El Salvador: Il caffè secondo Bukele


Mani di fatica piene dei frutti del caffè, uno dei principali prodotti agricoli di El Salvador. Foto di Rodrigo Flores – Unsplash.

Sommario

 

La mappa illustra l’estensione dell’Impero maya in America Centrale.

Parabola discendente

Il passato / dai fasti alla caduta

La storia di El Salvador, il più piccolo Paese dell’America Centrale, ha conosciuto i fasti della civiltà maya, la conquista spagnola e, in epoca recente, una sanguinosa guerra civile.

El Salvador è il più piccolo paese dell’America Centrale, con una superficie di circa 20mila chilometri quadrati, paragonabile come dimensioni a poco più della Puglia. Nell’affascinante mosaico storico del continente americano, il paese spicca per una storia unica, profondamente radicata nelle civiltà precolombiane, in particolare in quella dei Maya.

Questo antichissimo popolo, noto per le sue raffinate conoscenze in vari campi del sapere (astronomia, matematica, arte, architettura), ci ha lasciato un’eredità indimenticabile che ha influenzato la cultura di El Salvador.

Le scoperte archeologiche di vasi, gioielli e utensili – ancor oggi sottovalutate rispetto a quelle dei vicini di casa Honduras, Guatemala, Belize e Messico – raccontano la storia di una società con ricche tradizioni artistiche e una profonda spiritualità, intrisa di rituali e miti, strettamente legata alla comprensione dell’astronomia e dei cicli naturali.

Eccezionali osservatori del cielo, la loro capacità di calcolare complessi cicli astronomici è testimoniata dal famoso Calendario maya, sistema che combinava un calendario solare con un intervallo rituale di 260 giorni alla base della pianificazione delle semine, dei raccolti e dei momenti più propizi per le cerimonie religiose.

La civiltà maya

I Maya non erano organizzati in un’unica entità politica, bensì in una rete di città stato, ognuna con la propria gerarchia sociale e politica. I re erano considerati intermediari con il mondo degli dei, governavano su una élite di nobili, sacerdoti e guerrieri, ed erano sostenuti da agricoltori, artigiani e commercianti, ciascuno con un ruolo ben definito nella società. Abili urbanisti, utilizzavano tecniche di costruzione delle città assai efficaci e rispettose dell’ambiente, attente ai frequenti terremoti della regione e adottando metodi avanzati di gestione delle risorse idriche e agricole, tra le quali quella del pregiato «nettare degli dei» giunto sino ai nostri giorni, il cacao.

La civiltà maya si sviluppò lungo un periodo di circa 2.300 anni, dal 900 a.C. fino all’arrivo degli spagnoli che ne segnò il declino definitivo. Lungo tale arco temporale luoghi come Chalchuapa, importante centro cerimoniale e di scambio culturale influenzato dalla grande città di Teotihuacán in Messico, Tazumal e San Andrés raggiunsero il loro massimo splendore, ma il sito forse più famoso ed emblematico in El Salvador è Joya de Cerén, spes-so paragonata alla Pompei delle Americhe per la maniera in cui tutto si è conservato a causa di un’eruzione vulcanica avvenuta intorno al 600 d.C. In seguito, il movimento della popolazione e delle attività verso Nord, lungo la penisola dello Yucatán, unito all’arrivo degli spagnoli con le malattie da essi portate, nonché le politiche coloniali, contribuirono al collasso di quanto restava della struttura sociale e politica nel Paese.

Ciononostante, il lascito maya – evidenziato dalle continue scoperte archeologiche e storiche – è tutt’oggi palpabile in El Salvador: i discendenti dei Maya – riconoscibili dai tratti somatici – mantengono viva la lingua, le tradizioni e le usanze, collegando passato e presente del Paese.

L’arrivo degli spagnoli

Il 31 maggio 1522 sbarcò nella baia di Chorotega – oggi Golfo di Fonseca – lo spagnolo Andrés Niño, dando avvio alla conquista coloniale del Reino de España in El Salvador. Due anni più tardi Hermán Cortés inviò il suo feroce luogotenente Pedro de Alvarado alla conquista di un Paese che, all’arrivo degli spagnoli nel XVI secolo, terminata la dominazione maya, era occupato da due grandi gruppi etnici: i Pipil, che occupavano la regione centrale e occidentale del Paese, e i Lenca, che vivevano nelle terre orientali. I Pipil erano un popolo di origini nahua che, in seguito alla caduta di Teotihuacán in Messico, si trasferirono verso Sud portando con sé la lingua nahuatl, idioma ancora parlato in El Salvador sotto forma di varianti locali spesso chiamate pipil o nawat.

Spinti dalla ricerca di oro e dalla volontà di espandere l’impero spagnolo, i conquistatori trovarono una forte resistenza indigena guidata da leader come Atlácatl – ancor oggi studiato con orgoglio a scuola per la «battaglia delle montagne» che mise in fuga gli Alvarado – ma, infine, la superiorità militare e le malattie portate dall’Europa ebbero il sopravvento, con conseguenze devastanti per la popolazione indigena, una drastica riduzione demografica e profondi cambiamenti sociali, con l’imposizione di nuovi costumi, di una nuova religione e l’inizio di un’economia basata sulle piantagioni.

la cattedrale (in stile gotico) di Santa Ana. Foto Paolo Rossi.

Il cristianesimo e la gerarchia sociale

La conversione al cristianesimo fu forzata e i centri religiosi indigeni furono distrutti o trasformati in chiese cristiane: tale processo non solo cambiò le credenze religiose, ma anche le pratiche culturali, l’arte e l’architettura.

Dalla società coloniale fortemente stratificata, vennero istituite grandi piantagioni, soprattutto di caffè, che divennero presto il fulcro dell’economia salvadoregna, gestite attraverso un sistema di encomienda, che concedeva ai colonizzatori spagnoli il controllo delle terre e la manodopera indigena. In cima alla gerarchia vi erano gli spagnoli nati in patria, seguiti dai creoli, discendenti di spagnoli nati in America. Gli indigeni e gli africani schiavizzati occupavano gli strati più bassi della struttura sociale che, ancora oggi, sopravvive in varie forme nella società salvadoregna contemporanea.

L’era coloniale fu scandita dall’ascesa e declino dei tre principali prodotti ancora oggi coltivati in El Salvador: il cacao, il balsamo e l’añil – o indaco – richiestissimo dall’industria tessile europea per tutto il Settecento.

Gli spagnoli introdussero nuovi stili architettonici, mescolando elementi europei con influenze locali: città come San Salvador e Santa Ana furono fondate e costruite secondo il tipico modello spagnolo, con una piazza centrale circondata da edifici governativi e religiosi, con uno stile ancora ben visibile nei centri storici delle città salvadoregne. Sebbene l’accesso all’educazione fosse limitato principalmente ai figli dei coloni spagnoli, furono fondate scuole e università, importanti per la diffusione delle idee dell’illuminismo che, in seguito, influenzarono la lotta per l’indipendenza e la formazione dell’identità nazionale salvadoregna.

L’indipendenza

La lotta per l’indipendenza di El Salvador e il successivo processo di formazione della repubblica sono eventi cruciali che hanno modellato la storia e l’identità nazionale del Paese, segnando la transizione da una colonia spagnola a una nazione indipendente attraverso un percorso turbolento e complesso.

L’insoddisfazione per il dominio coloniale crebbe tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, con le idee dell’illuminismo, la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese che influenzarono le élite criolle, già tormentate dalle riforme economiche spagnole che minacciavano gli interessi dei proprietari terrieri locali.

Figure come il sacerdote intellettuale José Matías Delgado (1767-1832) emersero come leader del movimento indipendentista: la sua leadership, insieme ad altri come Manuel José Arce, giocò un ruolo fondamentale nel mobilitare il sostegno alla causa indipendentista. Il 5 novembre del 1811 lanciò il primo grido di indipendencia, al quale rispose tutto il Paese. Ci vollero però dieci anni per proclamarla, l’11 settembre del 1821, come parte di un movimento più ampio che coinvolse l’intera America Centrale. Tuttavia, ciò non significò immediatamente la fine dell’influenza spagnola o una transizione fluida al governo autonomo poiché, inizialmente, El Salvador divenne parte dell’impero messicano di Agustín de Iturbide prima di unirsi alla Federazione delle province unite dell’America Centrale nel 1823, segnata però da tali tensioni interne e lotte di potere che alla fine portarono al suo dissolvimento.

La nascita della repubblica

Dopo il dissolvimento della federazione, El Salvador proclamò la propria sovranità e si costituì come repubblica indipendente (1841). Sforzi significativi per costruire le istituzioni di un nuovo stato, tra cui la creazione di un governo, un codice legale, e l’organizzazione di un esercito furono le sfide che affiancarono la definizione di una politica agraria e la gestione delle tensioni tra diverse classi sociali. Le piantagioni di caffè divennero centrali, con una crescente dipendenza da tale singolo prodotto per le esportazioni, sino a portare a una maggiore disuguaglianza e conflitti di proprietà sulla terra.

Al contempo, il periodo post indipendenza vide anche un’espansione della vita culturale e intellettuale: la stampa libera e la letteratura fiorirono, contribuendo a formare una nuova identità nazionale salvadoregna. Furono fondate nuove scuole e istituzioni educative, rendendo l’istruzione più accessibile e contribuendo a plasmare la futura classe dirigente del Paese.

