Anche in Africa la corsa alle energie rinnovabili è aperta. Il continente è il maggiore produttore al mondo di minerali necessari alla transizione verde. Solitamente sfruttati da altri. Intanto anche il nucleare si sta facendo strada. Il caso Rwanda.
Negli ultimi anni, molti Paesi africani – come diversi altri nel mondo – hanno iniziato a investire in una diversificazione delle proprie fonti energetiche, guardando sempre di più all’introduzione delle rinnovabili. Una decisione derivante, da un lato, dalla necessità di garantire una fornitura sicura e capillare di energia elettrica a cittadini e imprese e, dall’altro, dall’esigenza sempre più pressante di sviluppare politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico.
A caccia di elettricità
In Africa subsahariana, la domanda di elettricità è in crescita, ma, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (organizzazione intergovernativa che coordina le politiche energetiche dei Paesi membri), circa 600 milioni di persone e 10 milioni di piccole imprese ancora non vi hanno accesso. La necessità di soddisfare questa richiesta sta quindi imponendo agli Stati del continente di ripensare il proprio mix energetico, introducendo nuove fonti. Per la generazione di elettricità, infatti, molti Paesi dipendono ancora da petrolio e gas naturale, i quali, oltre a inquinare, hanno spesso elevati costi di importazione per chi non li produce.
Nel mentre – di fronte all’accelerare del cambiamento climatico e alla crescente consapevolezza dell’irreversibilità dei suoi effetti -, crescono anche le pressioni occidentali sui Paesi del Sud globale affinché adottino politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico. Nei fatti, questo vuol dire che regioni come l’Africa – l’area che in tutto il mondo emette la minore quantità di gas serra e che però, con Asia meridionale e America Latina, subisce la maggioranza degli effetti del cambiamento climatico – devono sviluppare e realizzare piani di transizione ecologica.
Al di là delle difficoltà economiche che molti Stati del continente affrontano per ottenere i fondi necessari a sviluppare queste politiche o per ripagare i tassi di interesse – spesso elevati – posti sui prestiti di Paesi occidentali e organizzazioni internazionali, lo sviluppo delle energie rinnovabili sta diventando un punto imprescindibile delle agende politiche di molti governi africani.
Ricchezza fatale
Poche aree del mondo si collocano al centro della transizione ecologica mondiale come l’Africa. Da un lato, il continente è ricco di risorse minerarie essenziali per la produzione di dispositivi come pannelli solari, auto elettriche e computer, tanto da essere al centro di una corsa all’accaparramento da parte di multinazionali e Stati stranieri, interessati a sfruttare il più possibile i suoi giacimenti (vedi box).
Dall’altro, l’Africa ha un potenziale di generazione di energie rinnovabili enorme. Ad esempio, il deserto del Sahara è l’area del mondo che riceve la maggiore quantità di sole in un giorno. I numerosi fiumi che attraversano tutto il continente permettono la produzione di energia idroelettrica, mentre nella zona della Rift Valley (Africa orientale) il calore del sottosuolo è utilizzabile per l’enegia geotermica.
Tuttavia, lo sfruttamento di queste fonti energetiche ha una doppia faccia. In Paesi dove la rete elettrica non è capillare e le aree rurali sono spesso tagliate fuori dalla fornitura nazionale, la possibilità di installare piccole unità di generazione elettrica (soprattutto pannelli solari, ma anche piccole centrali idroelettriche e pale eoliche) renderebbe intere comunità autonome. Dall’altro lato, però, i costi da sostenere sono consistenti e spesso improponibili per gli abitanti delle aree rurali. Inoltre, sovente l’installazione di questi impianti priva le popolazioni di aree di coltivazione o pascolo. Essi quindi dipendono da sussidi statali, investimenti e progetti stranieri per l’installazione e la messa in funzione delle infrastrutture necessarie per sfruttare il potenziale energetico del territorio circostante.
Attrazione nucleare
Tra tutte le fonti di energia, ce n’è una sempre più apprezzata in Africa, benché non sia tra quelle universalmente considerate come rinnovabili: il nucleare. La costruzione di centrali, anche solo in numero limitato, offrirebbe infatti la possibilità di produrre un’elevata quantità di energia, indipendentemente da stagione, momento della giornata e condizioni meteorologiche, a differenza di altre fonti rinnovabili. In più, secondo i governi di molti Paesi, nel lungo periodo, il nucleare garantirebbe una maggiore quantità di elettricità a costi minori rispetto alle fonti attualmente utilizzate e senza produrre emissioni di anidride carbonica. Inserito nel mix energetico, a fianco delle fonti rinnovabili, il nucleare permetterebbe quindi agli Stati africani di accelerare nella transizione ecologica, garantire elettricità a un maggior numero di abitanti del continente, supportare la crescita industriale e creare nuove opportunità lavorative.
Attualmente, tre Paesi – Namibia, Sudafrica e Niger – estraggono uranio in quantità tali da soddisfare il 18% della produzione mondiale. Ma giacimenti significativi – in alcuni casi già parzialmente sfruttati, in molti altri non ancora – si trovano anche in altri Stati come Botswana, Malawi, Mauritania, Tanzania e Zambia. Tanto che diversi Paesi hanno iniziato a muoversi concretamente per avviare la costruzione di siti nucleari. Ben presto, quindi, la centrale sudafricana di Koeberg – dotata di due reattori da duemila megawatt ciascuno – potrebbe non essere più l’unica nel continente.
Quarantacinque Paesi africani stanno cooperando con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organizzazione per lo sviluppo del nucleare con finalità civili che definisce i perimetri operativi e infrastrutturali affinché i programmi siano sicuri, protetti e sostenibili. L’obiettivo è accertarsi che la costruzione e attivazione delle centrali permetta di affrontare le priorità energetiche, sociali ed economiche degli Stati interessati, oltre a verificare il rispetto delle misure di sicurezza necessarie.
Più avanti è invece l’Egitto che a el-Dabaa ha già iniziato la costruzione del suo primo impianto. Composta da quattro reattori da 1.200 megawatt ognuno, la centrale è frutto della cooperazione de Il Cairo con Rosatom, azienda statale russa per lo sviluppo dell’energia atomica.
Infatti, diversi attori stranieri – sia Stati che imprese – stanno contribuendo a rendere sempre più attraente lo sviluppo del nucleare in Africa. Paesi come la Cina, ma ancor di più la Russia, sono protagonisti della corsa al nucleare nel continente.
Isolata a livello internazionale, Mosca mira a rafforzare i propri legami con diversi alleati – tra cui i Paesi africani -, e il nucleare è uno dei suoi tanti strumenti di cooperazione. Rosatom offre infatti contratti all-in-one (letteralmente, «tutto in uno») particolarmente apprezzati: l’azienda si occupa di tutte le fasi del progetto, dalla costruzione dell’impianto alla formazione dei lavoratori locali, dalla fornitura di uranio alla gestione delle scorie.
Il caso Rwanda
Uno dei Paesi africani che più sta investendo in energie rinnovabili è il Rwanda. Con l’obiettivo di raggiungere il 100% dell’elettrificazione nazionale nei prossimi anni, il Governo sta puntando sempre di più sullo sviluppo della rete elettrica, di sistemi autonomi di accesso all’elettricità per le comunità rurali e di fonti energetiche alternative a petrolio e gas.
Secondo il ministero rwandese dell’Infrastruttura, già nel 2018, il 53% dell’elettricità nel Paese proveniva da fonti rinnovabili, una cifra che tre anni dopo era cresciuta al 62%.
Nel 2022, metà della produzione energetica nazionale era soddisfatta dalla generazione idroelettrica, grazie a 37 centrali connesse alla rete statale e ad altri undici piccoli impianti che garantivano elettricità alle comunità rurali non toccate dalla fornitura nazionale. Tra queste comunità, diffusi sono i pannelli fotovoltaici, utilizzati soprattutto per sostenere l’irrigazione e l’illuminazione nei contesti agricoli. Mentre ancora poco sfruttato è il potenziale geotermico che in prospettiva potrà esserlo, dato che il Paese si colloca nella Rift Valley.
Interessi nucleari
E poi ci sono gli investimenti nel nucleare. Secondo quanto dichiarato da Fidel Ndahayo al momento della sua nomina a presidente del Consiglio rwandese dell’energia atomica, l’introduzione di questa tecnologia – applicabile in numerosi ambiti come medicina, industria e agricoltura – è un tassello fondamentale «per raggiungere la totale elettrificazione del territorio nazionale, soddisfare la domanda di energia dei cittadini, stimolare la crescita del settore industriale e sviluppare un’economia resiliente al cambiamento climatico».
Finanziamenti russi – arrivati grazie a un accordo di cooperazione tra Kigali e Mosca firmato nel 2018 e approfondito negli anni successivi – stanno supportando la costruzione e messa in funzione di un Centro per la scienza e la tecnologia nucleare, finalizzato allo studio e allo sviluppo del nucleare nel Paese.
Inoltre, un’intesa da 75 milioni di dollari siglata a settembre 2023 con Dual fluid energy, azienda canado-tedesca del settore, è finalizzata a sviluppare e testare in Rwanda un reattore dotato di una tecnologia innovativa, ritenuta più efficiente e sicura di quella tradizionale e in grado di produrre una quantità minore di scorie.
Nel quadro di quest’ultimo accordo, Kigali ha accettato di fornire sito e infrastrutture dove realizzare la sperimentazione, mentre Dual fluid energy si è assunta la responsabilità dell’implementazione tecnica del progetto e della formazione degli scienziati locali.
Il governo rwandese non nasconde la propria ambizione di diventare, nei prossimi anni, un punto di riferimento per lo sviluppo del nucleare in Africa. Invece di limitarsi a siglare accordi per la costruzione di centrali per la produzione di elettricità, la sua strategia mira alla ricerca e allo sviluppo di soluzioni innovative per il futuro. Se la sperimentazione di Dual fluid energy, infatti, dovesse concludersi con esito positivo (ci si aspetta che il reattore sia operativo nel 2026, mentre i test dovrebbero terminare nel 2028), oltre ad aggiungere questa tecnologia al mix energetico già esistente, il Rwanda si porrebbe come riferimento per la produzione e la diffusione dei nuovi reattori in Africa centrale, ma anche nell’intero continente.
Investimenti e rischi
Investire nel nucleare però non è esente da rischi, a maggior ragione in Paesi con un contesto sociale, economico e di sicurezza fragile. Diversi sono gli interrogativi, a partire dai costi elevati e dai tempi lunghi per la costruzione degli impianti, fino ad arrivare alla garanzia di sicurezza delle centrali e del territorio circostante.
La sola costruzione di un reattore da mille megawatt richiede generalmente cinque miliardi di dollari statunitensi e dieci anni, dal momento dell’approvazione del progetto a quello di inizio della generazione elettrica. Uno sforzo economico e di tempo non da poco che la maggior parte dei Paesi del continente non è in grado di sostenere autonomamente. Dunque, la necessità di prestiti o finanziamenti – spesso erogati con elevati tassi di interesse da altri Stati o organizzazioni internazionali – crea una dipendenza nei confronti dell’entità finanziatrice che si può protrarre per diversi anni.
A ciò si affiancano i timori sulla sicurezza degli impianti e del territorio circostante. Se, nel primo caso, l’auspicio è che vengano seguite le direttive dell’Aiea; nel secondo, la preoccupazione è maggiore. Molti Paesi, che stanno investendo nel
nucleare, o sono interessati a farlo, sono caratterizzati da una situazione sociale, politica e militare altamente instabile a causa della presenza di movimenti armati e tensioni sociopolitiche. Un’escalation di scontri nelle vicinanze di una centrale nucleare avrebbe effetti – potenzialmente – devastanti.
