha influenza. Ha guadagnato appoggio e popolarità tra una fetta importante della popolazione per la sua opposizione ai gruppi armati, per la sua volontà di non negoziare con essi. La sua scelta militare ha però portato anche a violazioni ed eccessi come per i “falsi positivi” (civili innocenti assassinati dall’esercito che li faceva passare per guerriglieri per ingigantire i propri successi militari, ndr). Uribe continua ad essere molto influente in ambito politico, cosa che gli permette di far eleggere senatori, governatori, sindaci. Oggi rimane popolare tra la popolazione più anziana, ma non tra i giovani colombiani».
Come fare giustizia?
Dopo gli accordi del 2016, le Farc si sono trasformate in partito politico, mantenendo la denominazione ma con un significato diverso: da «Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia» a «Fuerza alternativa revolucionaria del Común». Lo scorso 24 gennaio i responsabili hanno annunciato di aver cambiato il nome in «Comunes» per non confondere il gruppo firmatario degli accordi di pace con il gruppo dei dissidenti. Il leader Rodrigo Londoño, alias Timochenko, ha ammesso che mantenere il nome di Farc non è stata una buona idea e che il nuovo nome del partito fa riferimento alla gente comune.
Questo non significa però che gli ex guerriglieri non verranno giudicati. Gli accordi di pace non sono infatti una patente d’impunità, una rinuncia a fare giustizia e a punire i responsabili.
«I media e i social – spiega Montoya – hanno creato un ambiente negativo attorno alla Jep. Dicendo che è una giustizia dei guerriglieri e che è contro i militari. Tutti argomenti che a poco a poco sono caduti». Anzi, lo scorso 29 gennaio il tribunale speciale creato con gli accordi di pace (la citata Jep, Jurisdicción especial para la paz) ha accusato l’antica cupola della guerriglia di crimini di guerra e di lesa umanità per i sequestri commessi per decenni. Sono stati incriminati otto membri delle ex Farc, tra cui lo stesso Rodrigo Londoño e due senatori.
«A dimostrazione – chiosa Montoya – che il compito che sta svolgendo la Jep è reale».
L’irrisolta questione della terra
In Colombia la diseguaglianza è visibile e confermata da tutti gli indici. Chiediamo al professor Montoya il peso della questione della terra.
«Durante i colloqui e il processo di pace – risponde -, la questione della terra è stata un tema ricorrente. “Perché ancora una volta il tema della terra?”, domandava molta gente. La risposta è semplice: perché in realtà il problema della terra non è stato mai risolto. Sta scritto negli accordi, ma la soluzione ancora non si vede. Un passaggio fondamentale è la trasformazione e attualizzazione del catasto rurale, che significa riuscire a sapere quanti ettari di terra possiedono le persone, quante imposte pagano e se queste sono coerenti con le terre possedute, perché ci sono territori vuoti che non vengono consegnati ai contadini e alle comunità agricole che li richiedono. Molti ritengono che il problema della diseguaglianza e della terra non sia una causa della guerra. Forse non è l’unica, ma è fondamentale».
Il narcotraffico
Legata al tema della terra è la questione delle piantagioni di coca e del commercio della stessa. «Il narcotraffico – spiega il professore – ha attraversato il conflitto dagli anni Settanta. Le coltivazioni di coca continuano sotto il controllo dei gruppi armati, illegali e legali. È infatti comprovato che in questo lucroso business ci sono anche politici. In molti territori ci sono combattimenti tra i vari gruppi armati per controllare le rotte della droga. Un esempio tra i tanti possibili: l’ex paradiso dell’arcipelago di San Andrés, Providencia e Santa Catalina (davanti alle coste del Nicaragua, ndr) ha altissimi livelli di violenza essendosi convertito in un ponte per il traffico con Stati Uniti ed Europa. Accanto a queste rotte c’è poi il microtraffico all’interno delle città colombiane dove le bande si contendono con le armi il traffico non soltanto di droga ma anche di persone».
Con il Venezuela e gli Stati Uniti
Lo scorso febbraio il presidente Iván Duque ha annunciato la regolarizzazione (tramite il nuovo Estatuto nacional de protección) per dieci anni di oltre due milioni di immigrati venezuelani, che permetterà loro di accedere ai sistemi pubblici della salute e dell’educazione e di lavorare regolarmente. Il presidente colombiano ha sempre usato (furbescamente) la lotta contro il Venezuela di Maduro come strumento di lotta politica interna e internazionale.
«Duque usa quel paese – spiega Mauricio Montoya – in termini elettorali per spaventare la popolazione su certi candidati o modelli politici o idee per supposte affinità al Venezuela o, come viene spesso detto, al castrochavismo. Credo perciò che le relazioni tra i due paesi si manteranno tese, instabili e polarizzate».
Nel frattempo, negli Stati Uniti, storico alleato del paese, la presidenza è passata da Donald Trump a Joe Biden. «Non cambierà molto – osserva Montoya -. Alcuni media dicono che, avendo il governo colombiano appoggiato Trump, Biden presenterà il conto. Non credo sarà così. La Colombia non perderà l’appoggio statunitense né in termini economici né di lotta al nartraffico. Credo però che gli Usa avranno un ruolo nella competizione per la prossima presidenza la cui campagna inizierà ancora quest’anno».
In effetti, l’ex presidente ed ex senatore Álvaro Uribe ha già iniziato le audizioni per selezionare i propri candidati.
Paolo Moiola
Incontro con un dissidente Farc
«Ricercato, vivo o morto» (l’ultima intervista)
Abbiamo incontrato Dúver, uno dei leader dissidenti delle Farc. È stata una conversazione unica. Due mesi dopo, Dúver è stato ucciso in un’operazione militare che ha avuto una grande eco sui media locali.
Solano (Caquetá). Ho ricevuto un invito da parte di Dúver Guzmán, nome di battaglia di Marco Tulio Salcedo, importante guerrigliero delle Farc-Ep, a Mononguete, lungo il fiume Caquetá. Il luogo prescelto è presso il distributore galleggiante di benzina, situato nel porticciolo principale del paese. L’appuntamento è per venerdì 18 settembre, alle 10,30.
Con Rito, il motorista della parrocchia, arrivo in anticipo, alle 9,30. Mentre attendo, vedo arrivare dall’altra parte del fiume, in territorio della regione del Putumayo, altri guerriglieri che non fanno però parte di coloro che sto aspettando.
La guerriglia vuole sapere tutto
All’ora concordata arriva Dúver. Viene verso me, mi dà la mano e mi offre da bere una gazzosa. Ci accomodiamo uno di fronte all’altro: io su una panca, lui su una sedia. Alla cintura porta una pistola. Indossa una maglietta con la mappa della Colombia e l’immagine di Marulanda: il contadino che fondò le Forze armate rivoluzionarie della Colombia è raffigurato che impugna un fucile, mentre nel mezzo della mappa campeggia la sigla Farc-Ep.
Iniziamo a parlare. Subito mi chiede: «Padre, mi parli del progetto». Non capisco, o meglio, fingo di non capire quello a cui vuole riferirsi Dúver, e così inizio a parlargli del progetto di evangelizzazione che portiamo avanti nel Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano con mons. Joaquin Humberto Pinzón, il nostro vescovo; dell’équipe missionaria in parrocchia, composta da quattro suore, due seminaristi, un laico missionario e me come parroco e coordinatore.
Proseguo la mia descrizione: «Dúver, il territorio della parrocchia è molto vasto, visto che comprende 106 comunità, 90 villaggi di coloni e 16 popoli autoctoni. In esso ci sono la parrocchia San Francisco d’Asis formata nel 2019, il centro di missione Assunzione, il centro di missione San José, la parrocchia Nuestra Señora de las Mercedes. Per la vastità del territorio in futuro sono previste quattro parrocchie».
Dúver ascolta attentamente, anche perché la guerriglia vuole sapere tutto ciò che succede nell’area in cui essa opera. «Come missionari della Consolata – continuo -, siamo presenti in questa regione dal 1951 e a Solano in modo permanente dal 1959, mentre la parrocchia è stata istituita nel 1969. La nostra presenza ha come sua prima finalità l’annuncio di Gesù Cristo, ma abbiamo sempre tenuto presente l’educazione scolastica, e oggi proseguiamo il lavoro appoggiando e proponendo alcuni progetti sociali».
Gli spiego la nostra filosofia: «L’annuncio del Vangelo non è scollegato dall’aspetto sociale: evangelizzazione e promozione umana, che come missionari della Consolata, le abbiamo nel sangue».
Dúver mi interrompe dicendo: «Il Vaticano ha molti soldi!». Gli rispondo: «Non so quanti soldi abbia il Vaticano. Io so solo che il nostro Vicariato e il nostro vescovo di soldi non ne hanno. Viviamo alla giornata, di quello che si riceve dalle offerte delle persone semplici del nostro popolo caqueteño e da aiuti di alcuni benefattori sia colombiani che di altri paesi».
Insiste che gli parli del progetto, però di nuovo chiedo che mi dica a quale progetto si riferisce. Alla fine, gli suggerisco: «Il progetto cambio climatico?». Annuisce. «Il nome completo è “Miglioramento sostenibile della situazione socio-economica e ambientale della popolazione amazzonica nelle regioni del Caquetá e Putumayo”. È appoggiato dalla Cooperazione tedesca e dalla Caritas tedesca, ed è coordinato dalla Pastorale sociale colombiana».
«Sosteniamo 60 famiglie della zona, con supporto tecnico nell’area agroforestale e con un adeguato allevamento del bestiame nei pascoli. Ne deriva quindi un lavoro anche di formazione al lavoro comunitario e impegno politico».
A Dúver però queste informazioni non bastano: vuole sapere l’ammontare in denaro degli aiuti economici che arrivano. Minaccia che, se non gli darò l’informazione, parlerà con il vescovo.
Per evitare di esporre mons. Joaquin gli dico che «più o meno il progetto ha una base di appoggio di 200 milioni di pesos colombiani (50mila euro, ndr) all’anno per un periodo di tre anni». Dúver commenta: «Pensavo molto di più!».
Dall’età di 12 anni nella guerriglia
Dopo aver raggiunto il suo obiettivo, la conversazione si apre a vari argomenti. Gli chiedo: «Da quanto tempo si trova nelle Farc?». «Da quando avevo 12 anni. Sono originario del Caguán. Ho vissuto nella regione del Meta. Ora vivo in questo territorio, in una zona tra il fiume Caquetá e il fiume Caguán».
Domando: «Quando finirà questa guerra che dura da più di 60 anni?». «Quando – risponde – il popolo aprirà gli occhi e avrà in mano il potere». «Ma come pensate di arrivare al potere?», insisto io. «L’unica soluzione sono le armi. È il linguaggio più chiaro per farsi capire, sentire, e rispettare anche se noi tuteliamo la giustizia a favore della comunità».
«Le racconto, padre, che, poco tempo fa, un grande proprietario terriero ha venduto una grandissima finca (fattoria). Noi gli abbiamo chiesto una percentuale ma lui ci ha negato il denaro. Lo abbiamo processato davanti al popolo ed abbiamo lasciato decidere alla stessa comunità che lo ha graziato». E continua: «Padre, ha visto quanti líderes delle comunità sono stati assassinati perché hanno aperto gli occhi al popolo?»
Allora gli chiedo: «Dúver dov’era quando si sono fatti gli accordi di pace?». «Nel “monte”, in foresta a continuare la guerra. Non possiamo lasciare scoperti spazi che altri potrebbero occupare».
«Che altri gruppi ci sono oltre le Farc nella zona?», domando. «Il gruppo narcotrafficante messicano di Sinaloa: il loro territorio è un po’ più giù verso Curillo. Ma sono interessati solo ai soldi. Noi paghiamo 2.300 pesos (circa 0,55 euro, ndr) al grammo la pasta di coca, mentre loro la pagano molto meno. Se il contadino non si adegua alle regole da loro imposte, viene ucciso senza chiedere il parere alla comunità».
Dopo quasi due ore di chiacchierata, ci salutiamo. Mi accorgo che, dietro a me, ci sono altre persone in attesa di parlare con il dissidente delle Farc. Li saluto. Poi, con Rito salgo sulla barca e ci dirigiamo dal porto verso il paesino per salutare la gente. Con tutte le precauzioni possibili.
