Israele-Palestina. Quando il dolore unisce due padri in lutto
Due padri, uno israeliano e uno palestinese, hanno perso entrambi una figlia nel conflitto. Ora testimoniano che l’unica via è quella dell’amicizia e del dialogo. Lo hanno detto anche in un incontro in Vaticano con Papa Francesco.
C’è un grande dolore a unire un padre israeliano e uno palestinese: la perdita di una figlia nel conflitto. Uno strazio che li ha portati a tramutare l’odio in testimonianza.
Sono Rami Elhanan, israeliano, e Bassam Aramin, palestinese. Li incontriamo in Vaticano dove sono stati ricevuti da Papa Francesco. La giornata è piovosa, cercano riparo sotto lo stesso ombrello, si stringono, come fanno da anni per gridare al mondo che nella loro terra si può vivere insieme.
«Volevamo raccontargli che anche noi possiamo vivere in pace, da fratelli nella stessa terra. È stato un incontro straordinario», dicono parlando del Pontefice.
Gli hanno mostrato le fotografie delle loro amate figlie cadute in questa guerra israelo-palestinese che da decenni sembra non trovare via d’uscita. «Io sono ebreo, lui – dice Rami indicando l’amico Bassam – è musulmano, il Papa è cristiano. Ma in fondo siamo tutti umani e possiamo essere fratelli invece di continuare a ucciderci a vicenda». E questo Bassam e Rami lo mettono in pratica non solo nell’amicizia personale ma anche nel loro impegno in due associazioni che nella dilaniata terra del Medio Oriente perseguono la via del dialogo: Il Parents Circle-Families Forum, l’organizzazione di famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso i propri familiari a causa del conflitto, e i Combatants for Peace. «Combattenti, sì, perché, una volta, io e lui combattevamo su fronti opposti», dice Bassam. Lui nella milizia palestinese, Rami nell’esercito israeliano. Ora «combattono» invece dalla stessa parte.
Dal 7 ottobre dello scorso anno il loro impegno ha assunto un maggiore significato: «Noi conosciamo esattamente il sentimento delle altre famiglie, in Israele e a Gaza. Dobbiamo continuare a parlare, a incontrarci e ad agire insieme per una educazione alla non violenza. Significa fare eco in tutto il mondo e comprendere – dicono i due padri – che con questo spargimento di sangue non si andrà da nessuna parte, che il diritto all’autodifesa non dà il diritto alla vendetta».
La loro storia è stata raccontata in un libro, «Apeirogon», con cui l’autore irlandese Colum McCann ha vinto il Premio Terzani 2022.
Era il 1997 quando Smadar Elhanan, una ragazzina di 14 anni, fu uccisa durante un attacco suicida di Hamas a Gerusalemme. Qualche anno dopo, nel 2005, suo padre, Rami, conobbe Bassam Aramin in una manifestazione organizzata dal movimento Combattenti per la pace.
«Per i palestinesi non è un onore avere un amico israeliano, perché li considerano come occupanti, ma io mi sono subito affezionato a Rami e abbiamo scoperto di avere gli stessi valori, alla fine siamo tutti esseri umani», ribadisce Aramin.
Due anni dopo quel primo incontro, il 16 gennaio 2007, anche Bassam avrebbe scoperto il dolore per la perdita della propria bambina: Abir aveva 10 anni, quando un agente di frontiera israeliano le sparò alla nuca. Rami corse al capezzale della figlia dell’amico e ci restò per i due giorni nei quali lei lottò tra la vita e la morte: «È stato come perdere mia figlia una seconda volta», commenta con gli occhi, ancora oggi, velati dalla commozione. «È stato doloroso – spiega Bassam – vedere il senso di colpa sul viso di Rami perché israeliano».
Da quel giorno, Rami e Bassam raccontano la loro storia e l’hanno voluta far conoscere anche a Papa Francesco. Il motivo? «Lanciare il messaggio che c’è un’altra possibilità, un’altra strada. E che questo conflitto non finirà mai se continuiamo a non parlarci».
Manuela Tulli
Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo
Racconto delle nozze di Cana
Carissimo padre Gigi, direttore di MC,
ho terminato ora la lettura/meditazione del commento al brano evangelico del «racconto delle nozze di Cana» meravigliosamente spiegato dal sacerdote biblista Paolo Farinella, che voi con grande lungimiranza avete pubblicato sulla rivista Missioni Consolata in 38 puntate dal febbraio 2009 al febbraio 2013. Una lettura impegnativa, ma molto interessate e coinvolgente.
La meticolosa indagine mi ha «costretto» a calarmi nell’analisi fin nel profondo, sviscerando tutte le sfaccettature mai nemmeno ipotizzate e intuite, a scoprire i significati più nascosti e reconditi di un racconto di «soli» undici versetti. Una passeggiata che da tempo volevo intraprendere, ma avrei voluto effettuare solo dopo aver raccolto e messo assieme tutte le puntate pubblicate così d’avere un testo uniforme e scorrevole senza interruzioni lunghe un mese che avrebbero potuto fiaccare sia la mia memoria che la mia costanza. Grazie alla tua grande disponibilità ad aiutarmi a raccogliere e comporre tutto questo materiale, ho avuto la spinta necessaria per continuare in questo tuo grande lavoro e così ho potuto immergermi, naturalmente un po’ al giorno, nella lettura delle stupende pagine che don Farinella ci aveva gentilmente concesso.
Un grazie a Missioni Consolata per questo grande regalo e a te che essendo il direttore ne hai reso possibile la realizzazione. Il Vangelo raccontato da Giovanni rimane per noi, poveri tapini, un cibo difficile da digerire se non a piccoli bocconi, magari premasticati, come in natura fanno le madri per nutrire i propri piccoli ancora implumi e inconsciamente incapaci di cibarsi. L’importante in tutto questo è trovare la persona giusta che ti serva un piatto con il cibo sminuzzato, digeribile e allettante per te. Impresa non facile, ma in questo caso, e per me, di sicuro riuscita. Grazie ancora e speriamo di poter presto intraprendere un’altra «avventura» alla scoperta di un libro, il Vangelo e la Bibbia in generale, spesso letto e interpretato «alla nostra maniera» in modo superficiale e tradizionale senza riuscire a coglierne il profondo significato e il singolare messaggio nascosto ai più.
Giacomo Fanetti, 27/02/2024
Grazie a te per lo stimolo e l’aiuto che mi hai dato nel raccogliere tutte le 38 puntate di quel lungo cammino. Ora il testo è disponibile per tutti sul nostro sito in pdf, ben 240 pagine da leggere online o scaricare sul proprio computer. Voglio anche ringraziare di cuore don Paolo Farinella che ha dato il suo consenso all’operazione. Una fruttuosa lettura a tutti.
Un milione di firme per fermare la violenza alle frontiere dell’Europa
Stop border violence: entro il 10 luglio occorre raggiungere un milione di firme dai cittadini di almeno sette paesi dell’unione per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione per un trattamento più giusto e umano dei migranti e rifugiati sia in Europa che alle sue frontiere. Questo è il senso di una proposta lanciata dal basso.