Senza dimenticare il rischio posto da eventi meteorologici estremi o disastri ambientali, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico. Se poi l’evento destabilizzante dovesse verificarsi in un Paese ad alta densità abitativa – come, ad esempio, il Rwanda, dove per ogni chilometro quadrato vivono 547 persone -, le ripercussioni rischierebero di essere drammatiche.
È per questo che diversi studiosi si chiedono se effettivamente il nucleare – tra tutte le fonti energetiche – sia la soluzione per l’energia africana. La risposta che finora si sono dati non è così certa. Ma i Paesi africani sembrano pensarla diversamente: per loro il nucleare è il futuro del continente.
Aurora Guainazzi
Siglato un accordo Ue-Rwanda sui metalli strategici
Così si finanziano le guerre
Il 19 febbraio, l’Unione europea (Ue) e il Rwanda hanno siglato un accordo di cooperazione incentrato sui minerali essenziali per la produzione di molti dei dispositivi al centro della transizione ecologica. L’obiettivo dell’intesa è «rafforzare il ruolo del Rwanda nella promozione dello sviluppo durevole e delle catene di valore resilienti in Africa». Ovvero, si prevedono investimenti europei (realizzati nell’ambito del Global Gateway, la strategia dell’Ue per gli investimenti in settori critici) per lo sviluppo del settore minerario rwandese, con particolare attenzione a risorse come tantalio, stagno, tungsteno, oro, niobio, litio e terre rare. Nei fatti, l’obiettivo ultimo dell’Ue è garantirsi un approvvigionamento sicuro e durevole di minerali sempre più importanti per il futuro della transizione ecologica.
Ma buona parte delle risorse minerarie esportate dal Rwanda, in realtà, non è estratta nel Paese (i cui giacimenti sono limitati e poco sfruttati). Piuttosto, proviene dalle province orientali della Repubblica democratica del Congo (Rdc), dove la diffusa conflittualità e l’incapacità del governo centrale di essere presente efficacemente su tutto il territorio facilitano il contrabbando di minerali nei Paesi vicini, tra cui, il Rwanda. Flussi commerciali illegali che sono stati denunciati in rapporti delle Nazioni Unite e da organizzazioni come Global witness (un ente che analizza il legame tra conflitti e risorse). Proprio una recente indagine di Global witness ha evidenziato come, negli ultimi anni, solo il 10% dei minerali esportati dal Rwanda fosse stato realmente estratto nel suo territorio, mentre il restante provenisse dalla Rdc.
Non a caso, la reazione del governo congolese all’accordo è stata particolarmente dura. Kinshasa ha criticato l’Ue e denunciato che il Rwanda «non ha nel suo sottosuolo nemmeno un grammo di questi minerali». Invece, si appropria di quelli congolesi, grazie al contrabbando dei movimenti armati attivi nell’Est della Rdc e al saccheggio dei militari rwandesi presenti illegalmente nelle province orientali a supporto del Movimento del 23 marzo (M23). A inasprire ulteriormente la reazione di Kinshasa è stata anche la consapevolezza che l’accordo del 19 febbraio non è l’unica forma di collaborazione esistente tra Rwanda e Ue. Kigali è infatti un importante alleato politico, ma soprattutto militare dell’Occidente, tanto che Stati Uniti e Ue addestrano e riforniscono il suo esercito.
A questo proposito, un comunicato del Mouvement citoyen lutte pour le changement (Lucha), organizzazione della società civile congolese, denuncia che «i soldati rwandesi che l’Ue sta addestrando e finanziando probabilmente saranno mandati nella Rdc […] e che gli accordi minerari che l’Ue sta firmando saranno utilizzati per riciclare le risorse minerarie congolesi saccheggiate dall’esercito rwandese nella Rdc».
Una volta giunti a conoscenza dell’accordo, gli abitanti di Kinshasa hanno protestato di fronte alle ambasciate occidentali. Mentre a Goma, capitale del Nord Kivu, la notizia ha rinfocolato il persistente sentimento di malcontento nei confronti dell’Occidente (e dei caschi blu delle Nazioni Unite): molti abitanti sono scesi in strada, manifestando e bruciando le bandiere dei Paesi occidentali (in particolare di Francia e Stati Uniti) e del Rwanda.
A.G.
Proibire le armi nucleari
Un forte appello a Governo e Parlamento
dai Presidenti e dai Responsabili nazionali di:
Acli, Azione Cattolica italiana, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari Italia, Pax Christi, Fraternità di Comunione e Liberazione, Comunità di Sant’Egidio, Sermig, Gruppo Abele, Libera, Agesci, Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale), Argomenti 2000, Rondine-Cittadella della Pace, Mcl (Movimento Cristiano Lavoratori), Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli, Città dell’Uomo, Amici di Raoul Follerau, Associazione Teologica Italiana, Coordinamento delle Teologhe Italiane, Focsiv (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario),Centro Internazionale Hélder Câmara, Centro Italiano Femminile, Csi (Centro Sportivo Italiano), La Rosa Bianca, Masci (Movimento adulti scout cattolici italiani), Fondazione Giorgio La Pira, Fondazione Ernesto Balducci, Fondazione Don Primo Mazzolari, Fondazione Don Lorenzo Milani, Comitato per una Civiltà dell’Amore, Movimento Cattolico Mondiale per il Clima, Federazione Stampa Missionaria Italiana (a cui è associata MC), Rete Viandanti, Noi Siamo Chiesa, Beati i Costruttori di Pace, Fraternità francescana frate Jacopa, Comunità Cristiane di Base, Associazione delle Famiglie Italiane
Questa iniziativa, avviata il 25 aprile 2021, viene chiusa idealmente il 2 giugno 2021 con lo slogan “Per una Repubblica libera dalle armi nucleari”
L’Italia ratifichi il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari
Il 22 gennaio 2021, al termine dei 90 giorni previsti dopo la 50esima ratifica, il «Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari» è diventato giuridicamente vincolante per tutti i Paesi che l’hanno firmato.
Questo Trattato, che era stato votato dall’Onu nel luglio 2017 da 122 Paesi, rende ora illegale, negli Stati che l’hanno sottoscritto, l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari.
Il nostro Paese non ha né firmato il Trattato in occasione della sua adozione da parte delle Nazioni Unite, né l’ha successivamente ratificato. Tra i primi firmatari di questo Trattato vi è invece la Santa Sede.
In Italia, nelle basi di Aviano (Pordenone) e di Ghedi (Brescia), sono presenti una quarantina di ordigni nucleari (B61). E nella base di Ghedi si stanno ampliando le strutture per poter ospitare i nuovi cacciabombardieri F35, ognuno dal costo di almeno 155 milioni di euro, in grado di trasportare nuovi ordigni atomici ancora più potenti (B61-12).
Il nostro Paese si è impegnato ad acquistare 90 cacciabombardieri F35 per una spesa complessiva di oltre 14 miliardi di euro, cui vanno aggiunti i costi di manutenzione e quelli relativi alla loro operatività.
Le armi nucleari sono armi di distruzione di massa, dunque, in quanto tali, eticamente inaccettabili, come ci ha ricordato anche papa Francesco in occasione della sua visita in Giappone domenica 24 novembre 2019, a Hiroshima:
«Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo. Le nuove generazioni si alzeranno come giudici della nostra disfatta se abbiamo parlato di pace ma non l’abbiamo realizzata con le nostre azioni tra i popoli della terra».
Il 22 gennaio 2021 autorevoli esponenti della Chiesa cattolica di tutto il mondo, tra i quali il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e mons. Giovanni Ricchiuti, arcivescovo della diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti e presidente di Pax Christi Italia, hanno sottoscritto a loro volta un appello in cui «esortano i Governi a firmare e ratificare il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari», sostenendo in questo «la leadership che papa Francesco sta esercitando a favore del disarmo nucleare». Altri vescovi italiani si sono espressi pubblicamente in questa direzione e anche numerose sedi locali delle nostre associazioni e dei nostri movimenti hanno fatto altrettanto.
A tutti questi appelli, unendoci convintamente alla Campagna nazionale “Italia ripensaci”, che ha registrato una vasta e forte mobilitazione su questo argomento, aggiungiamo ora il nostro e chiediamo a voce alta al Governo e al Parlamento che il nostro Paese ratifichi il Trattato Onu di Proibizione delle Armi Nucleari.
La pace non può essere raggiunta attraverso la minaccia dell’annientamento totale, bensì attraverso il dialogo e la cooperazione internazionale.