Angelo Casadei
L’UCCISIONE
Il 24 novembre 2020 le autorità colombiane hanno annunciato la morte di Marco Tulio Salcedo Pinilla alias Dúver, responsabile («cabecilla») delle finanze di un gruppo dissidente delle Farc (ufficialmente, «Grupo armado organizado residual», Gao-r), struttura Míller Perdomo, operante nei dipartimenti di Caquetá, Putumayo e Meta.
L’operazione è stata effettuata dalla Sesta divisione dell’esercito nazionale nella vereda Mononguete, nel municipio di Solano, Caquetá.
Sulla testa di Dúver vigeva una taglia di 150 milioni di pesos (circa 35mila euro) per la sua cattura o morte.
Secondo le autorità competenti, la struttura criminale era incaricata di raccogliere denaro tramite estorsioni e sequestri, traffico di droga, reclutamento forzoso, soprattutto di minori, attacchi a strutture militari.
Pa.Mo.
Il reclutamento forzato
Storia di Isabel, guerrigliera per forza
Reclutata, arrestata, condannata, liberata e ancora reclutata. In questo cammino disperante, Isabel ha trovato l’aiuto della Chiesa. Eppure, oggi è scomparsa di nuovo, persa nel gorgo di un conflitto infinito.
Solano (Caquetá). Siamo in piena novena della festa patronale Nuestra Señora de la Mercedes (Nostra Signora della Misericordia), che ricorre il 24 di settembre. Lunedì 21 settembre arriva in canonica una donna (la chiamerò Isabel) con un bambino di quattro anni, mezz’ora prima dell’eucaristia delle 18,00. «Padre, provengo dal villaggio Yurilla che è lungo il fiume Mecaya – mi dice -. La prego, deve aiutarmi a mettermi in contatto con i militari della Forza aerea».
«Nella finca (fattoria) dove vivo, ci sono 24 ragazzini dai 12 ai 14 anni che le Farc-Ep stanno addestrando alla guerra. Quattro di loro sono gravemente feriti. Vi è stato un violento scontro con il gruppo Sinaloa (potente cartello di narcotrafficanti messicani, ndr) lungo il fiume Putumayo un po’ più in giù della nostra finca».
«Uno dei ragazzi mi ha chiesto di cercare un sacerdote e chiedergli aiuto. Sono qui a Solano perché ho dei seri problemi ginecologici e il medico, dopo la visita, mi ha indirizzata a Florencia per degli accertamenti più approfonditi, ma non posso andarci finché non avrò l’autorizzazione del comandante Danilo. Vivo qui nel Mecaya dall’inizio dell’anno con mia sorella. Lei è la moglie di un comandante delle Farc».
«Un giorno è venuto Danilo e mi ha imposto di essere parte del movimento. Avevo due possibilità: o m’inserivo come guerrigliera militare o collaboravo come guerrigliera “civile”. Vedendomi costretta, ho deciso per questa seconda scelta».
«Mi ha proposto di andare con lui in un loro centro per fare da cuoca a sessanta persone promettendomi che mi avrebbe dato 750mila pesos il mese (circa 170 euro, ndr), e la possibilità di poter uscire dalla finca ogni due mesi».
«Non ho ancora visto un soldo e sono quattro mesi che sono chiusa in quel posto».
«Prima di trasferirmi nel Mecaya sono stata quattordici anni in prigione. Ero stata condannata a trentacinque anni ma, per buona condotta e per i vari corsi a cui ho partecipato, mi hanno condonato gli anni rimanenti».
«Padre, io voglio salvare questi ragazzini: me
l’hanno chiesto e, come le ripeto, quattro sono feriti gravemente e hanno bisogno di cure immediate. Per favore mi metta in contatto con il colonnello della base aerea, e anche con il vescovo. Con lei e con loro, attorno a questo tavolo, posso indicare il luogo preciso dove si trova la finca di addestramento delle Farc. Devo parlare velocemente con la Forza aerea perché intervenga immediatamente, domani potrebbe essere troppo tardi! Nella Farc ho fatto parte dell’équipe di strategia militare, quindi sono in grado di dare le coordinate dove si trovano i ragazzi. Mi aiuti, padre».
«Isabel – le rispondo -, mi lasci pensare questa notte per vedere cosa fare, e domani ci sentiremo». Mi dà il suo numero di cellulare, anche se mi dice che è senza caricabatterie.
Contatto con il «personero»
Non dormo tutta notte con il pensiero di quei ragazzini. Devo e dobbiamo fare qualcosa. Ne parlo con il vescovo Joaquin che mi suggerisce di mettere Isabel in contatto con il «personero» (figura giudiziale dello stato presso la quale chiunque, anonimamente, può fare ricorso per eventuali denunce soprattutto quando sono violati i diritti umani, ndr).
Alle otto contatto la segretaria che mi dà il suo numero. Gli telefono subito e mi dice che sarà libero alle nove. Chiamo Isabel che viene nell’ufficio della parrocchia per continuare il dialogo.
La aggiorno dicendole che ho parlato con il vescovo e che la cosa migliore è metterla in contatto con il personero. Isabel insiste però che vuole parlare con un colonnello della Forza aerea per intervenire immediatamente.
Ha anche delle esigenze pratiche: «Padre, mi può prestare il caricabatterie. Inoltre, sono rimasta senza soldi. Mia sorella mi ha dato 50mila pesos (11 euro, ndr), ma li ho spesi per l’alloggio e la cena per me e il mio bambino. Questa mattina, quando sono uscita dalla casa dove abbiamo dormito, la signora che gestisce il posto aveva una colazione prenotata per una persona che poi non è arrivata. Quando ha visto che il bambino piangeva perché aveva fame, ce l’ha regalata».
Testa bassa e manette ai polsi
Isabel ripercorre gli anni della sua esistenza. «Quando avevo 8 anni, i miei genitori sono stati uccisi a San Vicente del Caguán. Allora il vescovo Luis Augusto Castro mi ha accolta alla Finca del niño (Fattoria del bambino) con mia sorella e mio fratello, e lì sono rimasta quattro anni».
«Terminate le scuole elementari nella Finca del niño, sono tornata a casa dalla nonna. Avevo soltanto 12 anni, ma su di me, allora non lo sapevo, erano puntati gli occhi della Farc che mi ha preso e mi ha introdotta nelle loro fila, per addestrarmi a combattere».
È un’esistenza difficile quella di Isabel. «Mi hanno fatto abortire molte volte, perché i bambini sono un “peso” e un pericolo per i guerriglieri. Noi viviamo nella foresta, ci nascondiamo, combattiamo. Ed è proprio a causa di questi aborti che ora ho questi seri problemi di salute. Ho avuto però un figlio da un compagno guerrigliero, il quale è morto in uno scontro a fuoco e in quel contesto l’esercito mi ha fatto prigioniera. Le dicevo, padre, che sono stata condannata a 35 anni, ma per buona condotta ne ho scontati soltanto 14».
Mi accorgo che Isabel si sta commuovendo mentre continua a raccontare: «Mi trovo in carcere. Ho la testa bassa e le manette ai polsi. So che si stanno svolgendo i colloqui per trovare un accordo di pace. Il vescovo Luis Castro visita i carcerati. Appena lo vedo lo riconosco. Lo vorrei abbracciare, come feci da bambina quando mi uccisero i genitori, ma non posso farlo perché sono custodita da due guardie e devo rimanere seduta. Allora lo saluto alzando le mani e le muovo come se fossero ali di una farfalla, perché, padre Angelo, facevo questo gesto quando il vescovo veniva a trovare me e tutti gli altri bambini alla Finca del niño. Il vescovo mi guarda, mi riconosce, mi chiama per nome. E io piango».
Durante i lunghi dialoghi per trovare un accordo di pace tra la Farc e lo stato colombiano, mons. Luis Castro è il rappresentante della Conferenza episcopale colombiana. Da quel momento tra Isabel e mons. Castro si ristabilisce il contatto e il vescovo la aiuterà per buona parte della sua lunga detenzione. Isabel è molto riconoscente di quel provvidenziale appoggio.
Dubbi (tra fedeltà e tradimento)
Dopo aver ascoltato il suo drammatico racconto, le offro del denaro per comprare vestiti al bambino, per pagare la camera e il cibo. Si convince anche a chiamare il personero.
Chiamo la segretaria che si mette in contatto con lui. Così, finalmente, tutti e tre ci sediamo attorno al tavolo del suo ufficio.
Il personero, Carlo Mario, dice subito che lui è un tramite. Non può coinvolgersi direttamente vivendo in un territorio ad alto rischio. Può «aprire porte» e offrire contatti e propone autorità a livello nazionale come il procuratore. Tuttavia, Isabel insiste che ci deve essere un intervento immediato dell’esercito.
Carlo Mario allora fa un esempio chiarificatore: «Se tu – spiega – dai un pezzo di carne a un cane affamato, lui lo addenta e se lo divora immediatamente senza tenere in conto chi sta attorno e le eventuali conseguenze. In questo territorio, in questo momento, le forze dell’esercito cercano dei risultati. Se vi è un obiettivo preciso e chiaro, loro arrivano con un potente spiegamento di uomini, senza tener conto di chi si trova nel luogo: civili bambini, donne… Così possono andarci di mezzo le stesse persone che la guerriglia obbliga con la forza di stare dalla loro parte. Oppure può accadere che la stessa guerriglia le elimini per non lasciare testimoni».
Isabel mi chiede dei fogli e incomincia a disegnare la posizione della finca, dove si trovano i ragazzi e le postazioni della guerriglia attorno e nel resto del Putumayo e Caquetá.
Carlo Mario allora si mette in contatto con la base aerea di Tres Esquina e parla direttamente con il colonnello, che non può venire, ma invierà il vice che nel pomeriggio arriverà a Solano. Il luogo dell’incontro con l’intelligence della Forza aerea sarà nel salone della catechesi.
A questo punto Isabel mi prende la mano e me la stringe forte. Sente che, in qualche modo, sta tradendo il movimento guerrigliero dopo tanti anni di fedeltà e mi dice: «Lo faccio per i ragazzi che sono stati strappati alle loro famiglie e arruolati contro la loro volontà, per la durezza del comandante Danilo verso loro e verso me».
«Un giorno mi ha colpito violentemente con il calcio della pistola sul viso facendomi cadere per terra e per questo sono svenuta. Mio figlio di quattro anni si è messo in piedi, davanti al comandante, e con autorità l’ha minacciato e gli ha detto di smettere di picchiare la sua mamma».
Sicuramente il tempo trascorso fuori dalle file della guerriglia, quando era in carcere, i corsi di studio e il contatto con altre persone hanno fatto pensare Isabel.
È forte il desiderio di non collaborare più con il movimento guerrigliero. Non può scappare perché il figlio di sedici anni è sequestrato. L’ha dovuto lasciare nella fattoria come garanzia che sarebbe ritornata.
Le chiedo: perché, dopo il carcere, sei tornata in questo territorio? «La mia famiglia è qui, dove potevo andare? Sono uscita di prigione che non avevo assolutamente niente. Sono venuta da mia sorella che vive come guerrigliera civile in un paesino del fiume Mecaya con un guerrigliero che, ogni tanto, la viene a trovare».
I colloqui, il ritorno, la scomparsa
In attesa dei militari andiamo a pranzo. Nel pomeriggio Isabel mi vuole mostrare quello che ha comprato per il figlio e mi ringrazia.
All’ora stabilita inizia l’incontro con i due militari della base aerea. A un certo punto, uno esce per confermarmi che il dialogo è iniziato, ma Isabel non ha voluto dare il suo numero di telefono. Mi domanda se posso fare da intermediario con il mio cellulare, e naturalmente accetto. La conversazione dura sino alle sei del pomeriggio.
Alla fine, i militari mi dicono che vi sarà un nuovo incontro però ancora non sanno quando.
Il giorno dopo, mercoledì, mi chiamano e mi dicono che ci troveremo quello stesso giorno o il successivo ma che, in ogni caso, devo attendere una conferma.
Nel pomeriggio Isabel viene in parrocchia mentre mi trovo in un incontro. Vado a parlarle. È preoccupata perché ancora non la chiamano, e insiste a chiedermi di vedere il vescovo. Tramite il mio cellulare la metto in contatto con i militari. Nel frattempo parlo con il vescovo, che la incontra poco dopo. Isabel gli chiede una benedizione e gli affida i suoi due figli se dovesse succederle qualcosa.