Andavano però gestite anche la diversità etnica, la disuguaglianza economica e la creazione di un sistema politico stabile, questioni mai veramente affrontate che portarono alla Rivolta di Izalco del 1932 quando i jornaleros, i braccianti a giornata, dissero basta ai capataces, i guardiani della produttività. Guidata dal contadino pipil José Feliciano Ama (1881-1932), l’insurrezione sfociò in quello che viene ricordato come la masacre indigena del ‘32, aprendo la strada ad anni di dittatura militare che, più che reprimere i campesinos, voleva sradicare ogni fermento comunista nel Paese.

La guerra civile e gli accordi di pace

Dagli anni 40 ai 70 seguirono assassini politici, lotte ideologiche, repressioni politiche ed elezioni contestate, che portarono a frequenti scontri tra governi di destra e movimenti di sinistra e al conflitto che esplose nel 1980, quando gruppi di guerriglieri di sinistra, uniti nel Frente Farabundo Martí para la liberación nacional (Fmln) iniziarono una lotta armata contro il governo che durò dodici anni, caratterizzata da una violenza brutale, massacri, scomparse forzate e violazioni dei diritti umani commesse da entrambe le parti. La situazione attirò l’attenzione internazionale, in particolare degli Stati Uniti, che videro il conflitto come parte della più ampia lotta contro il comunismo in America Latina e che per questo fornirono un significativo supporto militare ed economico al governo del Paese. Si stima che, durante la guerra civile salvadoregna, oltre 75mila persone siano morte e migliaia scomparse, interi villaggi siano stati distrutti, causando massicce ondate di rifugiati e sfollati.

Dopo anni di combattimenti le pressioni internazionali e la stanchezza della popolazione portarono ai negoziati di pace del 1992, con la firma degli accordi di Chapultepec, che posero fine al conflitto.

Essi prevedevano riforme democratiche, la dismissione delle forze guerrigliere e la creazione di una Commissione per la verità per indagare sulle violazioni dei diritti umani. A quel punto la società salvadoregna dovette affrontare il difficile compito di integrare gli ex combattenti, risarcire le vittime e costruire un sistema politico e legale più equo e inclusivo. Ad oggi, disuguaglianze economiche, ingiustizie e diritti umani violati costituiscono ancora questioni aperte.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

Mons. Oscar Romero tra la sua gente. Foto Equipo Maiz-CNS-CAFOD.

Nel segno di Romero

Chiesa e missionari

L a storia dei missionari in El Salvador è un complesso intreccio di fede, conflitti e cambiamenti sociali: dall’arrivo dei primi missionari spagnoli fino alla tragica morte di monsignor Óscar Romero nel 1980, la presenza e l’attività della Chiesa cattolica hanno giocato un ruolo cruciale nella formazione della società salvadoregna. Prima dell’arrivo degli spagnoli nel XVI secolo, El Salvador era abitato da diverse culture indigene, tra cui i Pipil, discendenti dei Nahua. L’arrivo degli spagnoli portò i primi missionari cattolici che introdussero il cristianesimo, trasformando radicalmente le strutture religiose e sociali preesistenti.

Durante il periodo coloniale la Chiesa cattolica stabilì una forte presenza nel Paese, diventando uno dei principali strumenti di colonialismo spagnolo: i missionari si concentrarono sull’educazione e la conversione delle popolazioni indigene, la costruzione di molte chiese e la diffusione della fede cattolica. Fu anche un’epoca di grande sofferenza per i popoli indigeni a causa delle malattie, della violenza e dello sfruttamento. Dopo l’indipendenza del 1821, El Salvador affrontò periodi di instabilità politica nei quali la Chiesa giocò un ruolo assai importante, talvolta al fianco dei potenti, talvolta come voce di chi non ne aveva.

Nel XX secolo, la Chiesa iniziò a prendere una posizione più attiva contro le ingiustizie sociali, in particolare sotto la guida di figure come il vescovo Óscar Romero, la «voce dei senza voce».

Nominato arcivescovo di San Salvador nel 1977, Romero divenne presto una figura chiave nella lotta per i diritti umani e la giustizia sociale durante il periodo di crescente violenza e repressione politica. La sua predicazione e le sue azioni erano incentrate sulla difesa dei poveri e degli oppressi, con aspre e aperte critiche contro la violenza generalizzata e le violazioni dei diritti umani da parte del governo e dei gruppi paramilitari. Fu a causa di tali forti condanne verbali che, lunedì 24 marzo 1980, fu assassinato mentre celebrava la messa nella cappella dell’ospedale La Divina Providencia: la sua uccisione scosse la comunità internazionale e divenne un simbolo della lotta per i diritti umani e la giustizia sociale, sia in El Salvador che all’estero.

L’omicidio fece di monsignor Romero un martire, al punto di essere santificato il 13 maggio del 2015 da papa Francesco. Come San Romero d’America, i suoi devoti lo celebrano ogni 24 marzo. Secondo molti, la sua uccisione fu il preludio a una guerra fratricida, che sarebbe durata 12 anni.

La storia dei missionari in El Salvador è intrinsecamente legata alle vicende politiche, sociali e religiose del Paese. Dall’era coloniale fino alla tragica morte di monsignor Romero, i missionari hanno avuto un impatto profondo, fungendo sia da agenti di cambiamento sia da custodi della tradizione, in una storia segnata da conflitti e ricerca di giustizia. La loro eredità continua a influenzare la società salvadoregna, ispirando nuove generazioni a lottare per un futuro più equo e pacifico.

P.R. e J.L.H.D.

22 maggio 2015, San Salvador, una folla enorme saluta la beatificazione di mons. Romero. Foto: Luis Astudillo C. – Cancillería.

Un ricco mosaico di etnie e culture

I popoli indigeni

El Salvador è un Paese con un patrimonio culturale indigeno profondamente radicato, testimonianza di una storia ricca e complessa. Oltre ai Maya e agli Xinca, le principali culture precolombiane includevano i Pipil, discendenti dei Nahua, e i Lenca. Ciascuna di queste culture – con proprie lingue, tradizioni e pratiche spirituali – ha contribuito al mosaico etnico e culturale del Paese. Anche gli idiomi indigeni, un tempo parlati diffusamente, stanno oggi vivendo un periodo di rivitalizzazione: numerosi progetti educativi e culturali mirano a preservare e promuovere queste lingue come parte integrante del patrimonio nazionale, riconoscendone il valore per la conservazione della diversità culturale e la trasmissione di conoscenze tradizionali.

Le pratiche spirituali delle culture indigene salvadoregne, profondamente connesse alla terra e ai cicli naturali, sono sopravvissute nonostante il sincretismo con il cristianesimo portato dalla colonizzazione spagnola. I rituali indigeni spesso comprendono offerte alla terra, danze rituali e cerimonie di guarigione, tutte pratiche che non sono solo espressioni religiose, ma anche modi per mantenere una relazione equilibrata con la natura e per conservare la coesione comunitaria. Molti festival tradizionali combinano elementi indigeni e cristiani – ad esempio, il Dia de los muertos è una celebrazione che fonde riti indigeni con la tradizione cattolica dove si onorano gli antenati con offerte di cibo e preghiere, così come nella Danza de los historiantes, eseguita durante le feste di paese, costumi colorati e maschere elaborate narrano storie locali di miti e leggende – e le cerimonie indigene spesso coinvolgono rituali che cercano di stabilire una connessione con il sacro, che sia rappresentato dagli antenati, dagli spiriti della natura o da altre divinità.

Spesso, inoltre, i rituali includono danze, canti, l’uso di piante medicinali e offerte di cibo e bevande. I riti di guarigione e la medicina tradizionale giocano, infatti, un ruolo vitale nella comunità indigene: guaritori e sciamani usano erbe, preghiere e riti per curare malattie fisiche e spirituali, mantenendo viva una tradizione di conoscenze mediche tramandate di generazione in generazione, sottolineando l’importanza di vivere in armonia con l’ambiente e ricordando l’interdipendenza dell’uomo con la natura.

Il patrimonio indigeno e le tradizioni spirituali di El Salvador sono ricche di storia, cultura e significati. La loro conservazione non è solo una questione di mantenere vive le tradizioni, bensì un modo per celebrare e riconoscere la diversità culturale del paese, offrendo preziose lezioni sulla sostenibilità, la comunità e il rispetto per l’ambiente.

P.R. e J.L.H.D.

Un sorridente Nayib Bukele con la moglie Gabriela Rodriguez mostra il certificato del Tribunale elettorale che attesta la sua vittoria: sarà presidente del Salvador fino al 2029 (San Salvador, 29 febbraio 2024). Foto Marvin Recinos – AFP.

Dalle «maras» al «bitcoin»

IL presente / la rinascita del paese centroamericano

I salvadoregni hanno rieletto in massa Nayib Bukele, personaggio controverso ma carismatico. Al suo governo si deve sia la sconfitta delle bande criminali (le terribili «maras») che l’introduzione del «bitcoin». Ma non tutto è bello come sembra.

Nel corso degli ultimi decenni, El Salvador ha vissuto profondi cambiamenti, culminati con l’elezione a presidente di Nayib Bukele. Lo scorso 3 febbraio 2024 il politico – figlio di un uomo d’affari di origine palestinese – è stato riconfermato nella carica, ottenendo l’approvazione di oltre l’84% dei cittadini votanti.

Entrato in carica nel 2019 con il partito da lui stesso fondato (Nuevas ideas), Bukele si è fatto subito notare per il suo stile carismatico e un utilizzo intensivo dei social media.