«La pandemia è ancora in pieno corso; la crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri; malgrado questo – ed è scandaloso – non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo di oggi»
Emiliano Manfredonia Presidente nazionale delle Acli
Matteo Truffelli Presidente nazionale di Azione Cattolica
Giovanni Paolo Ramonda Responsabile nazionale dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
Rosalba Poli e Andrea Goller Responsabili nazionali del Movimento dei Focolari Italia
Don Renato Sacco Coordinatore nazionale di Pax Christi
Don Julián Carrón Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
Adriano Roccucci Responsabile nazionale per l’Italia della Comunità di Sant’Egidio
Don Luigi Ciotti Presidente del Gruppo Abele e di Libera
Ernesto Preziosi Presidente di Argomenti 2000
Ernesto Olivero Fondatore del Sermig (Servizio Missionario Giovani)
Beppe Elia Presidente nazionale del MEIC (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale)
Martina Occhipinti e Lorenzo Cattaneo Presidenti nazionali della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana)
Barbara Battilana, Vincenzo Piccolo Presidenti del Comitato Nazionale dell’Agesci
Franco Vaccari Presidente di Rondine, Cittadella della Pace
Antonio Di Matteo Presidente nazionale MCL (Movimento Cristiano Lavoratori)
Antonio Gianfico Presidente della Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli
Luciano Caimi Presidente di Città dell’Uomo – associazione fondata da Giuseppe Lazzati
Ivana Borsotto Presidente della Focsiv (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario)
Antonio Lissoni Presidente nazionale dell’Associazione Italiana Amici di Raoul Follerau
Luciano Corradini Presidente emerito dell’UCIIM (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi)
Don Riccardo Battocchio Presidente nazionale dell’ATI (Associazione Teologica Italiana)
Cristina Simonelli Presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane
Renata Natili Micheli Presidente nazionale del CIF (Centro Italiano Femminile)
Vittorio Bosio Presidente nazionale del CSI (Centro Sportivo Italiano)
Massimiliano Costa Presidente nazionale del MASCI (Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani)
Mario Primicerio Presidente della Fondazione Giorgio La Pira (Firenze)
Andrea Cecconi Presidente della Fondazione Ernesto Balducci (Fiesole)
Paola Bignardi Presidente della Fondazione Don Primo Mazzolari (Bozzolo)
Agostino Burberi Presidente della Fondazione Don Lorenzo Milani (Barbiana)
Rosanna Tommasi Presidente del Centro Internazionale Hélder Câmara di Milano
Fabio Caneri Presidente dell’associazione La Rosa Bianca
Giuseppe Rotunno Presidente del Comitato per una Civiltà dell’Amore
Antonio Caschetto Coordinatore dei programmi italiani del Movimento Cattolico Mondiale per il Clima
Suor Paola Moggi Per la segreteria della FESMI (Federazione Stampa Missionaria Italiana)
Franco Ferrari Presidente dell’associazione Viandanti e della Rete dei Viandanti (costituita da 19 gruppi e 12 riviste di varie città)
Vittorio Bellavite Coordinatore nazionale di Noi Siamo Chiesa
Lisa Clark Presidente di Beati i costruttori di pace
Argia Passoni Responsabile nazionale della Fraternità Francescana frate Jacopa
Paolo Sales Per la Segreteria nazionale delle Comunità Cristiane di Base Italiane
Diego Bellardone Presidente AFI (Associazione delle Famiglie – Confederazione Italiana)
Altre adesioni
Fra Fabio Scarsato Direttore editoriale Messaggero di Sant’Antonio
Aurora Nicosia Direttrice della rivista “Città Nuova”
Padre Enzo Fortunato Direttore della rivista “San Francesco Patrono d’Italia” (Assisi)
Alessio Zamboni Per la Direzione e la Redazione della rivista “Sempre”
Pasquale Colella Direttore della rivista “Il Tetto” (Napoli)
Diego Piovani Direttore della rivista “Missionari Saveriani”
Alessandro Cortesi Direttore Centro Espaces “Giorgio La Pira” (Pistoia)
Pierangelo Monti Coordinatore del gruppo Amici di Gino Pistoni (Ivrea)
Antonio Francesco Beltrami Associazione Famiglie Nuove della Lombardia APS
Martino Troncatti Presidente di Acli Lombardia
Corrado Maffia Scuola di pace ODV” di Napoli
Ettore Cannavera Presidente di “Cooperazione e Confronto” e responsabile della comunità “La Collina” di Serdiana (Cagliari)
Maria Gabriella Esposito Presidente Uciim (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi) della diocesi di Teramo-Atri
Gennaro Scialò Presidente del Centro Giorgio La Pira di Pomigliano d’Arco
Roberto Marcelli Presidente di Raphaël, cooperativa sociale onlus di Clusane d’Iseo (BS)
Carla Biavati Presidente dell’Associazione per la nonviolenza attiva
Maurizio Certini Responsabile del Centro internazionale studenti “G. La Pira” di Firenze
Giorgio Grillini Presidente della cooperativa sociale “frate Jacopa”
Davide Bertok Responsabile dell’associazione Mondo senza guerre e senza violenza (Trieste)
Maria Pierina Peano Responsabile dell’associazione Comunità di Mambre (Busca, Cuneo)
Mario Metti Presidente dell’associazione Mamre di Borgomanero (Novara)
Irene Larcan Presidente della Fraternità di laici domenicani “Annunciazione del Signore” di Agognate (Novara)
Maria Laura Tortorella Presidente di “Patto Civico” di Reggio Calabria
Luciano Ferluga Presidente Comitato Pace Convivenza e Solidarietà Danilo Dolci di Trieste
Fernanda Castellani Presidente CIF provinciale Lecco
Giuseppina Odobez Presidente C.I.F. Comunale Lecco
Giuseppe Licordari Referente di “Reggio Non Tace” e della Comunità di Vita Cristiana di Reggio Calabria
Andrea Zucchini Presidente dell’associazione Igino Giordani di Montecatini Terme
Antonella Lombardo Presidente di “Dancelab Armonia” di Montecatini Terme, attiva nello sviluppo della collaborazione interculturale
Paolo Magnolfi Presidente di Nuova Camaldoli APS
Fratel Antonio Soffientini Responsabile della Comunità Comboniana di Venegono Superiore (Varese)
Franco Meloni Per Il Patto per la Sardegna
Davide Penna Referente Rete Genova Città aperta alla pace
Questa iniziativa, avviata il 25 aprile 2021, viene chiusa idealmente il 2 giugno 2021 con lo slogan “Per una Repubblica libera dalle armi nucleari”
Viaggio nel mondo del nucleare: Atomi di pace, atomi di guerra
Sì, no, forse, I tanti dilemmi dell’energia nucleare
Scrivere un articolo sul nucleare è una vera e propria sfida di comunicazione (e non esclusivamente dal punto di vista scientifico). Il dibattito sull’opportunità o meno di utilizzare l’energia imprigionata nel nucleo di un atomo anche per scopi pacifici e civili si è incuneato, a partire dagli anni Settanta, in inestricabili gangli ideologici. A seconda delle tesi che si vogliono sostenere, l’immensa mole di dati e tesi scientifiche viene troppo spesso seviziata e manipolata a piacere con il solo scopo di suffragare idee preconcette, anche a costo di stravolgere la fisica dell’atomo. È quindi praticamente impossibile, nell’affrontare un argomento così delicato, non incappare negli strali delle tifoserie dell’una o dell’altra squadra. Si aggiunga, poi, la complessità fisica, chimica, matematica che accompagna la materia nucleare che, per essere presentata in modo comprensibile ad un pubblico poco avvezzo all’argomento, deve essere spesso limata e sintetizzata in modo poco ortodosso.
Tutto questo porta spesso ad approssimazioni o a faziosità difficilmente conciliabili con l’informazione che si intende offrire.
Ai lettori di Missioni Consolata tenterò, quindi, di presentare l’argomento nucleare, se non in modo oggettivo, per lo meno cercando di seguire l’onestà intellettuale che dovrebbe contraddistinguere ogni divulgazione, nonostante il mio personale scetticismo su questa fonte energetica soprattutto in fatto di gestione delle centrali.
Piergiorgio Pescali
Dall’atomo alla fusione nucleare
Dalla scoperta della divisibilità dell’atomo (1896) al suo sfruttamento per produrre energia, la scienza della fisica nucleare ha fatto passi enormi. Non sempre nella direzione corretta, come dimostrano le tragedie di Hiroshima e Nagasaki (1945) e l’esistenza di pericolosi armamenti nucleari. Oggi l’energia nucleare viene sfruttata (soprattutto) per usi civili, ma anche in questo caso sul tavolo rimangono problemi seri. Come il pericolo di incidenti (le centrali di Chernobyl e Fukushima ce lo ricordano) e lo smaltimento delle scorie radioattive.
Nel 1914 la casa editrice britannica Macmillan & Co. pubblicò un romanzo di Herbert George Wells, La liberazione del mondo. In quelle 286 pagine si descriveva, in modo fantascientifico, una guerra che sarebbe scoppiata nel 1956 tra la coalizione franco-britannica-statunitense e quella austro-germanica. Il libro di Wells, autore noto al grande pubblico in quanto aveva già dato alle stampe successi come L’isola del dottor Moreau (1896), L’uomo invisibile (1897) e La guerra dei mondi (1898) che tanto panico causò nell’edizione radiofonica di Orson Welles, non raggiunse la fama dei precedenti lavori, ma ipotizzava, per la prima volta, l’utilizzo di un’arma che, sebbene differente nella concezione, avrebbe dominato la storia del mondo dal secondo dopoguerra fino ad oggi: la bomba atomica.
Basandosi sugli studi di Ernest Rutheford, William Ramsay e, soprattutto, di Frederick Soddy, Wells ipotizzò che, in un futuro non troppo lontano, gli eserciti avrebbero potuto utilizzare la scoperta della radioattività per creare armi che uccidessero non solo grazie al loro potenziale distruttivo immediato, ma prolungando nel tempo l’emissione dei radioisotopi.
L’autore morì il 13 agosto 1946, un anno dopo lo scoppio delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki, facendo così in tempo a veder realizzarsi nella storia la sua anticipazione letteraria.
La liberazione del mondo era un libro apocalittico, ma con un finale positivo: nel cancellare gran parte dell’umanità, la bomba atomica aveva anche permesso di gettare le basi per la creazione di nuove forme di pensiero e di governo. Alla fine, dunque, la scienza, in cui il pacifista Wells credeva fermamente, mostrava sempre il lato costruttivo e vantaggioso.
L’innato ottimismo che la società a cavallo tra il XIX e il XX secolo riponeva nel progresso, aveva nella neonata fisica nucleare il suo principale motivo d’essere.
L’atomo è divisibile: la nascita della fisica nucleare
Nel febbraio 1896, pochi anni prima che La liberazione del mondo fosse data alle stampe, la scoperta della radioattività fatta dal fisico francese Henri Becquerel aveva inaugurato l’avventura nucleare smontando la tesi secondo cui l’atomo (dal greco ??????, àtomos, indivisibile) era la parte ultima della materia e dimostrando che invece era a sua volta formato da altre particelle più piccole. Era nata la fisica nucleare.
Ci vorranno altri 36 anni prima che la struttura dell’atomo sia svelata nella sua interezza: nel 1897 Joseph John Thomson scoprì l’elettrone, nel 1919 Ernest Rutheford propose l’esistenza di un nucleo formato da protoni caricati positivamente e nel 1932 James Chadwick ipotizzò l’esistenza all’interno del nucleo di una particella di massa simile a quella del protone, ma di carica neutra: il neutrone.
Proprio quest’ultima scoperta scatenò nuove teorie della fisica e nel 1933 Leo Szilàrd suppose che se un nucleo poteva assorbire un neutrone, avrebbe potuto, allo stesso modo, espellerlo creando una reazione nucleare a catena. Il 4 luglio 1934, lo stesso giorno in cui morì Marie Curie, i cui lavori sulla radioattività erano stati fondamentali per lo sviluppo della fisica nucleare, Szilàrd depositò a Londra il suo brevetto sul modo di sfruttare l’energia contenuta in un nucleo atomico basato sulla reazione a catena di decadimenti nucleari.
Sembrava che la scienza concedesse all’umanità un futuro più roseo che mai, ma all’orizzonte cominciavano ad approssimarsi le nubi nere di un nuovo conflitto mondiale. Fu la Germania nazista la prima nazione a credere all’atomo come fonte inesauribile di energia e di potenza militare. Nel dicembre 1938 un team di fisici tedeschi guidati da Otto Hahn e Fritz Strassmann dimostrò che un nucleo di uranio-235 avrebbe potuto dividersi in altri nuclei più piccoli, se bombardato con un neutrone. Il 13 gennaio 1939 la fisica Lise Meitner, assieme al nipote Otto Frisch, risalirono all’origine della reazione riuscendo a calcolare l’enorme quantità di energia che poteva liberarsi dalla fissione, termine coniato da Frisch in analogia alla fissione di cellule nel campo biologico.
La scoperta di Meitner e Frisch cominciò a scaldare gli animi non solo degli scienziati, ma anche dei militari: se la fissione poteva liberare tale quantità di energia, allora un’arma basata su questa reazione a catena avrebbe dato alla nazione che la possedeva un vantaggio incolmabile sulle altre.
Lo sbaglio del Terzo Reich: l’espulsione degli scienziati ebrei
La guerra bussava ormai alle porte e il Terzo Reich era il paese che aveva la più profonda conoscenza della fisica nucleare. Nell’aprile 1939 l’Heereswaffenamt, l’Ufficio armi dell’esercito tedesco, fondò l’Uranverein, il «club dell’uranio» che avrebbe dovuto approfondire gli studi sulla fissione nucleare. Fortuna volle che i gerarchi nazisti avessero altre priorità e non credevano che la Germania dovesse dare urgenza ad un programma di cui non si aveva sicurezza che potesse essere terminato in tempi brevi. La fiducia nelle istituzioni e nella preparazione militare assecondate dalla remissività sino ad allora mostrata dai governi più ostili al Reich (Gran Bretagna e Francia), sembravano garantire a Berlino una facile vittoria senza dover spendere inutili energie in programmi scientifici alternativi. In più i dirigenti nazisti avevano iniziato sin dal 1933 ad espellere gli ebrei dagli uffici pubblici e, seppur il principale istituto scientifico tedesco, il prestigioso Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft fur physikalische Chemie und Elektrochemie, non fosse strettamente sotto controllo statale, venne fatta pressione affinché venissero allontanati ebrei e comunisti da quello che il quotidiano nazista Volkischer Beobachter definì un «parco giochi per cattolici, socialisti ed ebrei»1. Lo stesso Hitler, quando Max Planck tentò di convincerlo che espellere i ricercatori di razza ebraica sarebbe stato il suicidio della scienza tedesca, rispose di non aver «niente contro gli ebrei in sé. Ma gli ebrei sono tutti comunisti e loro sono miei nemici, a loro faccio la guerra». La cecità del governo nazista fu, nella sua tragicità, provvidenziale perché privò la Germania di una parte importante dell’intellighenzia scientifica. Cervelli come Albert Einstein, Edward Teller, Rudolf Peierls, Hans Bethe, Arthur von Hippel, Max Born, James Franck, Hermann Weyl, Eugene Rabinowitch, Heinrich Kuhn assieme agli stessi Lise Meitner e Otto Frisch espatriarono, così come fece Enrico Fermi dall’Italia. In seguito molti di questi stessi scienziati parteciparono attivamente e diedero contributi fondamentali all’interno del «Progetto Manhattan», l’ambizioso piano voluto da Franklin Delano Roosevelt, su pressione di Leo Slizàrd, Eugene Wigner e Albert Einstein, timorosi che la Germania potesse costruire una bomba nucleare.