Ha piena fiducia nella Chiesa perché, nella sua vita, è stata aiutata con mons. Castro. Una storia che sembra ripetersi.
Giovedì mi richiamano i militari perché contatti la muchacha per continuare il dialogo. L’appuntamento è per le nove del mattino. Isabel non mi risponde. Nel frattempo arriva il vice colonnello. Isabel chiama. Arriva dopo qualche minuto. La conversazione si protrae sino alle cinque del pomeriggio. In seguito i militari mi chiamano e mi dicono che si è creata una certa fiducia e, quindi, continueranno il contatto.
Venerdì mattina presto Isabel mi chiama e mi avvisa che cercherà di viaggiare in giornata per rientrare alla finca dove ancora si trova il figlio più grande. È lui la ragione per la quale lei fa ritorno in foresta.
Durante il suo viaggio, Isabel mi invia vari messaggi Whatsapp. Dopo quel giorno, non ho più saputo nulla.
Lettera dei Vescovi del Kenya a tutta la popolazione
12 novembre 2020
“Quanto è bello e delizioso vivere insieme come fratelli e sorelle” (Ps. 133:1)
Preambolo
Noi della Conferenza episcopale del Kenya, riuniti per l’Assemblea plenaria del novembre 2020 presso il Villaggio di Subukia del Santuario di Maria, abbiamo avuto il tempo di riflettere e discutere dello stato della nostra nazione.
In primo luogo, riconosciamo le molte grazie e la protezione che Dio ci ha dato dopo l’annuncio della mortale pandemia di Covid-19. Notiamo con grande preoccupazione l’aumento del numero di persone infettate dal coronavirus, e le molte vite che stiamo perdendo ogni giorno. Inviamo le nostre condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari per questa pandemia e vi assicuriamo le nostre continue preghiere. Per coloro che sono malati, vi assicuriamo le nostre preghiere per la guarigione.
Siamo molto preoccupati per gli oneri finanziari che ci troviamo di fronte a tutti noi, specialmente per i poveri che non possono permettersi le spese mediche per i malati, e le spese funebri per coloro che sono morti. Ci appelliamo alla generosità dei nostri cari kenioti per raggiungere i bisognosi e contribuire ad alleviare il peso finanziario e psicologico che stanno portando. Dovremmo essere guidati dalla nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo.
Ci appelliamo anche agli ospedali, in particolare a quelli privati, a non sovraccaricare coloro che vengono per cure mediche.
Incoraggiamo il governo a considerare modi più creativi per contenere la diffusione del virus oltre ai protocolli universali raccomandati, tra cui l’uso di maschere, la distanza sociale, il lavaggio delle mani e la sanificazione. Ognuno ha la responsabilità personale di garantire un ambiente sicuro per le persone con cui viviamo, lavoriamo e interagiamo nella nostra vita quotidiana.
Vogliamo ricordare ai leader religiosi e ai fedeli dei protocolli sviluppati dal Consiglio inter religioso (Interfaith Council) che dobbiamo continuare ad essere più vigili e conformi per garantire la sicurezza dei nostri fedeli.
Osservazioni sulla relazione BBI
Cari kenioti, il 26 ottobre 2020 ci è stato presentato il rapporto BBI (Buinding Bridges Initiative), che è stato il prodotto di un lungo processo di stretta di mano.
Come Conferenza episcopale del Kenya, abbiamo accolto con favore la BBI come un’opportunità per tutti i kenioti di impegnarsi in modo costruttivo nel discutere di quelle questioni che riguardano il nostro paese e hanno causato conflitti e divisioni perenni.
La nostra speranza era che la relazione BBI affrontava le quattro principali preoccupazioni che abbiamo sollevato nella plenaria del 20 novembre a Nakuru, vale a dire:
Riconciliazione e guarigione nazionale;
Ripristino dei valori, governance democratica e istituzioni di governo, c) Recupero e ricostruzione dell’economia e dei servizi.
La mancanza di riforme strutturate e redentrici, come è stato sottolineato nei 4 punti dell’Agenda del Dialogo nazionale e processo di riconciliazione del Kenya guidato da Kofi Annan nel 2008.
Come Vescovi, abbiamo seguito con grande processo dal suo inizio fino a questo momento. Come risultato di questo processo, e leggendo la relazione che è stata lanciata al Bomas del Kenya il 26 ottobre 2020, vogliamo fare le nostre osservazioni.
l. Esecutivo ampliato
Guardando alla proposta sull’esecutivo è molto chiaro che il documento BBI dà il potere al presidente di nominare un primo ministro e due vice primo ministro. L’esecutivo ampliato avrebbe dovuto riflettere il volto del Kenya e domare la struttura “winner-takes -it -all” (il vincitore prende tutto). Ma dare al Presidente il potere di nominare il Primo Ministro e i due vice rischia di consolidare più potere intorno al presidente creando così un Presidenza imperiale. Questo emendamento potrebbe creare lo stesso problema che si è proposto di risolvere.
È molto importante attenersi al principio della separazione dei poteri, perché è la spina dorsale della democrazia.
2. Un Parlamento gonfio
L’espansione del Senato a 94 membri e dell’Assemblea nazionale a 363 sarà un enorme onere per i contribuenti di questo paese che già sono oberati da un enorme peso per pagare il salario al numero attuale di legislatori. Non vi è alcun motivo per cui dovremmo avere un numero così elevato di legislatori. Non vogliamo più governo, ma un governo migliore.
3. IEBC politicizzato
La proposta di far nominare membri di partiti politici alla IEBC (Independent Electoral and Boundaries Commission) è pericolosa, poiché politicizzerà l’IEBC compromettendo così la sua indipendenza. Questa proposta trasformerà l’IEBC in un abito politico con interessi di parte. Sorgerà il problema di quanto saranno eque le elezioni.
4. Formazione del Consiglio di Polizia del Kenya
La proposta di formazione di un Consiglio di polizia del Kenya guidato dal Segretario di Gabinetto degli Interni con altri quattro membri, per sostituire l’IPOA (Independent Policing Oversight Authority) è una mossa che probabilmente renderà il Kenya uno stato di polizia e comprometterà l’indipendenza della polizia dall’esecutivo.
Lettura e discernimento della relazione BBI
Noi, vostri Pastori, vogliamo incoraggiare la lettura e la discussione della relazione. È necessario che i keniani abbiano la possibilità di interagire con esso, discuterne in altri ambiti e dare le loro opinioni. La relazione offre ai keniani l’opportunità di riflettere su come possano costruire una solida nazione democratica, giusta, pacifica e inclusiva di tutti. Dà loro la possibilità di vedere come possono far funzionare le istituzioni ed essere al servizio di ogni cittadino, indipendentemente dalla tribù, dall’appartenenza politica o dallo status sociale. È un’occasione per riflettere apertamente e candidamente sulle misure concrete per combattere l’impunità, la corruzione e la politica dell’esclusione.
Dovremmo quindi prestare attenzione quando si discute e si sottolinea come il documento potrebbe essere migliorato, evitando il rischio di assumere posizioni dure e fare richieste settarie, e porre ultimatum che distruggono il significato e lo spirito stesso della BBI.
Per sua stessa natura la relazione è il prodotto della stretta di mano nata dal dialogo e dalla consultazione. È quindi della massima importanza che questo processo si muova sulla strada del dialogo e della costruzione del consenso, piuttosto che su prese di posizione.
Da parte sua, il governo e tutti gli attori politici non devono dimenticare che lo scopo principale e l’intenzione del processo BBI era quello di mettere insieme tutti i keniani. Si tratta di unità (costruire ponti , buinding bridges initiative BBI, ndr). Tutti devono quindi abbracciare uno spirito di patriottismo, ascoltare le raccomandazioni formulate e adeguare la relazione affinché rifletta il consenso popolare.
Ascoltando ciò che molti cittadini del Kenya stanno dicendo in tutto il paese, è urgente dare loro l’opportunità di rivedere la relazione per quanto riguarda alcune delle questioni sollevate in tutto il paese, vale a dire, l’esecutivo ampliato, l’aumento della rappresentanza dell’assemblea nazionale, la ricostituzione di IEBC, la creazione del Consiglio di polizia del Kenya, la sostituzione dell’IPOA, la rappresentanza delle donne, l’indipendenza della magistratura, persone con disabilità, ecc.
Il nostro intento circa la relazione BBI è quello di incoraggiare tutti i kenioti a leggerla e comprenderne il contenuto in vista della costruzione del consenso. A questo punto, vogliamo ricordare con forza a tutti gli attori, compresi noi stessi come vescovi, che questo processo ha gravi implicazioni per il futuro di questo paese. Le raccomandazioni costituzionali, amministrative e politiche contenute nel documento dovrebbero essere viste alla luce del discernimento. Esortiamo tutti coloro che sono coinvolti in questo processo ad aiutare i kenioti a comprendere in modo semplice il contenuto della relazione, evidenziando chiaramente proposte specifiche e le loro implicazioni. I nostri esperti di diritto sono incoraggiati tradurre la relazione in termini semplici per permettere a tutti di capire.
Il governo dovrebbe facilitare un solido processo di educazione civica per aiutare tutti i kenioti ad apprezzare la relazione al fine di prendere decisioni informate al riguardo.
Cari kenioti, soprattutto i nostri leader politici, non si tratta di competizione politica, non si tratta di pro o contro, SI o NO, non si tratta del 2022. Dovrebbe trattarsi del KENYA, di quale strada vogliamo prendere come kenioti, non solo per noi stessi, ma per i posteri. Si tratta di consenso.
È nostra raccomandazione, in quanto Vescovi cattolici in Kenya, che qualsiasi emendamento per migliorare la relazione sia ancora ascoltato e incluso, ove necessario. Ciò significa che la relazione è ancora un progetto in corso, non ancora inciso nella pietra; e quindi, ogni voce dovrebbe essere ospitata.
Dibattito sul Referendum
Noi Vescovi cattolici, dopo aver esaminato la relazione BBI, vediamo che affronta le questioni a tre livelli, vale a dire proposte legislative e politiche, amministrative e istituzionali, e proposte costituzionali. Inoltre, ci sono quelle proposte costituzionali che richiedono un referendum e altre che non lo richiedono.
Mentre c’è una richiesta di referendum, che ha generato opinioni pro e contro, noi vogliamo porci le seguenti domande:
Sulla scia degli effetti persistenti della pandemia di Covid-19 che ha colpito le famiglie in tutto il paese, è questo il momento di sottomettere i kenioti ad un’accresciuta attività politica per intraprendere riforme costituzionali fondamentali?
Colpito dalla pandemia Covid-19, con l’economia colpita, il paese ha i fondi necessari per effettuare un referendum prima del 2022, 18 mesi prima delle elezioni generalli, un processo che richiede altro denaro? Può il paese permettersi di spendere le sue risorse molto limitate in un referendum quando c’è una lotta nei settori dell’istruzione e della sanità per fornire un sostegno urgentemente necessario a causa degli effetti della pandemia di Covid-19?
Di conseguenza, riteniamo che le proposte legislative o che richiedono modifiche politiche o istituzionali e amministrative debbano essere trattate attraverso gli appropriati organi e istituzioni di governo già esistenti. Le proposte che richiedono modifiche costituzionali da approvare con un referendum dovrebbero essere separate e gestite come un unico gruppo da approvare dai kenioti con un voto. Questo per evitare il rifiuto di buone idee che sono già state generate nella relazione BBI. Questo è il motivo per cui continuiamo a sottolineare l’importanza di costruire consenso piuttosto che lo schieramento.
Ethos nazionale: formazione della Coscienza
Siamo soddisfatti dell’enfasi posta sull’etica nazionale. Due sono i principali problemi come paese che abbiamo più e più volte evidenziato, questi sono:
Agire senza ascoltare la nostra coscienza, e
La corruzione rampante che ha permeato ogni settore della società.
La relazione BBI sottolinea questioni che toccano il nostro ruolo di leader religiosi.
