«Il fatto non sussiste». Così il Gup di Trapani mette fine a un processo durato sette anni che aveva portato al sequestro della nave Iuventa e all’accusa del personale di tre Ong.
Ci sono voluti più di sette anni per assolvere gli oltre venti membri delle Ong Jugend rettet, Save the children e Medici senza frontiere accusati di favoreggiamento dell’immigrazione illegale.
Il tribunale di Trapani è finalmente giunto a una conclusione e ha negato ogni accusa, sono stati prosciolti gli imputati ed è stato ordinato il dissequestro della nave Iuventa.
Quello definito da molti come il più grande processo nei confronti delle Ong che soccorrono i migranti in mare si è chiuso con la disposizione di non luogo a procedere. Un lieto fine che, però, lascia danni irreparabili alla nave Iuventa che è stata lasciata arrugginire durante il periodo di sequestro e non potrà più salvare vite in futuro, come non ha potuto farlo per questi lunghi sette anni di processo. Un lieto fine che porta con sé anche grossi danni economici, per le Ong prima di tutto, con la perdita dell’imbarcazione e le altre spese collegate, ma anche per lo Stato, a cui il processo è costato all’incirca 3 milioni di euro.
La storia era iniziata a settembre 2016 quando tre agenti di un’agenzia privata che operavano come personale di sicurezza per la nave Vos Hestia noleggiata da Save the Children, avevano avanzato sospetti di irregolarità nelle condotte di queste Ong. Gli agenti avevano deciso prima di informare i servizi segreti, poi alcuni esponenti politici come Matteo Salvini (Lega) e Alessandro Di Battista (Movimento 5 stelle), e infine di sporgere denuncia alla polizia. Le accuse riguardavano presunti rapporti ambigui con i trafficanti con i quali le Ong si sarebbero accordate per organizzare trasferimenti di migranti.
Erano iniziate così le indagini, che sono continuate fino al 2021 e, per la prima volta, hanno portato all’udienza preliminare, iniziata a maggio 2022 e conclusa nel febbraio di quest’anno con il proscioglimento di ogni accusa.
Sull’onda delle polemiche legate a questo caso, Luigi Di Maio il 21 aprile 2017 in un post su Facebook aveva definito le Ong come «taxi del Mediterraneo», formula che da allora è diventata sempre più comune nella propaganda dei partiti di destra, in particolare la Lega, che in questi anni hanno più volte cercato di criminalizzare il ruolo e l’operato delle Ong impegnate ogni giorno a solcare il mare per salvare più vite possibile.
Sono 3.129 i migranti morti nel Mediterraneo nel 2023 secondo il progetto Missing migrants dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni (Oim): bambini, donne e uomini che forse, almeno in parte, si sarebbero potute salvare se i nostri governi avessero favorito l’operato delle Ong.
Invece la nostra politica ha scelto ancora una volta di ostacolare le loro azioni. Basti pensare al nuovo sistema di assegnazione dei porti nei quali le navi umanitarie sono autorizzate a sbarcare. Esso le obbliga a percorrere migliaia di chilometri in più perdendo tempo e soldi.
La nave Iuventa poteva essere un piccolo ma fondamentale aiuto nel salvataggio di persone in difficoltà in questi anni. È stata invece un’altra occasione mancata di umanità.
Mattia Gisola
Dal partenariato alla fratellanza
Ivana Borsotto, già vicepresidente della Ong Progettomondo, è dal dicembre del 2020 la presidente della Focsiv, Federazione di organismi di ispirazione cristiana. Facciamo insieme a lei il punto sulla Federazione, sullo stato della cooperazione e sulle principali sfide di oggi.
Ivana, cominciamo spiegando che cosa è la Focsiv e che cosa la caratterizza oggi.
Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) è una federazione che raccoglie 86 organismi di ispirazione cristiana che operano nella realizzazione di programmi, progetti e azioni di solidarietà e cooperazione internazionale in 80 paesi del mondo. Nel 2022, a maggio, compirà 50 anni: è un traguardo importante e con il nuovo consiglio direttivo, in carica da un anno, abbiamo deciso di rendere questo anniversario non solo un’occasione per celebrare ma soprattutto per riflettere.
Da questa riflessione stanno emergendo diverse cose: in primo luogo, nelle due encicliche di papa Francesco Laudato si’ e Fratelli tutti troviamo conferma del fatto che la direzione del nostro lavoro si muove verso quell’orizzonte. Laudato si’ ce lo conferma con il suo promuovere un cambio di paradigma economico e sociale che abbandoni l’idea di dominio e sfruttamento sulla natura e si concentri sulla cura. Fratelli tutti ci rafforza nella convinzione che l’esistenza di più religioni è una grazia. Anche se il dialogo interreligioso a volte è faticoso, a volte perfino doloroso, è in esso che troviamo il vero senso della nostra vita e del nostro lavoro.
Come si riflettono nel lavoro sul campo queste indicazioni del papa?
Fratelli tutti, di fatto, ci dice che il partenariato non basta: è la fratellanza ciò a cui siamo chiamati. In estrema sintesi, quindi, potrei risponderti: dobbiamo cercare di trasformare i nostri progetti, che spesso si svolgono in paesi a maggioranza musulmana, in laboratori di dialogo che ci aiutino a fare questo passaggio dal partenariato alla fratellanza.
Una cosa è mettersi attorno a un tavolo con i partner nei paesi in cui si lavora e dire: c’è un bando, proviamo a ragionare insieme su come ideare un progetto, partiamo da una lettura condivisa dei problemi e lavoriamo perché ogni progetto si traduca in pratiche che gli amministratori locali possono usare per risolvere quei problemi. Questo è un livello, quello del partenariato e della politica locale, e noi già siamo impegnati nel costruirlo il meglio possibile.
Ma c’è un altro livello, più profondo: quello di entrare nell’ordine di idee che la realizzazione di quel progetto possa generare non solo un’équipe che lavora, ma anche una comunità che dialoga.
Per entrare in questo ordine di idee, ci guidano ancora una volta le parole che il papa ha pronunciato a Qaraqosh, durante il suo viaggio in Iraq, sottolineando come il dialogo interreligioso non può nascere «a freddo», da riflessioni teoriche fatte a tavolino. Al contrario, può sorgere solo se si fa uno sforzo fondamentale che riguarda la quotidianità: riconoscere il bisogno dell’altro come proprio. Facendo poi fronte comune davanti a quel bisogno, si possono creare le condizioni per il dialogo e la fratellanza. Ecco, allora, che i progetti possono essere lo strumento per creare quel livello di amicizia, di profondità e di autenticità di relazioni necessario per poi arrivare ad affrontare insieme anche aspetti delicati del dialogo che altrimenti sarebbe difficile toccare.
Una nuova presidente e nuovo consiglio: come pensate di rilanciare la Federazione? Vedi la tua come una presidenza di continuità o di rottura?
«Rottura» non mi piace. Ma «continuità» nemmeno. Credo che le priorità per la Focsiv siano valorizzare il lavoro dei nostri volontari, rafforzare la relazione tra soci e federazione interpretandola come uno scambio continuo, promuovere la partecipazione e incarnare l’idea di sussidiarietà.
Un altro punto è sicuramente la formazione, specialmente attraverso la nostra Scuola di politica internazionale cooperazione e sviluppo (SpiceS).
Dobbiamo poi sforzarci di passare da essere un insieme a diventare un sistema: il nostro è un mondo in cui ci sono molte reti che rischiano di essere autoreferenziali, chiuse nei loro perimetri. Dalla campagna di ascolto dei soci che il nuovo consiglio Focsiv ha condotto, è emerso che essi vorrebbero conoscersi e collaborare di più: la Federazione deve diventare una continua occasione di scambio, conoscenza e lavoro condiviso attraverso tavoli tematici, tavoli geografici sovraregionali, temi trasversali su questioni come il ricambio generazionale e programmi e progetti condivisi.
Più in generale, io credo che il nostro mondo sia capace di autoriforma, senza dover aspettare sollecitazioni esterne: ad esempio, ora abbiamo una grande sfida sulla trasparenza. Viviamo in un momento culturale in cui si concepisce la cooperazione come un lusso, un costo, mentre è proprio il contrario: è un investimento, ma soprattutto un modo di stare al mondo. Però dobbiamo anche tener presente che alcuni episodi infelici hanno spinto diverse persone a non fidarsi più: «Quello che dono arriverà a chi ne ha bisogno?», si e ci chiedono. Per questo bisogna essere sempre più trasparenti, anche al di là di quello che la legge ci richiede.