Già sindaco di Nuevo Cuscatlán e poi di San Salvador, ha catturato l’attenzione dell’elettorato giovane e urbano con la sua retorica anti establishment e il suo impegno a combattere la violenza, la corruzione e a modernizzare il Paese.

Il presidente Bukele con alle spalle un ritratto di mons. Romero. Foto Secretería de comunicación de El Salvador.

Dopo Arena e Farabundo

Primo presidente dopo la fine della guerra civile a non appartenere a uno dei due principali partiti politici, Frente Farabundo Martí (Fmln) e Arena, ha affrontato di petto questioni critiche come la bassa crescita, l’alta disoccupazione e l’emigrazione, divenendo subito idolo delle masse. Una delle sue mosse più audaci è stata l’adozione, nel 2021, del bitcoin come moneta legale (accanto al colón salvadoregno e al dollaro statunitense), decisione controversa che ha attirato l’attenzione internazionale e che ha anche sollevato preoccupazioni sulla stabilità finanziaria del Paese (pure nell’Fmi, il Fondo monetario internazionale).  Uno dei principali problemi affrontati da Bukele è stato il tasso di criminalità, dovuto alle maras, le pandillas che da lungo tempo affliggevano il Paese. Le azioni di contrasto messe in campo dal presidente sono largamente sostenute dalla popolazione, nonostante le serie preoccupazioni espresse da organizzazioni per i diritti umani riguardo alle violazioni dei diritti fondamentali (detenzioni arbitrarie e condizioni di carcerazione dure). Sotto la presidenza di Bukele, El Salvador ha sperimentato un approccio più assertivo nelle relazioni internazionali, una politica estera che ha spesso portato a tensioni con gli Stati Uniti e altri partner tradizionali, e il tentativo (ben riuscito) di attrarre investimenti stranieri con l’istituzione delle zonas francas, aree designate a promuovere l’investimento estero attraverso incentivi fiscali e doganali – per aziende del comparto manifatturiero, tessile, elettronico e dei servizi, come call center, che appartengono a investitori stranieri – tra cui esenzioni da alcuni tipi di tasse e agevolazioni per l’importazione ed esportazione di merci.

Un uomo passa davanti a un murale contro il bitcoin, la moneta virtuale adottata dal presidente Bukele nel settembre del 2021. Foto Marvin Recinos – AFP.

I motivi della rielezione

Il massiccio sostegno della maggioranza della popolazione salvadoregna nelle votazioni dello scorso febbraio è stato dovuto non solo alla lotta vittoriosa di Bukele contro le maras, ma anche a una serie di azioni da lui intraprese durante il primo mandato presidenziale. Alcuni esempi concreti sono gli investimenti nella realizzazione di infrastrutture stradali, la ristrutturazione e la costruzione di nuovi ospedali, scuole, parchi e piazze – attraverso un’apposita istituzione governativa chiamata Dom, «Direzione dei lavori comunali» – in diverse parti di un Paese convertito di colpo al turismo, attraverso la trasformazione del centro storico di San Salvador, il recupero e la ristrutturazione dei centri turistici a vocazione familiare, lo sviluppo di un vero e proprio concept turistico chiamato Surf City.

Come in tutto il mondo, il governo di Bukele ha dovuto anche affrontare la pandemia di Covid-19. La risposta del Paese è stata lodata per la sua efficienza in alcuni aspetti, come la rapida implementazione di misure di lockdown, la massiva campagna di vaccinazione e la conversione delle strutture del Centro internazionale di fiere e convegni di San Salvador a «Hospital El Salvador», attrezzato in pochissimo tempo con oltre 400 posti letto, inclusi 105 posti in unità di terapia intensiva.

Al contempo, non è stata altrettanto lodata la velocità delle misure repressive e l’uso dell’esercito per far rispettare le quarantene: le politiche di Bukele hanno da sempre sollevato questioni riguardanti la libertà di stampa, l’indipendenza della magistratura e i diritti umani e le sue mosse per consolidare il potere, inclusa la controversa sostituzione di giudici della Corte suprema, hanno suscitato timori di un’erosione della democrazia in El Salvador.

La sua riforma amministrativa del 2024 è stata una pietra miliare nel processo di modernizzazione del Paese, che ha comportato una ristrutturazione delle istituzioni governative, l’introduzione di nuove tecnologie per rendere il governo più efficiente e trasparente, la decentralizzazione di alcuni servizi per renderli più accessibili ai cittadini.

Il Paese oggi si posizione come un hub innovativo in America Centrale e la società salvadoregna odierna si trova in un delicato punto di equilibrio tra le sfide poste dalla modernizzazione, le pressioni economiche globali e la necessità di preservare la democrazia e i diritti umani. La popolazione giovane e dinamica è al centro di tali trasformazioni, portando nuove idee e aspirazioni, mentre si confronta quotidianamente con l’eredità del suo passato turbolento, alla ricerca di un suo percorso nel contesto globale.

Bukele, apprezzato e temuto

La percezione pubblica di Bukele è complessa e varia: molti lo apprezzano per il suo approccio diretto, la sua capacità di comunicare attraverso i social media e le sue politiche volte a combattere la corruzione e migliorare l’efficienza del governo. Tuttavia, esistono anche preoccupazioni riguardo al suo stile di leadership e alle sue mosse per consolidare il potere, inclusa la sostituzione di giudici della Corte suprema e la rimozione, a fine maggio, del murales di San Romero all’aeroporto di San Salvador, sostituito da pubblicità. In ogni caso, la storia di El Salvador è una vera e propria testimonianza di resilienza e capacità di adattamento, con lezioni importanti sia per la regione centro americana sia per la comunità internazionale.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

L’arrivo di un gruppo di appartenenti alle maras 13 e 18 nella mega prigione chiamata «Centro di confinamento del terrorismo» (Cecot), che si trova a 74 chilometri dalla capitale San Salvador (15 marzo 2023). Foto El Salvaodr’s Presidency Press Office – AFP.

Le maras e il pugno duro del presidente

Regime d’eccezione

La guerra civile degli anni Ottanta causò una forte emigrazione verso gli Stati Uniti d’America, generando nel contempo lo smembramento di molte famiglie salvadoregne. Fuori del paese si cercavano sicurezza e migliori condizioni di vita. Non solo negli Usa, ma anche in altri stati che avevano aperto le porte ai migranti: Canada, Australia, Svezia e, in misura minore, Messico, spagna e Italia.

Il fenomeno delle bande – chiamate maras (pandillas) – prende avvio negli Usa, dove i figli dei salvadoregni privi di documenti, vivendo o studiando in quartieri difficili, soprattutto latinoamericani, sono facile preda della delinquenza locale. Si formano la «mara Salvatrucha» (MS-13) e la «mara Barrio 18». A poco a poco, i gruppi criminali salvadoregni crescono e si organizzano in maniera autonoma. Commettono ogni tipo di atto criminale, spingendo molti giovani nei riformatori o nelle carceri. Al contempo, non avendo lo status di residenza legale negli Usa, tantissimi vengono rimandati al loro Paese d’origine: in questo modo in El Salvador confluiscono i membri delle maras senza che il Paese abbia adottato alcun tipo di controllo o alcuna misura per contenere la loro presenza. Nel corso degli anni seguenti, queste bande riescono a costituire vere e proprie strutture di potere criminale, generando terrore tra la popolazione. Nessuno osa denunciare per timore delle conseguenze per se stessi e per la propria famiglia. Mentre nei quartieri a basso reddito cresce il timore che i figli siano attratti dalle maras e da esse reclutati, in quelli ricchi, dove la gente vive in complessi residenziali privati e protetti da mura, le famiglie pagano un pizzo per la propria incolumità.

La situazione degenera a un punto tale che i poveri si vedono costretti a pagare la protezione a una banda o all’altra per non essere obiettivo delle pandillas dei quartieri vicini, mentre i ricchi iniziano a assoldare agenzie private per la sicurezza dei loro quartieri. In conclusione, nella società salvadoregna sia i poveri che i ricchi sono costretti a sottostare a un sistema in cui la sicurezza è un bene raro e comunque molto caro.

Per diversi decenni, la vita dei salvadoregni di ogni classe sociale è stata dura. Famiglie e generazioni di giovani hanno vissuto nel terrore di essere vittime dirette o indirette della violenza criminale, con una economia sommersa generata dalle maras e da loro soci (spesso appartenenti ai partiti politici al potere). Un’esistenza di terrore e ansia vissuta per molti anni, fino all’arrivo del nuovo presidente Bukele e al varo della sua strategia della «mano dura». La proclamazione dello stato d’emergenza (régimen de excepción), con la sospensione di alcune garanzie costituzionali, ha portato a un drastico calo del tasso di omicidi, ma è tuttora oggetto di aspre critiche per le violazioni dei diritti umani e l’aumento delle detenzioni senza processo, denunciate ad esempio da Amnesty international.

A livello internazionale, la sua azione più nota è stata la costruzione del mega carcere noto come «Centro di confinamento del terrorismo» (Cecot). Progettato per ospitare fino a 40mila prigionieri, al momento ne ospita più di 65mila.

Oltre alla repressione, il governo bukele cerca di promuovere iniziative di prevenzione del crimine, come programmi educativi e di sviluppo delle comunità, per ridurre l’attrattiva delle gang tra i giovani. Allo stesso tempo, sono in atto sforzi per facilitare la reintegrazione degli ex membri delle bande nella società, sebbene tale aspetto riceva meno attenzione mediatica rispetto alla repressione. Il governo ha riconosciuto che, per combattere in modo efficace le pandillas, è necessario affrontare le cause alla base del loro potere, inclusa la povertà. Tuttavia, le modalità e l’efficacia delle politiche volte a mitigare tali cause rimangono oggetto di discussione. Non c’è dubbio che l’azione politica di Bukele continuerà a essere argomento di acceso dibattito dentro e fuori di El Salvador, dove – non va dimenticato – il régimen de excepción viene prorogato ogni mese.