Siamo preoccupati che come nazione stiamo perdendo la nostra coscienza collettiva. In Kenya negli ultimi venticinque anni e soprattutto dopo la nuova Costituzione del 2010, l’enfasi è stato sui diritti del popolo. Purtroppo, questo ha talvolta oscurato la coscienza della nazione, oscurando ciò che è giusto in coscienza, a vantaggio del solo diritto di agire. Mentre questa libertà umana intrinseca deve essere difesa, deve essere compresa nel contesto di ciò che è vero e ciò che è giusto. Queste richieste di diritti hanno talvolta offuscato le corrispondenti responsabilità personali e comuni. Lo sfruttamento dei bambini, la tratta di esseri umani, la violazione delle donne e degli uomini, la soluzione delle controversie con al violenza anche tra le coppie in cui il dialogo è sempre più in diminuzione, i litigi tra i leader, dimostrano tutti che un diritto ingannevole ha rimpiazzato la responsabilità di prendere decicioni morali e spirituali, e ha messo a tacere la coscienza.
Per questo, nella nostra lettera pastorale pubblicata lo scorso anno, abbiamo sottolineato la centralità della coscienza individuale per il rinnovamento e la riconciliazione della nostra Nazione.
Tuttavia, quando la coscienza è deformata o disinformata, e quando malizia o vizi guidano la persona, si finisce per scegliere il male rispetto al bene. Quando non ascoltiamo la nostra coscienza, ci immergiamo facilmente nel peccato e nella condotta malvagia, senza preoccuparci delle conseguenze delle nostre azioni sulla nostra vita e del nostro rapporto con Dio. La coscienza può essere deformata da cattive abitudini e vizi. In particolare tutte le azioni di avidità in tutte le sue forme e in gli altri vizi capitali, il fatalismo e le tendenze suicide indicano tutte una coscienza deformata, fuorviata o disinformata. Il conflitto, la corruzione e l’avidità che vediamo in tutto il paese, nelle famiglie, nelle scuole, nelle comunità e negli affari pubblici nascono dall’ignorare e dal rifiutare la guida della coscienza nel prendere decisioni.
La nostra cultura come africani, kenioti
La relazione BBI mette in risalto il valore della coscienza nel capitolo sull’ethos nazionale. È difficile realizzare le nostre aspirazioni nazionali se non sono ancorate a un’etica fondata. Non siamo un popolo senza cultura, una cultura che ha valori e sistemi per garantirne il successo. Siamo africani, e kenioti in particolare, che vogliono continuare a migliorare la propria vita attraverso sistemi di governo migliori. Ma, questo processo, non dovrebbe in alcun modo allontanarci dalla nostra ricca cultura dell’essere umani, di essere religiosi ed essere persone che apprezzano gli altri, compresi i rifugiati provenienti da vicino e da lontano. La nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo non deve essere inghiottita da una cultura materialistica. L’accumulo di ricchezza deve essere all’interno della nostra cultura di possedere solo ciò per cui hai veramente lavorato. I nostri bisnonni, le bisnonne erano conosciute per la loro generosità soprattutto agli sconosciuti. Ognuno in una famiglia aveva la sua giusta parte.
Riconosciamo quindi le proposte di questa sezione secondo cui gli anziani, i leader religiosi e le istituzioni di apprendimento hanno un ruolo fondamentale nel formare la coscienza, non solo dei bambini, ma anche degli adulti. Nessuna delle proposte avanzate nella relazione o nella Costituzione sarà realizzata se continueremo ad agire in modo da ignorare la nostra coscienza individuale e collettiva. Una coscienza formata si fonda sull’ethos in modo che siamo in grado di ascoltare Dio e noi stessi in ogni momento della nostra vita, sia giovani e che vecchi. Non dobbiamo quindi ingannare noi stessi credendo che bastino i documenti legali da soli a proteggerci dalla caduta in peccato. La migliore legge e la legge di Dio sono iscritte nella nostra coscienza. Come persone che credono Dio abbiamo l’obbligo di fare ciò che è giusto in ogni momento.
Siamo determianti aa intensificare i nostri sforzi per formare una società che abbia coscienza in linea con la relazione BBI. Accogliamo con favore e incoraggiamo la promozione dell’ethos sia nelle nostre istituzioni di apprendimento di base che in quello terziario. Ci impegniamo a sostenere tutte le parti interessate nella formazione dell’ethos nazionale, per il bene di tutti i kenioti.
Conclusione
Cari kenioti, come vostri Pastori, ci appelliamo a ciascuno e a ciascuno di voi a cercare il bene più grande della nostra nazione, a cercare l’unità e a lavorare per la vera riconciliazione. Chiediamo a tutti noi leader, e in particolare ai leader politici, di vedere un quadro più ampio di una nazione unita, resiliente e riconciliata, dove tutti noi siamo custodi dei nostri fratelli e sorelle. Questo è il momento di evitare la politica divisiva, di cercare le vie del dialogo e di condividere i nostri valori.
Rivolgendoci a voi, cari kenioti e a tutte le persone di buona volontà, da questo santuario mariano dove ci riuniamo ogni anno per pregare per la nostra nazione, invocando l’intercessione materna della Madre di Dio, chiediamo unità, amore e riconciliazione e la guarigione da tutti i mali e soprattutto dalla pandemia Covid-19.
Possa la Pace di Cristo rimanere con voi tutti. Dio vi benedica tutti! Dio benedica il Kenya!
Mons Philip Anyolo presidente della Conferenza episcopale del Kenya
Arcivescovo Kisumu e Amministratore Apostolico di Homa Bay
Data: giovedì 12 Novembre 2020
(seguono le firme di tutti gli altri vescovi) [nostra traduzione dall’originale inglese]
Il popolo di Cabo Delgado vuole la Pace
Testo di padre Edegard Silva Junior a nome della diocesi di Capo Delgado, Mozambico |
La provincia di Cabo Delgado, nell’estremo nord-est del Mozambico, ha come capitale Pemba, situata a circa 2.600 km a nord di Maputo. La Provincia ha una superficie di 82.626 km2 e una popolazione di 2,3 milioni di abitanti. È divisa in 17 distretti e cinque comuni. È in questa regione, una delle più povere del paese, che dall’ottobre 2017 è in corso una guerra che ha lasciato più di 1.500 morti e migliaia di sfollati.
Contestualizzare la guerra
Il primo attacco da parte di gruppi armati, precedentemente sconosciuti nella provincia di Cabo Delgado, ha avuto luogo il 5 ottobre 2017, nella città di Mocàmboa da Praia. Nel novembre dello stesso anno, alcune moschee sono state chiuse perché, inizialmente, si sospettava che gli attacchi fossero stati pianificati in loro. Tuttavia, le motivazioni di questa guerra e i suoi rappresentanti non sono mai stati sufficientemente presentati. A causa della realtà in cui viviamo, presupponiamo le ragioni, ma si rende necessaria una spiegazione da parte dello Stato. Dopo quel primo attacco, la situazione sembra aver perso “controllo”.
La regione colpita da una violenta aggressione comprende nove comuni o distretti: Palma, Mocàmboa da Praia, Nangade, Mueda, Muidumbe, Macomia, Meluco, Quissanga e Ibo Island. Circa 600.000 persone vivono in questa zona. Sono piccoli semplici agricoltori, artigiani, per lo più senza alcun coinvolgimento ideologico o senza alcun conflitto religioso. Tutti questi luoghi hanno sofferto e continuano a soffrire di attacchi da parte di insorti o terroristi. È necessario chiarire che non si tratta di una guerra tribale o di gruppi etnici.
Il Vescovo della Diocesi di Pemba, Dom Luiz Fernando Lisboa, C.P., ha assicurato la presenza di missionari in tutte le comunità di questa regione. Attualmente, la Diocesi ha mantenuto sacerdoti e religiosi in tutti questi distretti. Questi missionari hanno seguito da vicino la situazione della guerra e il dramma vissuto dalle comunità.
Gli attacchi o le azioni terroristiche sono aumentati gradualmente. Le strategie sono cambiate nel tempo. Inizialmente, usavano armi più leggere e attaccavano in piccoli gruppi. Quando gli insorti arrivano nei villaggi, in realtà attaccano persone innocenti e indifese. Le vittime sono i poveri che vivono molto semplicemente, in case di fango, coperte di paglia. Abbiamo una strategia: quando arrivano, se c’è tempo, qualcuno della comunità fa suonare la campana per segnalare il pericolo alla popolazione (ma non sempre questa tattica è efficace e di successo). A quel punto, ogni famiglia sa già dove correre, sempre dirigendosi verso la boscaglia. Loro bruciano le case e tutto quello che c’è dentro. È anche successo che alcune persone sono state bruciate vive o addirittura decapitate. All’inizio degli attacchi, questo è stato fatto usando soprattutto il machete (strumento molto comune nelle attività rurali).
Da queste parti, tutti i villaggi sono interconnessi con membri della famiglia e conoscenti presenti nei vari distretti. Anche con poche risorse, la comunicazione avviene rapidamente. In questo modo, quando si verifica un attacco, la notizia si diffonde in ogni villaggio. Questo fa vivere l’intera popolazione nella paura, incidendo fortemente sulle loro abitudini quotidiane. Ad esempio, l’orario delle celebrazioni nelle chiese e quello delle scuole sono cambiati. Le persone si chiudono in casa presto, e spesso hanno anche paura di andare a lavorare da soli in giardino o nei campi. Lo scenario è spaventoso: tutti vivono nel terrore, sempre in attesa di dove e come sarà il prossimo attacco.
Come ogni guerra, le tattiche degli attacchi sono cambiate. Dall’attacco ai villaggi, sono passati ad attaccare auto, pullmini e autobus sulle strade. Se prima la nostra paura era limitata solo a rimanere nei villaggi, ora questa paura si estende al viaggiare, data la necessità di prendere trasporti per muoverci. Diversi attacchi sono stati segnalati con molti morti e con auto bruciate.
Abbiamo realizzato, valutando le tattiche e rapporti, che il gruppo degli insorti sta aumentando. Abbiamo sentito parlare di reclutamento giovani attraverso l’offerta di denaro. In una realtà di disoccupazione e abbandono, molti tendevano ad accettare questa proposta.
Sottolineiamo che finora non abbiamo informazioni chiare su chi è responsabile, né che ci sia un’azione chiara del governo per controllare le azioni terroristiche. Di conseguenza, ci rendiamo conto che, da un «piccolo esercito» armato di machete stiamo passando ad un terrorismo armato di armi pesanti e moderne. Basti dire che in uno degli attacchi al distretto di Mocàmboa da Praia, i terroristi sono entrati via terra e via mare armati con un forte arsenale di guerra, e lo stesso è accaduto nel distretto di Quinga.
Gli attacchi aumentarono e circolarono informazioni che l’interesse del gruppo sia quello di attaccare gli uffici distrettuali, in particolare gli edifici pubblici. Così, ogni giorno c’era una successiva ondata di attacchi contro “edifici ufficiali”. Molte cose sono state distrutte e bruciate: tribunali, scuole, ospedali, banche, case, uffici, sedi amministrative. Purtroppo, la gente è stata lasciata nella boscaglia senza acqua né cibo. In tutti i distretti, il commercio è stato compromesso in quanto la strategia degli insorti è quella di bruciare ogni piccolo negozio. Alla fine del 2019 e nella prima metà del 2020, alcuni chiese cattoliche sono state violate e bruciate.
Tuttavia vogliamo far notare che pastoralmente la diocesi di Pemba è presente nella regione settentrionale con un team di 35 missionari:missionariesacerdoti mozambicani e missionari e provenienti da dieci paesi diversi. Queste presenze garantiscono l’assistenza religiosa e sociale in queste località. Nei nostri incontri con gli operatori pastorali o attraverso i social network ci chiediamo sempre: chi sono questi malfattori? Cosa vogliono? Perché uccidono gli innocenti? Pensiamo che questa guerra abbia un “volto nascosto” (un occulto esplicito). Abbiamo iniziato a parlare delle possibili “ipotesi” che configurano questo “volto”.
C’è una chiara identificazione dei responsabili di questiconflitti?
Abbiamo qualche ipotesi per spiegare questa guerra che va avanti da quasi tre anni. Alcuni parlano in diversi scenari per capire questa situazione. D’altra parte, la popolazione si sente inquieta di fronte a una certa “indifferenza” del governo mozambiano sulla realtà degli attacchi. C’è poca copertura mediatica giornalistica. Questo è in una regione in cui il governo ha una delle sue più grandi basi politiche. Oltre a questi attacchi, la regione di Cabo Delgado ha affrontato, allo stesso tempo, altre calamità. Tra questi, il ciclone Kenneth e le forti piogge iniziate nel dicembre 2019 che hanno lasciato la regione isolata per quasi cinque mesi.