C’è poi il delicato tema della nostra comunicazione, che non sempre è efficace. Troppo spesso siamo chiamati a raccontare la drammaticità delle cose e penso che invece dovremmo raccontare con altrettanta intensità la speranza che vediamo. Anche perché il racconto di questa speranza rafforza anche chi ascolta.
Di tavoli, gruppi di lavoro, incontri vari, se ne sono fatti tanti, negli anni: che cosa ti fa pensare che quelli che state avviando ora in Focsiv possano portare risultati? E, più in generale, che cosa può dare maggiore efficacia al lavoro delle reti della cooperazione?
In questo momento, complice anche la pandemia, io avverto una forte consapevolezza del fatto che da soli non si va da nessuna parte. La cifra del nostro tempo è forse la fatica di vedersi nel futuro, che per la prima volta nella storia dell’umanità ci fa paura, mentre prima era il tempo in cui si proiettavano sogni e speranze. Ecco, forse il pensarsi insieme agli altri è l’unico antidoto alla paura.
Questo stare insieme richiede al tempo stesso coerenza – se stai in una rete che ti rappresenta devi cedere un minimo di autonomia – ma anche la capacità di andare oltre le reti: il Terzo settore ha bisogno di sentirsi una cosa sola, di non limitarsi a un approccio strumentale – «quanto mi serve quella Federazione e i servizi che mi offre?» – e di esprimere un potenziale politico che c’è ma che ora non sta ancora emergendo in tutta la sua forza.
Altro punto è quello dei tanti temi e fronti su cui si lavora: migrazione, diritti umani e multinazionali, giustizia climatica. Forse focalizzarsi su un tema, o almeno darsi delle priorità, aiuterebbe a essere più incisivi.
Te lo dico con una battuta: dobbiamo passare dal paradigma «tema – svolgimento», al paradigma «problema – soluzione». Approfondimenti e ricerche sono fondamentali e ne abbiamo sempre bisogno, ma dobbiamo essere ancora più concreti e puntuali nella nostra capacità di porre questioni alla politica, altrimenti rischiamo di far parte di quello che Greta Thunberg ha chiamato il blablà.
Parliamo di progetti: che cosa ne pensi della contrapposizione grandi progetti burocratizzati ma capaci di raggiungere tante persone e di avere effetti strutturali versus micro e medi progetti, come quelli portati avanti dalle Ong missionarie, più vicini – forse – alla gente, ma a volte più simili a un rimedio temporaneo e limitato?
Toglierei il versus. Bisogna accettare che le forme della cooperazione sono tante e che la loro efficacia non si misura solo dalla grandezza o dal numero di beneficiari coinvolti. In Focsiv ci sono sia associazioni di volontariato puro, senza dipendenti, che sostengono piccole opere di singoli missionari, sia Ong strutturate che lavorano su grandi progetti istituzionali, e questa, secondo me, è una grande ricchezza.
Certo, so che c’è un dibattito nel mondo della cooperazione in cui una parte sostiene che il troppo piccolo non ha senso, ma io convintamente dissento: spesso anche il piccolo dà risposte dove non ce ne sarebbero altre, io in questo già vedo un senso. Il denaro pubblico è sacro, e un’organizzazione deve dimostrare di avere la struttura e le competenze per gestirlo, ma non è la grandezza che fa la differenza. L’indicatore più importante è quello più volte citato da papa Francesco: dobbiamo incidere sulle cause. Anche un’azione che a noi sembra minuta a volte ha la capacità di entrare in un sistema e cambiarlo.
Ci descrivi in due parole la campagna 070, che mira a far pressione per portare allo 0,70% del Pil la quota di risorse per la cooperazione?
È una campagna sostenuta insieme da Aoi (Associazione Ong italiane), Cini (Coordinamento italiano Ngo internazionali), Link2007 (Organizzazione di coordinamento tra 14 Ong) e Focsiv, e vede quindi le rappresentanze unite nell’interloquire con il governo. L’obiettivo immediato, lo scorso autunno, era quello di far sentire la nostra voce nelle settimane della discussione sulla legge di bilancio.
Il secondo obbiettivo è quello di avanzare una proposta di legge che vincoli l’Italia al raggiungimento dell’obiettivo dello 0,70% del Pil per la cooperazione entro quattro, cinque anni: finché non c’è una legge, la cooperazione rischia di rimanere la Cenerentola nella destinazione di fondi pubblici. Ora siamo allo 0,22%; indicativamente, per arrivare almeno allo 0,40% servirebbero 2,3 o 2,4 miliardi di euro.
La campagna ha l’obiettivo di parlare alla politica ma anche alla gente: non si limiterà ad attività di lobbying e advocacy verso le istituzioni, ma cercherà di attivare le comunità locali, coinvolgendo organismi di cooperazione internazionale, i centri missionari, le Caritas, i gruppi di lavoro dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) e del Terzo settore.
Questo significherà confrontarsi con quella comunicazione e quelle posizioni culturali e politiche che ci sono ostili, rispondere nelle piazze e nei dibattiti a chi ti dice «prima gli italiani».
Si è chiusa lo scorso 13 novembre la Cop26. Che giudizio dai sull’accordo di Glasgow?
C’è un po’ di delusione sui risultati, ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile trovare una convergenza su punti di vista e interessi così diversi.
Va preso atto del fatto che si sono finalmente chiamate le cose con il loro nome: ad esempio riconoscere in modo esplicito che le fonti fossili sono una delle cause principali del cambiamento climatico è un passo in avanti. Inoltre, la distensione climatica fra Usa e Cina è un elemento positivo, così come lo è tutto quello che apre il dialogo rispetto alla chiusura di prima.
Mi auguro che la citrica ai risultati non si traduca in un ulteriore indebolimento del sistema delle Nazioni Unite e che la società civile, e i giovani in particolare, continuino a fare pressioni paese per paese, perché al di là dell’accordo sono le azioni che ogni singolo paese intraprende a poter fare la differenza.
Ecco, i giovani. Tu sei nella cooperazione da oltre vent’anni con Progettomondo: come sono cambiati i giovani che vogliono lavorare in questo ambito? E come li accoglie, che cosa offre loro il mondo della cooperazione, oggi?
Il nostro settore esercita una forte attrattiva sui giovani. Credo che oggi più che mai ci sia bisogno di dare loro risposte personalizzate, senza mai generalizzare: ci sono giovani con un approccio incentrato sull’esperienza in sé, per cui ne fanno una e passano subito alla successiva; altri che hanno già in mente un loro percorso e sanno che il loro lavoro con noi non è che una tappa; altri ancora che si affidano a noi e che partono, si lasciano mettere in discussione e poi si “innamorano” dell’organizzazione e rimangono. Noi dobbiamo cercare di essere rispettosi di tutti questi approcci ed è una nostra responsabilità fornire loro un’esperienza strutturata e seguita.
C’è evidentemente una questione di ricambio generazionale e io credo che vada migliorato il dialogo intergenerazionale nelle nostre organizzazioni: se gli adulti sostengono di averle provate tutte per convincere i ragazzi a restare e i giovani oppongono che però mancano gli spazi per inserirsi davvero, specialmente in termini lavorativi concreti, è chiaro che qualcosa non sta funzionando. Dobbiamo, da un lato, accompagnare questi ragazzi a capire il valore dell’organizzazione e del volontariato e, dall’altro, essere disposti a farci mettere in discussione da loro.
Chiara Giovetti
«Buon vento, ResQ»
Negli ultimi anni la società civile ha riempito il vuoto lasciato nel Mediterraneo dalle istituzioni. Le navi umanitarie hanno salvato migliaia di vite finendo nel mirino della propaganda anti Ong. Ora, la «ResQ – People saving people» sta per salpare grazie a una grande mobilitazione.
«La storia la fanno le persone semplici, gente comune, con famiglia a casa e un lavoro ordinario. Che si impegnano per un ideale straordinario come la pace, per i diritti umani, per restare umani». Questo scriveva Vittorio Arrigoni nel 2008, tre anni prima della sua morte nella Striscia di Gaza.
Di persone semplici che si impegnano, oggi più che mai, il mondo ha un gran bisogno. Per arginare la deriva dell’umanità e la decrescita dell’empatia verso il diverso, lo sfortunato.