«L’Unione europea si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà», così il preambolo della Carta dei diritti fondamentali.
L’Iniziativa dei cittadini europei (Ice) denominata «Art. 4: Stop tortura e trattamenti disumani alle frontiere d’Europa», prende il via dall’assunto enunciato nell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, in cui si afferma che nessuna persona «può essere sottoposta a tortura, né a trattamenti disumani e degradanti», quotidianamente violato lungo le frontiere di tutto il continente e non solo.
L’obiettivo della campagna Stop border violence, che ha avuto inizio lo scorso 10 luglio e si concluderà allo scadere dell’anno il 10 luglio 2024, è quello di arrivare a un milione di firme per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione che preveda misure concrete per contrastare e prevenire violenze e torture contro migranti e rifugiati in Europa e alle frontiere.
Per raggiungere l’obiettivo è però indispensabile che ci sia non solo un milione di firme, ma che questo milione sia l’espressione della volontà dei cittadini di almeno sette paesi europei differenti. Un obiettivo non facile per una campagna che non ha finanziamenti, né una organizzazione di riferimento, essendo portata avanti da attivisti che da tutta Italia e da alcuni paesi Ue, si sono messi in rete coordinandosi spontaneamente. L’iniziativa rischia di non arrivare alla meta se le realtà della società civile e religiosa, del grande associazionismo, dei sindacati, della politica e della stampa, non ne supporteranno attivamente la diffusione e la promozione.
Cosa si chiede in particolare al Parlamento europeo?
La tutela delle persone igranti o richiedenti asilo:
all’ingresso dello spazio comune europeo attraverso la regolamentazione dell’attività di controllo delle frontiere con la previsione di sanzioni specifiche per i paesi che violino apertamente il divieto dell’uso della violenza;
all’interno di paesi terzi, fuori dalla Ue, nell’ambito di operazioni volte alla cosiddetta «esternalizzazione delle frontiere» europee, attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i paesi membri che concludano accordi che non prevedano il controllo del rispetto dell’articolo 4;
nella definizione degli standard di accoglienza all’interno dello spazio dei paesi europei per tutto il periodo di permanenza sul territorio attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i Paesi che si rendano protagonisti con i propri organismi e/o le proprie forze dell’ordine di violazioni dei diritti delle persone migranti o richiedenti asilo.
Durante i prossimi mesi, a poca distanza dalla chiusura della campagna, in tutta Italia saranno allestiti banchetti per la raccolta delle firme in numerose città ed organizzati eventi e dibattiti.
È importante la partecipazione quanto più ampia possibile di tutti i cittadini e le cittadine che credono nella possibilità di un cambiamento attraverso il loro attivo coinvolgimento divenendo protagonisti di un processo di pace tanto necessario e invocato ma che può concretizzarsi solo a partire dal riconoscimento pieno dei diritti di tutti, piuttosto che dei privilegi di pochi.
L’interesse incontrato fino a ora ci conferma che il momento sia maturo per utilizzare questo strumento democratico.
di Anna Bellamacina, 14/03/2024 su Citta Nuova
Questa rivista fa sua la campagna in coerenza con il mondo missionario di cui è portavoce, un mondo che è a diretto contatto con le sofferenze di chi è vittima di guerre, ingiustizie, dittature, sopraffazioni, invasioni di terre, disastri climatici e scontri tribali (spesso alimentati ad arte per permettere lo sfruttamento incontrollato di risorse minerarie o energetiche).
La giornata di sabato 18 maggio sarà una grande festa della Chiesa di Verona nella vigilia di Pentecoste e un incontro tra papa Francesco e la città scaligera sul tema «Giustizia e pace si baceranno».
Il programma
Come anticipato, la giornata inizierà con la festa in piazza san Zeno, rivolta a bambini e ragazzi fino alla terza media, alle scuole e all’associazionismo dei ragazzi: sarà anche il momento dell’accoglienza di papa Francesco. In particolare, per i ragazzi di terza media questo incontro sarà l’inizio della «Festa del passaggio» che durerà tutto il giorno.
Il secondo appuntamento per il Pontefice sarà all’interno della basilica di san Zeno con un momento di dialogo e preghiera, nei pressi delle spoglie del patrono, riservato a preti, diaconi, consacrati e consacrate.
Di lì è poi previsto il trasferiento in Arena per partecipare ad una parte dell’evento «Arena di pace 2024» che si svolgerà nell’anfiteatro cittadino dalle 9 alle 13.
Successivamente, il Pontefice si sposterà alla casa circondariale di Montorio, per l’incontro con i detenuti, la polizia penitenziaria, i familiari, la cappellania, i volontari e tutti coloro che compongono questo mondo in cui, come ha sottolineato il vescovo Domenico, «sembra che regni il silenzio», mentre in realtà spesso salgono grida, speranze e lacrime, rispetto alle quali la società tace e si dimostra indifferente.
Culmine della giornata sarà la messa di Pentecoste allo Stadio Bentegodi che papa Francesco presiederà alle 16; sarà anticipata dalla festa dei giovani con musica, riflessioni, testimonianze, a partire dalle 14.
Ufficio stampa diocesi di Verona, 04/02/2024
Sessantesimo di sacerdozio
Mi presento. Mi chiamo John (Giovanni) e da 65 anni sono missionario della Consolata. L’avventura missionaria che il Signore ha scelto per me è stata molto variopinta. Dopo tre anni in un seminario minore a Bevera di Castello Brianza (Lc) come vicerettore, ho cominciato a viaggiare per il mondo: cinque anni come animatore missionario in Andalusia (Spagna); tredici anni in Kenya, prima in una missione con una superficie di 850 km2 a Siakago (Embu), poi come professore e formatore in un nostro seminario a Langata (Nairobi); sette anni a Pittsburgh negli Stati Uniti e due a Toronto in Canada, come animatore missionario; undici anni a Roma, prima in aiuto alla direzione generale e poi in un ambiente accademico, e dieci anni, ancora a Roma, come padre spirituale in una residenza di sacerdoti provenienti da oltre sessanta paesi per ottenere i gradi accademici di licenza e dottorato in diverse discipline nelle università romane. Alla bella età di 80 anni, sono approdato a Milano, in un centro dei Missionari della Consolata, nel territorio parrocchiale di San Benedetto (in aprile è tornato a vivere a Bevera, dove ha cominciato il suo servizio, ndr).
Il 21 dicembre scorso ho celebrato 60 anni di sacerdozio. La sensazione che il tempo sia volato è normale. Affiora però nel cuore un vivo ringraziamento e un proposito di usare bene il tempo che ancora mi sarà dato. Certamente il ringraziamento va al Signore, che mi è stato vicino in tutti questi anni, ma non posso non riconoscere la sua premurosa presenza in tutti coloro che hanno condiviso il mio cammino e mi hanno sostenuto, confortato, incoraggiato con la loro amicizia sincera. […]
I miei spostamenti non sono stati sempre facili. Alcune volte ho fatto ciò che i miei superiori volevano – sapevo che in loro lo voleva anche il Signore – in maniera pulita, cioè accettando subito di buon grado. Altre volte invece con qualche resistenza […]. Così anch’io ho finito sempre di fare ciò che mi è stato chiesto.