Ma quale organizzazione terroristica ha dato sostegno economico e militare a questa guerra, il cui costo è sempre molto alto? Chi ha allenato gli insorti con tattiche militari? In realtà, non abbiamo parole ufficiali in grado di rispondere a queste domande. Assumiamo che sia la presenza di gruppi che sostengono la radicalizzazione islamica, compreso il gruppo Al-Shabab.
A un certo punto, l’orientamento era quello di non formalizzare gli attacchi come derivati da motivi religioso, anche perché questa guerra, come tutte le altre, sembra essere più motivata da interessi economici che religiosi.
Nell’attacco di Quissanga, sono stati trasmessi alcuni video e, in essi, i terroristi parlano chiaramente degli obiettivi religiosi e del loro desiderio di attuare lo Stato islamico nella regione. Questi filmati sono stati registrati da discorsi e dall’innalzamento della bandiera di questo movimento. In un mondo segnato da “fake news“, dobbiamo controllare e mettere in discussione alcune immagini che ci arrivano attraverso i social network, ma comunque quelle immagini ci hanno fatto molto preoccupare.
Un altro punto è che non ci sembra molto chiaro che c’è un legame tra questa guerra e le precedenti. Se guardiamo alle “tre guerre” affrontate dal Mozambico, questa ha un volto molto specifico, perché sembra puntare più alla concentrazione di ricchezza della regione e al suo possibile controllo.
C’è qualche motivazione di un ordine religioso o economico?
Da un punto di vista religioso, gli ultimi attacchi portano alcuni elementi. Ci saranno un sacco di informazioni che non sapremo fino a dopo la guerra. Ci sarà bisogno di fare un discorso più accurato e ascoltare le persone. In questo momento è impossibile saperlo, perché molti villaggi sono abbandonati e in molti ci è proibito entrare.
Alcune morti che si sono verificate sono legate al rifiuto di aderire alla proposta religiosa dello Stato islamico. Al più presto, dovremmo chiarire l’attacco alla Comunità di Xitaxi. In questa comunità, l’8 aprile, c’è stato il massacro di 52 giovani. Si sostiene che questi giovani si siano rifiutati di accettare le proposte dei terroristi di entrare nei loro ranghi. C’è stata anche la violazione e la profanazione di diverse chiese cattoliche. Tuttavia, è necessaria molta cautela prima di affermare che gli attacchi sono mirati alla creazione dello Stato islamico in questa regione.
Un altro aspetto molto chiaro per noi: la provincia di Cabo Delgado è una delle più ricche del paese. Questa regione è ricca di gas naturale. È la provincia dove la Total ha fatto il più grande investimento in Mozambico, per la costruzione della “Città del Gas”, sulla penisola di Afungi. Le risorse petrolifere di Cabo Delgado sono sfruttate dalle multinazionali, mentre la popolazione vive in povertà, senza accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro. Così, possiamo dire che questa disuguaglianza economica può favorire i predicatori del fondamentalismo islamico, che hanno visto qui un terreno fertile per la sua espansione o anche gruppi locali che vogliono garantirsi una fetta. Si parla di un controllo della regione in considerazione della ricchezza del suo suolo e del suo oceano. Di conseguenza, attaccare i villaggi sarebbe un modo per spopolare la regione al fine di avere un migliore “controllo” di queste ricchezze. Ci può anche essere un interesse religioso, la cui missione sarebbe quella di impiantare lo Stato Islamico. Ma queste sono solo ipotesi.
Diritti umani più minacciati
La Chiesa cattolica ha sempre difeso i diritti umani. La Dottrina Sociale della Chiesa riprende e contribuisce alla formulazione di questi diritti basata sulla Parola di Dio. Pertanto, la nostra missione è anche quella di difendere i diritti umani. Non si tratta di prendere ogni articolo in dettaglio. Citiamo solo i primi: “ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale”. Vedere che questo articolo è costituito proprio da ciò che è stato preso da noi. Per questo motivo, questa diocesi, con i suoi missionari e animatori, ha sofferto e pianto di vedere tante morti, ingiustizie con i poveri, soprattutto perché questa guerra ha causato più di 1.000 morti e più di 200.000 persone sono state sfollate. A questo quadro si aggiunge il numero di persone torturate, sottoposte a crudeli punizioni, detenute e prigioniere. Siamo anche preoccupati per il numero di persone rapite, violando così la sopracitata Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Conseguenze immediate di questi eventi
Abbiamo sperimentato molte conseguenze, tra queste: a) villaggi abbandonati; b) la fame che è aumentata, perché la terra non viene coltivata; c) la perdita del poche risorse (case, vestiti, cibo, ecc.); d) la destrutturazione delle famiglie, costringendone i membri a disperdersi ovunque; e) la vita comunitaria è distrutta: nessuno sa dove siano i catechisti, gli animatori, i ministri di molte comunità; f) l’anno scolastico è stato compromesso; g) la paura attanaglia le persone e c’è sfiducia e diffidenza per l’arrivo di qualsiasi persona sconosciuta nel villaggio.
Gli agenti pastorali
Pensando alla sicurezza e garantendo la presenza dei missionari e dei missionari, Don Luiz Fernando ha riunito gli agenti pastorali nella diocesi. A giugno, i missionari della regione settentrionale hanno inviato un messaggio alle comunità: “Come molti di voi, la maggior parte dei missionari ha dovuto lasciare i propri luoghi di missione. Speriamo di essere di nuovo insieme presto. Questa semplice lettera è quella di dire a tutti che noi Missionari e Missionari preghiamo ogni giorno per tutte le persone e le comunità! Che cii manca tantissimo lo stare con voi! Che speriamo che tutto questo passi presto in modo da poter servire di nuovo tutti, come abbiamo sempre fatto!
La nostra preghiera in questo momento ha sempre due intenzioni: per la fine di questa sofferenza che si è diffusa ovunque e per PEACE in CABO DELGADO! Pregate anche voi per queste intenzioni: che gli attacchi finiscano presto e tutti possano tornare al loro lavoro e alle loro celebrazioni“.
Necessità di misure nazionali e internazionali
A nostro avviso, è più che necessario far conoscere questa guerra sulla scena internazionale in modo che le persone e le organizzazioni internazionali abbiano accesso alle informazioni e alle situazioni del paese. Un altro passo è il coraggio di denunciare, in un linguaggio ecclesiale, come esercizio di profezia.
Da un punto di vista politico/militare, alcuni parlano di cooperazione tra paesi alleati che agiscono in questa regione. Tuttavia, abbiamo poche informazioni sulle azioni che vengono eseguite dalla forza di sicurezza. Ogni tanto sentiamo che l’esercito ha combattuto i terroristi, tuttavia, in un’altra parte della regione, siamo colti alla sprovvista dalla notizia di ulteriori attacchi.
Rapporti dei fatti indecisi e informazioni di parte
Questa guerra ha generato grande angoscia emotiva, sia nel nostro vescovo, come nei missionari e residenti situati nella regione settentrionale e in tutta la diocesi. Le nostre attività quotidiane si rivolgono alle azioni più urgenti: aiutare le persone in fuga dalla guerra, sostenere e confortare i familiari che hanno perso le loro famiglie, fornire cibo, organizzare luoghi di accoglienza. In questo senso, è importante riconoscere l’efficace lavoro della Caritas diocesana in collaborazione con le nostre attività. Inoltre, dobbiamo riconoscere le azioni di molte organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite (ONU), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), tra gli altri.
Questo atteggiamento serve a dire che la nostra attenzione si rivolge puntualmente a questa situazione. Tuttavia, siamo stati costantemente bombardati da rapporti totalmente stravolti, bugiardi, con notizie di tendenziose che attaccano soprattutto la persona di Dom Luiz Fernando. Il Vescovo di Pemba è stato vittima di calunnie e di dure e menzogne. In un primo momento, diversi settori della diocesi hanno cercato di rispondere. Poi facciamo conoscere gli articoli e li lasciamo liberi per le dimostrazioni. Uno di questi articoli che ha calunniato Dom Luiz ha stimolato l’iniziativa di diverse organizzazioni, a Maputo, la capitale del paese, per creare una campagna di sostegno con firme digitali. In cinque giorni, questa petizione aveva migliaia di firme.
Solidarietà internazionale
Sappiamo che il continente africano non suscita l’interesse di molti paesi, né dei media tradizionali. Pertanto, uno degli ordini del giorno che dobbiamo assumere nelle nostre azioni pastorali e nei media che abbiamo è quello di diffondere tutto ciò che possiamo sull’Africa, in particolare la situazione di Cabo Delgado in Mozambico. Qualsiasi azione di solidarietà – che sia il gesto minimo, o un’azione politica – organizzata dal punto di vista politico – in questo momento è di fondamentale importanza. Auguriamo urgentemente pace a Cabo Delgado; speriamo che le persone tornino alle loro case, villaggi e comunità, che i nostri missionari possano tornare all’opera di evangelizzazione in un ambiente sicuro, rispettando e valorizzando le singolarità del nostro popolo africano. In questo momento di fragilità, quando i missionari sono lontani dalla missione come misura di sicurezza, qualche parola o azione che viene da qualsiasi organizzazione, ecclesiale o sociale, è un gesto evangelico. Ogni azione di solidarietà dimostra la nostra umanità, ogni gesto di condivisione mostra il Vangelo vissuto nella pratica, incarnato nell’esperienza del popolo.
Papa Francesco e la solidarietà ecclesiale
In questo clima di guerra e Covid-19, attività pastorali poi nelle dinamiche della “nuova normalità”. È un tempo di tristezza, di famiglie separate, di comunità tutte distrutte… in questo momento la solidarietà, le parole di conforto e di incoraggiamento sono importanti per noi per continuare il nostro cammino. Essi vengono attraverso diverse “porte” e provengono da vari luoghi.
Tra questi gesti di solidarietà, si evidenzia quella di Papa Francesco. Questo riconoscimento del Papa è importante per noi perché indica che non siamo soli in questa ardua missione. Nella recita dell’Angelus della Domenica di Pasqua, il 12 aprile 2020, Francesco ha menzionato la guerra di Cabo Delgado. Cinque mesi dopo, in occasione della sua visita in Mozambico a Maputo, ripete ancora una volta la sua preoccupazione.
Più tardi, Don Luiz scrive personalmente a Papa Francesco riportando ciò che sta accadendo. Il 19 agosto 2020, alle 11:29, Dom Luiz riferisce:“Con mia grande sorpresa e gioia, ho ricevuto una chiamata da Sua Santità, Papa Francesco, che mi ha molto confortato. Ha detto che è molto vicino al Vescovo e a tutto il popolo di Cabo Delgado e segue con grande preoccupazione la situazione vissuta nella nostra Provincia e che ha pregato per noi”. Don Luiz continua e descrive il suo colloquio con il Papa: “finalmente, il Papa ha detto che è con noi e ci ha incoraggiato: adelante!”, che significa: in avanti! coraggio!…
Nella stampa spesso media e calunniosa, c’erano anche coloro che dubitavano della veridicità della telefonata. Per queste menti, la risposta è arrivata in soli quattro giorni quando, nella recita dell’Angelus del 23 agosto 2020, Papa Francesco ha detto: “Vorrei ribadire la mia vicinanza al popolo di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, che soffre a causa del terrorismo internazionale. Lo faccio nel ricordo vivente della mia visita in quell’amato paese circa un anno fa”.
Pertanto, in questo momento di sofferenza, in cui la fragilità umana aflora, ogni parola o gesto ha un grande significato. Vorremmo finire dicendo che questo racconto è riassunto in una parola così semplice e piccola, ma al momento è ancora lontano da una pratica: vogliamo PEACE! La gente di Cabo Delgado vuole PEACE! La gente vuole tornare alle proprie comunità e vivere in PEACE! I missionari vogliono tornare nelle parrocchie e vivere in PEACE!
Secondo ACLED, acronimo di Location of Armed Conflicts and Event Data, dal 2017 ci sono stati 823 conflitti armati in Mozambico, 534 dei quali si sono verificati a Cabo Delgado (396 direttamente contro i civili). Durante questo periodo, dei 1678 ucciso nei conflitti nel paese, 1496 erano nella provincia di Cabo Delgado.