P.R. e J.L.H.D.

 

San Salvador, il palazzo nazionale che un tempo ospitava l’assemblea legislativa del Paese. Foto Edilberto Santana Suarez – Unsplash.

La (solita) strada lastricata di insidie

I migranti

La situazione dei migranti che attraversano El Salvador per raggiungere il Messico, generalmente come tappa verso gli Usa, è complessa e piena di sfide. Il flusso migratorio è costituito principalmente da individui e famiglie provenienti da varie parti dell’America Centrale e del Sud America, che affrontano numerosi pericoli durante il loro viaggio attraverso El Salvador, inclusi i rischi legati al passaggio in zone controllate dalle maras, oltre a possibili abusi da parte di contrabbandieri e forze dell’ordine.

Spesso i migranti viaggiano in condizioni precarie, senza accesso adeguato a cibo, acqua, riparo e cure mediche, tutte condizioni difficili che possono avere gravi ripercussioni sulla loro salute fisica e mentale. El Salvador, come altri paesi dell’America Centrale, ha le proprie politiche e leggi sull’immigrazione che possono influenzare il trattamento dei migranti, in un complesso ecosistema di norme di cooperazione regionale sulle questioni migratorie, spesso ostacolate dalle singole politiche nazionali. Lungo il percorso, i migranti devono navigare attraverso i controlli di frontiera che possono essere imprevedibili e spesso pericolosi, soprattutto se viaggiano senza documentazione adeguata. Molto spesso, i migranti dipendono dai trafficanti di esseri umani per attraversare le frontiere, il che può esporli a rischi di sfruttamento e violenza, lungo percorsi che possono cambiare rapidamente in risposta alla presenza di polizia, alle politiche di immigrazione e alle condizioni di sicurezza lungo la strada.

Le comunità lungo le rotte migratorie sono spesso coinvolte, da un lato offrendo supporto umanitario ai migranti e, dall’altro, affrontando sfide relative alla sicurezza. Numerose Ong e organizzazioni Internazionali operano in El Salvador e lungo le rotte migratorie per fornire aiuto essenziale ai migranti – cibo, alloggio, assistenza legale -. La situazione dei migranti che attraversano El Salvador verso il Messico resta un problema umanitario complesso, che richiede una risposta coordinata e compassionevole a livello regionale e internazionale. Mentre gli sforzi per regolamentare e controllare il flusso migratorio sono importanti, appare fondamentale garantire che i diritti e la dignità dei migranti siano rispettati in tutto il processo.

P.R. e J.L.H.D.

Due surfiste sulla spiaggia El Tunco, a Tamanique. Foto Eduardo Iraheta – Unsplash.

Contro la povertà, il turismo sostenibile

IL futuro / quale strada per l’economia?

Un alto numero di salvadoregni vive in povertà. Ma il piccolo territorio del Salvador offre una varietà di ambienti naturali che ne fanno una grande attrazione turistica.

In El Salvador i poveri sono ancora tanti e addirittura in aumento (più 4,4% dal 2019, anno d’insediamento di Bukele). È da poco che il Paese ha puntato sul turismo come volano per la rinascita economica. In questo senso, in un periodo di generale trasformazione, il Paese sta reinventando la propria offerta turistica, enfatizzando la protezione delle proprie risorse naturali e culturali, nonché promuovendo l’interazione con le comunità locali. La recente pandemia ha portato a una seria riflessione su come il turismo possa essere più sostenibile e rispettoso dell’ambiente: con una ripresa significativa nel 2022 e un boom nel 2023, il settore turistico ha adottato nuove pratiche, tra cui offerte innovative che si allontanano dai percorsi più tradizionali, puntando su esperienze autentiche e sul coinvolgimento delle comunità locali.

El Salvador offre una ricchezza unica di attrazioni turistiche. Noto per la sua intensa attività geologica, ospita circa venti vulcani, molti dei quali sono considerati attivi e potenzialmente pericolosi. Tra questi vulcani, i più noti includono il San Salvador, il Santa Ana (o Ilamatepec), e il San Miguel (o Chaparrastique) a causa della loro storia eruttiva e della loro vicinanza ad aree densamente popolate. Boschi, cascate e laghi pittoreschi formano una vasta gamma di ecosistemi che vanno dalle foreste nebbiose montane alle zone costiere. Posizione geografica e varietà di ambienti naturali favoriscono una notevole diversità biologica che include oltre tremila specie di piante, tra cui numerosi tipi di orchidee e alberi come balsa e ceiba, specie arboree endemiche e rare, oltre 500 specie di uccelli osservate, compresi molti migratori che fanno sosta nel Paese durante i loro spostamenti stagionali.

Anche le «pupusas»

La gastronomia del paese e le sue tradizioni culturali rappresentano un altro punto di forza.  Le esperienze che combinano natura, cultura e gastronomia stanno crescendo in popolarità. Celebrate addirittura attraverso il «Día nacional de la pupusa» ogni seconda domenica di novembre, le pupusas sono il piatto nazionale di El Salvador. Queste tortillas spesse, fatte di farina di mais o di riso, sono uniche per il loro metodo di preparazione e varietà di ripieni: a differenza di altri tipi di tortillas riempite, vengono farcite prima di essere cotte e il ripieno viene inserito al centro di un impasto di farina, poi l’impasto viene chiuso e appiattito in un disco spesso. Le pupusas sono più di un semplice piatto, in quanto rappresentano un elemento di orgoglio nazionale e un simbolo di identità culturale salvadoregna. Originarie delle tribù indigene Pipil nell’ovest di El Salvador, sono state adattate e amate attraverso generazioni, diventando un piatto apprezzato tanto a livello locale quanto internazionale.

Nonostante l’interesse crescente per un turismo più responsabile, non mancano le sfide da affrontare. Il governo deve favorire sinergia tra gli operatori turistici e tentare di migliorare l’accesso ai finanziamenti per le infrastrutture turistiche. In tal senso, la promozione digitale appare fondamentale per raggiungere un pubblico più ampio, così come servono più formazione ed empowerment di microimprese, essenziali per lo sviluppo locale del settore. Gli operatori turistici di El Salvador stanno puntando a creare esperienze uniche che riflettano la cultura e le tradizioni del Paese: esperienze agroturistiche, che combinano la visita di piantagioni di caffè e cacao con la conoscenza della produzione locale, sono un esempio di come il turismo possa beneficiare l’economia locale rispettando l’ambiente.

Un piatto di pupusas, il cibo più tipico del paese centroamericano. Immagine sbs.com.

La Strada dei fiori

La «Ruta de las flores» è una strada panoramica di El Salvador famosa per la sua bellezza naturale e la ricchezza culturale. Il percorso si snoda attraverso una serie di pittoreschi paesini e cittadine nella regione occidentale del paese, lungo la catena montuosa di Apaneca-Ilamatepec, e deve il suo nome alle numerose specie di fiori che sbocciano lungo la strada, specialmente tra ottobre e febbraio.

Lungo montagne lussureggianti, vulcani, caffè e piantagioni di zucchero, il clima fresco di montagna, con la nebbia mattutina che avvolge dolcemente le colline, offre una piacevole pausa dal clima tropicale del resto del Paese. Il percorso, di circa cinquanta chilometri che va dalla città di Sonsonate alla città di Ahuachapán – entrambi capoluogo di dipartimento – include diverse cittadine coloniali affascinanti, ciascuna con un proprio carattere unico: ne sono il cuore Nahuizalco, Salcoatitan, Juayua, Apaneca e Ataco.

Per città e cittadine

In lingua nahuat-pipil, Apaneca significa «fiume dei venti», dovuto alla sua posizione geografica situata dove una costante corrente di vento leggero produce un perfetto microclima. Il merito è della catena montuosa Apaneca-Ilamatepec, un complesso vulcanico dalla disposizione a forma di semicerchio quasi perfetto: è in questa zona che cresce il migliore caffè d’alta quota, tra gli 800 e i 1.800 metri di altitudine, di cui tutti i salvadoregni vanno orgogliosi.

Nahuizalco conta oggi oltre cinquantamila abitanti, per lo più discendenti dagli indigeni. Il suo mercato diurno e notturno rifornito di frutta, verdura e ortaggi, prodotti sulle pendici delle montagne circostanti, viene riconosciuto come vivace centro culturale e la sua eccellenza artigianale vive nella produzione di mobilia prodotta con legname locale quale alloro, cedro e cipresso. La città possiede un piccolo museo dedicato alla cultura nahuat-pipil, che vale la pena visitare, e la natura offre escursioni alle cascate La Golondrinera.

Salcoatitan è la cittadina della zona più ricca di storia e architettura coloniale, che dai suoi circa mille metri di altitudine permette di raggiungere il fiume Monterey. Conosciuta soprattutto per la vendita dell’ottima yucca fritta o bollita, prodotto che si trova nella piazza turistica della città, il parco cittadino recentemente ristrutturato offre un magnifico squarcio della chiesa coloniale e, nei fine settimana, si riempie di vita fino a tardi.