Tante sono state le «idee forza» che mi hanno guidato in questi 60 anni di servizio missionario, ma ne scelgo solo due, quelle, forse, che sono state più incisive e direi anche più efficaci. […]
La prima idea forza è stata il «momento presente»: come tutti i santi hanno insegnato con convinzione, il passato è nella misericordia di Dio, il futuro è nella sua provvidenza. Solo il presente mi è dato per viverlo con impegno. Il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, lo riassumeva nel «hic et nunc» e nel «nunc coepi» (qui e ora e ora ricomincio). L’attimo presente mi ha salvato tantissime volte dal sostare nella delusione di un fallimento, dal cadere nell’ansia per ciò che sarebbe accaduto, dal prendere decisioni avventate e rimanere nella calma, da reazioni esagerate in momenti di tensione, nel vivere con solennità ogni parte della mia giornata, senza dare importanza più a una che all’altra. Tutto è importante, se volontà di Dio: la preghiera, prendere cibo, la passeggiata, un incarico anche di poco conto a servizio degli altri.
La seconda idea forza è stata considerare il mio sacerdozio non uno stato di privilegio o un tantino superiore ad altri, ma un servizio. Mi ha fatto tanto bene un articolo di don Tonino Bello, intitolato «Stola e grembiule» (che invito tutti a leggere), in cui egli dice tra l’altro che Gesù, nella messa solenne celebrata nel Giovedì Santo, non indossò né casule né stole, ma si cinse ai fianchi un panno rozzo, con un gesto squisitamente sacerdotale. Ho visto sempre il mio Sacerdozio come «ministeriale», come lo è effettivamente, in confronto a quello «regale», ricevuto da tutti i cristiani nel giorno del loro battesimo. Quante volte ho ripetuto a me stesso e poi agli altri: «Con voi sono cristiano, per voi sono sacerdote», (riferendomi a ciò che dice ancora Sant’Agostino: «Con voi sono cristiano, per voi sono vescovo»), per partecipare a incontri di preghiera, per esempio, senza la pretesa di prendere la parola o avvicinare anche chi ha altre convinzioni religiose, senza la smania di convincere nessuno.
Che brutto, fino a sentirmi addolorato, al tempo del mio servizio come padre spirituale, sentire da sacerdoti una espressione come questa: «Siamo sacerdoti, dovremmo essere trattati meglio», quando c’era qualche disservizio involontario. Allora prendevo la prima occasione per ricordare loro che tutti gli studi che avevano fatto per diventare sacerdoti erano per prendere il diploma in «schiavitù», cioè per essere completamene al servizio della gente a loro affidata. Cercare di usare il mio sacerdozio come scusa per ottenere qualcosa mi è parso sempre sbagliato.
Vi chiedo una preghiera.
padre John Marconcini, Imc Milano, 16/01/2024
Giustizia e pace si baceranno
Si vis pacem, para bellum! (se vuoi la pace, prepara la guerra).
L’antico adagio, a guardare alle decine di conflitti ad alta o bassa intensità che si combattono nei diversi continenti, sembra tornato di moda. Una guerra non solo di scontri armati ma che paventa una rapida distruzione del pianeta e di quanto lo abita, se dovesse verificarsi lo scenario di un conflitto nucleare, minacciato da chi di pace non intende sentir parlare.
In risposta a questa tentazione, esattamente dieci anni dopo l’ultima imponente manifestazione pubblica per la pace svoltasi nell’aprile 2014 nell’Arena di Verona, torna lo stesso appuntamento, rinnovato, sia per i temi trattati che per le modalità di attuazione, che vede coinvolti a livello nazionale e sovranazionale dozzine di entità ecclesiali e laiche, gruppi ecumenici e interreligiosi, movimenti popolari e organizzazioni non governative, rappresentanti sindacali e società civile.
L’intento è di richiamare con forza il nostro governo a rispettare e applicare l’articolo 11 della Costituzione che recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Un auspicio e un progetto tuttora disattesi, visto il coinvolgimento diretto o indiretto dell’Italia nelle situazioni di conflitto cui assistiamo nel mondo.
Arena 2024, come le precedenti, nasce dal mondo missionario, ecclesiale e laico, che contrappone la logica della pace a quella della guerra, al fine di spingere le istituzioni politiche a dare una risposta concreta, unitaria e ispirata ai principi di giustizia e di pace, per evitare di cadere nel baratro di un conflitto globale.
Giustizia e pace si baceranno! Queste parole di Isaia – poste a titolo dell’assemblea popolare in Arena – raccolgono l’aspirazione di milioni di persone che sognano un mondo in cui finalmente siano le vie del dialogo, dell’accoglienza reciproca e della pace alla base della convivenza planetaria. A testimoni di pace di oggi dai vari continenti, si unirà la memoria dei grandi profeti, laici o religiosi, da proporre e far conoscere ai giovani: Romano Guardini, Aldo Capitini, Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, Tonino Bello, Davide Maria Turoldo, Primo Mazzolari, Arturo Paoli e tanti altri protagonisti delle Arene precedenti.
L’impegno per la giustizia e la pace non intende limitarsi all’incontro in Arena del 17-18 maggio; vuole essere invece l’avvio di un processo di costruzione della pace che prosegua dopo l’evento, scuota la coscienza di tutti e coinvolga l’intera società, non solo gli strati più attivi, nella promozione della pace.
È questo il sogno di chi per lunghi mesi ha organizzato l’evento e dei suoi maggiori protagonisti: papa Francesco, che sarà presente e ribadirà il suo chiaro dissenso a guerra e violenza; il vescovo di Verona, monsignor Domenico Pompili, che da mesi anima la preparazione di Arena 2024; l’amministrazione comunale di Verona che in tanti modi ha facilitato e accompagnato l’organizzazione della manifestazione e i componenti dei cinque tavoli di lavoro che per mesi hanno discusso su cinque temi critici: pace e disarmo; ecologia integrale e stili di vita; migrazioni; lavoro; democrazia e diritti.
Parafrasando papa Francesco, Arena 2024 mira «a creare seminatori di cambiamento, promotori di un vero processo virtuoso di cultura della pace; compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza».
In questo rinnovato impegno che parte dall’appuntamento di Verona le riviste missionarie della Fesmi continueranno a esserci con il loro compito: raccontare i tanti cantieri dove questa strada della pace è un’alternativa concreta che prova ogni giorno a costruire un’umanità nuova. Insieme e adesso.
Un’opera collaborativa che evidenzia la violenza del modello economico dominante ed esplora alternative virtuose. In nome del rispetto degli esseri umani e della natura. Alla ricerca di una economia di pace.