Il compianto attivista non immaginava che il suo motto, «Restiamo umani», sarebbe diventato un baluardo contro l’indifferenza di chi volta la testa dall’altra parte ogni volta che una barca cola a picco nel mare Mediterraneo portando con sé decine, centinaia di vite che cercavano solo un futuro migliore.
È successo il 3 ottobre 2013 con i suoi 366 morti, l’11 ottobre dello stesso anno con altre 268 persone annegate, il 18 aprile 2015, quando sono state non meno di 800. E continua ad accadere. Tanto che dal 2013 a oggi si calcolano almeno 20mila vittime.
Anche negli ultimi mesi i drammi non hanno dato tregua: a fine marzo sono state oltre 60 le vittime accertate dall’Helpline alarm phone, 41 il 16 aprile, e il 22 aprile, proprio mentre scriviamo, altre 120, per ricordare solo i naufragi più rilevanti.
Persone salvano persone
Come si può restare umani in quel mare che è diventato un enorme cimitero?
«È possibile e doveroso». Parola di Gherardo Colombo, ex magistrato che non si tira mai indietro e che, con un gruppo di amici, nell’estate 2020 ha lanciato una sfida enorme: mettere in mare una nave di salvataggio della società civile italiana: «Un’imbarcazione battente bandiera italiana, finanziata grazie alle donazioni dei cittadini. Pronta ad andare a soccorrere, perché salvare vite umane è la priorità», spiega Colombo presentando ResQ – People saving people, progetto che, sebbene sia nato in piena pandemia, sta raccogliendo continue adesioni e donazioni che probabilmente metteranno in acqua la nuova nave in estate.
In meno di 10 mesi, ResQ (gioco di parole del termine inglese rescue, soccorso) ha raccolto 900 soci, 425mila euro e, a oggi, una cinquantina di associazioni sodali, in quella che è chiamata la Rete degli amici di ResQ, a cui qualunque ente interessato può aderire (www.resq.it).
«Si tratta di un’iniziativa non solo moralmente giusta, ma assolutamente indispensabile», ha sottolineato Filippo Grandi, capo dell’Unhcr, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel prendere la parola durante il lancio ufficiale del sodalizio di ResQ. L’iniziativa è stata promossa all’inizio da Colombo con amici avvocati, giornalisti ed esperti di migrazioni, e aperta subito dopo alla libera adesione di chi ne condivide i valori.
Il vuoto istituzionale
«Siamo persone, proprio come te, stanche di restare a guardare. Crediamo nell’importanza di colmare il vuoto che si è creato nel Mediterraneo», si legge nel sito di ResQ.
«Dovrebbero essere le istituzioni a salvare le persone e poi garantire loro dignità», riprende Gherardo Colombo. «La Costituzione è chiara e le leggi ci sono. Vanno attuate. Noi ora svolgiamo una supplenza che in futuro non dovrebbe più esserci».
Così come non c’era tra la fine del 2013 e il 2014, quando l’Italia, proprio sulla scorta della commozione e del dolore del naufragio del 3 ottobre, aveva promosso l’Operazione di soccorso Mare Nostrum, salvando decine di migliaia di persone in poco più di un anno di attività.
Successivamente si era sostituita all’Italia l’Unione europea con l’Operazione Triton, che però non si era rivelata per nulla la stessa cosa: promossa tramite l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex, aveva visto una diminuzione progressiva dei dispositivi di salvataggio in un’Europa sempre meno salda e unità dal punto di vista politico sul tema dell’immigrazione.
Le Ong criminalizzate
È stato allora che la società civile europea ha messo in mare le proprie navi dopo avere raccolto i fondi necessari, fino ad arrivare a una dozzina d’imbarcazioni di Ong presenti nel Mediterraneo tra il 2015 e il 2017: tra esse ricordiamo Moas, Sos Mediterranée – sulla cui nave Aquarius è salita anche «Missioni Consolata» per un reportage pubblicato a inizio 2018 -, Proactiva open arms, Sea eye, Save the children, Medici senza frontiere, Emergency, Jugend rettet, Sea watch, a cui è seguita la nascita della prima compagine italiana, Mediterranea.
Cosa è successo dopo quel momento di massima presenza?
È iniziata la campagna di «criminalizzazione della solidarietà»: nel momento del graduale ritirarsi delle navi militari, le imbarcazioni delle Ong hanno iniziato a finire nel mirino di alcuni procuratori e della propaganda politica di alcuni partiti, e lo sono ancora oggi, sebbene non si sia mai arrivati a sentenze sfavorevoli al salvataggio umanitario in mare.
Tale criminalizzazione nel tempo ha colpito navi delle Ong, attivisti per i diritti umani e altre persone che, in nome dei valori umani, cercano di togliere dal pericolo i migranti forzati. Osteggiati da una parte del mondo politico, dei mass media e, di conseguenza, dell’opinione pubblica, l’accusa nei loro confronti è quella di «favoreggiamento dell’immigrazione irregolare».
Dal Codice di condotta del ministro dell’Interno Marco Minniti ai «porti chiusi» del successivo titolare del ministero, Matteo Salvini, i salvataggi in mare hanno avuto una brusca riduzione senza soluzione di continuità.
Una nave in più
«C’è un atteggiamento ostruzionistico che continua da anni, con inchieste sul nulla, blocchi delle navi con fermi amministrativi di mesi che di fatto lasciano il mare sguarnito di soccorritori: per questo una nave in più serve eccome», indica Luciano Scalettari, giornalista di lungo corso e primo ideatore di ResQ assieme al cooperante internazionale Giacomo Franceschini. «Un giorno, di fronte all’ennesimo naufragio, ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa in più: abbiamo radunato tutti gli amici chiedendo loro di coinvolgere i propri contatti, e così ha preso il via l’esperienza di ResQ», ricorda Scalettari.
I due hanno colpito nel segno: dopo pochi giorni, una ventina di persone, tra cui alcuni avvocati di Asgi, (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), ovvero Luca Masera, Livio Neri e Alberto Guariso, si sono aggregate.
In breve tempo è nata l’associazione ResQ – del cui consiglio direttivo, oltre ai già citati, fanno parte anche Lia Manzella, Sarah Nocita, Cecilia Guidetti, Emiliano Giovine, Corrado Mandreoli e Francesco Cavalli – e si è pensata una tempistica per allargare la base e mettere in atto in primi passi per acquistare un’imbarcazione.
Entro l’estate 2021
L’obiettivo iniziale era di avere la nave a disposizione per la primavera 2021. La pandemia ha rallentato il processo, ma «contiamo di averla per l’inizio dell’estate», sottolinea Scalettari, nominato presidente dell’associazione (Gherardo Colombo ne è il presidente onorario).
Nonostante le limitazioni causate dal coronavirus, la raccolta fondi sta raggiungendo ottimi traguardi, e, in particolare un evento alle porte del Natale 2020, «Tra il dire e il mare», ha portato in sole 8 ore di maratona mediatica in diretta facebook ben 189mila euro raccolti grazie a oltre 1.500 donatori e al contributo di 100mila euro annunciato in diretta dall’Unione buddhista italiana.
Nella diretta, che ha raggiunto 150mila persone con 10mila interazioni tra commenti e apprezzamenti sul social network, si sono alternati oltre 80 ospiti, molti dei quali volti noti che hanno pubblicamente aderito a ResQ.
«Vorrei che i principi di ResQ mi rappresentassero per tutta la vita», ha detto Paolo Maldini, ex calciatore e ora direttore tecnico del Milan. «L’accoglienza è la prima cosa. Diamo possibilità di muoversi anche agli animali, perché non agli esseri umani che vivono diseguaglianze che ha creato l’Occidente?», ha domandato Giovanni Storti, attore del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. «Avevamo pensato di mettere in mare personalmente una nave, quando ci hanno invitati a salire a bordo di ResQ lo abbiamo fatto subito. Dobbiamo cancellare l’indifferenza», sono state le parole delle sorelle Paola e Giulia Michelini, attrici della televisione italiana. Ancora, il velista Giovanni Soldini: «L’idea che a pochi chilometri dalle nostre coste succedano simili tragedie è un’idea pazzesca. Buon vento a ResQ».