Juayua vive della produzione e lavorazione del caffè, una delle maggiori fonti di occupazione del territorio, anche se negli ultimi anni è diventata famosa per il suo Festival gastronomico, dove numerose aziende locali espongono i vari piatti tipici fuori dai loro negozi, davanti agli occhi dei turisti, che vi si deliziano prima di recarsi alle numerose cascate presenti nella zona.

Ataco è forse la cittadina più conosciuta della Ruta a livello nazionale, per la sua varietà di negozi colorati e opzioni gastronomiche di tutti i tipi di cibo. Con una popolazione costantemente in crescita, vive dei diversi impianti di lavorazione del «chicco d’oro», i mulini necessari alla trasformazione del caffè.

Il turismo del futuro

La Ruta de las flores è un esempio di turismo sostenibile, con molte iniziative volte a preservare la natura e promuovere un turismo responsabile e rispettoso delle comunità locali. Offre un’esperienza turistica diversificata e arricchente, che combina bellezze naturali, cultura, gastronomia deliziosa e un forte impegno per la sostenibilità. Nonostante questi aspetti positivi, c’è ancora la necessità di migliorare e diversificare i prodotti turistici per attirare un maggior numero di visitatori, prolungare i soggiorni e ridurre la povertà.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

Panoramica sul vulcano Santa Ana, il più alto del paese (2.400 metri). Foto Ramon – Flickr.

La scommessa delle riserve

Apaneca

El Salvador, il più piccolo paese dell’America Centrale, è testimonianza di una intensa attività per preservare il suo patrimonio naturale. Ciò si nota in particolare nella Reserva de la biosfera Apaneca-Ilamatepec, un’area caratterizzata da un ricco mosaico di ecosistemi, ma sempre minacciato dalla deforestazione e dall’espansione agricola. Progetti di conservazione e sostenibilità ambientale sono in atto per proteggere e preservare questo ambiente unico per le generazioni future.

È una delle aree naturali più affascinanti di El Salvador. Situata nella catena montuosa di Ilamatepec, nella parte occidentale del Paese, la riserva fa parte della più ampia regione ecologica conosciuta come la Ruta de las flores, famosa per i suoi scenari pittoreschi e l’ampia biodiversità. La riserva si caratterizza per un terreno montuoso e una serie di vulcani estinti o dormienti, inclusi i vulcani di Santa Ana e Izalco. L’area è nota per le sue lussureggianti foreste nebulose, le quali ospitano una grande varietà di specie di piante, molte delle quali sono endemiche della regione. Le altezze variano notevolmente, il che contribuisce a un clima relativamente fresco e umido rispetto alle regioni costiere del Paese.

El Salvador ha istituito diverse aree protette per preservare la sua biodiversità, incluse riserve della biosfera e parchi nazionali. Tuttavia, la deforestazione e la conversione dei terreni per l’agricoltura e l’urbanizzazione continuano a minacciare gli habitat naturali e la conservazione delle aree naturali rimane una sfida critica, data anche la pressione antropica intensa e l’inquinamento che ne deriva.

La riserva di Apaneca-Ilamatepec è un «modello di sostenibilità», vero rifugio per una ricca varietà di flora e fauna, dove gli amanti della natura possono trovare diverse specie di orchidee e altre piante esotiche. La fauna include una varietà di uccelli, come il quetzal, che è spesso considerato il simbolo dell’America Centrale, oltre piccoli mammiferi e una vasta gamma di insetti e rettili. Sentieri ben curati offrono agli escursionisti l’opportunità di esplorare la foresta e godere di bellezze naturali. Inoltre, l’area è rinomata per le sue piantagioni di caffè e molti visitatori partecipano a tour del caffè nel parco cafetalero per imparare sulla produzione di uno dei principali prodotti di esportazione del paese.

P.R. e J.L.H.D.

Il lago Coatepequer, formatosi in una caldera vulcanica. Foto Margarita Cisneros – Unsplash.

Hanno firmato il dossier:

PAOLO ROSSI
È professore a contratto di Intelligenza artificiale e strategia d’impresa presso l’Università del Piemonte Orientale e fondatore di una B Corp che si occupa di valutazione di impatto per il mondo profit e non profit (Promos Srl Sb). Da venti anni è alla guida di «Col’or», Ong impegnata in progetti di sviluppo sostenibile in diversi paesi del mondo, tra cui El Salvador. Come volontario, scrive progetti e cerca fondi per i numerosi enti missionari con i quali collabora. Sito: colorngo.org.

José Luis Herrera Diaz
Salvadoregno, per 40 anni è stato guida per turisti di idioma spagnolo che visitavano il Canada. Attualmente vive in El Salvador, avendo avviato una propria attività ecoturistica ad Apaneca, lungo la Ruta de las flores, dove offre ai turisti esperienze immersive nella biosfera del paese. Contatto: jlherrera@improntaturistica.com.

A CURA DI:
Paolo Moiola, giornalista redazione MC (cfr. El Salvador, «Il caffè è sempre amaro», MC febbraio 1996).

Monumento al Divino Salvatore del mondo a San Salvador, capitale del paese. Foto di Ricardo Ardon – Unsplash.




Missionari martiri. I molti Romero

 

Il 24 marzo la Chiesa italiana celebra la giornata dei missionari martiri. Secondo il rapporto annuale di Fides nel 2023 sarebbero stati 20 quelli uccisi mentre erano impegnati nell’annuncio in contesti difficili. Le loro storie di «cristiani normali» sono la testimonianza della presenza viva del Vangelo tra gli ultimi.

Sono le 21 del 29 marzo 2023. Fratel Moses Simukonde Sens, 35 anni, viene ucciso da un proiettile nei pressi di un posto di blocco militare a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.

Originario dello Zambia e attivo dal 2016 prima in Niger e poi in Burkina Faso, fratel Moses, membro dei Missionari d’Africa (padri Bianchi) è uno dei venti «battezzati impegnati nella vita della Chiesa morti in modo violento» nel 2023 censiti dal rapporto annuale di Fides, l’agenzia di stampa delle Pontificie opere missionarie.

Gli altri diciannove sono un vescovo, otto sacerdoti, un altro religioso non sacerdote, un seminarista, un novizio e sette tra laici e laiche. «Quest’anno il numero più elevato torna a registrarsi in Africa – scrive Stefano Lodigiani, curatore del rapporto -, dove sono stati uccisi nove missionari: cinque sacerdoti, due religiosi, un seminarista, un novizio. In America sono stati assassinati sei missionari: un vescovo, tre sacerdoti, due laiche. In Asia […] quattro laici e laiche. Infine in Europa è stato ucciso un laico».

Il rapporto di Fides sottolinea che la normalità di vita è l’elemento che accomuna tutte le vittime: nessuna azione eclatante o impresa fuori del comune che avrebbero potuto farle entrare nel mirino di qualcuno. «Scorrendo le poche note sulla circostanza della loro morte violenta troviamo sacerdoti che stavano andando a celebrare la Messa o a svolgere attività pastorali in qualche comunità lontana; aggressioni a mano armata perpetrate lungo strade trafficate; assalti a canoniche e conventi dove erano impegnati nell’evangelizzazione, nella carità, nella promozione umana. Si sono trovati a essere, senza colpa, vittime di sequestri, di atti di terrorismo, coinvolti in sparatorie o violenze di diverso tipo».

Giornata di preghiera

Per ricordare questi venti missionari, ma anche tutti i cristiani, cattolici e di altre confessioni, che nel mondo ogni anno perdono la vita mentre testimoniano la fede in Cristo, la Chiesa italiana celebra il 24 marzo la Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri.

Istituita nel 1992 su proposta Movimento giovanile delle Pontificie opere missionarie, ora Missio Giovani, si è deciso di celebrarla nel giorno dell’anniversario dell’uccisione, nel 1980, di monsignor Oscar Romero in Salvador: un difensore degli oppressi, assassinato dagli oppressori.

La giornata è l’occasione per ricordare tutte le situazioni difficili nelle quali i cristiani, laici e consacrati, comunicano il Vangelo, spesso tramite la promozione umana, la difesa dei diritti degli ultimi, la tutela dell’ambiente.

Online, sul sito di missioitalia.it si possono trovare diversi strumenti per celebrarla. Tra essi, anche una scheda di presentazione di un progetto missionario che i Missionari della Consolata hanno attivato in Marocco nella missione di Oujda per soccorrere i migranti che transitano attraverso il confine tra Algeria e Marocco con il sogno di arrivare in Europa.

Luca Lorusso




Grande, Romero, Proaño, avvocati degli oppressi


Perseguitati, incarcerati, uccisi. Rutilio Grande, Leonidas Proaño, Oscar  Romero, tre grandi esponenti della Chiesa latinoamericana. Tre uomini legati dalla fede e dalla scelta per gli ultimi. Tre uomini che hanno dato la vita per il riscatto e la nobilitazione degli oppressi.

Il primo passo della storia che vogliamo raccontare ci porta in Ecuador, alla scoperta della vita e dell’opera di un fulgido rappresentante della teologia della liberazione, il teologo e vescovo Leonidas Eduardo Proaño Villalba.

Proaño naque nel 1910 a San Antonio de Ibarra, un paese a soli sei chilometri da Ibarra, capitale della provincia di Imbabura, nel Nord dell’Ecuador. La sua infanzia trascorse in seno a una famiglia artigiana che si dedicava alla produzione di cappelli di paglia. Ebbe la possibilità di frequentare le scuole elementari e successivamente, grazie all’interessamento di un parroco amico del padre, fu inviato nel 1925 al seminario di San Diego di Ibarra. In quell’istituzione poté terminare gli studi superiori per poi proseguire l’approfondimento della filosofia e della teologia nel seminario maggiore di Quito, capitale del paese andino.