Cittadella editrice ha il merito di aver pubblicato un agile libro che raccoglie i contributi di diversi attivisti e studiosi per mettere a fuoco le dinamiche dell’economia di guerra nella quale siamo immersi, e individuare percorsi virtuosi verso un’alternativa di pace.
La prima parte del testo è dedicata all’analisi delle drammatiche crisi in atto: il clima, le guerre, l’eclissi della democrazia, dell’uguaglianza e della giustizia. Esse sono prodotte dal modello neoliberista dominante nel quale sono riconoscibili almeno tre tendenze generali.
Tendenze del capitalismo
La prima è la tendenza alla concentrazione del potere economico in poche mani, frutto della lotta per la conquista dei mercati che ha alimentato una polarizzazione tra paesi creditori, come Cina, Russia, Arabia Saudita, e paesi debitori, come gli Stati Uniti. Relazioni internazionali più tese stanno portando allo sviluppo di politiche protezionistiche e alla creazione di aree amiche o nemiche, in un pericoloso «equilibrio di guerra» che rischia di saltare in ogni momento, anche a causa delle crescenti spese militari, le quali, ad esempio nei paesi Nato dell’Unione europea, sono aumentate di quasi il 50% in 10 anni: da 145 miliardi nel 2014 a 215 nel 2023.
Una seconda tendenza è la corsa al controllo delle fonti di energia fossile. I conflitti armati del secondo dopoguerra sono scoppiati per quasi la metà a causa degli idrocarburi: o per conquistare i territori che ne sono ricchi, o per impedire che un paese produttore acquisisse una posizione dominante nel mercato internazionale, o per controllare le rotte di trasporto di petrolio e gas.
È utile sapere che il 64% della spesa italiana per missioni militari all’estero è assorbita da operazioni connesse alla difesa delle fonti fossili. Non si può, poi, evitare di considerare che, nella guerra russo-ucraina, le zone contese del Donbass sono ricche di carbone e petrolio.
Una terza tendenza è l’impossibilità di mettere in atto una seria transizione ecologica, necessaria per affrontare la crisi climatica. Risulta infatti evidente che il cambiamento dovrebbe essere fondato su una conversione economica che sappia rinunciare a un modello di sviluppo centrato sullo sfruttamento degli esseri umani e della natura. Oggi invece «l’inquinamento ambientale è causato dalla difesa armata dell’unica ideologia esistente, il capitalismo» (pag. 145).
Dunque, la «radice della guerra […] va ricercata nella violenza strutturale su cui si basano i modi di produzione, distribuzione e riproduzione oggi trionfanti […]. Un sistema mortifero, biocida. Perché genera guerre, colonizza e militarizza le menti, recide ogni relazione con chi è diverso da sé, distrugge la biosfera, riduce gli spazi vitali di ogni specie vivente.
Per ripudiare la guerra è necessario estirpare le sue radici profonde ed inventare un’economia di pace» (pag. 97).
Alternative concrete
Nella seconda parte del testo, «Appunti per un’economia di pace», sono presentati alcuni contributi che propongono alternative possibili allo scenario descritto in precedenza.
Un cambiamento di paradigma è rappresentato dal modello dell’economia gandhiana, fondato su sei concetti chiave: nonviolenza, non sfruttamento, autolimitazione e sobrietà, lavoro autodiretto al servizio dello sviluppo proprio e della comunità di appartenenza, sviluppo locale autocentrato, amministrazione fiduciaria per gestire le attività economiche.
In questa prospettiva si collocano le esperienze di decentramento, autogestione e cittadinanza attiva come i Gas (Gruppi di acquisto solidale), le comunità energetiche per l’autoproduzione di energia a livello locale, le forme di boicottaggio nei confronti di prodotti insostenibili a livello sociale e ambientale. Queste iniziative rappresentano l’esercizio del potere del consumatore che diventa consum-attore contribuendo a indirizzare l’economia con le sue scelte di acquisto anche attraverso campagne collettive e organizzate (quelle, ad esempio, contro le banche armate).
Se le fonti fossili sono strettamente legate a un’economia di guerra, le fonti rinnovabili, decentrate e controllabili dal basso, rappresentano un diverso modello di società e di economia, un’economia di pace.
Oltre a queste sono presentate nel libro una molteplicità di esperienze e mobilitazioni civili che si battono per rendere i territori, le società e perfino le scuole sempre meno legate all’industria e alla mentalità bellica: dal comitato che ha creato il marchio etico «war free» alla mobilitazione della società civile della valle Sacco, a sud di Roma, contro l’industria bellica e chimica che inquina, dal movimento No base a Pisa Rossore contro la base militare Usa di Camp Darby, all’osservatorio contro la militarizzazione delle scuole (vedi MC ottobre 2023).
Un nuovo paradigma
Il testo si chiude con alcune proposte che invitano il lettore a ripensare i paradigmi economici della società nella direzione del rispetto e della convivenza con il resto dell’umanità e con la Terra.
Si parla quindi di decolonizzare la mente e il pianeta (sviluppare il senso del limite e della cura al posto della paura del nemico e della precarietà), di decostruire la retorica della sicurezza (riumanizzare l’altro, perseguire la giustizia economica), di porre la pace disarmata alla base della politica (obiezione fiscale per la conversione delle spese militari; costruzione dei Corpi civili di pace; riconversione industriale; disarmo e ripudio della guerra; difesa popolare nonviolenta), di mobilitarsi in reti e movimenti territoriali per costruire la pace dal basso, rifondare l’economia passando dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione.
Un libro ricco di spunti da conoscere, sviluppare, promuovere, e tradurre in azioni concrete.
Angela Dogliotti
Europa armata. Negoziati invisibili
Il coinvolgimento dell’Europa nel conflitto ucraino sarà sempre maggiore. Ne sono convinti alcuni autorevoli leader europei come il presidente francese Emmanuel Macron – che di recente ha proposto di prepararci a un intervento diretto di Paesi Ue e Nato per difendere l’Ucraina – e la presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen – che invita a entrare in una vera economia di guerra, dove la produzione militare diventi prioritaria -.
Alle loro dichiarazioni, si aggiungono quelle di vari esponenti della Nato sull’inevitabilità di una guerra tra l’alleanza atlantica e la Russia nei prossimi anni.
Perché queste prese di posizione?
È possibile che esse siano dei messaggi diretti a qualcuno? A chi?
Un messaggio a Putin
La prima ipotesi è che i messaggi siano degli avvertimenti a Vladimir Putin e alla Russia: nel momento in cui la situazione militare sul campo sembra volgere a suo favore, il Cremlino potrebbe essere tentato di provare di nuovo a realizzare quell’invasione completa dell’Ucraina che gli è fallita due anni fa.
Il messaggio allora è il seguente: se le forze russe sfondassero e arrivassero a Kiev, l’Occidente non lo potrebbe tollerare. Ci sarebbe un suo intervento diretto con conseguente terza guerra mondiale: un’eventualità che né la Russia, né gli Stati Uniti, né, tanto più, i vari Stati europei vorrebbero. Ma l’avvertimento a Putin è quello di non spingersi troppo oltre, non superare una fantomatica linea rossa che però non si capisce dove si trovi, e dunque rende la situazione particolarmente pericolosa.