La svolta decisiva del progetto che, alla sua massima espansione, impiegava 130.000 addetti, avvenne alle 5.29 del mattino del 16 luglio 1945 quando nel sito di Trinity, a Jornada del Muerto, nel New Mexico, venne fatto scoppiare Gadget, il primo ordigno nucleare prodotto dall’uomo, della potenza di 22 chilotoni.
Contrariamente a quanto si pensi, non vi fu alcuna corsa a due: Hitler non si interessò mai veramente alla bomba nucleare e al termine della guerra fu chiaro a tutti che la Germania era ben lontana dal confezionare un ordigno simile. Quando, il 6 agosto 1945, la Bbc diede l’annuncio dello scoppio della bomba su Hiroshima, Werner Heisenberg, il più celebre tra i fisici coinvolti nell’Uranverein, non credette ad una parola: «Posso solo supporre che qualche dilettante in America, con scarse conoscenze in materia, li abbia ingannati dicendo: “Se sganciate questa ha l’equivalente di 20.000 tonnellate di esplosivo ad alto potenziale”, ma in realtà non funziona per niente»2.
Eisenhower e gli «atomi di pace»
Dopo Hiroshima e Nagasaki il mondo iniziò ad interrogarsi sull’etica della scienza e sul pericolo nucleare. Nel 1956 Robert Jungk mise sotto accusa gli scienziati che avevano collaborato al Progetto Manhattan nel suo libro Gli apprendisti stregoni. Già il fisico tedesco dell’Uranverein, Carl Friedrich von Weizsacker ebbe a dire che «La storia ricorderà che gli americani e inglesi hanno fatto una bomba mentre i tedeschi, sotto il regime di Hitler, hanno prodotto un motore capace di funzionare. In altre parole, in Germania sotto il regime di Hitler si è avuto lo sviluppo pacifico del motore a uranio, mentre americani e inglesi hanno sviluppato questa terrificante arma da guerra»3.
Ma in un mondo sempre più energivoro diveniva indispensabile trovare fonti di energia a basso costo e ad alto rendimento per sostenere lo sviluppo industriale e sociale che si andava delineando a partire dagli anni Cinquanta. Come fare a convincere il mondo intero a utilizzare una tecnologia che aveva dimostrato di essere così distruttiva e che, dopo la guerra, continuava a terrorizzare l’umanità nella contrapposizione tra Est e Ovest? Fu Eisenhower a indicare alle Nazioni Unite un piano di controllo nucleare presentandosi l’8 dicembre 1953 all’Assemblea generale con un discorso che viene considerato lo spartiacque tra il nucleare a scopo bellico e quello a scopo civile: Atomi per la pace4. Il pianeta aveva appena sfiorato un nuovo conflitto nucleare nella guerra di Corea, Stalin era morto da poco e non si sapeva che strada avrebbe preso l’Urss sotto la guida del nuovo segretario del partito. Eisenhower propose un ente sovranazionale che controllasse le scorte di materiale fissile (il combustibile nucleare) «destinato ad essere usato per uno scopo pacifico […] nell’agricoltura, medicina e altre attività pacifiche […] al fine di fornire energia elettrica in abbondanza alle aree del mondo di essa più affamate».
Il 27 giugno 1954 la centrale di Obninsk, in Unione Sovietica, fu il primo impianto nucleare ad essere collegato alla rete elettrica nazionale inaugurando così l’epoca del nucleare a scopo civile. Si sarebbe dovuto attendere il 26 agosto 1956 per vedere la prima centrale nucleare costruita appositamente per generare energia elettrica, la Calder Hall del Regno Unito, entrare in operazione. Da allora la fissione dell’atomo divenne sempre più alla portata di tutti, ed oggi i 448 reattori nucleari sparsi in 31 paesi del mondo producono circa l’11% dell’energia elettrica prodotta nel pianeta e il 5,86% del consumo energetico assoluto5,6,7,8.
Anche l’Italia entrò con entusiasmo nel club del nucleare il 12 maggio 1963, quando venne inaugurata la prima centrale atomica a Latina. Solo tre anni più tardi il nostro paese era il terzo produttore al mondo di energia nucleare9. Sembrava che nulla potesse arrestare l’avanzata della fissione, ma all’eccitazione iniziale seguì una più ponderata disamina dei pro e dei contro.
Il movimento «No Nukes»
Con le contestazioni studentesche del Sessantotto cominciarono ad affacciarsi anche i primi movimenti «No nukes». Diversificati nelle intenzioni, nei metodi e nelle idee, gli attivisti convogliavano i loro timori verso la sicurezza, sia ambientale che umana, e la pericolosa complementarietà dell’industria nucleare civile e militare. Le prime centrali nucleari cominciavano a produrre quantità considerevoli di scorie radioattive che destavano preoccupazione tra la popolazione in quanto di difficile smaltimento. Inoltre i reattori, utilizzando uranio arricchito (uranio con alta percentuale di isotopo 235) e producendo plutonio-239, potevano essere sfruttati dall’industria militare per la produzione di bombe nucleari. Infine, dato che la teoria della fissione e fusione nucleare è identica sia per produrre ordigni che per produrre energia ad uso civile, ogni sviluppo tecnologico dell’uno poteva essere applicato nell’altro campo. Non è un caso che tutti i paesi che possiedono o hanno posseduto un arsenale nucleare abbiano sul loro territorio centrali nucleari per produrre energia a scopo civile o reattori di ricerca10.
Durante gli anni Settanta si moltiplicarono le manifestazioni contro la proliferazione nucleare: si organizzavano concerti, si giravano film, scendevano in campo star dello spettacolo e della politica. Nel 1975 la ventunenne Anne Lund, un’attivista antinucleare danese appartenente alla Organisationen til Oplysning om Atomkraft (Organizzazione per l’informazione sulle centrali nucleari) disegnò uno dei loghi più famosi e utilizzati nella storia della grafica: il sole che ride e che alla domanda «Energia nucleare?» risponde con un gentile, ma perentorio, «No, grazie».
I più gravi disastri nucleari
Alle obiezioni degli attivisti e delle organizzazioni ambientaliste, le compagnie impegnate nel nucleare, appoggiate dai governi, rispondevano assicurando tutti sulla sicurezza e sulla necessità di avere una fonte energetica pulita, efficiente e, soprattutto stabile e economica.
Ma la sicumera mostrata dai fautori del nucleare sembrò frantumarsi di fronte ad una serie di incidenti: la perdita di refrigerante con conseguente parziale fusione del reattore avvenuta il 28 marzo 1979 a Three Miles Island, negli Stati Uniti, fu solo il preludio di quello che, il 26 aprile 1986 accadde a Chernobyl, considerato il più grave incidente della storia del nucleare a scopo civile, seguito, l’11 marzo 2011, da quello, altrettanto pericoloso, di Fukushima, in Giappone. In tutto, dal 1957 ad oggi, nel mondo ci sono stati 14 incidenti che hanno coinvolto reattori nucleari, di cui dieci con conseguenze dirette sull’ambiente e la popolazione circostante11.
Le sciagure di Chernobyl e Fukushima furono manipolate da entrambe gli schieramenti pro e contro il nucleare per portare acqua al proprio mulino, in modo cinico e presentando in modo approssimativo, per non dire fraudolento, mappe, grafici, dati e cifre. In Italia, a seguito dell’incidente di Chernobyl venne indetto un referendum che sancì, con un consenso dell’80,57% dei votanti, la chiusura delle 4 centrali nucleari presenti sul territorio nazionale: Trino Vercellese, Caorso, Latina, Sessa Aurunca. Un tentativo di reintrodurre la fissione venne fatto nel 2011 ma, a poche settimane dal voto, Fukushima determinò l’esito delle urne con un 94,75% di contrari12,13.
La resistenza del nucleare e la crescita delle fonti rinnovabili
L’ondata di scetticismo verso l’energia atomica sembra, però, non aver intaccato l’avanzata del nucleare nel mondo. I 363 reattori nucleari che nel 1985, prima dell’incidente di Chernobyl, producevano 245.779 MWe (= megawatt elettrico, ndr) di energia, nel 2010 (prima di Fukushima) erano saliti a 441 con una produzione elettrica di 375.227 MWe per raggiungere un totale di 391.116 MWe nel 2017. E con 61 reattori in costruzione per 61.264 MWe di potenza, il nucleare sembra essere ancora una fonte energetica attraente, nonostante nei prossimi 10-20 anni dovranno essere smantellati più della metà dei reattori perché troppo vecchi15,16.
Tra i paesi che nel 2010 avevano un contributo energetico dato dal nucleare, solo Germania e Giappone hanno deciso di diminuire in modo sostenuto (ma non annullare del tutto) l’apporto atomico nel loro consumo energetico dopo la catastrofe di Fukushima. Nel primo caso si è passati dal 22,6% del 2010 al 13,1% nel 2016; nel secondo caso dal 29,2% al 2,2%17. Tutte le altre nazioni, comprese alcune di quelle considerate più sensibili ai temi ambientali, come Finlandia, Svezia, Svizzera, Canada, hanno mantenuto attive le proprie centrali18,19.
I motivi di questa tendenza al rialzo sono da ricercarsi in diverse ragioni. Le energie rinnovabili (è anche il caso di ricordare che «rinnovabile» non è sinonimo di energia «pulita»), pur in forte e costante aumento sono ancora troppo suscettibili agli eventi naturali e non sempre possono essere disponibili ad un uso immediato (ad esempio, la carica di un’auto elettrica dura in media tra i 20 e i 40 minuti). Inoltre la crescente richiesta energetica mondiale obbliga le compagnie a rifornire in modo sempre più cospicuo e costante la rete. Gli impianti di produzione di energia rinnovabile, come eolica o fotovoltaica sono ancora troppo costosi, poco concorrenziali, dipendenti dalle condizioni atmosferiche e non in tutte le regioni possono essere installati (i pannelli fotovoltaici, ad esempio, occupano ampie superfici sottraendo aree che potrebbero, ad esempio, essere utilizzate in agricoltura). Le fonti energetiche fossili, come carbone, petrolio, gas naturale oltre che inquinare, hanno forti implicazioni geopolitiche, le scorte sono limitate e la loro estrazione, mano a mano che i giacimenti superficiali si esauriscono, diviene sempre più costosa e tecnologicamente impegnativa.
Infine, parametro certo di non poco conto, tra tutte le fonti energetiche a disposizione, il nucleare è di gran lunga quella che, a parità di unità di combustibile arricchito, genera la maggior quantità di energia20.