Nel 1936, esattamente il 29 di giugno, Leonidas Proaño venne ordinato sacerdote, dando inizio ufficialmente a un cammino che lascerà una testimonianza di fede e speranza per i più emarginati del paese, in particolare per le popolazioni indigene. Attivo fin dai primi anni ‘40 con opere di divulgazione e scrittura (fondò la libreria «Cardijn» nel 1941 e il giornale  «La Verdad» nel 1944), Proaño si fece strada dentro il clero ecuadoregno, prima nella sua provincia natale e poi, con la nomina a vescovo, nella capitale della provincia del Chimborazo, Riobamba (dal 1954 al 1985), situata nel cuore dell’Ecuador.

Mons. Proaño, «guerrigliero comunista»

È qui, nel centro del paese andino, che Proaño dispiegò, in modo avvolgente e innovativo, la sua opera di reinterpretazione sociale e di riscatto comunitario. Lo stesso governo dell’Ecuador, nei suoi archivi (consultabili online), racconta in modo dettagliato e coinvolgente le vicende di quegli anni, che videro come protagonista colui che passerà alla storia come il vescovo degli indigeni e dei poveri. In quegli archivi si legge che, nel 1954, monsignor Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba, si dissociò dai modi tradizionali di esercitare il sacerdozio e, precursore del metodo «vedere-giudicare-agire», entrò nelle brughiere e nelle colline dell’ampia geografia della provincia del Chimborazo, per interiorizzare nella sua azione una visione profonda e veritiera del territorio. Nelle sue molte e lunghe visite, potè toccare con mano la dolorosa realtà degli indigeni maltrattati dai proprietari terrieri, in un sistema di oppressione ed espropriazione che continuava fin dai tempi della colonia. Proaño si schierò senza se e senza ma con gli indigeni, da lui riconosciuti come i più poveri tra i poveri, iniziando insieme a loro la più grande opera di liberazione e nobilitazione nell’Ecuador repubblicano.

Dal 1960 in poi, la sua opera di educazione e riscatto iniziò a estendersi sul territorio. Creò nel 1960 un progetto chiamato «Scuole radiofoniche popolari» e, nel 1962, fondò il «Centro di studi e azione sociale» con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle comunità indigene emarginate dallo stato. Proaño partecipò ai grandi movimenti di rinnovamento della Chiesa cattolica di quegli anni, come il Concilio Vaticano II e il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), nel quale giocò un ruolo da protagonista.

Il vescovo di Riobamba dovette superare innumerevoli conflitti, incomprensioni, persecuzioni e accuse. Venne etichettato come il vescovo rosso, comunista, sovversivo e terrorista: il motivo di ciò risiedeva nella sua ostinata fermezza nell’esigere giustizia, terra e dignità per le popolazioni indigene. Tanti e tali attacchi lo portarono, nel 1973, a dover viaggiare a Roma per difendersi dall’accusa di essere un guerrigliero comunista: venne assolto, ma, nonostante ciò, rientrato in Ecuador, nel 1976 dovette assaggiare il carcere sotto la dittatura di Guillermo Rodríguez Lara. Leonidas Proaño lasciò all’età di 75 anni (nel 1985) la carica di vescovo, ma la sua opera non terminò quel giorno. Fu nominato presidente della Pastorale indigena e nel 1986 fu anche candidato al premio Nobel per la Pace. Il 29 maggio del 1988 inaugurò il centro di formazione delle missionarie indigene
dell’Ecuador, nella comunità di Pucahuaico, nel suo paese natale San Antonio di Ibarra. Morì a Quito il 31 agosto del 1988, ma pochi giorni prima, il 12 agosto, aveva fatto in tempo a creare la fondazione «Pueblo indio del Ecuador».

Proaño e Grande

In questa enorme e significativa vicenda umana c’è un punto di connessione con la storia di Rutilio Grande e quindi di Romero che avrà conseguenze regionali estremamente rilevanti. Proaño, dopo aver partecipato al Celam, venne eletto presidente del dipartimento della Pastorale e da quella posizione si fece promotore della creazione dell’«Istituto itinerante della pastorale dell’America Latina» (Ipla). Proprio a Quito, per frequentare i corsi dell’istituto, arrivò nel 1972 il sacerdote Rutilio Grande, avido di nuovi stimoli per rinnovarsi e distanziarsi dal conservatorismo radicale della Chiesa salvadoregna.

Dopo gli studi all’Ipla, Grande passerà alcuni mesi a Riobamba, nella diocesi di mons. Leónidas Proaño,  vivendo proprio nella casa di quel vescovo cordiale e semplice, austero e ospitale ma soprattutto vicino alla gente. Un modello di fede e di Chiesa molto diverso rispetto a quanto vissuto da Grande nel Salvador, che risvegliò in lui una nuova consapevolezza.

Un fedele mostra una foto di Rutilio Grande; il padre gesuita sarà beatificato il 22 gennaio 2022. Foto Vatican News.

Rutilio Grande, gesuita

Rutilio Grande nacque il 5 luglio 1928 a El Paisnal, un piccolo centro abitato a circa 45 km dalla capitale del Salvador, San Salvador. Membro di una famiglia numerosa e con genitori separati, dopo la morte della madre (avvenuta quando Rutilio aveva solo 4 anni) venne cresciuto dal fratello più grande e dalla nonna. La donna era una fervente cattolica e fu lei l’iniziatrice di Rutilio ai misteri della fede.

Altra figura essenziale nella vita di Rutilio fu quella dell’arcivescovo Luis Chávez y González, conosciuto quando aveva solo 12 anni. Questi gli offrì la possibilità di proseguire gli studi nel seminario della capitale, cosa che fu un punto di svolta nella vita del giovane Rutilio che successivamente, il 23 settembre del 1945, entrò nella Compagnia di Gesú facendo il noviziato a Caracas (Venezuela), dove rimase per due anni.

Dopo aver pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza, iniziò un percorso tortuso fatto di viaggi, crisi di salute, periodi di docenza e di studio che si alternavano a dubbi sulla sua vocazione. L’America Latina e la Spagna furono il contesto geografico e umano in cui egli visse in quegli anni, e proprio a Oña (Spagna) venne ordinato sacerdote il 30 luglio 1959: pochi mesi dopo l’annuncio di Papa Giovanni XXIII della convocazione del Concilio Vaticano II.

Un’ulteriore tappa di studi europea, questa volta alla Lumen Vitae di Bruxelles (1963-1964), gli fece scoprire quella che sarebbe poi diventata la teologia della liberazione e con essa una via nuova di interpretare la propria missione apostolica.

L’amicizia con Romero

Tornato nel Salvador, padre Rutilio svolse prima il ruolo di formatore nel seminario San José de la Montaña (nella capitale) e poi quello di rettore dell’Externado de San José. Nel 1967 iniziò la sua relazione con Oscar Romero, un’amicizia che perdurò negli anni e che vide, nel giugno del 1970, proprio Rutilio Grande servire come cerimoniere alla consacrazione di Romero come vescovo ausiliare di San Salvador. Quelli furono proprio gli anni nei quali Grande si trovava in aperta critica e grossa difficoltà con la struttura clericale salvadoregna. I suoi metodi di insegnamento, che vedevano l’opera evangelizzatrice andare di pari passo con la promozione di uno sviluppo di un’intellettualità critica e comunitaria, non trovavano il consenso dei suoi superiori. Rutilio però era stato oramai positivamente contaminato dall’esperienza belga e dalla successiva II Conferenza episcopale latinoamericana di Medellín (1968), che fu fonte d’ispirazione per il suo zelo pastorale e per la sua solidarietà e la vicinanza con i poveri.

Proprio in quel contesto, all’inizio del 1972, Grande intraprese il suo viaggio in Ecuador dove potè toccare con mano l’opera dirompente di Proaño.

Un cartello all’interno di una chiesa di Quito, capitale dell’Ecuador, ricorda a chi entra che i poveri sono tanti e che occorre aiutarli. Foto Paolo Moiola.

Inviso a latifondisti e conservatori

Dopo quell’esperienza rivelatoria, Rutilio accettò di diventare parroco di Aguilares (settembre 1972), la stessa parrocchia dove aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza. Lì fu uno dei gesuiti incaricato di fondare le Comunità ecclesiali di base (Ceb) e di formarne i dirigenti, chiamati «Delegati della Parola».

Queste attività allarmarono i latinfondisti della zona e anche le frange più conservatrici del clero salvadoregno che temevano che la Chiesa cattolica venisse infiltrata e controllata dalle forze politiche di sinistra. Come ricorda José M. Tojeria in «Novedad y tradición: el martirio de Rutilio Grande», il Gesù del Vangelo era il centro dell’attività pastorale di Rutilio e i contadini salvadoregni delle zone di Aguilares e El Paisnal lo accolsero con entusiasmo.

Molti di loro decisero di alfabetizzarsi per poter leggere il Vangelo attraverso una modalità pedagogica ispirata a Paulo Freire. Grande ebbe la funzione di aiutare i membri delle comunità rurali ad acquisire coscienza della propria dignità, dei propri diritti, capacità e possibilità.