Padre Edegard Silva Jànior, è un missionario brasiliano salettiano che lavora nella Missione di Muidumbe nella diocesi di Pemba. Il sacerdote ha inviato queste informazioni a nome della Diocesi in modo che il mondo conosca la situazione di Cabo Delgado e mostri solidarietà con quella gente.
Ci sono 8.113 vocaboli che cominciano con la lettera «p» nel dizionario italiano. È un mondo di parole ricche di possibilità. Alcune sono indispensabili e parlano al cuore. La prima è Pace. Cominciamo ogni anno con la giornata per la pace (**). Una giornata che è preghiera, sospiro, speranza, ringraziamento e anche protesta. Preghiera, perché la vera pace si ottiene solo da Dio. Ringraziamento, perché la pace è un dono. Sospiro e speranza, perché richiede grande impegno, pazienza e perseveranza. Protesta, perché non si può stare zitti e passivi di fronte a chi, invece della pace, fomenta a tutti i costi la guerra. Guerre e conflitti insanguinano oltre 50 nazioni del mondo, soprattutto in Asia e in Africa, ma non solo. Intanto impinguano le casse dei potenti che, non contenti di produrre armi tradizionali, inventano e sfornano ordigni sempre più sofisticati e distruttivi in un’assurda corsa alla morte. Quante volte si può distruggere un pianeta? Di fronte a questa realtà occorre tirare fuori la parresia cristiana, una parola ben presente nel Nuovo Testamento per indicare il coraggio, l’audacia, la franchezza e la libertà di spirito del cristiano nel testimoniare e vivere la sua fede in colui che è la Parola di Vita e la vera pace del mondo.
La Parresia non manca certo a papa Francesco (***), il quale, tornando dal Giappone dopo la visita a Hiroshima e Nagasaki, ha detto parole chiare. «L’uso delle armi nucleari è immorale, […] e non solo l’uso, anche il possesso, perché un incidente o la pazzia di qualche governante, la pazzia di uno può distruggere l’umanità». Non so se avesse in mente qualcuno in particolare, ma a prescindere dal possesso o meno della bomba atomica, contiamo purtroppo un buon numero di governanti o capi popolo convinti che si ottiene di più con il potere autoritario e intimidatorio, con la guerra e il terrore che con il rispetto delle persone, l’impegno a eradicare povertà e ignoranza, a difendere i deboli, a custodire l’ambiente e a promuovere dialogo e giustizia. Altro che politica come servizio al bene comune e alle persone.
Persona, ecco un’altra parola importante che inizia con la «p». Avere la persona al centro e non il denaro, il potere, il prestigio. Persona e pace vanno insieme. Dove le persone sono calpestate, sfruttate, trafficate, discriminate, umiliate e mantenute nell’ignoranza, non ci può essere pace. Quando ci sono alcuni che si ritengono i «primi» sopra gli altri, non ci può essere giustizia. Quando si distruggono i ponti, si chiudono i porti e sbarrano le porte, non ci può essere pace. Ponti, porti e porte – realtà che implicano sempre due direzioni, una di entrata e una di uscita – sono comunicazione, apertura, incontro, accoglienza, tutti elementi indispensabili per costruire la pace.
Certo l’avventura della pace non è facile richiede poi un ultimo elemento essenziale: il Perdono, un’ultima parola iniziante con la «p» che non può essere dimenticata. Lasciarci perdonare e donare perdono è impegnativo perché cambia il nostro modo di relazionarci con noi stessi e con gli altri. Ci rende più umani o, forse, più divini, perché perdonare è amare e amare è «agire da Dio», essere «perfetti» come Lui, il Padre di tutti, perfetto e misericordioso.
Auguri e benedizioni per un 2020 di pace.
Il 12 gennaio 2010, alle 16,53, una potente scossa di terremoto devastò Port-au-Prince, la capitale di Haiti, e le città vicine. Le vittime non sono mai state contate, ma l’ordine di grandezza è 300mila. Fu una tragedia immane. Un punto di non ritorno per uno dei paesi più poveri del mondo.
Sembrava fosse arrivato il momento di rottura per far cambiare la sorte del paese, una specie di azzeramento, per ripartire su basi diverse.
Non fu così. Qualcuno, i soliti noti, ci mise lo zampino, bloccando ogni iniziativa di rinascita promossa dalla società civile.
Questo mese ricorrono i 10 anni da quell’evento. Ironia della sorte, oggi il paese sta attraversando la crisi socio-politica ed economica più grave degli ultimi tre lustri.
All’epoca MC pubblicò l’editoriale dal titolo «Alzati e cammina!», il cui incipit era: «Non esiste un altro posto così al mondo». Nel 2020 non ci siamo dimenticati di Haiti.
Torneremo presto a parlarvi di quel popolo straordinario, di chi ne ha impedito lo sviluppo, e della crisi attuale.
Intanto, il nostro ricordo va alle vittime, e ai loro cari.
Marco Bello
Cari missionari
Un sabato di ordinaria missione
Dal 6 febbraio mi trovo con mia moglie Roberta a Dianra, in Costa d’Avorio (foto in basso), presso la missione della Consolata dove vive e svolge il suo servizio mio figlio Matteo insieme a padre Raphael Ndirangu dal Kenya e padre Ariel Tosoni dall’Argentina.
In genere il sabato si stabilisce che ogni missionario vada a celebrare la messa in un villaggio delle varie parrocchie: Dianra, Dianra Village e Sononzo. Il sabato 30 marzo si era così stabilito: p. Raphael a Dianra, p. Matteo a Dianra Village e p. Ariel a Sononzo. Considerando che la comunità di Sononzo è la più lontana dalla «base» – circa 45 km – e che per andarci si passa per Dianra Village, siamo partiti con una sola macchina. Con noi c’era una bimba nata il 18 marzo, la cui mamma era deceduta poco dopo il parto, da portare ai nonni in un villaggio lungo il tragitto.
Siamo partiti verso le ore 16.00 e sull’auto eravamo in 8: p. Ariel, p. Matteo, Roberta ed io, la bimba, la nonna ed altre due persone della famiglia. Dopo circa 20 minuti siamo arrivati al villaggio della bimba. Siamo scesi tutti dall’auto. Varie persone ci hanno accolto sulla strada e ci hanno fatto accomodare nel cortile della casa che era poco lontana. Dopo averci offerto dell’acqua ed aver adempiuto ai saluti e riti convenzionali, lasciata la neonata e la famiglia, siamo ripartiti.
Verso le 17.30 siamo arrivati a Dianra Village. Padre Ariel è subito ripartito per passare la serata con i giovani di Sononzo e potervi poi restare per la messa domenicale. Io, con Roberta e Matteo, sono rimasto a Dianra Village. Matteo, che è l’amministratore del dispensario ivi esistente, ha dovuto sbrigare degli impegni prima di partire in moto per il villaggio di Bébédougou. Poiché tutti e tre non potevamo andare, mi ha chiesto se volevo accompagnarlo, mentre Roberta sarebbe restata a Dianra Village. Ho accettato volentieri. Il villaggio dove eravamo diretti era a una ventina di km. Indossato il casco e messo in spalla lo zaino, siamo partiti. Erano le 19.30. Prima di uscire dal villaggio, Matteo ha chiesto a un giovane che conosce la zona quali fossero le condizioni della strada. Joseph lo ha rassicurato dicendo che era percorribile, raccomandandoci però di fare attenzione in alcuni tratti perché avremmo trovato molta sabbia accumulata… e così siamo partiti.
Detto fatto. Poco dopo ci siamo resi conto che la «strada» era in realtà una pista sconnessa con cumuli di sabbia che formavano dei solchi… pista che si snodava attraverso piantagioni di anacardo e di cotone. Nel buio della notte, le luci della moto non facilitavano molto il percorso. Prima di arrivare a destinazione, avremmo dovuto attraversare tre villaggi. Dopo il primo, Pétérikaha, ed il secondo, Chontanakaha, eccoci arrivare al terzo, Nadjokaha, dove ci doveva attendere il catechista Emile. Purtroppo, arrivati al punto di incontro stabilito, non abbiamo trovato nessuno. Matteo ha provato a telefonare, ma non c’era connessione. Nel villaggio, non essendoci l’illuminazione, si vedeva circolare qua e là qualche persona con la pila. Poco distante, davanti a una casa, c’erano due bambini dall’apparente età di otto-dieci anni che con dei bastoni battevano dentro un mortaio circolare in legno per frantumare delle granaglie. Più in là, seduti a terra intorno ad una scodella, ve ne erano altri quattro, dai due ai quattro anni, che stavano mangiando con le mani. Ed ecco che si avvicina un giovane, Basile, amico di Emile e membro della piccola comunità cattolica del villaggio. La notizia non è affatto buona: Emile non era venuto all’appuntamento perché lo avevano chiamato per cercare un bambino in un villaggio vicino, che poi sarebbe stato trovato morto in un pozzo.
A questo punto, Matteo decide di continuare senza accompagnamento per raggiungere il villaggio di Bébédougou. Non sapeva dove era il cortile scelto per la celebrazione, ma una volta arrivati si è fermato nella casa del capo villaggio al quale ha chiesto se sapeva dove si svolgeva la celebrazione religiosa. Questi, che era sdraiato su un lettino nella veranda davanti casa, ha riconosciuto Matteo (infatti, pochi mesi prima, il centro sanitario di cui Matteo è responsabile aveva inaugurato una casetta della salute nel suo villaggio); gentilmente si è alzato e ci ha accompagnati nel luogo richiesto che era a non più di 50 metri dalla sua abitazione. Giunti sul posto alcune donne hanno portato delle sedie, ci hanno fatto accomodare e secondo la tradizione hanno offerto dell’acqua e chiesto le notizie. Dopo una decina di minuti, abbiamo accompagnato il capo villaggio nella sua abitazione e siamo ritornati indietro. Le donne stavano già preparando per la celebrazione e per la cena. Erano già presenti una decina di persone e altre stavano affluendo dai villaggi vicini, chi a piedi e chi su motofurgone. Nel frattempo queste avevano preparato nel cortile un piccolo tavolo come altare e davanti, in modo circolare, sedie e panche. La messa è iniziata verso le 21.45 e le persone erano più di 50, senza contare quelle alle spalle che osservavano incuriosite. La celebrazione è stata bella perché molto partecipata, con canti e preghiere individuali, anche se – come mi ha detto Matteo – la maggior parte dei partecipanti non erano ancora battezzati. La messa è terminata intorno alle 23.20. Subito le donne hanno portato la cena con grandi recipienti ricolmi di riso ed una tipica salsa verde come condimento. A me e Matteo hanno portato del riso con salsa di pesce e dei pezzi di radice di ignam lessati. In pochi minuti i commensali avevano già mangiato tutto! A questo punto, vista l’ora e la tanta strada da percorrere per raggiungere Dianra Village, Matteo ha chiesto il permesso di ripartire, come si usa qui (si chiede la strada), e ce lo hanno concesso. Ho indossato il casco, ripreso lo zaino contenente gli arredi per l’altare e siamo partiti. La strada era molto insidiosa a causa della solita gran quantità di sabbia e, pur proseguendo a bassa velocità, ci è voluta tutta l’abilità di Matteo per mantenere l’equilibrio. Più volte ha dovuto mettere i piedi a terra per non cadere tenendo conto dell’oscurità e delle insidie nascoste dietro ogni curva. La temperatura era gradevole e soffiava un vento leggero. Contrariamente all’andata, nel tragitto di ritorno abbiamo incrociato poche moto e furgonette, anche loro tutte in precario equilibrio. La cosa che mi sorprendeva era che, non essendoci l’illuminazione, ci trovavamo al centro dei villaggi senza neanche accorgercene, anche perché – vista l’ora – non c’erano più persone in giro con la pila. Attraversando il villaggio di Nadjokaha Matteo mi ha indicato il pozzo fatto realizzare dai missionari poiché in quella zona non c’era acqua. Il punto più vicino per attingerne si trovava a 9 km, quindi la gente era obbligata a percorrerne 18 per avere acqua potabile disponibile.
Siamo arrivati a Dianra Village verso mezzanotte e mezzo. Che dire? Per me è stata un’esperienza molto bella dove ho potuto vedere persone semplici e piene di fede che pregano con tanto fervore. Matteo mi dice che in questi villaggi il missionario lo vedono due o tre volte l’anno e la domenica si celebra solo la liturgia della Parola con l’aiuto del catechista.