Non fanno più notizia
È proprio il pensiero rivolto alle persone morte nei naufragi che rende Luciano Scalettari così determinato nel voler portare la nave di ResQ in acqua il prima possibile. «Oggi la necessità è ancora di più che in passato, le navi che operano sono pochissime. Il problema è che sia l’Italia che l’Europa non fanno più nulla per evitare le vittime in mare, addirittura consentono alla Libia di riportarsi indietro i malcapitati che vengono “salvati” dalla Guardia costiera libica. Una volta tornati in Libia, per i migranti ricomincia la discesa all’inferno», conclude Scalettari.
Per il presidente di ResQ, uno dei problemi maggiori di questo periodo è legato anche all’indifferenza che si è insinuata nella società: «Le morti in mare non fanno più notizia», e questo, per Scalettari «non è dettato solo dall’assuefazione, c’è anche una componente di razzismo, ed è un problema molto più serio di qualche anno fa». Un razzismo che le persone in fuga dalla Libia conoscono già molto bene, dato che in quel paese rapimenti e schiavismo sono da anni all’ordine del giorno.
Salvare più vite possibili
In Libia anche le locali istituzioni hanno le loro colpe. Ad esempio, di negligenza, come illustrano le carte di alcune intercettazioni giudiziarie eseguite su giornalisti esperti di tematiche migratorie. Queste intercettazioni, come riportato dal giornalista Lorenzo Tondo sul quotidiano inglese The Guardian, hanno portato alla luce, ad esempio, un episodio nel quale la Guardia costiera libica, dopo aver negato il suo intervento, richiesto dall’omologa italiana, per soccorrere un gommone che aveva lanciato un Sos, rispondendo di non essere in servizio quel giorno, in seguito, si è dimostrata ostile all’azione di salvataggio da parte di una nave umanitaria.
Di fronte a questo scenario, la ResQ è pronta a mollare gli ormeggi e chiede a ogni cittadino di salire a bordo effettuando donazioni. «Persone, gruppi informali, fondazioni, aziende e ogni altro componente della società civile: ci rivolgiamo a tutti e in particolare suggeriamo una donazione continuativa, con una quota mensile che permetta a ResQ di avere le risorse per continuare», spiega Scalettari.
L’obiettivo della raccolta fondi, infatti, non è solo quello di mettere in mare la nave, ma quello di rendere sostenibile il progetto nel tempo tenuto conto che i costi per l’equipaggio, il cibo, il carburante, sono alti.
«Puntiamo a operare in mare almeno per un anno, nella speranza che gli stati abbiano un sussulto di coscienza e ritornino protagonisti dei salvataggi». Una speranza oggi più che flebile, ma che va mantenuta ostinatamente viva. «L’esempio da seguire è dato dalle migliaia di persone che, in tempi difficili di preoccupazioni, dolore e paura causati dalla pandemia, non si dimenticano che c’è chi muore in mare e danno il proprio contributo per salvare più vite possibili».
Daniele Biella
Benin: Una Striscia tra terra e mare
testo e foto di Valentina Tamborra |
Strano paese, che si allunga tra il golfo di Guinea e il Sahel. Dove la religione tradizionale ha ancora un’influenza importante sulle persone. Non sempre positiva. Dove un popolo vendeva l’altro come schiavo, ora si celebra la porta del non ritorno. Dove chi ha un difetto fisico è spesso emarginato.
Il Benin, paese dell’Africa occidentale francofona, confina a Ovest con il Togo, a Nord con il Burkina Faso e il Niger, a Est con la Nigeria e si affaccia a Sud sull’Oceano Atlantico.
Qui l’età media è 45 anni: fame, malattie come l’Aids, la malaria o il colera sono fra le principali cause di morte.
Il Benin, insieme alle aree limitrofe della Nigeria, è la culla della religione vudù, riconosciuta ufficialmente dallo stato (e dalla quale, in parte, deriva anche il vudù haitiano, ndr). In lingua Fon, la più parlata nel Sud del paese, la parola «vudù» significa «anima, forza». Più precisamente è la città di Ouidah che viene definita «capitale vudù». Il 90% degli abitanti, infatti, pratica questa religione.
Arrivati a Ouidah ci si imbatte in un forte contrasto: nella tranquilla cittadina costiera infatti, il «Tempio dei pitoni», sacro al dio Dangbe, sorge proprio dinnanzi a una chiesa cattolica, la basilica dell’Immacolata concezione.
All’interno del tempio sono custoditi centinaia di pitoni reali, considerati sacri. A prendersene cura sono sacerdoti della Tribù dei serpenti, facilmente riconoscibili grazie alle scarnificazioni sul volto rappresentanti, in forma stilizzata, i denti dei pitoni.
La religione vudù è sopravvissuta alla colonizzazione europea, e gli antichi riti e cerimonie continuano a essere celebrati grazie ai dignitari del culto che sono stati in grado di trasmetterne la memoria.
Nato allo scopo di propiziarsi i favori degli dei per ottenere felicità e prosperità, il vudù mantiene ancora oggi un lato oscuro che offusca la bellezza di tradizioni, canti, e memoria.
È a Cotonou, città più popolosa del Benin, che ci imbattiamo per la prima volta nell’anima nera di questo credo.
Molte sono le donne che fuggono dai paesi che circondano la città portando con sé bimbi appena nati affetti da labbro leporino o malformazioni del volto e degli arti.
È la fame, e dunque la carenza di sostanze come l’acido folico, uno dei motivi principali per cui molti bambini nascono con gravi malformazioni.
Purtroppo però questi «segni» sul volto o sul corpo vengono visti da chi pratica il vudù come simboli del male e spesso il bimbo che li porta è allontanato dal villaggio o, nel peggiore dei casi, ucciso.
Victoria, madre coraggio
È questa la storia di Victoria. La sua Miracle, una bimba di pochi mesi, affetta da labbro leporino, è stata condannata a morte dallo stregone del villaggio.
Quando Victoria arriva in ospedale davanti all’equipe di Emergenza Sorrisi (Ong romana che opera in ambito sanitario, vedi box) appare disperata. Ha percorso decine di chilometri, scappando di notte dal proprio villaggio per non essere vista e poter così raggiungere l’ospedale.
Nonostante i chirurghi sconsiglino vivamente l’operazione, (Miracle infatti è davvero minuscola e denutrita, c’è il forte rischio che non sopporti l’anestesia), Victoria insiste perché la sua piccolina venga operata.
La scelta è tra affrontare il tavolo operatorio e mettersi nelle mani di uno stregone: se nel primo caso c’è almeno una speranza, nel secondo non c’è nemmeno quella.
La seguiamo a casa di un’amica, la sera prima dell’operazione. Operazione ancora in forse, infatti i chirurghi dovranno riunirsi da lì a poche ore per emettere il verdetto: operare o non operare.
Victoria vuole mostrarci dove si è nascosta, dopo la fuga dal proprio villaggio, per concedere almeno una possibilità alla sua piccola Miracle. La sua amica la ospita, pur sapendo il potenziale rischio delle azioni di Victoria.
Raggiungiamo così un piccolo gruppo di case in mattoni crudi e terra battuta in una zona rurale.
Ciò che ci colpisce, entrando nella modesta abitazione, è la presenza di una libreria.
Questa immagine ci seguirà spesso anche in altri casi: i bambini da queste parti, come ovunque, sognano un futuro e non è raro vedere in case modeste, poco più che baracche, libri conservati con cura e attenzione come tesori preziosi.
La mattina seguente Victoria raggiunge l’ospedale di buon’ora. I chirurghi hanno deciso: l’operazione si farà. Miracle ce la farà. Il palato verrà chiuso, consentendole di nutrirsi normalmente, e il labbro sistemato così da eliminare il «difetto».
Tensione, sollievo, il sorriso e le lacrime di una madre quasi certa di non poter più stringere la sua piccola. Una ninna nanna cantata a bassa voce e una sola frase «c’est magnifique» (è magnifico).
Un’infermiera scoppia a piangere, i chirurghi sorridono. Ma è solo una delle tante sfide da qui alla fine della missione.
In Benin è così ogni giorno. Per un bimbo che viene operato, e dunque salvato, un altro muore o viene allontanato dalla società diventando un reietto. Diffuse sono le campagne di sensibilizzazione promosse da équipe medico sanitarie con l’aiuto di Ong come Emergenza Sorrisi. Nei villaggi tentano di diffondere una conoscenza che porti a un nuovo approccio verso i problemi sanitari.
