Ecuador. I narcos all’attacco di Quito

Diana Salazar Méndez, afrodiscendente di 43 anni, è la procuratrice generale (fiscal general, in spagnolo) dell’Ecuador, posizione delicatissima in un paese attraversato da una guerra interna scatenata dagli eserciti dei narcos. L’ultimo assassinato in ordine di tempo è stato César Suárez, magistrato specializzato in corruzione e crimine organizzato, ucciso in un agguato a Guayaquil lo scorso 17 gennaio. Suárez era anche il responsabile del processo contro le 13 persone che, il 9 gennaio, avevano assaltato gli studi dell’emittente TC Televisión.

Subito dopo quell’evento, Daniel Noboa, il giovane presidente del paese andino eletto da pochi mesi, aveva dichiarato lo stato d’emergenza interno. Il presidente accusa gruppi di narcoterroristi collegati a cartelli della droga stranieri. Secondo Noboa, gli affiliati sarebbero almeno 30mila e molti di essi continuerebbero a operare anche dall’interno delle carceri ecuadoriane, finite nelle mani dei criminali.

Fino a pochi anni fa l’Ecuador era un paese tranquillo, senza la violenza che caratterizza praticamente tutti i paesi latinoamericani. La situazione è cambiata da quando esso è diventato una specie di corridoio della droga (cocaina, in primis) prodotta nei paesi confinanti, Colombia e Perù.

Nel paese agiscono una quindicina di gruppi criminali. I principali sono due: «los Choneros» con una disponibilità di 12mila-20mila uomini e «los Lobos», con circa 8mila. Reclutare personale non è difficile considerando la presenza di grandi sacche di povertà e la debolezza di uno stato corrotto e senza risorse.

I soggetti e la rete del commercio internazionale della droga sono cambiati radicalmente dopo la smobilitazione delle Farc colombiane, avvenuta a partire dal 2016. I gruppi ecuadoriani sarebbero legati ai cartelli messicani (Sinaloa, in primis) e a quelli balcanici (albanesi, in particolare). Tuttavia, scrive Primicias, un rispettato sito giornalistico ecuadoriano, «le prove esistenti sull’infiltrazione della criminalità organizzata nella Polizia nazionale, nelle Forze armate, nella magistratura o nella Procura ci portano inevitabilmente a dire che è difficile credere che i criminali siano arrivati lì senza il sostegno e l’intermediazione di coloro che hanno influenza politica nel paese». Di questi legami tra gang criminali e istituzioni pubbliche aveva parlato anche Fernando Villavicencio, il candidato presidenziale assassinato nell’agosto 2023.

Per Daniel Noboa, il più giovane presidente dell’America Latina, la gioia per la vittoria elettorale è durata poco. Oggi il paese attraversa una crisi molto complicata.

Oggi molti si chiedono se, per fronteggiare la gravissima situazione, il presidente Noboa finirà con l’adottare misure estreme (la cosiddetta «mano dura») come quelle adottate da Nayib Armando Bukele, il presidente di El Salvador. Infine, la situazione in Ecuador solleva l’eterno dubbio sull’efficacia del proibizionismo nella guerra alle droghe, la cui produzione – stando all’ultimo rapporto Unodc (United nations office on drugs and crime) – è in continua crescita.

Paolo Moiola




India. Un turbante sikh è per sempre

Tra Canada e India c’è tensione a causa dell’assassinio di un esponente della comunità sikh, molto numerosa nel paese nordamericano. Proviamo a spiegare i termini della questione.

L’assassinio di connazionali ritenuti «scomodi» da parte dei governi di alcuni paesi non è una pratica nuova. Lo ha fatto (più volte) Vladimir Putin. Ad esempio, con l’agente Alexander Litvinenko nel 2006, a Londra. Lo ha fatto il principe saudita Mohammad bin Salman con il giornalista Jamal Khashoggi, ucciso a Istambul, nella propria ambasciata, nel 2018. Potrebbe averlo fatto anche Narendra Modi – il primo ministro indiano protagonista del recente G20 – con il leader sikh Hardeep Singh Nijjar, ucciso vicino a Vancouver, in Canada, lo scorso giugno da due sicari incappucciati.

Il sikhismo è una religione fondata nel XVI secolo nel Punjab, una regione divisa tra India e Pakistan dopo il 1947, alla fine del dominio britannico. Esso nacque con una nobile ambizione: unire indù (maggioritari in India) e musulmani (maggioritari in Pakistan) nella fede in un Dio unico. Gran parte delle credenze dei sikh (come il karma e la reincarnazione) deriva dall’induismo, ma i sikh sono monoteisti e rifiutano ogni distinzione di casta.

Nella mappa la regione del Panjab indiano, cuore della comunità sikh.

Ci sono circa 25 milioni di sikh in tutto il mondo. La stragrande maggioranza vive in India, dove costituisce circa il 2% degli 1,4 miliardi di abitanti del paese. Ma esistono comunità sikh numericamente consistenti anche in altri paesi. Il Canada ospita la popolazione più numerosa al di fuori dell’India, con circa 780mila sikh – più del 2% della popolazione del paese -, mentre sia gli Stati Uniti che il Regno Unito ne ospitano circa 500mila, l’Australia circa 200mila (come l’Italia). È importante ricordare che la comunità sikh canadese riveste un ruolo importante anche per il governo di Justin Trudeau. Il sikh Jagmeet Singh Dhaliwal, nato in Canada nel 1979 da genitori del Punjab, è parlamentare e leader del Nuovo partito democratico (Ndp), formazione politica di centro sinistra che appoggia l’attuale governo canadese. Nuova Delhi considerava Hardeep Singh Nijjar un «terrorista» in quanto esponente del Khalistan (Khalistan liberation force, Klf), movimento che si batte per la creazione di uno stato sikh indipendente nel Punjab. In India, i separatisti del Klf furono attivi soprattutto negli anni Ottanta. L’azione storicamente più eclatante avvenne il 31 ottobre 1984 quando due guardie del corpo sikh uccisero l’allora prima ministra Indira Gandhi.

Nijjar è il terzo leader sikh scomparso in pochi mesi, una sequenza questa che pare ricalcare quanto avvenuto con vari avversari di Putin.

Jagmeet Singh Dhaliwal, sikh canadese, parlamentare e leader del Nuovo partito democratico. (Immagine tratta da sikhnet.net)

Il governo Trudeau ha accusato l’India di aver ucciso Nijjar, immigrato in Canada nel 1997 e divenuto nel frattempo cittadino canadese, sul proprio territorio violando così la sovranità nazionale. Sono seguiti inevitabili scambi di accuse e proteste. La questione è delicata non soltanto per il fatto in sé, ma anche perché coinvolge l’India, nazione emergente che sta cercando di ritagliarsi un posto di rilievo sulla scena internazionale. L’assassinio del leader sikh può, infatti, compromettere le ambizioni indiane e, soprattutto, la credibilità democratica del governo nazionalista di Narendra Modi.

Paolo Moiola