Siamo andati a letto che era l’una passata. Questo è il sabato del missionario.
La domenica ha poi celebrato a Dianra Village e incontrato i vari gruppi: giovani, corali, catecumeni, Caritas, catechisti, ecc. Il pranzo è stato offerto da una famiglia della comunità. Questo è il mio resoconto di un tipico, «ordinario», fine settimana vissuto dai missionari in questa terra.
Pietro Pettinari
Senigallia, 20/04/2019
Cambiamenti climatici
Anche tu puoi fare parte del tam tam
Ormai anche i governi hanno capito che dobbiamo impedire alla temperatura terrestre di innalzarsi ulteriormente. Dal 1880 ad oggi è aumentata appena di un grado centigrado e già si vedono gli effetti. I cambiamenti climatici non riguardano solo il futuro dei nostri figli e nipoti, sono realtà già oggi. Si verificano tempeste sempre più violente, incendi sempre più frequenti, penuria d’acqua per riduzione dei ghiacciai, innalzamento dei mari per scongelamento delle calotte polari. Nessuno ha più certezza del destino del proprio territorio: l’alterazione delle piogge può trasformare ridenti paesaggi in deserti, città costiere in un intreccio di canali per l’avanzare del mare, ampi territori in distese d’acqua per lo straripamento dei fiumi. Con ricadute sociali inimmaginabili. Dal 2008 al 2018, nel mondo si sono avuti 265 milioni di sfollati per disastri naturali, molti di loro per l’instabilità del clima.
Chi ha provocato il danno lo sappiamo. La colpa è del sistema economico tutt’oggi dominante che avendo fatto dell’espansione della ricchezza il proprio idolo, ha spolpato la terra e prodotto rifiuti in maniera sconfinata. E non per la dignità di tutti, ma per il privilegio di pochi, e tuttavia quanto basta per avere messo il pianeta a soqquadro. Per definizione la produzione esige energia, la sua scarsità è il motivo per cui in passato la produzione era pressoché costante. Limite che il capitalismo ha superato con l’accesso ai combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) e l’invenzione di macchine capaci di trasformare il loro enorme potenziale energetico in movimento, calore, elettricità. Peccato che attraverso questa operazione si siano messe in libertà miliardi di tonnellate di anidride carbonica, in misura ben superiore alla capacità di assorbimento di oceani e sistema vegetale. Di qui l’accumulo di anidride carbonica in atmosfera con conseguente intrappolamento dei raggi solari, aumento della temperatura terrestre e cambiamento del clima che porta con sé calamità, alterazione della piovosità e quindi riduzione della produzione di cibo e migrazioni.
Gli scienziati ci dicono che per arginare la situazione bisogna dimezzare le emissioni di anidride carbonica da qui al 2030 e annientarle entro il 2050. Un’operazione titanica che il sistema pensa di poter affrontare solo con cambiamenti tecnologici. Invece non ha capito che la vera sfida è la riduzione, che a sua volta chiama in causa un altro modo di organizzare l’economia. Se vorremo salvare la nostra umanità dovremo riorganizzarci in modo da permettere a tutti di vivere dignitosamente utilizzando poche risorse, producendo pochi rifiuti e garantendo a tutti l’inclusione lavorativa. Di sicuro il mito della crescita infinita è al tramonto, ma ancora non si è sviluppato un dibattito adeguato per discutere come va riorganizzata l’economia in una logica di stazionarietà orientata al benvivere. Un nuovo pensiero economico costruito non più attorno all’interesse dei mercanti, ma della buona vita per tutti, è ciò di cui abbiamo urgente bisogno.
Ma nell’attesa che questo dibattito divampi, ognuno di noi deve fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per arginare l’incendio. Tanti lo vogliono fare, ma non agiscono perché non sanno. Per questo il Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it) ha prodotto una serie di infografiche per spiegare in maniera comprensibile le cause dei cambiamenti climatici e i rimedi possibili a partire da noi. Visita il sito, scarica il documento, e invita i tuoi amici a fare lo stesso.
Francesco Gesualdi
17/06/2019
Il papa in ginocchio
L’11 aprile 2019 papa Francesco, dopo una giornata di riflessione con i due vice presidenti del Sud Sudan, s’inginocchiò con molta fatica per baciare loro i piedi e per supplicare per la pace del popolo del loro paese. La pace è il dono più grande che Gesù offre ai suoi discepoli.
Vorrei provare leggere questo avvenimento con gli occhi e il cuore della cultura dell’Etiopia, il mio paese.
La tradizione culturale etiopica è una tra le tradizioni più antiche, ricche e significative dell’Africa. Da noi le persone anziane, scimaghile – così sono chiamate in amharico -, sono coloro che hanno un grandissimo valore nella società e vengono rispettate in un modo speciale.
Nella nostra cultura una persona diventa scimaghile verso i sessant’anni, quando, con l’esperienza acquisita, sa qual è il bene da fare e il male da evitare. La responsabilità degli scimaghile non è limitata all’ambito privato o famigliare, ma riguarda la società tutta, per cui quando un anziano osserva un atto di ingiustizia, ha la responsabilità di intervenire per risolvere il problema.
Per esempio quando ci sono difficoltà, incomprensioni o atti di violenza nelle famiglie tra marito e moglie, tra i vicini o tra le tribù, gli anziani si radunano per analizzare le cause dei conflitti. Dopodiché si inginocchiano davanti alle persone in conflitto e chiedono loro di perdonarsi e di fare pace. Quando un anziano si mette in ginocchio davanti a una persona per chiedere di fare la pace, nessuno dei contendenti ha la possibilità fisica o morale di resistere o rifiutare. Diventa un imperativo categorico. Quando uno scimaghile si mette in ginocchio, il conflitto deve essere superato e la pace ristabilita.
Da questa prospettiva culturale, il gesto di papa Francesco che s’inginocchia e bacia i piedi ai vice presidenti del Sud Sudan ha un valore enorme.
Papa Francesco, agli occhi della gente del mio paese, l’Etiopia, indipendentemente da ogni interpretazione religiosa, è considerato uno scimaghile che sente sulle sue spalle la responsabilità di risolvere un grave problema di tutto un popolo, e si mette in ginocchio e chiede a due politici importanti la pace per il loro paese.
Papa Francesco, con questo gesto, mostra di conoscere la cultura africana, e indica il modo nel quale entrare in dialogo con gli altri.
Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (n. 68), papa Francesco scrive che «una cultura popolare evangelizzata, contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine».
Inoltre papa Francesco mette in pratica tutto ciò che ha scritto nella stessa esortazione a proposito di una chiesa in uscita per la pace e il dialogo.
In questo caso, papa Francesco esce dalla sua cultura e si mette in ginocchio per la pace di un popolo. La vera evangelizzazione si realizza stando attenti ai segni dei temi. L’Africa si evangelizza nel contesto africano. In altre parole, gli africani non si possono evangelizzare senza tener conto dei loro valori e delle loro tradizioni.
È proprio questo che vediamo nel gesto di papa Francesco che esce dal suo contesto culturale ed entra profondamente nella cultura africana per favorire e far sorgere la pace.
Ephrem Tadesse Ebiyo
Torino, aprile 2019
Anche le capre sono parte del gregge
In Kenya dal 1972. Diventa vescovo della nascente diocesi di Maralal nel 2001. Nella chiesa abbandonata di Kawap, segnata dal conflitto tra Samburu e Turkana, comprende quale stile dare al suo mandato: dialogo e riconciliazione. Tra battute di spirito e aneddoti, la chiacchierata con monsignor Pante sulla sua vita missionaria prende quasi il gusto di racconti biblici.
È il 26 novembre 2015. Papa Francesco celebra la messa nel campus dell’Università di Nairobi, Kenya. Sul capo porta una mitria di pelle di capra fatta dalle mani di una donna samburu. Gli è stata donata in aprile, a Roma, dal vescovo della diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, zona abitata da comunità di pastori. Quel vescovo è monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, la donna samburu è Lydia Letipila, di Baragoi.
Incontriamo mons. Pante nella redazione di MC. È impossibile non accorgersi del suo arrivo: la sua voce risuona allegra mentre narra storie e aneddoti con un marcato accento trentino. Gli chiediamo di poterle raccogliere per trasmetterle ai nostri lettori, e lui inizia proprio dalla mitria.
Racconta che quando l’ha data al pontefice, Francesco l’ha annusata e ha detto: «Questa non è pecora, ma capra!», e che lui gli ha risposto: «È vero, ma anche le capre sono parte del gregge».
In Kenya, a novembre, mons. Virgilio ha occasione di parlare due volte con il Papa. Racconta: «All’arrivo all’aeroporto, “Ti avevo regalato una mitria, dov’è?”. “Domani la vedrai durante la Messa”. “Bravo, sei promosso”», e aggiunge: «Tutti mi guardavano. Non si parla così a un Papa. Alla partenza, all’aeroporto gli ho detto ancora: “Guardati la salute e riposati anche. E poi la mitria usala, non solo in Kenya”. “Tranquillo”, mi ha risposto», e conclude: «Sono stato un po’ sfacciato? No, mi sentivo come davanti a un papà buono. All’inizio della messa, io ero vicino all’altare, Francesco mi ha fatto l’occhiolino e il vescovo accanto a me se n’è accorto, invidioso!».
Da Belluno a Maralal
Nato nel 1946 a Lamon, Belluno, padre Virgilio Pante arriva in Kenya nel 1972. Inizialmente nella diocesi di Nyeri, dove studia la lingua kikuyu. Poi, nel ‘73, nella diocesi di Marsabit, al Nord, dove c’è bisogno di un sacerdote.
Dopo 29 anni, nell’ottobre del 2001, diventerà vescovo della nascente diocesi di Maralal, staccata da quella di Marsabit.
La popolazione, ancora oggi, è composta da pastori seminomadi: «Samburu, Turkana, qualche Pokot», ci dice. «Nei centri più grossi, sugli altopiani dove si può fare un po’ di agricoltura, la gente è stanziale. Mentre nelle zone più basse si muove nella savana seguendo le piogge».
La diocesi si estende su un territorio di 21mila km2 (come il Veneto e la Valle d’Aosta messi insieme). Conta 260-280mila abitanti, di cui 60-70mila cattolici. «Il resto sono protestanti, pochi musulmani. Quasi l’80% sono Samburu, quasi il 20% Turkana, il resto Pokot, Kikuyu, Meru, Luo e qualche commerciante somalo».
Uno stile semplice e profondo
Parla molto, mons. Virgilio, ma senza parole di troppo o troppo di circostanza. Il tono è gioviale, spesso ironico. Quando entra nel nostro ufficio per l’intervista, fa finta di essere lui a domandare a noi se possiamo dedicargli un po’ di tempo, e ci chiede il permesso.
Indossa una polo nera sulla quale spicca un crocefisso color acciaio appeso a una semplice catenella.
Il missionario della Consolata non ha difficoltà a parlare di sé e della missione che il Signore gli ha affidato 40 anni fa, e lo fa con la stessa semplicità comunicata dal suo aspetto: facendo trasparire la profondità della sua esperienza attraverso immagini quotidiane che riguardano pastori, mercati, studenti, polvere. Una realtà precisa, una realtà salvata.
Ha barba e capelli bianchi che fanno da cornice a un volto dai tratti marcati e dalla pelle scurita dal sole. Le rughe dei suoi 72 anni agli angoli degli occhi sono un fascio di linee che fanno convergere il nostro sguardo sul suo: azzurro e intenso.
L’arrivo in Kenya
Appena arrivato in Kenya, nel 1972, padre Virgilio compra una moto. «Di seconda mano», ci tiene a sottolineare, e, dopo sei mesi a Nyeri, parte per il Nord, per un mese di vacanza nella diocesi di Marsabit, tra Samburu, Turkana, Borana. «Ho visto le giraffe, i guerrieri, gli elefanti. Quando sono tornato indietro, innamorato del Nord, il superiore, padre Pietro Baudena, viene a Nyeri a trovarmi e dice: “Tu l’hai fatta grossa, da solo con la moto, nel deserto… Ti devo dare un castigo: adesso torna lassù e stacci”». Mons. Pante, sorride: «Bel castigo, eh? Nel Marsabit c’era padre Giuseppe Inverardi. Era stato spostato al santuario della Consolata a Nairobi, e il vescovo di Marsabit, mons. Cavallera, voleva un sostituto. Padre Baudena ha continuato: “Abbiamo sentito parlare di un certo Pante, che è andato su da solo, in moto, eccetera, che è tornato intero… e allora sono venuto a chiederti la tua disponibilità”». Padre Virgilio arriva nella diocesi di Marsabit nel marzo del ‘73: «Sono andato al Nord per una monellata!», conclude sornione.