Pur non esistendo un parametro oggettivo e universalmente riconosciuto per valutare la convenienza o meno di una fonte energetica rispetto ad un’altra, le compagnie si affidano all’Eroi (Energy Returned On Investment, «ritorno energetico sull’investimento energetico») un valore che indica quanto conveniente è una determinata fonte energica pronta al consumo ottenuto dividendo l’energia prodotta durante tutto il ciclo di attività dell’impianto per l’energia spesa nella produzione, dalla costruzione allo smantellamento dell’impianto stesso, compresi i costi di manutenzione durante il ciclo di vita. Più alto è il suo valore più conveniente è produrre quel tipo di energia. L’Eroi, però, non tiene conto dei costi di produzione delle materie prime e del loro trasporto; di conseguenza i valori per una stessa fonte energetica variano in misura notevole a seconda del periodo, del luogo in cui l’energia è prodotta e consumata, del costo delle materie prime, della manodopera, etc. Ad oggi l’Eroi rimane comunque l’unico parametro scientifico per determinare l’effettiva economicità energetica ed è su questa base che governi e industrie programmano la loro politica energetica. Il nucleare rimane ancora una fonte tra le più convenienti dopo l’idroelettrico e il petrolio21. L’introduzione dei reattori di quarta generazione, prevista tra 10-20 anni, aumenterebbe ancor più l’Eroi.
Le lobbies mondiali e le riserve di uranio
Contrariamente al sentito dire, dal 1985 ad oggi gli investimenti nel nucleare sono in continua diminuzione. L’Oecd ha stimato che nel 2015 sono stati spesi nel campo della ricerca e sviluppo energetico 12,7 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali sono confluiti nel campo della sicurezza, dei problemi ambientali e sociali. I governi tendono a finanziare ricerche in programmi energetici a medio-lungo termine atti ad essere commercializzati, in modo da recuperare, in parte o totalmente, gli investimenti. I capitali privati, invece, sono focalizzati ad investimenti a corto termine migliorando tecnologie già esistenti. Se negli anni Settanta più del 70% degli investimenti in ricerca e sviluppo erano diretti nel campo nucleare, nel 2015 questi si sono ridotti al 20%. Al tempo stesso è aumentato l’interesse verso le fonti energetiche rinnovabili e l’efficienza energetica, campi verso i quali sempre più lobbies industriali guardano con partecipazione, anche per via dei forti incentivi economici offerti dai governi22. Risulta quindi sempre più difficile parlare di ostacoli verso le energie rinnovabili posti da cartelli di grosse multinazionali. Oramai anche le maggiori compagnie impegnate nel campo nucleare destinano una parte sempre più cospicua dei loro investimenti nelle rinnovabili (in particolare solare e eolico).
Tutto questo, però, non esclude che attorno al nucleare vi siano ancora interessi enormi, in particolare per quelle compagnie che operano nei paesi dove i piani energetici nazionali concedono ampi spazi a questa forma di energia. I principali gestori di impianti nucleari sono la francese Edf (58 reattori gestiti), la russa Rosenergoatom (35 reattori gestiti e 7 in costruzione), la sudcoreana Korea Hydro and Nuclear Power Co. (25 reattori gestiti, 3 in costruzione) e l’indiana Nuclear Power Corporation of India Ltd (22 reattori gestiti, 4 in costruzione)23,24.
Più conosciute al grande pubblico, perché presenti sul mercato dei consumatori, sono le multinazionali che si occupano della manutenzione e della costruzione di impianti nucleari: la parte del leone la fanno la Westinghouse (manutenzione di 70 reattori e altri 6 reattori in costruzione), l’Areva (66 reattori in manutenzione, ma appena salvata dal fallimento dallo stato francese, ndr), la General Electric (44 reattori in funzione e 2 in costruzione), la Mitsubishi Heavy Industries, la Toshiba, la Siemens, la Skoda25.
Come si può vedere la galassia delle ditte impegnate nel nucleare è molto variegata e non esclude quegli stessi paesi che al nucleare hanno rinunciato o stanno per rinunciare. A queste si aggiungono le compagnie che estraggono e lavorano l’uranio, metallo che, dopo l’arricchimento, viene utilizzato come combustibile nei reattori nucleari.
Due terzi dell’estrazione mondiale di uranio provengono dal Kazakistan (39% della produzione mondiale nel 2016), Canada (22%) e Australia (10%). Niger e Namibia, serbatornio per il combustibile nucleare francese estraggono ciascuno il 4% della quantità mondiale di uranio26.
Ma se in Kazakistan, in Canada e in Russia le compagnie che estraggono e lavorano uranio o appartengono allo stato o sono ditte a capitale privato per maggioranza locale, in Niger solo il 34% delle compagnie sono statali (il restante 66% sono straniere) mentre in Namibia, dove solo l’1,2% delle compagnie sono locali, la situazione è ancora più spostata verso il mercato straniero27. La chiusura del mercato giapponese e la diminuzione delle centrali in Germania hanno fatto crollare il prezzo del minerale. A seconda dei costi di estrazione e di lavorazione del materiale grezzo, il prezzo medio si aggira sui 130 dollari per kg (con riserve stimate attorno a 5.718.000 ton) per raggiungere i 260 dollari al chilo per l’uranio di difficile estrazione o di bassa purezza iniziale (con riserve stimate pari a 7.641.600 ton)28,29.
L’Australia è la nazione che possiede le riserve mondiali più cospicue (29%), seguita da Kazakhstan (13%), Russia e Canada (9% ciascuno), Sud Africa (6%) e infine Niger, Brasile, Cina, Namibia (5% ciascuno)30.
La produzione nel 2017 è stata di 68.000 tonnellate, 27% delle quali (19.000 ton) dirette verso gli Stati Uniti, 12% verso la Francia (8.000 ton), e poi in Russia, Corea, Cina, Ucraina31. Il forte incremento di domanda energetica cinese, ha indotto questo governo a iniziare una serie di manovre per diminuire la dipendenza verso il mercato estero, in particolare petrolifero. Così, oltre all’impulso dato alle fonti energetiche rinnovabili, è in progetto il raddoppio del contributo dato dal nucleare. La Cina è il paese al mondo dove si sta riscontrando il maggior incremento di energie rinnovabili; oggi il 25% dell’energia prodotta in Cina proviene da fonti energetiche rinnovabili e il 2% dal nucleare; nel 2040 si stima che il nucleare passerà al 4%, mentre il rinnovabile al 57%32. Questo porterà Pechino a importare una quantità di uranio tra le quattro e le cinque volte superiore a quella attuale (tra 14.400 e le 20.500 tonnellate di uranio nel 2035 contro le 4.200 attuali) trasformando la Repubblica popolare nel primo paese al mondo importatore del minerale fissile superando anche gli Stati Uniti33. Allo stesso tempo la domanda di uranio aumenterà per altri mercati che stanno rafforzando la presenza nucleare nel loro scenario energetico: India, Argentina, Giappone, ma anche con new entry come Polonia, Turchia, Emirati Arabi e Viet Nam34. Sebbene la richiesta sarà destinata ad amplificarsi, le riserve di uranio sono talmente vaste che, anche con uno scenario pessimista, potranno durare secoli35.
La radioattività e le scorie
Uno dei principali problemi che nascono dalla fissione nucleare è quello dei rifiuti radioattivi. Per una malsana informazione, ogni qualvolta si pronuncia la parola «radioattività» si ha un sobbalzo di terrore. In realtà tutti noi viviamo immersi nella radioattività. Continuamente. In ogni luogo del mondo. Occorre, quindi, distinguere tra radiazione naturale e radiazione artificiale individuando anche, oltre alla tipologia di radiazione emessa dai singoli componenti, anche la quantità.
Le centrali nucleari producono materiali radioattivi, ma non sono le sole sorgenti di scorie prodotte dalle attività umane. Limitandoci quindi ai soli reattori in funzione a scopo civile, i rifiuti considerati radioattivi si dividono in tre categorie: Llw (Low-Level Radioactive Waste, rifiuti radioattivi a basso tasso di radioattività), Ilw (Intermediate-Level Radioactive Waste, rifiuti a medio tasso di radioattività) e Hlw (High-Level Radioactive Waste, rifiuti ad alto tasso di radioattività). Mentre i Llw costituiscono il 90% del volume totale e non danno particolari problemi di smaltimento, i Ilw e i Hlw sono quelli su cui si innestano i principali e più accesi dibattiti tra chi osteggia e chi, invece, propugna la scelta nucleare. Le scorie Hlw ammontano al 3% dell’intera gamma di rifiuti prodotti da una centrale e all’interno di questa sezione vengono classificati anche i combustibili spenti, le barre di uranio che hanno terminato il loro ciclo vitale all’interno del reattore e che, quindi, posseggono una radioattività molto elevata. Il combustibile spento costituisce lo 0,2% del totale dei rifiuti radioattivi, pari a circa 34.000 m3 annui e di questi circa il 20-25% viene inviato ai cicli di riprocessamento36. Il resto viene trattato con un metodo chiamato vetrificazione.
I Llw sono stoccati in depositi superficiali a causa della loro (relativa) bassa pericolosità, mentre i Ilw e gli Hlw devono essere conservati per anni (da decine a migliaia, a seconda del livello di radioattività emanato) in luoghi geologicamente sicuri e sotterranei facendo levitare in modo sostanziale i costi del ciclo vitale di una centrale atomica.
Per poter essere maneggiati con sufficiente sicurezza, i rifiuti Hlw vengono lasciati in depositi temporanei; il combustibile esausto è mantenuto in media per 5 anni nelle piscine di stoccaggio; durante questo periodo il materiale perde il 90% della sua radioattività. Prima di essere inviato ai centri di riprocessamento, però, le scorie nucleari vengono separate secondo i loro componenti. La composizione media del combustibile esausto contiene il 93,4% di uranio-238, lo 0,71% di uranio-235, 5,15% di prodotti di fissione e 1,3% di plutonio37.
Appare chiaro che, oltre alla pericolosità intrinseca delle scorie, vi è anche il rischio (spesso reale, come abbiamo già scritto) che parte del plutonio generato come scarto di produzione possa essere utilizzato nel campo militare per la costruzione di ordigni nucleari.
Dopo alcune decine di anni, i rifiuti di tipo Hlw possono essere classificati come Ilw, ma la radioattività di tali scorie torna a livelli originari solo dopo migliaia di anni. Rifiuti a basso e medio livello di emissione radioattiva che hanno un emivita38 di 30 anni, possono essere depositati in depositi superficiali o in grotte poco profonde e se, per questo tipo di rifiuti, alcuni siti sono già operativi, molto più dibattuta è la scelta delle aree da destinare alla conservazione dei rifiuti Hlw39. Il deposito del monte Yucca, nel Nevada, che avrebbe dovuto accogliere 70.000 tonnellate di Hlw, è stato definitivamente bocciato nel 2010 dopo 32 anni di verifiche, sopralluoghi, progetti, mentre i siti di Onkalo, in Finlandia, e di Forsmark la cui operatività permetterebbe di contenere combustibile esausto a 450 metri di profondità sono in fase di ultimazione40,41.
Il nucleare in Italia
In paesi come l’Italia, dove per due volte si è respinta la possibilità di dotare il paese di un piano energetico che comprendesse anche il nucleare, il problema del trattamento e deposito delle scorie è oggi il principale tema sul quale si dibatte il tema dell’atomo. Attualmente vi sono cinque i reattori nucleari in funzione, tutti a scopo di ricerca: tre sono gestiti dall’Enea («Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile»), uno dall’università di Palermo e uno dal Laboratorio energia nucleare applicata dell’università di Pavia42.
Le quattro centrali costruite tra gli anni Sessanta e Settanta – Latina, Garigliano (Caserta), Trino Vercellese (Vercelli) e Caorso (Piacenza) – sono in corso di disattivazione assieme agli impianti sperimentali di riprocessamento di combustibile nucleare di Eurex e Itrec, all’impianto di plutonio dell’Enea a Casaccia (Roma) e al reattore Essor del Centro comune di ricerche (Ccr) di Ispra (Varese).