Un messaggio all’Europa
La seconda ipotesi è che l’avvertimento sia rivolto agli stessi governi e classe dirigente europei. Questi, al di là dei loro proclami roboanti, vogliono fare la guerra per procura e rimanere fuori da un coinvolgimento diretto. Come, infatti, ha incautamente rivelato la nostra presidente del consiglio, c’è molta stanchezza, ci si vuole impegnare di meno, anche perché il sentimento popolare è tutt’altro che favorevole alla guerra.
Allora il messaggio potrebbe essere proprio questo: attenzione che, se la Russia, approfittando di questa situazione, dovesse sfondare e invadere tutta l’Ucraina, ciò non sarà tollerabile, pena la perdita della faccia, e allora sì che bisognerà intervenire direttamente con tanto di mobilitazione, cadaveri che tornano a casa e i rischi di terza guerra mondiale di cui già abbiamo scritto sopra.
Meglio continuare a sostenere l’Ucraina indirettamente che trovarsi in guerra aperta. Non bisogna fare troppo gli schizzinosi, bisogna invece mettere mano al portafogli e continuare a fornire all’Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno adesso. Per far questo, poiché le scorte sono finite, occorre ristrutturare l’apparato industriale in economia di guerra.
Un messaggio all’opinione pubblica
La terza ipotesi è che i messaggi siano rivolti all’opinione pubblica occidentale, allo scopo di rompere un tabù: poiché presto potremmo dover intervenire, è bene cominciare a parlarne. Tanto più che gli Stati Uniti sembrano meno propensi di un tempo a sostenere il carico della difesa e della sicurezza europea, soprattutto se dovesse diventare presidente Donald Trump.
Come sempre la prima reazione è quasi di scandalo, poi, però, l’argomento diventa oggetto di discussione, di dibattito, e infine diventa un’opzione possibile.
Il coraggio della trattativa
Probabilmente tutte e tre le ipotesi illustrate contengono una parte della verità.
Si sta andando verso la terza guerra mondiale senza che nessuno la voglia veramente, semplicemente perché nessuno dei protagonisti vuole essere il primo a cedere. Esattamente come successe nel 1914, quando all’inizio della Prima Guerra mondiale, l’inutile strage, si pensava a una guerra di pochi mesi.
Occorrerebbe un sussulto di saggezza, soprattutto da parte dei governi europei: avere il coraggio di proporre una trattativa, esattamente come suggerisce papa Francesco, il quale non ha consigliato la resa, al contrario ha affermato che il negoziato non significa arrendersi.
E un negoziato può funzionare se si convince l’altra parte che una trattativa capace di fermare la guerra conviene di più che continuare i combattimenti.
Questo è ancora possibile, anche se oggi la situazione è ben peggiore di quella del marzo 2022, quando la Russia aveva sostanzialmente fallito i suoi piani e l’Occidente era in una posizione di maggiore forza. Sarà ancora più difficile, per non dire impossibile, se Putin riterrà di poter chiudere vittoriosamente la partita.
Putin non è desideroso di trattare: è un criminale e un violento che crede solo nella forza, ed è anche un irresponsabile, altrimenti non avrebbe neanche iniziato una guerra che pensava di chiudere in poche settimane. Trattare con lui, quindi, è possibile solo se si convince che la continuazione della guerra sarebbe per il suo regime più pericolosa e costosa della cessazione.
Invece di preparare guerre che poi non si potranno combattere, sarebbe meglio puntare su una trattativa finché è possibile che essa disinneschi la macchina infernale che rischia di travolgerci tutti.
È probabile che se si riuscisse a fermare la guerra con un compromesso provvisorio, anche in Russia, all’interno del regime, si inizierebbero a contare i morti, le perdite, le distruzioni. Allora nel potere di Putin potrebbe crearsi qualche crepa, cosa che a oggi, perdurando i combattimenti, non sembra realistica.
Paolo Candelari
Questo articolo è frutto di una collaborazione tra il Centro studi Sereno Regis e Missioni Consolata.
In Ucraina: fino a Zaporiza e Nikopol
Padre Luca Bovio, Missionario della Consolata in Polonia, ci racconta il suo ultimo viaggio compiuto in Ucraina dal 2 al 7 marzo 2024, a Zaporiza e Nikopol.
Grazie alle offerte raccolte, nei giorni precedenti al viaggio abbiamo acquistato e spedito dalla Polonia ai frati francescani Albertini a Zaporiza 5 bancali di carne in scatola (18.000 confezioni). Oltre a questo, lì è giunto due giorni prima del nostro arrivo anche l’ultimo carico di aiuti raccolti dalla parrocchia di Villa di Serio (Bergamo) e da tanti altri, portato da Ruggero e gli amici di Cantù (Como) a Sandomierz in Polonia, e da lì con un altro trasporto inviati a Zaporiza.
Per arrivare a Zaporiza da Varsavia occorrono due giorni di viaggio.
Anche in Polonia come nel resto d’Europa ci sono proteste dei contadini. I camion per entrare in Ucraina alle frontiere hanno tempi di attesa medi di circa dieci giorni.
La nostra auto, trasportando aiuti umanitari, riceve il permesso di passare e così agevolmente varchiamo la frontiera.
Zaporiza è una grande città nella zona centro orientale del Paese, costruita sul grande fiume Dniepr che divide in due la città. Qui c’è la concattedrale cattolica dedicata a Dio Padre Misericordioso e non lontano la comunità dei frati Albertini. Nei pressi della concattedrale, quattro volte alla settimana viene fatta la distribuzione del pane e di una scatoletta di carne. Sono circa 1.500 le persone che in fila ricevono l’aiuto.
Prima gli invalidi, poi le donne e infine gli uomini.
Il forno dei frati, che visitiamo il giorno successivo, ha la capacità di produrre 900 pani, per questo motivo, per dare qualcosa a ognuno, a un certo punto occorre dividere a metà o anche in tre parti il pane. Durante la distribuzione a cui partecipiamo ci raccontano che nei negozi i beni si trovano. Quello che manca sono i soldi per comprare. La pensione media di circa 50 euro al mese è troppo bassa per pagare tutte le spese di casa così come quelle personali.
La città, prima della guerra, contava quasi un milione di abitanti. Oggi è difficile fare stime. Molti sono partiti. Altri sono arrivati dai villaggi vicini. Il fronte dista da qui solo 30 chilometri.
Nel pomeriggio visitiamo la seconda e unica presenza romano cattolica in città. In una piccola parrocchia circondata da alti palazzi vive un padre di origine polacca dei missionari di Nostra Signora di La Salette. Ci racconta delle sue attività di assistenza a favore degli ammalati che sono nelle case. Con alcuni volontari portano medicine e cibo. I volontari hanno anche il compito di verificare l’effettiva presenza dell’ammalato.