Qui bisogna agire sull’aspetto socio culturale del problema. La chirurgia infatti può annullare alcune malformazioni, diminuire difetti fisici, ma alla base c’è la necessità di spiegare alle persone la vera origine di queste problematiche.
Una storia simile per alcuni aspetti, anche se meno drammatica, è quella di Didier.
Un bimbo di appena 10 anni costretto a studiare a casa, lontano dagli altri bimbi, a causa di una malformazione al braccio.
Didier si è procurato un libro di inglese e uno di spagnolo e ora, oltre alla sua lingua madre e al francese, parla altre due lingue.
Dopo l’operazione Didier potrà tornare a scuola, non sarà più esiliato. La realtà del Benin ad oggi è impietosa con chi presenti un «difetto fisico».
L’operazione «miracle»
Esiste ovviamente un protocollo severo da seguire quando si opera. La sala chirurgica deve essere sterile, il personale sanitario usa guanti, mascherine, camici: la preparazione a un intervento è la medesima nella prima clinica di lusso o nel paese più povero del mondo.
Vista da fuori, la preparazione è un atto preciso che non lascia spazio al sentimento, all’emozione.
Quando la piccola Miracle viene portata in sala operatoria tutto si ferma per un attimo: uno degli anestesisti si passa una mano sulla fronte, un’infermiera fa il segno della croce. E uno dei chirurghi che sta per sciogliere il nodo di un nastro che lega al pannolino una piccola conchiglia, ferma per un momento la mano: «È un portafortuna, ha un’energia importante. Lo toglierò io».
E sembra un piccolo gesto quello che compie questo chirurgo anziano, con anni di esperienza, migliaia di operazioni alle spalle, eppure con un’attenzione all’essere umano e alle sue necessità sempre viva.
Esiste un protocollo, e deve essere seguito. Ma in sala operatoria si può, anzi talvolta si deve, dar spazio all’emozione.
Le spose bambine
In questo paese è purtroppo ancora fortemente presente la realtà delle spose bambine.
Bimbe e adolescenti vengono promesse in sposa a uomini molto più anziani, dovendo così rinunciare alla propria infanzia, all’educazione scolastica e vivendo in una realtà di abuso.
La ragione è socio culturale e ancora una volta strettamente connessa alla povertà e alla conseguente mortalità.
Se è vero che l’età media è 45 anni, e che il tasso di mortalità infantile è elevatissimo, è dunque «ricercata» una ragazza giovane e fertile che possa garantire una progenie.
I bambini in Benin sono l’anello debole e più sottoposto a vessazioni.
Riti vudù, spose bambine, lavoro minorile, elevata mortalità, tutto questo contribuisce a far sì che il Benin sia un paese antico, per storia cultura e tradizione, ma giovanissimo.
Piccola Venezia d’Africa
Ganvié è la più importante città lacustre dell’Africa Occidentale. Situata sul lago Nokouè, a Nord di Cotonou, viene soprannominata «la Venezia d’Africa».
L’origine della città risale al XVIII secolo quando, a causa delle razzie schiaviste, le popolazioni si rifugiarono nelle paludi del lago al fine di sfuggire ai cacciatori di schiavi.
Qui troviamo qualche migliaio di case in legno, erette su pali infissi nel terreno paludoso. In tutto la città conta circa 30mila abitanti. Si vive principalmente di pesca e ultimamente anche di turismo.
Di Venezia però troviamo ben poco: anche a Ganvié infatti, la condizione di povertà della popolazione è evidente. Le condizioni igienico sanitarie purtroppo sono critiche.
Anche qui il vudù è molto presente nonostante ci sia anche una una parrocchia cattolica.
Per muoversi a Ganvié è necessario l’utilizzo di piccole imbarcazioni, chiamate piroghe. Ogni abitante ne possiede una con la quale si sposta da un isolotto a un altro. Non è raro vederle quasi affondare a causa del carico eccessivo di persone, merci, animali. Le piroghe hanno poi un altro ruolo essenziale: solo con esse infatti è possibile raggiungere le due fontane che garantiscono acqua potabile alla popolazione. L’acqua del lago infatti è salmastra, dunque non potabile.
La via degli schiavi
La già citata Ouidah non è famosa solo per il vudù. Qui troviamo infatti anche «la strada degli schiavi». Il passato di questa città è tristemente legato alla tratta degli schiavi.
Sorgeva proprio a Ouidah un importante mercato di esseri umani. Il dolore per l’ingiustizia subita è oggi celebrato a imperitura memoria con questo percorso che ci guida attraverso l’intera cittadina.
A Ouidah è possibile camminare, come in una vera via crucis, lungo i quattro chilometri che migliaia di uomini e donne hanno fatto incatenati, partendo dal mercato degli schiavi, lasciandosi alle spalle le proprie famiglie a la propria libertà.
Lungo la strada si trovano cinque tappe che raccontano la storia della marcia degli schiavi. Il percorso culmina alla Porta del non ritorno. Il monumento sorge su una bellissima spiaggia, la stessa nella quale gli schiavi venivano caricati sulle scialuppe che li avrebbero portati alle navi. I più combattivi o disperati preferivano suicidarsi lasciandosi affogare piuttosto che partire verso l’ignoto.
Oggi la colossale porta affaccia su quello stesso mare blu intenso.
Quotidianità della morte
Lungo le strade che conducono a Cotonou la morte va in scena con una normalità impressionante. Minimarket, bar, benzinai e bancarelle di cibo si alternano a negozi che espongono sulla strada polverosa i feretri d’occasione.
Trasportati poi con mezzi di fortuna (legati a motorini talvolta, o su traballanti ape car) dal negozio agli ospedali o alle case, ricordano in ogni momento come il confine fra la vita e la morte in questo luogo sia estremamente labile.
Negli ospedali, spesso male attrezzati a causa delle condizioni del paese, le camere mortuarie straripano. Il rapporto con il corpo di un caro defunto pare essere assai meno «forte» di quello che abbiamo noi occidentali, e i lavoranti delle camere mortuarie trattano i corpi con meno cura di quella che noi ci aspetteremmo.
Sebbene a un primo sguardo possa essere scioccante, qui forse l’essere umano, anche se non per scelta, ha meglio compreso l’idea di caducità della vita.
I funerali vengono seguiti in modo composto, da una folla vestita di bianco, che accompagna il proprio caro al luogo della sepoltura fra canti e silenzi. Una foto a grande formato, come un quadro, viene posta davanti al corteo, a memoria del defunto.
La vita, poco dopo, può riprendere il proprio corso.
Valentina Tamborra
L’Ong dei miracoli
Emergenza Sorrisi è una Ong che si occupa di bambini affetti da labbro leporino, palatoschisi, malformazioni del volto, esiti di ustioni, traumi di guerra, cataratte e altre patologie invalidanti nei paesi del Sud. Unisce 375 medici e infermieri volontari, grazie ai quali vengono realizzate missioni chirurgiche in 23 paesi nel mondo, dove fino a ora 4.863 bambini sono stati operati e hanno ritrovato il sorriso. Uno dei pilastri della loro attività è la formazione e l’aggiornamento dei medici e degli infermieri locali.
Tutti i progetti di Emergenza Sorrisi nei paesi del Sud del mondo prevedono un’ampia partecipazione locale: allo stato attuale sono cinque le sedi autonome dell’associazione aperte in Benin, Congo, Iraq, Pakistan e Afghanistan.
I medici e tutto il personale sanitario che accetta di partire per le diverse missioni sono volontari. Spesso utilizzano le proprie ferie, momenti normalmente dedicati al riposo, per raggiungere luoghi remoti e sovente pericolosi.
Intervistando questi volontari durante le loro missioni in Iraq e Benin, abbiamo constatato che tutti concordano su una cosa almeno: ogni viaggio dà loro molto più di quello loro danno. Per utilizzare le parole di un’infermiera ormai alla sua decima missione, «è quasi un bisogno egoistico. Quando parto per una missione sto bene, sono felice. Mi sento utile. E quando torno, tutta quell’energia me la porto addosso per mesi. Mi fa sentire che il mio, il nostro lavoro, ha un senso profondo».
Valentina Tamborra
Comunicare la cooperazione nel tempo delle fake news
In vista della 53ª giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebrerà il prossimo 2 giugno, affrontiamo il rapporto fra comunicazione e cooperazione, ragionando sulle fake news che riguardano sviluppo, migrazioni e cambiamento climatico e sul perché è più difficile smontarle.