Questo avveniva mentre il Salvador era terreno di un confronto crescente tra i settori ricchi e la maggioranza della popolazione che versava in una situazione di estrema povertà. Rutilio Grande giocò un ruolo importante in questo scontro sociale, denunciando apertamente gli abusi e soprusi del governo, toccando il suo zenit con quello che viene ricordato come il «Sermone di Apopa» del 13 febbraio 1977 (omelia relativa al controverso caso del sacerdote colombiano Mario Bernal Londoño, espulso dal Salvador dopo essere stato sequestrato da supposti guerriglieri). Meno di un mese dopo, il 12 marzo 1977, mentre viaggiava in una jeep nella parrocchia di Aguilares, Grande cadde in un’imboscata dei gruppi paramilitari di estrema destra noti come «squadroni della morte». Con lui vennero uccisi anche Manuel Solorzano (72 anni) e Nelson Rutilio Lemus (16 anni).

È il 24 marzo del 1980, mons. Oscar Romero viene assassinato mentre celebra messa nella cappella dell’ospedale Divina Provvidenza, a El Salvador. Foto ANSA.

Un altro assassinio

La morte cruenta dell’amico Rutilio Grande provocò una grande crisi in mons. Romero. Una trasformazione che, probabilmente, egli aveva iniziato già a partire dall’ottobre del 1974, quando venne nominato vescovo della diocesi di Santiago di Maria, nel dipartimento di Usulután.

Nei due anni che trascorse in quella zona rurale del paese, potè toccare con mano la repressione governativa, i massacri e il terrore nei quali erano tenuti i contadini da parte dell’esercito che operava come braccio armato dei latifondisti. Un bagno di realtà che dovette spingere Romero a rivedere molte delle sue precedenti posizioni. Lì passò due anni e, successivamente, il 3 febbraio del 1977 venne nominato da Paolo VI arcivescovo di San Salvador, proprio per succedere al padrino spirituale di Rutilio, monsignore Luis Chávez y González. Solo 28 giorni dopo la sua nomina, Romero venne raggiunto dalla notizia dello spietato omicidio dell’amico. Oscar Arnulfo Romero avrebbe fatto la stessa fine il 24 marzo del 1980.

Diego Battistessa


Archivio MC




Le biografie: Romero e Câmara

testo di Sante Altizio |


Due vescovi latinoamericani. Due difensori degli oppressi. Modelli per una Chiesa che compie anche oggi la sua scelta preferenziale per i poveri.

Anselmo Palini è un insegnante bresciano di scuola secondaria che ha all’attivo una serie di pubblicazioni sui temi della pace, della nonviolenza e dei diritti umani davvero notevole.

È stato tra i primi, negli anni Ottanta, a sollevare domande sul senso della presenza della produzione di armi nella provincia di Brescia. La quasi totalità delle armi leggere italiane, infatti, arriva da quell’area.

Nel 2020, la storica Editrice Ave, fondata nel 1935 da Luigi Gedda, ha ripubblicato due testi di Palini che, a distanza di una decina d’anni dal loro primo arrivo in libreria, meritavano di tornare all’attenzione del pubblico.

Si tratta di due biografie ricche, approfondite, senza sbavature: una dedicata a san Oscar Romero, il vescovo martire del Salvador, e l’altra a Hélder Câmara, il «vescovino» brasiliano, tra i massimi alfieri della «scelta preferenziale per i poveri» compiuta dalla Chiesa latinoamericana nella Conferenza di Medellín del 1968.

Il SudAmerica al centro

Con l’elezione al soglio pontificio di José Mario Bergoglio, argentino di Buenos Aires, è diventato chiaro per molti ciò che era già evidente da diversi anni agli osservatori interessati: il mondo latinoamericano è il nuovo motore della chiesa cattolica. E se mons. Bergoglio è diventato papa Francesco, il «merito» è anche di uomini come Oscar Romero e Hélder Câmara, che quel motore lo hanno alimentato.

San Romero de America

La biografia che Palini dedica a Romero ha un sottotitolo forte: «Ho udito il grido del mio popolo», e una postfazione pregiata che porta la firma del cardinale Gregorio Rosa Chávez, il quale, quando l’arcivescovo di San Salvador venne assassinato, era rettore del seminario diocesano della capitale centroamericana.

Era il 24 marzo del 1980. Alle ore 18.25, mentre celebrava la messa, appena terminata l’omelia, mons. Oscar Arnulfo Romero venne raggiunto da un colpo di arma da fuoco in pieno petto. Si accasciò sull’altare e morì.

La biografia di Palini traccia il percorso che portò un uomo di Chiesa con una formazione teologica tutt’altro che avanzata, e nessuna voglia di diventare una celebrità, alla scelta di stare dalla parte dei deboli di fronte alla crudele repressione della dittatura militare.

Mons. Romero spiazzò tutti, forse anche se stesso, e da «vescovo malleabile» diventò la variabile impazzita che catalizzò la speranza di chi non ne aveva più. Una variabile che sarebbe stata eliminata.

Nel 1980 la Guerra Fredda si combatteva anche in America Latina, e lasciava una scia di sangue apparentemente inarrestabile.

«Le sue omelie – scrive Palini – erano seguite dagli inviati della stampa internazionale per il significato che, nel contesto mondiale, aveva la lotta che si combatteva in questa minuscola nazione, e per la presenza di una Chiesa […] evangelicamente schierata a fianco del proprio popolo e, appunto per questo, violentemente colpita […] dagli squadroni della morte».

Maurizio Chierici, un grande inviato italiano (già collaboratore di MC, ndr), che conobbe e intervistò più volte Romero, scrive nella prefazione: «Un paesino da niente (El Salvador, ndr) trasformato nel poligono dove le società benestanti costruivano il prototipo necessario per non perdere il benessere; sperimentavano la paura come arma invisibile dalla quale i popoli non riescono a difendersi».

Hélder Pessoa Câmara

L’assassinio di Romero, non solo non riuscì a far tacere la sua voce, ma diventò un grido di richiesta di giustizia per un continente intero. E tra coloro che seppero far nascere una nuova speranza dalla morte di Romero ci fu sicuramente Hélder Pessoa Câmara, uno dei vescovi brasiliani più amati e coraggiosi della storia recente.

Classe 1909, morto all’età di novant’anni, dal 2017 è, grazie a una legge dello stato, patrono brasiliano dei diritti umani.

Anselmo Palini, per la biografia di dom Hélder, come sottotitolo ha scelto una sua celebre frase, quasi un manifesto: «Il clamore dei poveri è la voce di Dio».

Nella prefazione, affidata a mons. Luigi Bettazzi, che lo conobbe al Concilio Vaticano II, si legge: «Tempo fa non sarebbe stato necessario introdurre un libro su Hélder Câmara […]. Oggi, a oltre vent’anni dalla morte, il suo ricordo tende a offuscarsi».

L’autore ricostruisce con cura tutti i passaggi che hanno segnato la crescita religiosa di Hélder Câmara. Il capitolo iniziale si intitola: «Gli anni dell’integralismo», ed è subito un’immersione nel suo cammino attraverso le lettere e gli scritti lasciati dal vescovo brasiliano.

C’è un passaggio, a pag. 32, che merita di essere riportato: «Avevo ventidue anni, sognavo anche allora di cambiare il mondo e lo vedevo diviso tra destra e sinistra, cioè tra fascismo e comunismo. […] Scelsi il fascismo. Si chiama Azione integralista, in Brasile. […] E il loro motto era Dio-Patria-Famiglia: un motto che a me andava benissimo. Come giudico ciò? Con il mio semplicismo giovanile […] non c’erano molti libri da leggere, né molti uomini sani da ascoltare». Solo una persona matura può osservare con tanta franchezza il proprio passato.

Seguono due capitoli corposi: «Gli anni del cambiamento» e «Gli anni della profezia».

il vescovo brasiliano Don Helder Camara all’Eucaristia a Den Bosch; tra i partecipanti all’escursione Pax Christi – Data 27 ottobre 1974 Posizione Den Bosch, Olanda, foto in CC di Peters, Hans / Anefo

Câmara per i poveri

Come successo per Romero, quando la realtà bussò alla sua porta, non fu facile per lui fingere di non aver sentito. Il Brasile degli anni delle dittature militari, della povertà diffusa, del razzismo, della devastante ingiustizia sociale, iniziava a far sentire la sua voce disperata. Il giovane sacerdote brasiliano crebbe, e crebbe in lui anche una nuova consapevolezza.

Negli anni Cinquanta, Câmara arrivò a Rio de Janeiro come vescovo ausiliario, poi partecipò al Concilio e, in seguito, alla Conferenza di Medellín.

Le sue prese di posizione erano sempre più nette contro la violenza e la prepotenza del potere. E poi nacquero decine e decine di gruppi di base, sindacati, cooperative che vennero fondati per organizzare il tessuto sociale, sempre partendo dal basso, dagli ultimi.

Câmara mistico

Dom Hélder aveva doti da mistico: «Tutte le notti si svegliava per un’ora di preghiere e di orientamento della giornata», ricorda mons. Bettazzi; doti da teologo e da vero oppositore politico: cosa che alla dittatura non piacque per nulla.

«La fede, basata sulla Parola di Dio, toglie la maschera alle ideologie dei dominatori. Gesù assume l’identità degli oppressi e vuole essere amato e servito in loro».

Il merito di Anselmo Palini è quello di permetterci di ripercorrere le storie di Oscar Romero e Hélder Câmara con la consapevolezza che, se anche un po’ della loro memoria si è offuscata, i frutti della loro testimonianza ci sono ancora tutti e sono arrivati sino a San Pietro.