Tutte queste attività hanno generato rifiuti radioattivi a cui si aggiungono annualmente nuove scorie nucleari provenienti dalle attività mediche e dai ciclotroni per la produzione di radiofarmaci. Oggi sono centinaia i centri nel nostro paese che conservano rifiuti radioattivi (la maggior parte provenienti da attività mediche), mentre 19 sono le strutture principali da cui le scorie verranno trasferite per confluire in un deposito nazionale la cui individuazione geografica non è ancora stata decisa43. Questa incredibile lacuna (la gestione delle scorie dovrebbe essere una delle priorità che accompagnano un progetto energetico nazionale che includa il nucleare) dimostra la miopia e la leggerezza con cui la classe politica italiana del passato ha trattato il programma energetico, le cui conseguenze – sia economiche che sociali – oggi paghiamo a caro prezzo.
Il futuro del nucleare
Alla luce di quanto scritto, che futuro avrà il nucleare nel panorama energetico mondiale?
Con lo sviluppo delle energie rinnovabili, i forti incentivi che vengono offerti a chi fa ricerca nel campo e a chi opta per installare impianti e, soprattutto, la paura di un ennesimo incidente, il nucleare potrebbe non essere in grado di competere. Inoltre nei prossimi due o tre decenni la metà dei reattori oggi in funzione dovrà essere smantellata con costi e problematiche di smaltimento enormi. Al loro posto potrebbero subentrare i reattori di IV generazione meno costosi, poco adatti a sviluppi militari e, soprattutto, più sicuri e, successivamente, i reattori che si rifanno al progetto Inpro (International Project on Innovative Nuclear Reactors and Fuel Cycles) coordinato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea). Nel frattempo, però, la transizione tra lo smantellamento degli impianti obsoleti e l’avvio della IV generazione verrebbe occupata dai reattori di piccola portata facili da costruire e semplici da mantenere verso cui hanno mostrato interesse tutti gli stati che nel prossimo futuro dovranno fermare i propri impianti. In tutti questi nuovi progetti l’Italia è presente con i propri ricercatori.
Ma quello a cui il futuro lontano sta guardando con maggior attenzione è la fusione nucleare, una tecnologia basata non più sulla fissione (divisione) del nucleo atomico, bensì sul processo inverso, cioè l’unione di due nuclei. La reazione, più o meno quella che avviene nelle stelle, produrrebbe una quantità enorme di energia (circa 4 volte quella che si verificherebbe nella fissione di una pari massa di uranio-235 e 4 milioni di volte maggiore a quella che si sprigionerebbe da una pari massa di combustibile fossile) accompagnata da una produzione di scorie poco significative44.
Sebbene la ricerca sulla fusione e su un processo che possa essere convenientemente adottato per produrre energia quasi pulita a scopo civile sia stato avviato sei decenni fa, il traguardo sembra ancora lontano. Le difficoltà tecniche sono enormi. In primo luogo, la temperatura: per innescare e mantenere una fusione nucleare occorrono temperature che si aggirano sui 100-150 milioni di gradi. E non vi è alcun materiale che sia in grado di sostenere tale temperatura e contenere il plasma che si forma: ogni contatto con le pareti del contenitore raffredderebbe il plasma interrompendo la reazione. Inoltre ogni contatto con un elemento estraneo inquinerebbe il plasma stesso.
Per fortuna la tecnologia e la ricerca (anche italiana) sulla fusione è riuscita a trovare soluzioni, seppur costose e ancora in fase di sviluppo e sperimentazione, come il contenimento magnetico del plasma. Al primo Tokamak45, il reattore nucleare a fusione costruito nella seconda metà degli anni Sessanta, sono seguiti un’altra ventina di impianti pilota sino a quando un consorzio che comprende Unione europea, India, Cina, Russia, Giappone, Corea e Stati Uniti ha dato inizio al più ambizioso progetto nel campo della fusione nucleare: l’Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), in fase di costruzione a Cadarache, in Francia, che costerà 15 miliardi di dollari (rispetto ai cinque inizialmente preventivati nel 2001) e potrà entrare in funzione nel 203546. Nella migliore delle ipotesi l’uomo potrebbe consumare energia proveniente dalla fusione solo nella seconda metà del secolo. Un intervallo di tempo ancora troppo lungo perché il nostro pianeta possa sopportare un depauperamento delle materie prime e un inquinamento cui è sottoposto a livello attuale.
Nel frattempo, il mondo dovrà funzionare con l’energia disponibile che, qualunque sia la fonte, non è né pulita né infinita.
Piergiorgio?Pescali
Atomi e isotopi
Ogni atomo è formato da elettroni che roteano attorno ad un nucleo formato da protoni e neutroni (disegno). Nonostante l’elettrone abbia una massa 1.836 volte inferiore a quella del protone, la carica delle due particelle è uguale, ma di segno opposto. L’elettrone ha una carica negativa, mentre il protone una carica positiva. Quando in un atomo il numero di protoni è identico a quello degli elettroni, le cariche si annullano a vicenda e l’atomo è neutro. Se, invece, il numero degli elettroni è superiore a quello dei protoni l’atomo si trasforma in ione negativo; all’opposto, si ha uno ione positivo.
La quasi totalità della massa di un atomo è data dal nucleo (99,98% della massa, il restante 0,02% è data dagli elettroni) che, come accennato, contiene, oltre ai protoni, anche i neutroni, particelle di massa simile a quella dei protoni, ma di carica neutra.
Ogni elemento che troviamo in natura, dall’elio con cui sono gonfiati i palloncini, al mercurio al ferro, è definito esclusivamente dal numero di protoni presenti nel nucleo. Il carbonio, ad esempio, ha 6 protoni, l’elio ne ha due, l’idrogeno uno, l’uranio 92.
Il numero di protoni determina il numero atomico (Z) ed è quello che individua la proprietà chimica di un elemento, mentre la somma di protoni e neutroni è detta numero di massa (A).
Stessi elementi possono avere un numero di neutroni (N) diverso all’interno del loro nucleo. In questo caso parliamo di isotopi: sono atomi le cui caratteristiche chimiche rimangono identiche, ma varia il numero di massa.
L’idrogeno, ad esempio, ha un nucleo formato da un solo protone, ma quando accanto al protone troviamo anche un neutrone abbiamo il deuterio, mentre se i neutroni sono due abbiamo il trizio. Deuterio e trizio sono elementi utilizzati nella fusione nucleare.
P.Pescali
Fissione e fusione
I nuclei atomici possono dividersi per formare atomi di numero atomico e numero di massa inferiore, o unirsi per formare atomi di massa maggiore. Nel primo caso si parla di fissione nucleare, nel secondo caso di fusione.
L’elemento utilizzato per produrre energia nelle centrali nucleari a fissione è, generalmente, l’uranio. Non tutto l’uranio è, però, fissile. L’uranio ha 92 protoni nel proprio nucleo ed un peso atomico di 238 (viene indicato come 238U, 92U238 o semplicemente uranio-238). Sino ad oggi conosciamo 11 isotopi dell’uranio; tutti hanno lo stesso numero di protoni (92), ma un numero diverso di neutroni che variano da 138 a 148. Quando viene estratto il minerale è composto da isotopi presenti in diversa percentuale: il 99,3% è uranio-238 (uranio con 92 protoni e 146 neutroni), mentre lo 0,7% è uranio-235 (uranio con 92 protoni e 143 neutroni). Dato che la fissione dell’uranio-238 non dà luogo ad una reazione a catena, il combustibile utilizzato nelle centrali nucleari è l’uranio-235. Ecco perché, una volta estratto, il minerale deve essere arricchito per portare la concentrazione di uranio-235 al 3-5%.
Bombardando l’uranio-235 con un neutrone, il nucleo assorbe la particella trasformandosi in uranio-236 (236U, isotopo dell’uranio con 92 protoni e 144 neutroni). L’altissima instabilità dell’uranio-236 fa sì che il suo nucleo di divida in due nuclei più piccoli liberando altri neutroni che andranno a colpire altri nuclei di uranio-235. Ad ogni fissione si libera una quantità di energia che va a creare calore riscaldando l’acqua attorno al reattore la quale genera vapore che andrà ad alimentare la centrale. A parità di massa, una centrale a fissione può generare energia un milione di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile; una centrale a fusione sarebbe – invece – di 4 milioni di volte superiore.
La fusione è, semplificando al massimo, il processo inverso: due nuclei, generalmente di deuterio e trizio, di fondono per formarne uno più grande (elio). Il deuterio è un elemento comune, lo si può estrarre dall’acqua marina, mentre il trizio, che non esiste in natura in quantità elevate, lo si ricava dal litio, elemento presente nella crosta terrestre. 150 kg di deuterio e 2-3 tonnellate di litio sono sufficienti per generare elettricità per un anno in una città di un milione di persone. L’ostacolo principale della fusione è il confinamento del plasma, che si trova ad una temperatura di centinaia di milioni di gradi. Negli impianti sperimentali si utilizza il confinamento magnetico, che “chiude” il plasma in un campo magnetico impedendogli di entrare a contatto con le pareti del contenitore. Ogni reazione di fusione, oltre che un nucleo di elio produce un neutrone che, essendo di carica neutra, non verrà trattenuto dal campo magnetico e andrà a cedere la sua energia alle pareti del “blanket”, il contenitore toroidale, che si riscalderà. Un fluido asporterà il calore del blanket entrando in un generatore di vapore che farà funzionare una turbina a vapore. A parità di massa, una centrale a fusione può generare energia 4 milioni di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile.
P.P.
La radioattività
La stabilità di un atomo è data dal rapporto tra numero di neutroni e protoni (N/Z) all’interno del nucleo. I protoni, infatti, essendo particelle dotate della stessa carica positiva, tendono a respingersi a vicenda: le forze nucleari attrattive dei soli protoni non sono in grado di prevalere su quelle repulsive. I neutroni, essendo di carica neutra, aumentano proprio le forze nucleari attrattive che riescono a tenere i protoni confinati all’interno del nucleo. Questo equilibrio è ottimale quando il rapporto tra neutroni e protoni si attesta tra 1 e 1,5; quando questo valore viene superato l’atomo diventa instabile.
A questo punto l’isotopo instabile tende a rilasciare energia per riconfigurarsi in un isotopo più stabile. Questo rilascio di energia determina la radioattività e continua sino a quando il rapporto N/Z raggiunge un valore ideale. A seconda dell’isotopo, il rilascio di energia può durare da frazioni di secondo a migliaia di anni e la velocità con cui questa energia è emessa si chiama tempo di dimezzamento. Più il tempo di dimezzamento è breve, più radioattivo sarà l’isotopo. Dato che ad ogni ciclo di emivita il decadimento radioattivo è esponenziale, dopo 7 cicli di dimezzamento l’isotopo contiene meno del’1% della radioattività iniziale.
L’uomo da sempre convive con la radioattività. Raggi cosmici, terreno, cibi contengono isotopi che emettono in continuazione attività radioattiva. In media ogni individuo assorbe annualmente una dose di radiazioni naturali tra i 2,4 e i 3,3 millisievert (il valore varia da luogo a luogo in quanto la radioattività rilasciata dal suolo e dai raggi cosmici non è uniforme su tutto il pianeta).
Questi valori rappresentano circa il 50-70% delle radiazioni totali assorbite dall’uomo in quanto si devono aggiungere le dosi dovute alle attività umane, la quasi totalità delle quali (2,6 millisievert) è dovuta alle attività mediche (radiografie, medicina nucleare, tomografie). Le radiazioni dovute alle attività industriali corrispondono a meno dello 0,1% del totale della dose annuale assorbita (0,003-0,01 mSv).