IL missionario ci racconta anche di un suo giovane confratello, p. Giovanni, che vive a Nikopol a circa 100 chilometri a sud in una situazione peggiore della sua. Nikopol è una città che si affaccia sul fiume. Sulla riva opposta c’è Ernegodar, la città con la più grande centrale atomica d’Europa. La riva opposta è territorio occupato. Per questo motivo Nikopol e tutta quella regione è spesso sotto attacco avendo come unico argine il fiume.
Decidiamo di fare una breve visita. Avendo ottenuto i permessi umanitari necessari, arriviamo brevemente a Nikopol per incontrare don Giovanni che ci accoglie calorosamente, quasi incredulo che qualcuno venga a trovarlo.
Da questo capiamo come siano importanti queste visite che, seppur brevi, incoraggiano. Ci raggiunge anche un militare responsabile della zona col quale, bevendo un caffè, parliamo della situazione al fronte. Il momento non è facile. C’è pessimismo. Occorre un ricambio del personale. Il governo sta lavorando a una legge che definisca meglio i criteri di arruolamento. Gli aiuti esterni sono da sempre stati fondamentali per difendersi contro un nemico che per numero e possibilità è impari. Questi aiuti su larga scala per vari motivi sono in forte diminuzione. Ad esempio, gli aiuti umanitari, ci comunica la Caritas locale, sono diminuiti del 60%. Si parla sul luogo anche di persone che simpatizzano per gli occupanti o che nel migliore dei casi desiderano l’occupazione come raggiungimento di una vita più tranquilla.
Il tempo trascorre veloce. Velocemente ritorniamo a Zaporiza e da lì il giorno successivo per Kiev e Varsavia.
Padre Luca Bovio
Dare uno schermo alla pace
La prima edizione del festival di cinema e nonviolenza, «Give peace a screen», è stato un successo: 1.848 cortometraggi di registi da 111 paesi del mondo per raccontare drammi, gioie e modi per fare la pace.
Gli inizi sono sempre difficili, scriveva Chaim Potock. Ma sono anche strabilianti, entusiasmanti. Ispiranti. Specie se si tratta della nascita di un nuovo festival.
Il Centro studi Sereno Regis si occupa di cinema dal 2010 lavorando sulla relazione tra cinema e nonviolenza.
Esiste un cinema di pace? Che promuova la risoluzione creativa e nonviolenta dei conflitti? Si può educare alla pace con il cinema?
Abbiamo posto la domanda a registi di tutto il mondo, organizzando il festival Give peace a screen (Gpas), per capire se è possibile «dare uno schermo alla pace», darle voce, farla vivere nelle immagini di un film.
Non ci aspettavamo una risposta così importante: 1.848 cortometraggi da 111 paesi. Un panorama stupefacente sulla nostra contemporaneità: dalla guerra in Ucraina agli sfruttamenti minerari in Turchia, dal recupero dei bambini-soldato colombiani al dramma dell’utero in affitto scelto per sopravvivenza.
Mostrare un mondo che urla
Il lavoro di selezione è stato duro. Alla fine, abbiamo presentato al pubblico 137 lavori di giovani registi: la visione di un mondo che urla, lotta, si ribella, e, soprattutto, desidera la pace.
Il programma è stato presentato al pubblico dal 19 al 22 ottobre 2023 a Torino: un successo, ma soprattutto l’apertura di un canale di dialogo con il mondo tramite il racconto di drammi, gioie e diversi modi di fare la pace.
Perché fare un festival significa fare rete con il mondo. Significa sostenere il regista camerunese scappato da casa a causa delle scorribande delle milizie islamiste; aiutarne uno turco al quale la polizia ha sottratto i suoi hard disk; tradurre in italiano decine di opere di registi senza risorse economiche. Significa creare una rete di solidarietà per mostrare al pubblico come si può parlare di pace in mezzo ai conflitti.
Al Give peace a screen è andato in scena il mondo che vuole la pace, che si ribella al silenzio imposto dai regimi (è un caso che la nazione più rappresentata sia stata l’Iran, con 223 cortometraggi?), che cerca di far conoscere le ingiustizie affinché si possa partecipare, solidarizzare, intervenire.
La forza dei cortometraggi
La prima edizione del festival è stata dedicata alla «costituzione del mondo», per celebrare i 75 anni della Carta fondamentale italiana: i cortometraggi sono stati proposti secondo gli articoli delle Costituzioni attualmente in vigore nel mondo, per sottolineare come sia necessario dare loro un’attuazione completa, creare un nuovo patto tra gli esseri umani che contempli anche un nuovo «accordo» con la natura.
Un evento speciale l’ha inaugurato: l’opera Migrants, del pluripremiato regista iraniano Masoud Ahmadi, una lirica e coreografica visione del dramma delle migrazioni moderne.
Il festival ha ospitato anche il documentario di Lorenzo Muscoso, Io e Paolo, emozionante ricordo di Salvo Borsellino, fratello di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia a Palermo nel 1992.
Give peace a screen è stato chiuso dall’ultimo lavoro di Adonella Marena, film maker ambientalista recentemente scomparsa, montato dal figlio Davide Balistreri: Gli altri animali, una riflessione sul nostro rapporto con i «non umani».
«Questo festival è la dimostrazione che il cortometraggio è uno strumento che sempre più persone usano per denunciare ingiustizie, documentare sfruttamenti e violenze, all’interno della società e sulla natura», afferma Loredana Arcidiacono, coordinatrice di Gpas per i documentari: «È uno strumento economico che si può girare con un telefono, e la sua brevità diventa risorsa, perché costringe alla chiarezza espositiva».
I premiati
Tre giurie diverse hanno attribuito alle opere in gara tre premi da 1.000 euro.
La prima ha assegnato l’ormai tradizionale premio Gli occhiali di Gandhi a La voix des autres, di Fatima Kaci, Francia, 2023: «Perché accade di rado di incontrare film come questo che incantano, inducono a riflettere e sono costruiti alla perfezione».
Il premio Aurora alla miglior sceneggiatura è stato assegnato a The borders never die, di Hamidreza Arjomandi, Iran, 2023, «per l’idea efficace di intrecciare crudo realismo e dimensione onirica».
Il premio Pertinace alla miglior regia è stato assegnato a Things unheard of, di Ramazan Kılıç, Turchia, 2023: «Per la grande capacità di dirigere attori giovanissimi e rendere lieve una situazione drammatica».
La giuria del premio, La pace preventiva, ha assegnato la vittoria a Out of the lines, di Sajjad Aslani, Iran, 2023, «perché interpreta perfettamente il concetto di pace preventiva e regala in un minuto il pathos e l’energia dei grandi film».
È stata attribuita una Menzione d’onore a Danpatra, di Abhijit Dagaduji Chavan, India, 2022, «per il coraggio di anteporre l’urgenza dell’educazione al rispetto dovuto alla religione». E una Menzione d’onore a Ezequiel Baraja, di Juan Fernández Gebauer, Argentina, 2021, «perché evidenzia il valore dello sport come motore di riscatto sociale, strumento di consapevolezza individuale e di libertà».