Marsabit-Londra e ritorno
Il modo di mons. Pante di raccontare la sua biografia ha qualcosa di biblico, somigliante a un racconto dei patriarchi. I dati di tempo e di luogo sono circostanziati, riguardano la sua persona, ma quello che viene fuori è un grande affresco pieno di simboli, in una visione di salvezza.
È l’affresco di una porzione di mondo e di pochi decenni di missione punteggiato di nomi di confratelli conosciuti e amati.
Nel 1979 padre Virgilio apre il seminario diocesano per i preti locali. Vuole realizzare il progetto al quale si è sentito chiamato: contribuire alla crescita di una chiesa autoctona che prenda, un po’ per volta, a camminare sulle proprie gambe rendendo «superflui» i missionari arrivati da fuori. «Ho iniziato con due seminaristi. Oggi, nella diocesi di Maralal, abbiamo circa una ventina di sacerdoti africani su 32 in totale». Padre Virgilio, però, non rimane sempre nel suo Kenya. «Nel 1987, dopo che era stato ordinato il primo prete samburu, mi hanno detto di andare a cercare vocazioni in Irlanda e Inghilterra».
Questa volta il mandato gli sembra un castigo vero, non come quello del ‘73. «Quando sei là in Africa, hai tanta soddisfazione, poi ti mandano a cercare vocazioni. È come annaffiare l’asfalto: cosa cresce? Sono stato tre anni a Dublino e quattro a Londra. Lì ho avuto tempo per aggiornarmi, leggere, girare nelle scuole e predicare nelle chiese. Sono andato all’università per un master di antropologia. Nel ‘94 viene padre Piero Trabucco, allora superiore generale: “Pante, quante vocazioni hai trovato?”. “Padre, per essere sincero, zero. Anzi, le dirò che sto perdendo la mia”».
E così, nel 1994, padre Virgilio torna in Kenya, ma non nel suo Nord: «Padre Canzian, superiore del Kenya, mi dice: “Andrai sul lago Vittoria, a Kisumu, tra i Luo”. Sono stato a Chiga, per due anni. Poi sono stato vice superiore del Kenya, a Nairobi, per cinque anni. Infine, nel 2001, il nunzio apostolico, Giovanni Tonucci, mi chiama: “Sarai il primo vescovo della nuova diocesi di Maralal. Ora non dirmi che non sei all’altezza, che non sei capace, che non sei preparato. Perché nessuno lo è. S’impara. E non dirmi che hai bisogno di una settimana per fare discernimento. No, no. Devi rispondermi adesso. Sappi che se dici di no rattristi il Santo Padre”, Giovanni Paolo II. Allora ho risposto: “E beh, allora va bene!”».
Ministero della riconciliazione
La neonata diocesi di Maralal che lo aspetta ha 12 «missioni», in gran parte con sacerdoti europei. Padre Virgilio, prima della consacrazione, deve scegliere un motto e uno stemma. Allora parte con la moto in cerca d’ispirazione e visita ogni angolo di quel territorio. «E sono rimasto colpito da Kawap, vicino Baragoi. Ho visto la chiesa abbandonata, la scuola distrutta. Lì andavo a celebrare la messa una volta. E ho chiesto cosa fosse successo. “Le battaglie tribali tra i Samburu e i Turkana, per via del bestiame. Il villaggio è stato distrutto e abbandonato”. Mi veniva da piangere e ho detto un Padre Nostro a voce alta: bisognava pregare di nuovo in quella chiesa».
È lì che il missionario capisce quale sarà il tema e lo stile del suo mandato: la riconciliazione. «Se la Chiesa costruisce solo chiese, scuole, istituzioni, e dopo ci sono le guerre che distruggono tutto, sono milioni buttati all’aria. Bisogna puntare sulle persone più che sulle strutture, e fare la pace. Allora ho scelto come motto una frase di san Paolo, seconda lettera ai Corinti: “Dio ci ha affidato il ministero della riconciliazione”. E come stemma? Ho preso Isaia 11: “Quando arriverà il salvatore, porterà la pace, le persone useranno la spada non per uccidere ma per arare il campo, gli animali vivranno insieme, anche il leone, il lupo, l’agnello. Il bambino giocherà con la vipera e non verrà morsicato”. Un leone sdraiato insieme a un agnello. Ecco lo stemma. E dietro di loro il monte Kenya, il monte di Dio».
Dialogo, scuola, commercio
Padre Virgilio viene ordinato vescovo il 6 ottobre del 2001 a Maralal. Esattamente tre mesi dopo, nel parco nazionale Samburu, una leonessa adotta un cucciolo di gazzella e stanno assieme per due settimane. «Perciò la gente diceva: “Vedi un po’ cosa è successo. Padre Pante è uno stregone. Quello che ha detto si è avverato”. E mi hanno promesso: “Vescovo, vedrai che d’ora in poi faremo così anche noi. Samburu, Turkana, Pokot staremo insieme, non ci faremo più la guerra”».
Dall’inizio del suo episcopato mons. Pante punta quindi sulla riconciliazione. La Chiesa di Maralal inizia a offrire tre strumenti: occasioni di incontro e dialogo tra tribù, la scuola, il mercato.
Innanzitutto organizza incontri di preghiera e di discussione tra gli anziani dei vari gruppi.
«Le diverse tribù vivono mescolate durante il giorno, ma poi la sera ciascuno va nel suo villaggio. La lingua è diversa. I Samburu sono circoncisi, sia maschi che femmine, mentre i Turkana no. Vivono da tempo insieme, ma poi ci sono scontri, soprattutto per il bestiame. I giovani, per dimostrare che sono forti, una volta uccidevano i leoni, adesso invece rubano, ad esempio le vacche, e uccidono le persone: si mettono un braccialetto per ogni nemico ucciso come segno di valore».
Oltre agli incontri, la Chiesa offre la scuola, «perché l’ignoranza fa molto per la guerra, e l’analfabetismo nella nostra zona è al 75%. Noi puntiamo sulla scuola convitto. Li chiamo “dormitori della pace”. Bambini dei Pokot che dormono, mangiano, giocano insieme ai bambini dei Samburu».
Il terzo strumento per la riconciliazione è il commercio: «Abbiamo incoraggiato i mercati intertribali. I Pokot hanno pecore e capre buone e sane. I Samburu fagioli, patate, tabacco, coperte, zucchero, sale. E scambiano. Una regola è che al mercato nessuno può portare il fucile. Purtroppo tutti hanno il fucile. Al mercato però non si portano le armi. Il mercato crea relazione. Ho visto un cambiamento enorme negli ultimi anni. Quindici anni fa era inconcepibile un mercato così: se tu, Samburu di Porò, vedevi un Pokot, gli sparavi, come si spara a una gazzella. Si sparava a vista. Oggi invece un Pokot può entrare a Porò, fare il mercato, andare al dispensario per le medicine. All’inizio tutti mi prendevano in giro: “Ma lasciali stare i Pokot che sono come i babbuini, selvatici. Lasciali perdere, sono solo capaci di fare la guerra”. E io dicevo loro: “Volete vincere il nemico? Ci sono due strade: o lo combatti con le armi – ma, scusa, sono più forti di noi i Pokot -, oppure te lo fai amico. Se tu fai amico il tuo nemico, l’hai vinto, no?”».
Contro la politica dell’odio
«Ultimamente tra Samburu e Pokot c’è una buona relazione. Tra Samburu e Turkana, a Baragoi, invece c’è ancora un po’ di attrito», mons. Pante si prende il volto tra le mani in un gesto a metà tra la tristezza e la certezza della pace possibile. «Lì c’è di mezzo anche la politica. Per esempio ultimamente sono state rubate un migliaio di vacche. Che fine fanno? Le portano giù, nella valle di Suguta, e poi qualcuno va a prenderle con i camion per venderle a Nairobi. Non è più rubare due o tre capre per mangiare o comprarsi la moglie. C’è di mezzo anche la politica. Comunque», aggiunge per dare forza alla speranza che vuole comunicare, «la gente capisce che la guerra non porta niente di buono». E a questo proposito mons. Pante fa l’esempio di due ex parlamentari della sua diocesi, apertamente razzisti e sostenitori dei conflitti tribali, che alle ultime elezioni sono stati battuti da due donne favorevoli al dialogo e alla pace. «Uno era un giovane deputato di Maralal, conosciuto perché incitava i Samburu a combattere contro i Turkana, l’altro distribuiva addirittura le armi. Ma la gente è stufa di guerra».
Una Chiesa in transizione
Monsignor Pante ci parla anche del cambiamento che sta avvenendo nella Chiesa: la chiesa locale cresce, non solo nel numero, ma soprattutto nella responsabilità. Per illustrarci quanto dice, ci parla dell’ospedale di Wamba: «Abbiamo iniziato dando tutto gratis. Adesso però non ci sono più bianchi e nemmeno le offerte dall’Europa. La gente si aspetta ancora di essere aiutata al 100 per cento, però adesso bisogna dirle: “Non ci sono più i bianchi e i soldi che arrivano dall’estero. Dovete aiutare voi. Se venite all’ospedale dovete pagare qualcosa, no?, altrimenti le medicine chi le compra, chi paga le infermiere?”. C’è questa crisi, non solo per l’ospedale di Wamba. In generale cerchiamo di dire: “La Chiesa siete voi, i missionari hanno fatto il loro lavoro, sono vecchi decrepiti, non ce ne sono più, la chiesa è vostra”. Il clero c’è, vocazioni ce ne sono. Però, per la parte economica, la gente oggi deve contribuire. Io tra tre o quattro anni lascerò perché arriverò ai 75. Il prossimo vescovo probabilmente sarà africano. Che non debba dire: “Ecco, il mio predecessore vi dava tutto gratis, adesso io sono in difficoltà, i missionari vi hanno educato male”. No. Non vogliamo questo. I preti africani hanno un altro approccio. Quando la gente vede un prete con la pelle nera, dice: “Beh, questo è come noi, dobbiamo aiutarlo. Non ha la benzina per andare a dire la messa, diamogli la benzina. Cosa mangia?”, allora vedi che all’offertorio portano farina, fagioli, galline. È bello. Questo con noi non succedeva. Si aspettavano che fossimo noi ad aiutare loro. Adesso la cosa cambia. C’è un cambiamento positivo. La Chiesa inizia a sostenersi da sola».
Il carisma della Consolata
La prossima estate mons. Pante ordinerà un nuovo sacerdote locale. Più avanti, «se Dio vuole», altri tre. Anche la provenienza del clero locale è segno del cammino di riconciliazione nella diocesi di Maralal. Sono preti samburu, turkana, pokot, kikuyu. Ci sono giovani locali che diventano anche missionari. Il vice superiore generale dei missionari della Consolata, ad esempio, è un Samburu, padre James Lengarin.
Parlando dei suoi confratelli missionari, mons. Pante conclude con una riflessione sulla Consolata: «Il carisma della Consolata, la consolazione, è portare Gesù prima di tutto. Portare un Gesù che guariva le folle, che dava da mangiare. Noi lavoriamo ancora così. La Consolata è la fondatrice della diocesi di Marsabit da cui poi Maralal è stata staccata. Però adesso il nostro tempo finisce. Abbiamo solo quattro centri che presto saranno consegnati al clero diocesano. E noi andremo in un altro posto. Andremo ad aprire altre missioni, cominciando da zero altrove. Il nostro carisma è cominciare da zero, non stare lì sempre. È incominciare e poi andare, muoversi».
Per finire mons. Pante torna al 1972, come per chiudere un cerchio: «Agli esercizi spirituali del 1972 a Nyeri eravamo 80 sacerdoti: tutti bianchi. Adesso, vai a fare gli esercizi spirituali: sono tutti africani, eccetto cinque o sei vecchietti europei. Ecco come è cambiata la missione in quarant’anni. Ecco, i missionari della Consolata africani sono il nostro futuro. I primi saranno gli ultimi, gli ultimi primi».