In genere, però, le radiazioni naturali non hanno alcun effetto sulle nostre cellule o, tuttalpiù, possono essere riparate dalle cellule stesse. Il pericolo avviene quando l’energia delle particelle radioattive è elevata a tal punto da «ferire» la cellula senza che questa riesca a curarsi. In questo caso può continuare a vivere rischiando però di infettare altre cellule, oppure morire. Perché una cellula muoia occorre che la quantità di energia somministrata sia intensa e di breve durata: è il caso peggiore.
Le radiazioni emesse dai reattori nucleari sono di tre tipi:
alfa
beta
gamma
Le particelle alfa sono formate da due protoni e due neutroni. Dotate di bassa energia, posso essere fermate da un semplice foglio di carta.
Le particelle beta sono elettroni. Hanno energia superiore alle particelle alfa, ma non sufficiente da penetrare a fondo nella pelle (sono fermate da fogli di alluminio spessi pochi millimetri). Possono percorrere solo pochi metri nell’aria.
Le particelle gamma sono onde elettromagnetiche simili ai raggi X, quindi dotate di alta energia. Per fermarle occorrono materiali ad alta densità, come il piombo. Nell’aria possono percorrere anche diverse centinaia di metri prima di perdere la loro carica energetica. Al contrario delle particelle alfa e beta, che sono corpuscolari, le particelle gamma sono molto simili ai fotoni della luce (da cui variano solamente per avere una lunghezza d’onda minore). Generalmente, l’emissione delle radiazioni gamma è accompagnata da quelle alfa e beta.
Vi è, infine, un quarto tipo di radiazione, formato da neutroni. Sono particelle ad altissima energia che sono fermate da spessi strati di cemento e di acqua.
P.P.
Hanno firmato questo dossier:
Piergiorgio Pescali– Giornalista e scrittore, laureato in fisica, storia e filosofia, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, Giappone e penisola coreana. Dal 1996 visita con regolarità la Corea del Nord. Da anni collaboratore di MC, suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire, Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e Cnn. Il suo blog è: www.pescali.blogspot.com.
A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC
Note
(1) Philip Ball, How 2 Pro-Nazi Nobelists Attacked Einstein’s “Jewish Science”, Scientific American, 13 febbraio 2015.
(2) Jeremy Bernstein, Hitler’s Uranium Club: The Secret Recordings at Farm Hall, Springer Science+Business Media New York, 2001, p. 116.
(3) Jeremy Bernstein, ibidem, p. 138.
(4) La trascrizione dell’intero discorso, assieme all’audio originale, è consultabile sul sito della World Nuclear University.
(5) AEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, References Data Series n. 1, 2017.
(6) AEA, Vienna, Maggio 2017.
(7) IAEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, ibidem, p. 18.
(8) La differenza tra i due dati: l’11% si riferisce al contributo dato dal nucleare alla sola rete elettrica; altre fonti di energia elettrica sono l’idroelettrica, il solare, l’eolica. Il 5,86% si riferisce al contributo dato dal nucleare al consumo energetico assoluto rapportato, quindi, anche con il contributo dato dal petrolio, gas naturale, geotermia, bioenergia.
(9) ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, Comunicazione e informazione in tema di energia nucleare, di G. Forasassi, R. Lofrano, L. Moretti, Documento CERSE-UNIPI RF 1068/2010, Report RdS/2010/153, settembre 2010.
(10) Dei nove paesi che possiedono armi nucleari solo due (Israele e Corea del Nord) non hanno centrali per produrre energia a scopo civile, ma entrambe hanno istituti e impianti nucleari a scopo di ricerca.
(11) The Economist, 12 aprile 2011. La gravità di un incidente nucleare è classificata secondo una scala INES (International Nuclear and Radiological Event Scale) che va da 1 (semplice anomalia) a 7 (incidente catastrofico). Dalla scala 4 l’incidente nucleare ha conseguenze locali. Dal 1957 ci sono stati 2 incidenti su scala 7 (Chernobyl e Fukushima), 1 su scala 6, 3 su scala 5, 4 su scala 4, 2 su scala 3, 1 su scala 2 e 1 su scala 1 (fonte IAEA, The Economist).
(14) Interessante, sul cambio di consenso degli italiani sul nucleare, il citato rapporto ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, del settembre 2010 in cui – alle pagine 7/8 – si afferma che alla fine del 2010, pochi mesi prima di Fukushima, il 44% degli italiani sarebbe stato favorevole al ritorno del nucleare in Italia.
(15) IAEA, Vienna, Maggio 2017.
(16) Secondo un rapporto IAEA del maggio 2017, sui 448 reattori in funzione, 65 hanno un’età tra i 41 e 47 anni, 181 hanno tra i 31 e i 40 anni e 108 tra i 21 ed i 30 anni. La vita media di un reattore nucleare di I, II e terza generazione si aggira sui 40 anni, prolungabile a 60 per quelli di III generazione.
(20) A parità di massa la quantità di energia prodotta dalla fissione nucleare è superiore di sei ordini di grandezza (un milione di volte) quella del petrolio.
(21) ASPO Italia, «Associazione per lo studio del picco del petrolio», 2005.
(22) OECD International Energy Administration (IEA), 2015.
(23) IAEA, Vienna, Maggio 2017.
(24) Il numero di reattori nucleari non coincide necessariamente con il numero di impianti nucleari in quanto in uno stesso sito possono essere in funzione più reattori nucleari.
(25) IAEA, Vienna, Maggio 2017.
(26) World Nuclear Association (WNA), luglio 2017.
(27) Le principali compagnie che estraggono, lavorano e smerciano uranio solo la kazaka KazAtomProm (21% del mercato mondiale), la canadese Cameco (17%), la francese AREVA (13%), la russo-canadese ARMZ-Uranium One (13%) e l’australiana BHP Billiton (5%) (fonte: WNA, luglio 2017).
(28) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, OECD 2016, p.9.
(29) I principali siti minerari da cui viene estratto la pechblenda, il minerale che contiene uranio, sono: la McArthur River (Canada), proprietà della Cameco per il 69,8%, che estrae l’11% dell’uranio mondiale, la Cigar Lake (Canada), proprietà della Cameco al 50% (11% dell’uranio mondiale), la Tortkuduk & Myunkun (Kazakhstan), di proprietà del consorzio KatcoJV/Areva (6% dell’uranio mondiale), l’Olimpic Dam (Australia), proprietà della BHP Billiton (5% dell’uranio mondiale), l’Inkai (Kazakhstan), di proprietà del consorzio Inkai JV/Cameco, 5% dell’uranio mondiale e SOMAIR (Niger), per il 63,6% di proprietà dell’Areva, 4% dell’uranio mondiale (fonte: WNA, luglio 2017) .
(30) World Nuclear Association, luglio 2017.
(31) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100.
(32) IEA, World Energy Outloook 2017.
(33) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016, ibidem.
(34) Ibidem.
(35) Attualmente le riserve totali stimate sono sui 16.130.000 tonnellate; anche presupponendo lo scenario di richiesta più elevato proposto per il 2035 dall’IAEA (93.510 tonnellate totali nel mondo), le riserve basterebbero per 170 anni. (fonte: Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100).
(36) IAEA, Estimation of Global Inventories of Radioactive Waste and Other Radioactive Materials, June 2008, p.13.
(38) L’emivita (o tempo di dimezzamento) di un isotopo radioattivo è definita come il tempo occorrente perché la metà degli atomi di un campione puro dell’isotopo decadano in un altro elemento.
(39) I depositi ILW e LLW sono situati nel Regno Unito (LLW Repository a Drigg, in Cumbria gestito da un consorzio formato da AREVA, Serco e Studsvik UK), Spagna (El Cabril gestito da ENRESA), Francia (Centre de l’Aube gestito dall’Andra), Giappone (LLW Disposal Centre a Rokkasho-Mura gestito da Japan Nuclear Fuel Limited), USA (in 5 siti, Texas Compact vicino al confine col New Mexico, gestito da Waste Control Specialists; Barnwell, South Carolina gestito da EnergySolutions; Clive, Utah gestito da EnergySolutions; Oak Ridge, Tennessee gestito da EnergySolutions e Richland, Washington, gestito da American Ecology Corporation), Svezia (a Forsmark, in un deposito situato a 50m sotto le rive del Baltico, gestito dal Swedish Nuclear Fuel e dal Waste Management Company) e Finlandia, nel deposito di Onkalo a Olkiluoto e Loviisa, con profondità a 100 metri.
(42) Elaborazione ISPRA dei rapporti attività dei gestori impianti e ARPA/APPA, 2014.
(43) I 19 siti principali che oggi custodiscono i rifiuti nucleari sono le 4 centrali nucleari (gestiti da Sogin), 4 impianti di riciclo di combustibile esausto (gestiti da Enea e Sogin), 7 centri di ricerca nucleare (ENEA di Casaccia, CCR Ispra, Deposito Avogadro, LivaNova, CESNEF -Centro Energia e Studi Nucleari Enrico Fermi- Università di Pavia, Università di Palermo), 3 centri del Servizio Integrato ancora attivi (Nucleco, Campoverde e Protex) e 1 centro di Servizio Integrato non attivo (Cemerad).
Iran: la situazione nella repubblica islamica sciita
Testi di Maria Chiara Parenzo |
Impegnato nella tragica guerra della?Siria e in quella dimenticata dello Yemen, il governo sciita di Teheran ha problemi anche al proprio interno. Con una lotta senza esclusione di colpi tra conservatori radicali (legati alla Guida suprema Khamenei) e conservatori riformisti (vicini al presidente Rouhani). Nel frattempo, la schiera dei nemici esterni si compatta: Israele, Arabia Saudita e il presidente statunitense Donald Trump non fanno nulla per favorire il dialogo. A pagare il conto di questa situazione è il popolo iraniano.
Teheran. Per giorni – è dicembre 2016 – il reporter della televisione iraniana al seguito dell’esercito siriano tiene i telespettatori con il fiato sospeso: si sta riconquistando la città di Aleppo con un combattimento casa per casa. Man mano che la città viene liberata si rivelano i crimini perpetrati dai terroristi: case saccheggiate, cadaveri abbandonati qua e là, o deposti in fosse comuni. I telespettatori inorridiscono. Quando l’ultimo bastione di resistenza cade, in città è festa grande. Nelle immagini vediamo la gioia delle persone rimaste intrappolate nei quartieri occupati che possono riabbracciare i propri famigliari, ma anche la disperazione di quelli che ritornano alle proprie case devastate, le testimonianze delle atrocità commesse dalle milizie a danno dei civili. Poi vediamo immagini di come, lentamente, la vita in città tenta di riprendere il suo corso normale.
Quale guerra?
Qualche giorno dopo mi trasferisco in Italia per il periodo natalizio e lì la musica cambia completamente. È quasi unanime il coro di denunce per gli orrori commessi dall’esercito di Bashar Assad durante la riconquista di Aleppo. Ci si rammarica che la comunità internazionale non abbia saputo fermare la strage. Non ho mai sentito i media iraniani parlare del governo siriano in termini negativi, ma mi è noto che il regime guidato da Assad si è macchiato di pesanti crimini di guerra. Poi si accusa l’aviazione russa di aver dato una mano ad Assad e di aver colpito indiscriminatamente obiettivi militari e civili. Anche questi fatti cui la Tv iraniana non ha mai fatto cenno, mi sembra del tutto plausibile. Basta ripensare a come l’esercito russo ha condotto la guerra nel Caucaso.