La giuria ha assegnato il Premio Adonella Marena sul tema della sostenibilità a Magos das plantas di Diogo Linhares, Portogallo, 2023, «perché attraverso le parole di un personaggio semplice e profondo, pone in evidenza il legame fisico che c’è, ma viene ignorato, tra piante e umani». Una Menzione d’onore a Dear Animal, di Younes Kafashian, Iran, 2023: «Una storia tenera e ironica che non ha bisogno di parole per illustrare un atto di amore, e insieme un insegnamento, da un anziano a un giovane». Altra Menzione d’onore a The Fledgeling, di Murtaza Ansari, Pakistan, 2023: «È sufficiente un minuto per esprimere il contrasto tra la violenza del gesto umano e la tenerezza delle creature indifese. Un flash semplice ed emozionante».
Un tesoro da valorizzare
Il festival non finisce: i 1.848 cortometraggi arrivati costituiscono un tesoro prezioso che sarà utilizzato per serate a tema e dedicate ai paesi che hanno partecipato.
Soprattutto, il Give peace a screen, ci auguriamo, diventerà un appuntamento fisso nel panorama cinematografico torinese.
Hadar, David, Fouad erano ragazzi israeliani. Erano studenti di architettura di Tel Aviv e Haifa, e li avevo conosciuti durante un tirocinio a Barcellona. Eravamo diventati amici. Io non conoscevo quasi nulla di Israele e della questione palestinese. Non avevo preconcetti. Loro raramente mi parlavano della situazione nel Paese. A volte si lamentavano del servizio militare che, per tutte e tutti durava tre anni e continuava poi per molto tempo con addestramenti periodici. Un giorno David si spinse a parlarmi degli attentati terroristici, dicendo: «Non ti puoi immaginare l’impressione che fa vedere l’esito di un’esplosione in piena città. E l’odore di carne bruciata…». Avevamo tutti appena finito l’università, avevamo grandi speranze e sogni. I loro, però, erano condizionati dal vivere in un luogo nel quale dovevano costantemente fare attenzione alla loro sicurezza, dove l’organizzazione dello Stato e della vita dei cittadini era impostata sul controllo e sulla protezione personale. Dove essere armati non era poi così strano.
Una decina di anni dopo, a inizio 2001, visitai Israele e la Cisgiordania. Si era nel pieno delle seconda intifada e i Territori palestinesi erano stati chiusi per ridurre al minimo la circolazione delle persone. C’erano stati diversi attentati in Israele a opera di Hamas e della Jihad islamica, per cui c’erano molti controlli e la tensione era alta. I militari ai check point per entrare e uscire dalla Cisgiordania seguivano rigide misure di sicurezza. Erano ragazzi e ragazze che mi ricordarono i miei amici.
Parlai con molte persone: ebrei israeliani, arabi israeliani, palestinesi della Cisgiordania, arabi cristiani, e alcuni stranieri, in particolare religiose e religiosi che vivevano da anni in Israele o nei Territori.
Entrai in contatto con molteplici realtà. Mi sorpresi nel vedere Gerusalemme divisa in quartieri così diversi tra loro. E poi i luoghi santi per ebrei e musulmani, vicini fisicamente ma lontani allo stesso tempo. Al Aqsa, nel mezzo della spianata delle moschee (terzo luogo santo dell’Islam), quasi sorretta dal muro del pianto, sacro per gli ebrei. Capii che gli arabi con nazionalità israeliana (circa il 20% della popolazione), vivevano una sorta di apartheid, con tanto di indicazione dell’etnia sulla carta d’identità.
Vidi le colonie israeliane in Cisgiordania (quindi fuori dello Stato di Israele): «Agglomerati urbani, ultramoderni, con tutti i servizi. Dominano perché costruiti in cima alle colline, spesso vicine alla città palestinesi, le circondano in tutte le direzioni. […] Sono collegate da superstrade, proibite ai palestinesi, e protette dai militari israeliani, che in poche decine di minuti portano alle città israeliane», scrivevo all’epoca. «Abitate normalmente da ebrei ultraortodossi sempre armati, e da cittadini israeliani attirati dalle facilitazioni economiche offerte dallo Stato». E ancora: «È una presenza surreale, inquietante anche a livello psicologico, soprattutto se si pensa che gli abitanti delle due parti (colonie e città palestinesi), così vicini, conducono vite completamente diverse, non hanno gli stessi diritti, e non c’è alcun contatto tra loro».
Vidi le case di Betlemme e di Ramallah bombardate dall’esercito israeliano.
Visitai un kibbuz nel nord di Israele, e parlai con chi ci viveva della loro esperienza comunitaria e pacifica. Una vita un po’ isolata e un po’ protetta allo stesso tempo.
Le tante facce di un piccolo fazzoletto di terra, concentrato di storia e di umanità.
Sono passati più di vent’anni e il mondo si è come dimenticato dei palestinesi. I «due stati per due popoli» non sono stati realizzati. Tuttavia, con gli accordi di Abramo del 2020, era iniziato un processo di distensione dei rapporti tra stati arabi e Israele, e così gli estremisti hanno reagito, avendo la meglio, come spesso accade.
«Hamas è il peggior nemico dei palestinesi». Non solo i suoi miliziani hanno compiuto una carneficina mai vista, ma usano gli abitanti di Gaza come scudi umani per difendersi. E che dire del governo israeliano e del suo esercito che si accanisce contro due milioni di civili – inclusi bambini e malati -, anziché preoccuparsi di liberare gli ostaggi?
Nella mia piccola esperienza dell’area ho visto due popoli, molto simili, che potrebbero dialogare, collaborare, ma si affidano a dirigenti estremisti che li portano a combattersi.
Talvolta penso ad Hadar, David, Fouad. Che ne sarà stato della loro vita blindata?
Intanto il motto di Vittorio Arrigoni, «restiamo umani», rimane inascoltato.
La missione è annuncio di pace
Una riflessione delle riviste missionarie italiane (Fesmi) in occasione della Giornata mondiale della pace (1 gennaio 2024).
Mai quanto quest’anno che sta iniziando la Giornata mondiale della pace che la Chiesa celebra nel primo giorno dell’anno ci interpella. Il vento di morte, violenza e distruzione che in queste settimane drammatiche ci ha raggiunto da Gaza, non ha fatto altro che aggiungersi alle ferite della guerra in Ucraina (combattuta tra cristiani, che arrivano addirittura a benedire le proprie armi), al conflitto violentissimo che da quasi tre anni ormai sfigura il Myanmar, a quello tornato a insanguinare il Sudan, alle tante altre guerre dimenticate che sempre più raramente entrano nelle scalette dei notiziari. Secondo l’organizzazione Acled (Armed conflict location and event data project), che raccoglie dati per monitorare i conflitti, al momento ci sono 59 guerre nel mondo.