Testo di Chiara Giovetti
«Ti è mai capitato di sentire il bisogno irresistibile di inoltrare agli amici o di condividere sui social network una notizia che ti è piaciuta o ti ha fatto indignare soltanto perché ne hai letto il titolo? Capita a tutti: è un effetto naturale del pregiudizio di conferma (o bias di conferma), cioè la tendenza comune a credere che sia vero quello che vogliamo che sia vero (anche quando non è vero)».
Così Paolo Attivissimo, giornalista e studioso della disinformazione nei media, apre Come diventare detective antibufala@, una guida commissionata dal Miur e dalla Camera dei Deputati.
Le fake news sono agili, immediate, semplici. Spesso sono perfino rassicuranti, anche quando diffondono un’informazione allarmante, perché confermano una nostra opinione e ci fanno sentire scaltri, persone capaci di scoprire la verità anche oltre ciò che «loro non dicono».
Le fake news on devi cercarle, ti trovano loro: ti aspettano sui social, ti inseguono su whatsapp, ti raggiungono passando di bocca in bocca, si mimetizzano fra le altre notizie.
Il debunking e il fact-checking – traducibili come demistificazione e verifica dei fatti – sono invece più lenti, articolati e impegnativi per chi li legge o ascolta. Per verificare le informazioni che ti raggiungono, inoltre, devi volerlo, non puoi essere di fretta e devi essere disposto a farti venire un dubbio, che per definizione non è rassicurante.
Le cose si complicano parecchio quando le fake news si applicano a un ambito poco conosciuto, complicato e eticamente delicato, come è il caso della cooperazione allo sviluppo e dei temi ad essa collegati, dalle migrazioni al cambiamento climatico, dalla povertà e ai diritti umani. Un esempio è la presa di posizione del 4 febbraio 2018 dell’allora eurodeputato Matteo Salvini, che durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti citava la relazione di una deputata svedese nella quale si introduceva la figura dell’immigrato climatico: «Adesso», commentava sarcastico Salvini, «dovremo ospitare anche gli immigrati climatici: cioè se uno ha freddo, se uno ha caldo… […] A Milano c’è la nebbia, a me non piace la nebbia, e allora mi sposto perché sono un immigrato climatico»@.
Sulla stessa falsariga ci sono state, successivamente, altre interviste televisive di diversi esponenti politici sul franco Cfa (vedi Cooperando su MC di marzo) e sulla Dichiarazione di New York per i migranti e i rifugiati, nota anche come Global Compact. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha definito quest’ultimo accordo internazionale «una vera e propria fregatura» perché «garantisce qualunque tipo di immigrazione: non solo chi scappa dalla guerra, dalla violenza e dalla tortura, ma anche chi scappa dalla povertà, chi scappa dal caldo e chi si muove semplicemente perché gli va».
Sarebbe bastato opporre a Salvini che un migrante climatico non scappa dal caldo o dalla nebbia, ma da fenomeni estremi che rendono invivibile il luogo in cui abita; sul Global Compact sarebbe stato sufficiente controbattere a Giorgia Meloni – come ha fatto Nino Sergi sul giornale online La Voce di New York@– che «non si tratta di un patto vincolante né intacca la sovranità degli stati. Ma la sua adozione, anche da parte dell’Italia, potrebbe mettere le basi per potere iniziare un cammino, difficile ma possibile, verso un governo ordinato, regolare, sicuro della migrazione».
Tuttavia, in nessuno dei casi citati gli intervistatori sono stati in grado di contestare nel merito le affermazioni dei leader politici proprio perché si tratta di temi scarsamente o per nulla frequentati nei talk show e nei tg del nostro paese. E le informazioni errate contenute in quelle affermazioni, se non vengono immediatamente arginate finiscono per dilagare, amplificate dai social network. Dimenticando, tra l’altro, che ci sono diversi italiani «migranti climatici», secondo la definizione salvianiana, in altri paesi, come a Malindi in Kenya o in Portogallo.
Perché cooperazione e temi limitrofi sono tanto indigesti?
Il problema principale nel correggere un’informazione imprecisa sulla cooperazione, sulla migrazione e sugli ambiti a esse vicini è che non basta opporre un’argomentazione corretta, bisogna anche spiegare un sacco di cose. Non si parla di pensioni, di partite Iva o di reddito di cittadinanza, argomenti con cui la stragrande maggioranza delle persone viene a contatto direttamente o attraverso le esperienze di amici e parenti. Si parla viceversa di un tema che, per quanto negli ultimi anni ampiamente trattato e fortemente sentito@, rimane percepito come lontano dal quotidiano e dai bisogni immediati dei cittadini italiani.
A sua volta, chi si trova a comunicare la cooperazione e il suo funzionamento deve avvalersi di strumenti che tengano conto della delicatezza dell’argomento. Deve, cioè, evitare sia quella che in un acceso dibattito di qualche anno fa venne definita la pornografia del dolore, sia la troppa leggerezza@.
A questo proposito il Saih, Fondo degli studenti e accademici norvegesi per l’assistenza internazionale, ha monitorato fino al 2017 gli spot promozionali delle organizzazioni attive nello sviluppo, istituendo premi – ironicamente chiamati golden radiator o rusty radiator, il radiatore d’oro o arrugginito – per i migliori e i peggiori messaggi pubblicitari. Nell’ultima edizione, il vincitore del radiatore arrugginito è stato lo spot del Disasters Emergency Committee, organizzazione che riunisce 14 agenzie britanniche per l’aiuto umanitario. Il video promozionale, che aveva l’obiettivo di raccogliere fondi per la crisi in Yemen@, è stato giudicato «didascalico e stereotipato, lesivo della dignità di coloro che soffrono, uno spot che ci riporta agli anni ottanta e che sottintende: noi siamo i buoni, voi gli egoisti». Viceversa, il radiatore d’oro è andato allo spot di War Child Holland@, organizzazione attiva nella protezione e assistenza ai bambini in zone di conflitto. Il video ritrae un bambino in un campo profughi mentre gioca e svolge le sue attività quotidiane insieme a un Batman grosso e rassicurante ma anche divertente e un po’ buffo che lo accompagna e lo protegge, con il sottofondo musicale di You’re my best friend dei Queen. Solo nelle ultime inquadrature cessa la musica e il Batman si rivela essere il papà del bambino, un supereroe del giorno per giorno che porta in braccio il figlio allontanandosi dalle macerie fumanti di una città in guerra. Il video si conclude con una frase che recita: per alcuni bambini la fantasia è l’unico modo per scappare dalla realtà.
Comunicare la cooperazione significa muoversi all’interno di questi confini, per delineare meglio i quali la rete nazionale di Ong irlandesi ha elaborato nel 2015 un Codice di condotta@ in cui si raccomanda di evitare gli stereotipi, di dar precedenza alla testimonianza delle persone direttamente interessate e ottenerne comunque sempre il consenso prima di usarne immagini e parole, favorire una comunicazione in cui le immagini e situazioni non illustrino solo l’immediato – un bisogno, un problema – ma anche il più ampio contesto in cui si colloca, così da permettere al pubblico una miglior comprensione delle realtà e delle complessità dello sviluppo.
Le fake news sulle Ong
Una efficace sintesi delle principali notizie false che circolano sulle Ong era stata fornita lo scorso marzo da Paolo Dieci, il compianto presidente della Ong Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e della rete Link2007 scomparso nell’incidente aereo del 10 marzo, quando il Boeing diretto a Nairobi su cui volava insieme ad altri 156 passeggeri è caduto poco dopo il decollo da Addis Abeba. La rete Link2007 ha dedicato a Paolo Dieci un documento dal titolo Ong e trasparenza. Realtà e normativa in essere, che si chiude con il testo di una mail inviata dal presidente ai colleghi la sera prima dell’incidente. Nel messaggio, individuava cinque falsi miti secondo i quali le Ong «fanno ciò che vogliono; nessuno le controlla; fanno politica di parte; sottraggono risorse alla collettività; favoriscono la migrazione irregolare».