Sante Altizio




Beato Oscar Arnulfo Romero:

Quando le pietre più dure sono le parole

Assassinato il 24 marzo 1980, beatificato il 23 maggio 2015, santificato il
14 ottobre 2018. Sono queste le tre date che ricordano monsignor Oscar Romero,
il vescovo del Salvador ucciso per essersi schierato con gli ultimi. Eppure, il
riconoscimento del suo ruolo e del suo martirio sono stati a lungo contrastati,
anche all’interno della Chiesa. Per uscire dall’impasse è stato necessario
l’intervento di Francesco, il primo papa latinoamericano.

Roma, 31 ottobre 2015: un gruppo di salvadoregni s’incontra con papa Francesco. Lo scopo della riunione è quello di ringraziare il pontefice per la beatificazione di monsignor Oscar Arnulfo Romero martire che ha avuto luogo a San Salvador il 23 maggio dello stesso anno. In quell’evento Francesco dice che Romero è stato martirizzato non soltanto in occasione del suo omicidio avvenuto – era il 24 marzo 1980 – per mano di un cecchino, quasi certamente assoldato dal maggiore Roberto d’Aubuisson. Il papa racconta: «Allora io ero un giovane prete e sono stato testimone di ciò che avvenne. Lui è stato diffamato, calunniato e il suo nome è stato macchiato. Il suo martirio è continuato anche per mano dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato». Si è trattato, secondo lo stesso Francesco, di una lapidazione con la pietra più dura che esista: «la parola».

Dopo
la morte di Romero, qualcosa di molto simile è stato scritto da dom Pedro
Casaldáliga, allora vescovo di Sao Félix, Brasile, in una poesia (San Romero de América, Pastor y Mártir
Nuestro
) molto nota a tutti i suoi simpatizzanti: «Povero pastore glorioso,
abbandonato dai tuoi fratelli di bacolo e tavola».

Quel discorso di papa
Francesco, pronunciato con forza ed empatia, ha aperto la speranza di una
canonizzazione precoce del «monsignore», come lo chiamava la gente del suo
villaggio.

La conversione di Romero: da timido a profeta

Romero si era guadagnato l’ostilità e gli
attacchi dell’oligarchia e dei settori più conservatori della Chiesa a causa
della sua crescente scelta per i più poveri e vulnerabili tra la popolazione
salvadoregna. In questo suo cammino di conversione, un momento fondamentale fu
l’assassinio (12 marzo 1977) di padre Rutilio Grande.

Romero, arcivescovo di San Salvador, che fino
ad allora era stato un uomo timido, conservatore e devoto, lasciò da parte le
sue debolezze e prese una decisione coraggiosa e profetica che nessuno avrebbe
potuto immaginare: per il funerale del prete assassinato, suo amico e
confidente, ordinò di sopprimere tutte le celebrazioni eucaristiche per
celebrarne una sola.

Lasciata alle spalle la sua timidezza e la
spiritualità tradizionale e pietistica, si trasformò nel pastore dei poveri, di
tutte le vittime della violenza. Lasciò la sacrestia per camminare con la sua
gente della quale ascoltava e osservava il dolore con attenzione e rispetto.

Cambiò anche il tono delle sue omelie che, a
poco a poco, andarono acquisendo toni profetici e drammatici. La gente semplice
che non poteva assistere alle sue messe domenicali nella cattedrale seguiva con
attenzione (attraverso la radio) le sue predicazioni che, senza timore di
esagerare, potevano essere paragonate a ciò che è stato detto e scritto dai
grandi profeti biblici. Le sue prediche erano lunghe; a volte drammatiche, ma
mai noiose o ideologiche. Egli seppe leggere e discernere gli eventi dolorosi
del suo popolo, dando conto tempestivo e certo dei tanti morti e scomparsi. Per
questa ragione esse si trasformarono in un punto di riferimento non solo per i
salvadoregni, ma anche per molti centroamericani.

Il caso più noto è quello della sua ultima
omelia, su cui ha scritto nella citata poesia dom Pedro Casaldáliga: «San
Romero d’America, nostro pastore e martire: nessuno potrà zittire la tua ultima
omelia». Come sappiamo, essa firmò la sua condanna a morte perché ebbe
l’audacia di dire ai militari: «Nel nome di Dio e in nome di questo popolo
sofferente i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi
supplico, vi prego, vi ordino nel nome di Dio: termini la repressione».

A essi Romero chiese anche di obbedire prima
che ai loro capi alla voce della coscienza e alla legge di Dio che dice «Non
uccidere». Il monsignore a quel punto era andato troppo oltre e per questo
doveva essere messo a tacere.

Per capire questo cammino di Romero, occorre
prendere in considerazione il ruolo che giocarono i gesuiti della Uca,
soprattutto i padri Ignacio Ellacuría e Jon Sobrino, teologi ben preparati e
apprezzati a livello internazionale. Anche in questo caso si tentò di
screditarlo dicendo che era un «utile tonto e burattino dei gesuiti».

Il poco che ho raccontato del nuovo santo
serve soltanto per capire il percorso che lo ha portato a diventare un simbolo
di molte delle lotte che sono state fatte in America Latina e in molte altre
parti del mondo dove la povertà e la violenza continuano a mietere vittime.
Quelle che padre Gustavo

Guitiérrez definisce «i morti prima del
tempo».

© Jorge Garcia Castillo

Tutti a Roma

Roma, 12 ottobre 2018. Allo scopo di
partecipare alla cerimonia di canonizzazione di monsignor Romero, viaggiamo
alla volta di Roma io e il padre Gabriel Estrada, comboniano come me. Arriviamo
nel pomeriggio. Il giorno successivo, nei pressi di piazza San Pietro,
partecipiamo alla Conferenza internazionale di giornalismo per la pace nella
sala San Pio X di Città del Vaticano.

Nella sala c’è un’interessante mostra di
fotografie, immagini e testi riferiti alla figura e al messaggio di mons.
Romero mentre sulla facciata della Basilica di San Pietro già luccicano i
tappeti con le immagini dei nuovi santi. Paolo VI al centro, mons. Romero alla
sua destra e Francesco Spinelli alla sua sinistra. Gli altri sono collocati in
luoghi strategici senza che la loro posizione ne sminuisse l’importanza.

Il giorno dopo, molto presto, al cancello
d’ingresso arrivano pellegrini dall’Italia e da molte altre parti del mondo. La
celebrazione dell’eucaristia è prevista per le 10 del mattino. Dopo aver letto
una breve biografia dei 7 «candidati», il papa viene invitato a scriverli nella
lista dei santi. E così succede.

L’assemblea approva la decisione con applausi
ed esclamazioni entusiastiche. A causa del modo in cui fu assassinato, del suo
insegnamento e del suo radicale impegno per i poveri, i sofferenti e i più
abbandonati, Romero è il santo che riceve più consensi.

Nella sua omelia, il papa sottolinea come
Paolo VI, Romero e gli altri santi abbiano speso la vita per il Vangelo e per i
loro fratelli.

Sono colpito dalla differenza abissale tra la
cerimonia di beatificazione (a San?Salvador) e quella di canonizzazione (a
Roma). Nel primo caso, i primi posti erano occupati da alti rappresentanti
della Chiesa, su entrambi i lati c’erano i politici e le famiglie ricche,
davanti i sacerdoti concelebranti e dietro di loro, separati da una transenna,
i membri delle «famiglie bene» e, infine, i poveri (quelli per cui il martire
aveva dato la propria vita), molti dei quali avevano dovuto accontentarsi di
seguire la messa attraverso i maxischermi.

Nella cerimonia di canonizzazione non è così,
non tanto per un’opzione, ma perché i criteri di accoglienza nella piazza San
Pietro sono altri. Non per questo si può evitare la stratificazione che assegna
sempre i posti privilegiati alla gerarchia della Chiesa e al mondo sociale e
politico.

San Romero d’America

Il giorno successivo, lunedì 15 ottobre,
migliaia di pellegrini si ritrovano nell’aula Paolo VI (aula Nervi) per la
celebrazione della messa di ringraziamento per la canonizzazione del martire
salvadoregno. Il cardinale Gregorio Rosa Chávez presiede l’eucaristia. Ogni
volta che, nella sua omelia, evidenzia alcune delle qualità dell’arcivescovo,
l’assemblea esprime la sua approvazione con lunghi applausi.

Alla fine della messa, mentre i tecnici
preparano la proiezione di un video su Romero, nell’aula inizia a crescere il
vocio. La gente grida, applaude e corre verso il corridoio centrale. Francesco
sta entrando nell’aula e, come se avesse a disposizione tutto il tempo del
mondo, saluta con strette di mano da un lato e l’altro, ricevendo doni e
abbracci. «Francesco, Buon Pastore, El Salvador ti ama», grida la folla.

Una volta raggiunto il palco, monsignor José
Luis Escobar, arcivescovo di San Salvador, legge un messaggio emozionante in
cui ringrazia il Santo Padre per aver canonizzato il «martire del magistero
della Chiesa», e chiede, tra l’altro, di dichiarare monsignor Romero dottore
della Chiesa, di visitare El Salvador e di beatificare padre Rutilio Grande.

Due giorni di festa, due giorni in cui San
Romero d’America è stato protagonista di una celebrazione che ha raggiunto
livelli molto elevati a casa sua e in altre parti del mondo, dove è amato,
rispettato e considerato come un vero profeta che teneramente amava Dio e i
poveri.

Jorge García Castillo*
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)
* Padre Jorge García Castillo, collaboratore di MC, lavora a Città del Messico dove dirige le riviste Esquila Misional e Aguiluchos.