Con sguardo profetico papa Francesco ci parla da tempo della «terza guerra mondiale a pezzi». In un contesto come questo, quale volto può assumere l’impegno del mondo missionario in favore della pace? Ci rendiamo conto che le parole di circostanza e i richiami generici a un destino comune non bastano più. C’è bisogno di gesti e scelte concrete, capaci di ridare corpo all’impegno per la pace.
Un primo passo è chiedere perdono. Perché le tante guerre tornate a riesplodere tutte insieme hanno un triste denominatore comune: sono il frutto imputridito di ingiustizie che durano da troppo tempo. Diritti negati, interessi predatori, ferite mai rimarginate. Molte volte ne abbiamo parlato sulle nostre riviste, ma senza riuscire a comunicare davvero quanto la sorte di questi fratelli e sorelle ci chiami in causa. Sono il dividendo degli affari che l’industria delle armi continua a mietere nascondendo dietro il paravento di presunte «opportunità» per il made in Italy il loro prezzo di sangue. Lo sappiamo tutti! Eppure abbiamo smesso di ricordarcelo quando questi conflitti falciavano vittime innocenti in terre lontane dai nostri occhi e dal nostro cuore (ad esempio nello Yemen).
Questo 1° gennaio 2024, allora, è davvero un’occasione per ricominciare a dire a tutti che «Pace a voi» è una parola irrinunciabile del Vangelo di Gesù. Che riconoscersi fratelli non è una vaga aspirazione del cuore, ma una precisa scelta di campo nei rapporti tra le nazioni. Che la riconciliazione tra i popoli non è un orizzonte buonista, ma un futuro che si costruisce anch’esso «a pezzi», cominciando dai gesti quotidiani di incontro tra chi dice basta alla logica del nemico.
È la pace che abbiamo visto rinascere in tanti angoli del mondo, in tante nostre missioni sfregiate dalla guerra. La pace di chi ha avuto il coraggio di voltare pagina, aprendo il proprio cuore al perdono. La pace di chi non si è rassegnato alla vendetta per il torto subito, ma ha saputo guardare avanti.
Ed è la strada per accogliere anche nuove grandi sfide globali, come quella dell’uso dell’intelligenza artificiale che papa Francesco ci indica nel suo messaggio di quest’anno: strappiamola a chi è già al lavoro per applicarla ad armi ancora più devastanti, per farne invece realmente un’opportunità di sviluppo al servizio di tutti.
La missione è annuncio di pace: torniamo a ripeterlo all’Italia di oggi.
Tempi di angoscia e confusione
Caro Gesù Bambino,
come ogni dicembre torno a scriverti nel ricordo della tua venuta, festa di luce e di pace. Quest’anno però sono più confuso che mai, vista la situazione di crisi internazionale che tutti stiamo vivendo. Pensa che, probabilmente, a Betlemme quest’anno non potranno celebrare in sicurezza e libertà la memoria della tua nascita.
È proprio la terribile guerra che è riesplosa nella terra dove tu sei nato che aumenta il mio disagio e la mia confusione. La Palestina non trova pace, oggi come ieri: devastata nei secoli da violenze e stragi da cui anche tu sei stato colpito, quando sei dovuto fuggire con la tua famiglia dalla spietatezza degli sgherri di Erode venuti nel tuo villaggio a uccidere senza pietà tutti i bambini per essere certi di colpire te.
La guerra di oggi mostra la stessa spietatezza: non passa giorno che non ci siano notizie di massacri di bambini, addirittura neonati, senza contare quelli di anziani, donne e persone indifese. Non passa giorno senza la distruzione di case, scuole, ospedali e luoghi di culto. Neanche la guerra in Ucraina, con le sue folli violenze, ci ha abituati a una violenza sui civili tanto indiscriminata e su vasta scala.
Ma quello che fa male è soprattutto il fatto che, invece di spingerci a reagire rinnovando il nostro impegno per la pace e la vita, questa ennesima guerra (ennesima, perché sono almeno 59 quelle in atto nel mondo, con violenze inenarrabili sui civili, nell’indifferenza generale) sta tirando fuori il peggio di noi stessi, facendoci schierare – spesso con intolleranza – per una parte o per l’altra. La logica della violenza ci travolge, modella i nostri comportamenti, ci convince che solo con la distruzione dell’altro, il nemico, la pace sia possibile. E tornano in campo stereotipi che pensavamo superati, il razzismo riprende quota, la caccia al nemico diventa un dovere, l’antisemitismo riemerge. E tutti diventano nemici senza volto per i quali non c’è compassione, ma solo rabbia, rancore, odio o totale indifferenza. Ma non è con «mors tua vita mea» (la tua morte è la mia vita) che si ritrova la pace.
In questa logica, non vediamo più le persone vere e concrete, ma un’indistinta massa di nemici da colpire.
Proprio tutto il contrario di quanto tu hai provato a insegnarci con la tua vita, e papa Francesco ci ripete oggi senza stancarsi: la guerra è una follia che non risolve i problemi, non migliora la vita, non crea giustizia, non porta alla pace. L’unica risposta vera che costruisce la pace è l’amore, il perdono, la misericordia. «Porgi l’altra guancia», ci hai detto. «Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano».
Rompere, rovesciare la logica della violenza, come hai fatto tu sulla croce, è l’unica via.
Grazie di averci donato una persona come papa Francesco che, come il profeta anonimo di cui parliamo questo mese (vedi pag. 32), continua a ricordarci quello che davvero conta per la vita, per la pace, per l’ambiente: guardare a te che ti sei fatto vicino, che cammini con noi, che non ci molli mai, che sei la luce che scaccia confusione, tenebra, indifferenza, assuefazione e scoraggiamento, che sei parola di verità che decodifica fake news, luoghi comuni e slogan urlati senza contraddittorio.
Grazie anche per tutti coloro che, pur non facendo notizia, siano essi israeliani o arabi, ebrei, musulmani o cristiani, continuano a operare nel silenzio per la pace, pagando di persona per essere vicini a chi soffre, e contestano la logica della guerra con azioni concrete di riconciliazione, di vicinanza alle vittime, di soccorso a chi ha perso tutto.
Grazie per chi, in Palestina o in altre parti del mondo, continua a credere con te che la luce vince le tenebre, l’amore è più forte dell’odio, e che la pace si costruisce col perdono, il dialogo, il rispetto di tutti, specialmente dei più piccoli e dei più poveri.
È urgente imparare da te la misericordia, quella forza originariamente femminile e materna con la quale ti sei immedesimato, che cambia il nostro modo di relazionarci gli uni agli altri e ci fa vedere, pensare e agire in modo nuovo.
Che la luce della tua nascita possa essere per tutti più luminosa dei bagliori dei bombardamenti, del fuoco degli incendi, dell’oscurita dell’odio. Cacci ansia, confusione, indifferenza e riaccenda in ciascuno di noi la voglia di operare per la pace. Che la tua luce ci dia la capacità di guardarci in faccia senza paura e scoprirci fratelli e sorelle.