Paolo Dieci smentiva questi luoghi comuni precisando i seguenti punti:
«a) non esiste un singolo progetto realizzato che non sia stato approvato da soggetti rappresentativi dei paesi, inclusa l’Italia;
b) in media un’Ong della nostra dimensione riceve 30-40 audit annuali oltre a 2 livelli di verifica del bilancio;
c) le Ong non si schierano per “partiti” ma per “cause” e ho fatto l’esempio del Global Compact sulla Migrazione;
d) le Ong di Link 2007 portano molte più risorse al sistema Italia di quante ne ricevano, impattando anche sul piano occupazionale e formando giovani;
e) le Ong, concretamente, sono spesso sole a prevenire la migrazione a rischio, ma sempre avendo come riferimento i diritti umani»@.
Pubblicato il 24 gennaio – giorno in cui si ricorda San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti – il messaggio parte dall’invito del pontefice a riflettere sul nostro essere «in relazione» e a riscoprire «il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine».
La rete in sé è uno strumento neutro: può essere un veicolo di incontro con l’altro ma anche di autoisolamento, «come una ragnatela capace di intrappolare», di cui sono vittima specialmente i ragazzi, più esposti all’illusione che la rete da sola possa soddisfare le loro esigenze relazionali.
«È chiaro», prosegue il messaggio, «che non basta moltiplicare le connessioni perché aumenti anche la comprensione reciproca», che può crescere solo nella comunione, la quale si nutre della verità mentre al contrario la menzogna divide e «smembra».
Il riferimento all’essere membra gli uni degli altri rimanda poi anche a un secondo aspetto, quello dell’importanza dell’incontro in carne e ossa. Se la rete è funzionale a questo incontro, lo facilita e lo arricchisce, allora è una risorsa.
«Questa è la rete che vogliamo», conclude il papa, «una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere».
Il tema della precedente giornata mondiale delle comunicazioni era illustrato da una frase del Vangelo di Giovanni: la verità vi renderà liberi. Se è così, allora la post verità – in cui l’emotività sostituisce i fatti oggettivi nella formazione delle opinioni delle persone – prelude alla post libertà. E non ha l’aria di essere uno scenario da augurarsi.
Chiara Giovetti
Cooperazione: Da volontari a manager del bene
Testi di Antonio Benci |
Tutto nasce nei primi anni ’60. Un movimento, nei paesi del Nord, che vuole porre fine a fame e sottosviluppo. Il momento storico è propizio. Sembra possibile rendere il mondo migliore. La motivazione di chi parte è alta e, di seguito, arriva la formazione. Poi le prime leggi e le Ong. Ma i cooperanti «professionisti» di oggi sono i discendenti dei primi volontari?
In ogni dizionario che si rispetti la figura del cooperante è definita come quella di «chi nei paesi in via di sviluppo si occupa di un programma di cooperazione». A inquadrare meglio questa figura singolare ci aiuta Diego Battistessa, cooperante e coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’università Carlos III di Madrid, che in un’intervista del 2014 risponde alla domanda su cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il suo profilo ideale. Al riguardo Diego non ha dubbi: «Alta professionalizzazione». Poi ci spiega meglio: «Il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare. A partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il Pcm (Project cycle management, gestione del «ciclo del progetto»). Un buon esempio sono anche le Ict (Information and communication technologies), le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale».
Manager del bene?
È la chiara definizione di un manager in cui la competenza fa premio sullo spirito volontaristico.
In questo articolo vorrei approfondire il legame, se esiste, tra il primo volontario internazionale provvisto spesso di fede, ottimismo e buona volontà e l’ultimo cooperante, professionista formato e, non di rado, con precise e legittime ambizioni di carriera.
L’impressione è che questa figura, chiamata a cimentarsi con la dimensione progettuale di un programma di cooperazione (un tempo si sarebbe definito di aiuto allo sviluppo), è molto debitrice alla svolta attuata in Italia alla fine degli anni ’60 che ha trasformato i gruppi di appoggio alle missioni in organismi di volontariato.
In questo senso, si può tracciare una linea che unisce la figura di cooperante con quella dei primi volontari internazionali? C’è qualcosa in comune tra chi si occupa di Project cycle management e chi negli anni ’60 andava a «costruire la scuoletta» in qualche sperduta missione africana? O invece è qualcosa di completamente diverso tale da segnare una discontinuità o cesura determinata da altri fattori, non ultimo la globalizzazione che ha forzatamente delimitato la cooperazione a livello intellettuale?
Per provare a fronteggiare queste domande e temi, credo sia utile partire proprio da loro, i volontari.
Contro l’ingiustizia
Siamo nel momento, negli anni ‘60, in cui nasce in molti la richiesta ed esigenza di «fare qualcosa» per contrastare la fame nel mondo, permettere standard di vita decenti, assicurare i bisogni di base a una umanità sofferente e lontana eppure così vicina. Parlo della nascita di quel movimento all’interno dei paesi del Nord del mondo che si sente partecipe e responsabile dello sviluppo del Sud. Un’introduzione a questo immaginario la offre uno dei più noti volontari (non cooperante) del panorama italiano di quegli anni, Gino Filippini, in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1969: «L’esperienza di Kiremba ha cambiato la mia vita. Per un europeo andare laggiù significa trovarsi faccia a faccia con problemi insospettati: miseria, fame, dolore. Ci si accorge, allora, di quanto ognuno di noi si sia chiuso nel suo guscio, nel proprio angusto cerchio di egoismo, tutti presi come siamo dal desiderio di guadagnare, di primeggiare, di avere sempre più soldi, più cose materiali. A Kiremba ho imparato ad amare davvero il mio prossimo, a dimenticarmi di me stesso. Ho avuto la soddisfazione di vedere gli indigeni migliorare le loro condizioni di vita grazie anche ai miei modesti insegnamenti. E anche loro mi hanno insegnato tante cose: il senso della dignità umana, per esempio, e la vera, disinteressata amicizia. Se tu scendi dal tuo piedistallo di bianco, se ti mescoli a loro, elimini tutte le barriere, tutti i pregiudizi che per tanto tempo ci hanno diviso, trovi in loro dei veri, fedelissimi e leali amici, capaci di fare chilometri a piedi, capaci di sacrificarsi per darti una mano».
Filippini è in un certo senso una figura estrema. Un suo vecchio amico, Aldo Ungari, lo definisce come un uomo delle due culture. Una caratterizzazione che si percepisce dalla sua testimonianzanella quale narra la sua «iniziazione» all’esperienza di volontario nell’ospedale burundese di Kiremba costruito dalla diocesi di Brescia in omaggio al Papa bresciano Montini e che vide l’attiva partecipazione dei fedeli in termini di sensibilizzazione e mobilitazione. La gente partecipò non solo alla raccolta fondi ma anche alla progettazione e realizzazione in loco, tramite tecnici e volontari chiamati a supplire alle deficienze organizzative e di conoscenza dei «locali». Al teorema accettato quasi aprioristicamente della cosiddetta «assistenza tecnica», ben presto si ribelleranno i volontari di lungo corso alla Filippini, per l’appunto in nome di una visione meno paternalistica e assistenziale. Da loro, dal dibattito internazionale, dai limiti dell’aiuto allo sviluppo kennediano dei primi anni ’60 nasce l’impostazione più attenta alle dimensioni antropologiche, all’incontro con l’altro e a una cooperazione alla pari.
Un momento propizio
Non si sarebbe potuta manifestare in nessun altro periodo storico se non in quello. La decolonizzazione, l’apparire del «Terzo Mondo», l’immaginario della nuova frontiera, il Concilio e tutte quelle suggestioni di allora che con il carburante dato da figure di grande carisma e livello culturale (Helder Camara, Raoul Follereau, l’Abbé Pierre, Josué De Castro, Léopold Senghor, Julius Nyerere) hanno fatto percepire come possibile e vicino l’approdo a un mondo migliore senza l’incubo della fame e del sottosviluppo.
In quel contesto socioculturale irripetibile nasce il movimento – perché di movimento si tratta – del volontariato internazionale, vero e proprio incunabolo di formazione per il mondo della solidarietà internazionale. Un humus che, con il supporto dei volontari e le sollecitazioni esterne date dal dibattito in materia, permette di avviare quel percorso che agevola una impostazione progettuale per mezzo dell’intermediazione occidentale impersonata dal volontario, sia essa in ambito educativa, agricola o sanitaria.
Sviluppo come Pace
Inizia, con il passare del tempo, a farsi largo un’accezione diversa: non più organizzazione e pianificazione in toto qui in Italia, ma, con l’indispensabile intermediazione dei laici, studio e realizzazione del progetto lì, cercando di renderlo indipendente dalla presenza europea. Con ciò si rafforza un’impostazione più rispettosa – sulla carta – che cerca un minore impatto sulla cultura del luogo.
Una data cardine di questa evoluzione è il 1967. In un’Italia che, l’anno prima, ha visto una sorta di corsa alla solidarietà verso un paese in preda a una carestia, l’India, con una gigantesca e partecipata colletta diffusa, ha grandissima risonanza e impatto l’enciclica Populorum Progressio. In essa Paolo VI porta all’attenzione dei gruppi allora più attivi – quelli cattolici – lo «sviluppo» nella sua declinazione di «altro nome della pace» e come forma più lontana dall’idea di crescita e più vicina a quella di emancipazione sociale e di cambiamento. Il tutto con la richiesta dell’impegno di tutti, laici compresi.
Una chiamata alle armi dell’intervento individuale in favore dello sviluppo «integrale» dell’uomo e per l’uomo.
Non è un caso che la stragrande maggioranza di questi gruppi, quelli perlomeno più strutturati, passano, in quetli anni, oltre la fase spontanea della sensibilizzazione e mobilitazione per approdare a quella più professionale di formazione dei volontari e costituzione di reti, coordinamenti e federazioni allo scopo di irrobustire la loro capacità di produzione di una cultura della solidarietà internazionale. In quegli anni, proprio per tutelare quella massa di «gente che andava e veniva dal Terzo Mondo», nascono le prime forme di interscambio con la politica la quale capisce, perlomeno nei gruppi più accorti, che quello che sta germogliando non è qualcosa che riguarda un «fuori», ma interessa e coinvolge un mondo ampio, strutturato, esigente e molto attivo di cittadini.
La prima legge
Chi agevola questo cammino di interscambio reciproco è una «avanguardia» o, comunque, un gruppo della sinistra democristiana, che vede in Franco Salvi, Giovanni Bersani e Mario Pedini i propri cardini. Sono loro, insieme ad altri (Rampa, Pieraccini, Storchi), a ideare la legge 1222/71 (conosciuta come legge Pedini), entrata in vigore 10 giorni prima di Natale, che porta al riconoscimento del volontariato per il tramite della cooperazione tecnica.
Il nome della legge «Cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo» fa intravedere un’impostazione piuttosto ambigua già dal termine impiegato. Infatti da un lato l’idea di cooperazione è un deciso superamento dell’impostazione di aiuto. Mentre dall’altro il tornare (sottolineandolo) all’aspetto tecnico riduce l’ambito di intervento e marca ancora una volta la distanza tra «noi progrediti» e «loro arretrati». È comunque già molto, ove si consideri che si passa dal concetto di assistenza, utilizzato correntemente fin quasi alla fine del decennio, a quello di cooperazione tecnica. Un deciso arretramento rispetto al dibattito internazionale – oltre che delle organizzazioni e realtà italiane più impegnate ed evolute – che ruota, come si è visto, attorno all’idea di una partnership collaborativa finalizzata allo sviluppo come suggerito dalla commissione Pearson incaricata dalla Banca mondiale di redigere un testo «Partners in Development» che rimane una guida indispensabile per comprendere l’evoluzione del concetto di aiuto verso quello di supporto allo sviluppo endogeno per mezzo di un’azione di effettiva cooperazione.
Origine delle Ong
La lettura comune della legge del 1971 la considera un provvedimento confuso di raccordo tra «impulsi solidaristici e pressioni commerciali», per di più limitato alla tutela dei volontari cattolici che non rappresentano l’Italia ma solo se stessi e la propria carica ideale. Ma questa considerazione va temperata con alcune considerazioni: innanzitutto, si ha finalmente una legge organica, pur con tutti i suoi limiti, dopo anni di leggi semiclandestine di qualche riga. Legge che porta alcune novità a livello di organizzazione dello stato sia dal punto di vista del riassetto burocratico sia nella disponibilità di fondi per la cooperazione. Non va poi sottaciuto il fatto che la 1222/71 è il precedente e lo spiraglio per l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza approvata esattamente un anno dopo. La grande discontinuità sta nel riconoscimento degli organismi di volontariato, le proto organizzazioni non governative (Ong). Da questa legge essi infatti, vedono riconosciuto quel decennale lavoro di informazione, sensibilizzazione fatto da parrocchie, oratori e scantinati. Ed è proprio nel pieno riconoscimento di questi organismi che l’Italia si presenta come un paese al passo degli altri, strutturando il volontariato civile in appoggio prevalentemente alle missioni cattoliche.
Giovanni Bersani annotava come nel 1969 fossero oltre 600 le persone in servizio nei paesi del Terzo Mondo e molti di loro senza paracadute legislativi. E come nella loro formazione, avessero concorso realtà che creavano la prima ossatura delle future Ong e che s’incaricavano di essere le capofila nella formazione di volontari, non più «ragazzi che vanno a dare una mano», in partenza.
Chi forma i volontari?
In questo senso non è possibile fare una cronaca dettagliata di tutti gli organismi di volontariato, poiché ognuno esprime delle dinamiche e delle filosofie d’intervento imperniate su due «territori»: quello d’appartenenza e quello di missione. In quegl’anni le realtà che formano i volontari sono poche e alcune finiscono per fare da capofila. Troviamo il Cuamm di Padova, il Mlal di Verona, la Lvia di Cuneo e le milanesi Cooperazione Internazionale e Tvc (Tecnici volontari cristiani). Sono questi i principali – dati alla mano – fornitori e formatori di volontari nel «Terzo Mondo» fino a tutti gli anni ’70. Persone che iniziano da qui il lungo e contraddittorio processo di professionalizzazione che trasformerà non pochi di loro in «cooperanti».
Possiamo dire che dalla legge Pedini nasce la lunga marcia che porta alla professionalizzazione della figura del volontario? La mia impressione è che lo possiamo sostenere. Del resto lo stesso Salvi già durante la conferenza stampa di presentazione della Pedini, parlò di una possibile professionalizzazione della figura del volontario chiamato non più e non solo a «dare una mano» ma essere lo strumento operativo di un «piano» di sviluppo o cooperazione.
Da quel 1971 il tema della solidarietà internazionale per mezzo della figura del volontario/cooperante è stato attraversato da un dibattito continuo e da un dilemma che ha oggettivamente portato a moltissime riflessioni, non ultima la terzietà del volontario/cooperante rispetto all’essere parte di programmi e progetti governativi. In questo senso anche in Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) ci fu un dibattito molto forte: accettare i «soldi dello stato» per progetti di cooperazione? Per alcuni (non pochi) equivaleva a vendere le proprie motivazioni ideali. Cosa che fa sorridere del resto i moderni «manager della solidarietà». Questi ultimi ripropongono il nostro essere lì in chiave certamente più efficiente rispetto a prima ma senza probabilmente il corredo ideale dei pionieri. Il che, a guardare bene, è piuttosto ricorrente nella storia dell’uomo.
Antonio Benci
I media e lo scandalo Oxfam
Tutti giù per terra
Stiamo per pubblicare l’articolo di Antonio Benci quando scoppia il caso dei cooperanti di Oxfam ad Haiti. Operatori dell’Ong, anche di alto livello, che frequentavano alcune case di prostituzione a Port-au-Prince, all’indomani del terribile terremoto del 12 gennaio 2010. La notizia «buca» tutti gli schermi.
Un fatto sicuramente ignobile, ancorché aggravato dal particolare contesto nel quale si è verificato. Detto questo l’effetto dello scandalo porterà probabilmente a un discredito globale del mondo del volontariato internazionale e delle Ong. Il grande circo mediatico funziona così: non si ferma a capire o a discernere. Fatta l’etichetta, tutti quelli a cui si può appiccicare subiscono le conseguenze del comportamento di pochi.
In tutta franchezza posso testimoniare come sul campo operino decine di cooperanti onesti e integri, che compiono un lavoro eccellente. Compresi quelli di Oxfam, la più grande Ong del mondo. Sarebbe un peccato se tutta la categoria fosse messa all’indice a causa di un comportamento che, sì, esiste (non solo ad Haiti), ma che è una devianza, non la normalità. Talvolta è più facile nascondere comportamenti moralmente inaccettabili, proteggendosi dietro al logo di un organismo umanitario. Almeno fino a ieri.