Scopro, in compenso, che il pubblico italiano non ha molta consapevolezza di un’altra guerra sanguinosa, quella in corso in Yemen dal 2015. Quando ne parlo con alcuni amici vedo il vuoto nei loro occhi: sì, forse qualcosa abbiamo sentito, non so. Invece, la Tv iraniana trasmette quasi quotidianamente immagini di persone che vagano tra le macerie delle loro case, di morti, di bambini feriti, o di madri disperate perché non hanno cibo per i loro figli. Causa di tante sofferenze sono i bombardamenti effettuati da una coalizione di stati guidata dall’Arabia Saudita, con l’appoggio logistico e tecnico di Usa e Regno Unito, e le bombe italiane. Anche in questo caso, non ho motivo di dubitare che le immagini descrivano una situazione reale.
È Iran contro Isis
Questa sensazione di vivere in una realtà doppia si ripete l’anno dopo. Questa volta si tratta della guerra all’Isis. Scopro che gli italiani ne hanno un’idea vaga. Sebbene tutti temano attacchi in casa propria, non s’interessano molto a ciò che succede su un terreno lontano. Chi ha combattuto l’Isis? I più nominano la Russia, l’America, i paesi arabi, qualcuno dei più informati parla di curdi, milizie sciite, Iran.
Se, invece, si fa la stessa domanda a un iraniano la risposta arriva rapida e sicura: l’Iran, innanzitutto. Da subito l’Iran ha sentito di vitale importanza difendersi da questa minaccia, sia per la vicinanza dello Stato islamico ai confini nazionali, sia per la particolare ferocia con cui il gruppo attaccava le comunità e i luoghi di pellegrinaggio sciiti. Dove arrivava l’Isis l’uccisione degli sciiti era sistematica, tanto da far parlare di genocidio, come per altre comunità non islamiche. Non penso che tutti gli italiani lo sappiano. Invece, tutti in Iran sanno che contro questa minaccia il loro paese si è impegnato in un confronto serrato sul terreno. Ci sono state campagne di reclutamento di uomini da inviare a difendere i luoghi santi in Iraq e in Siria (questa era la motivazione ufficiale). I volontari ricevevano lauti stipendi, agli afghani irregolari veniva, inoltre, assicurato il permesso di soggiorno al loro rientro. Hanno cominciato a riportare i «martiri» dalla Siria, dall’Iraq. Poster con le facce dei combattenti caduti sono comparsi nei quartieri dove abitavano i loro famigliari, come è usanza qui in Iran in segno di lutto. Quando dici a un iraniano che anche gli Stati Uniti hanno combattuto l’Isis ti guarda incredulo. La narrativa ufficiale in Iran è che l’Isis è stato creato dagli Usa e sui media nazionali non si fa certo menzione del contributo americano alla lotta.
Pubblici diversi hanno, dunque, percezioni diverse del reale. Non sappiamo quello che non vediamo e udiamo, e viceversa. Il reale che conosciamo attraverso i mass media è più o meno parziale e ci condiziona tutti. Lo stesso vale per la questione del nucleare iraniano, che da noi ha tenuto banco a più riprese. Proviamo a vedere come l’hanno vissuta gli iraniani1 e come essi vivono la nuova crisi nei rapporti tra Iran e Usa.
La questione del nucleare
Se la necessità di combattere l’Isis, in quanto massima espressione dell’odio dell’estremismo sunnita verso gli sciiti, era condivisa e sentita vitale, la questione del nucleare ha avuto e ha per gli iraniani un’importanza di gran lunga minore. Fin dal suo nascere è rimasta marginale, lontana dalle preoccupazioni quotidiane della gente. D’altra parte l’Iran non ha mai avuto i problemi energetici dell’Italia. Fino a circa dieci anni fa gas, elettricità, benzina godevano di sovvenzioni statali, poi eliminate e sostituite da un sussidio fisso versato mensilmente a ogni persona. Da allora il loro prezzo è rincarato, ma rimane ancora molto inferiore ai livelli europei, soprattutto quello di gas e benzina (venduta oggi a circa venticinque centesimi di euro). Né la gente sente la necessità di avere una bomba atomica. Le armi di distruzione di massa sono ritenute un abominio.
Partita in sordina negli anni Novanta, la questione del nucleare iraniano cominciò a salire di tono durante la presidenza di Mahmud Ahmadinajad (2005-2013), soprattutto per voce dello stesso presidente, che ne fece uno dei cavalli di battaglia nelle sue polemiche contro l’Occidente: il popolo iraniano, affermava, ha il diritto di produrre energia nucleare a scopi pacifici, come avviene in altri paesi del mondo. Il presidente batteva su questo tasto e la gente condivideva le sue argomentazioni. Con un senso di orgoglio nazionale si pensava: se gli altri sì, perché non noi. Inoltre, erano allettanti le promesse di avere un’energia elettrica quasi a costo zero grazie al nucleare. Tuttavia, quando cominciarono ad arrivare le sanzioni e a peggiorare i rapporti commerciali con l’estero, quando il prezzo del dollaro cominciò a salire e l’inflazione a galoppare, deprimendo pesantemente la loro già precaria economia domestica, gli iraniani capirono che il costo da pagare era troppo alto, tanto più per qualcosa di cui non si sentiva così bisogno.
Per questo motivo, quando la presidenza Rouhani nel 2013 inaugurò un nuovo corso, quello del dialogo, il sostegno popolare fu ampissimo. Un esito positivo dei negoziati avrebbe fatto ripartire l’economia e restituito un futuro a tante famiglie in difficoltà. Così, almeno, si credeva.
Questa grande speranza conviveva, però, con il grande timore che i negoziati finissero in nulla. Si sapeva, infatti, che incontravano una forte opposizione all’interno dell’apparato del regime, tanto che molti ne davano per scontato il fallimento. La Guida suprema Ali Khamenei aveva a più riprese messo in guardia contro l’inaffidabilità dei negoziatori occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, da cui niente di buono poteva arrivare. Del tutto contrarie ai negoziati erano le «Guardie (guardiani, pasdaran) della rivoluzione», qui comunemente dette Sepah2, alle cui tasche aveva fatto bene il regime sanzionatorio. Le sanzioni, infatti, non interrompono il commercio di una nazione con gli altri paesi, ma impediscono che si sviluppi in maniera naturale, coinvolgendo, cioè, tutto il corpo sociale, il settore privato, come quello pubblico, il piccolo imprenditore, come la grande impresa; quindi, ne alterano la natura, privandolo della sua parte «sana» e lasciandolo nelle mani di chi è così potente da aggirarle e operare nell’ombra. Le sanzioni nei confronti dell’Iran hanno impoverito le persone normali e arricchito le organizzazioni che appartengono allo «Stato profondo», innanzitutto i Sepah e i Basij (un corpo paramilitare formato da volontari), che da loro dipendono. I Sepah sono uno stato nello stato, rispondono solo alla Guida suprema e operano, quindi, al di fuori dei normali meccanismi di controllo dello stato, in una zona grigia, inarrivabile, intoccabile. In un mercato bloccato dalle sanzioni, essi hanno continuato a vendere e importare attraverso canali terzi, ottenendo una sorta di monopolio per i propri affari. Le sanzioni, dunque, non fanno che aumentare la poca trasparenza di un sistema economico già di per sé opaco per vizio d’origine3.
L’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni
Considerata l’opposizione di forze così potenti, grandi furono la sorpresa e la soddisfazione della gente alla notizia che si era finalmente approdati a un accordo sul nucleare (14 luglio 2015): sembrava di avere vinto una battaglia, non tanto contro un nemico esterno, ma contro il regime interno. Ci furono manifestazioni pubbliche di tripudio. Negli anni l’accordo aveva finito per assumere un significato eccezionale, era considerato la panacea per le moribonde finanze del paese. Ci si aspettava una rapida ripresa dalla stagnazione.
In realtà non è stato così. La ripresa dei rapporti commerciali con i paesi occidentali è stata lenta e, se i dati dicono che l’interscambio è andato aumentando (quello tra Iran e Ue è cresciuto del 79% nel primo anno dall’entrata in vigore dell’accordo4), l’effetto ancora non si è visto granché sulla tavola degli iraniani, anche perché una vera normalizzazione non si è verificata. Altre sanzioni rimangono in essere e il sistema bancario per le transazioni con l’Iran non ha ripreso a funzionare correttamente. Dopo un breve momento di euforia iniziale, che lo aveva fatto risalire rispetto al dollaro, il rial, la valuta iraniana, ha ripreso a svalutarsi, toccando nuovi record alla fine dello scorso anno.
Quindi, per il momento, le tasche degli iraniani rimangono vuote. Tanto vuote che all’inaugurazione del nuovo anno iraniano, il 21 marzo 2017, quando si trattava di lanciare, com’è suo costume, lo slogan che intendeva ispirare l’operato del popolo nell’anno entrante, Khamenei ha pronunciato: «economia di resistenza». A sentire il nuovo motto, la gente si è preoccupata: ahi, la Guida invitava a stringere i denti e tirare la cinghia, ergo nell’anno ci sarebbero stati nuovi aumenti, nuove tasse. E, puntualmente, a dicembre, il governo ha annunciato aumenti di tasse e del prezzo di alcuni beni di prima necessità. La resistenza, però, non riguarda tutti, perché lo «Stato profondo», come si è detto, prospera e quando ha poca liquidità, come in questo periodo di prezzi petroliferi bassi e alti costi di una politica estera espansionistica, mette sotto torchio il comune cittadino, che è chiamato, appunto, a resistere.
Contro Donald Trump e l’Arabia Saudita
Forse anche perché non se ne sono sentiti i benefici, la reazione della gente alla bocciatura dell’accordo su nucleare da parte della presidenza Trump è stata blanda. In compenso la bocciatura ha fatto segnare un punto a favore di Khamenei, che aveva messo in guardia contro l’impossibilità di veri negoziati con gli Usa. Sì, perché l’Iran non è venuto meno agli impegni presi, come hanno confermato tutte le altre parti in causa.
Come spiegano gli iraniani l’ostilità del governo americano nei confronti del loro paese? Sull’argomento condividono quanto affermato dal loro ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, in occasione della visita di Trump in Arabia Saudita: «L’Iran, che ha appena tenuto delle vere elezioni, è attaccato dal presidente degli Stati Uniti in questo (riferendosi a Riyadh, nda) bastione della democrazia e della moderazione. Si tratta di politica estera o di succhiare 480 miliardi di dollari ai sauditi?»5.
Lasciando stare le «vere elezioni» (non tutti vi si possono candidare e il parlamento non è libero di decidere: comanda la Guida), ho spesso sentito esprimere la convinzione che lo spauracchio dell’Iran sia agitato ad arte per vendere più armi agli arabi.
Su un altro punto gli iraniani si trovano d’accordo col loro ministro degli Esteri: l’Arabia Saudita non può insegnare niente all’Iran in quanto a democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti, e il fatto che quest’ultimo continui a essere designato dagli Usa «stato sponsor del terrorismo», insieme a Siria e Sudan, è dettato da ragioni politiche, non certo ideali.
Terrorista a chi?
Allora, chiedo io, l’Iran non pratica il terrorismo? Non esattamente, i Sepah appoggiano Hezbollah e Assad, mi rispondono (indicando così che percepiscono quell’organizzazione come un corpo estraneo, indipendente dallo Stato), ma che differenza c’è rispetto a quanto fanno altri paesi, tra cui l’Arabia Saudita? È difficile non concordare con loro, se si tiene presente che la maggior parte degli attacchi terroristici vengono dall’estremismo sunnita; che spesso colpiscono comunità sciite; che, sebbene la monarchia saudita non incoraggi esplicitamente il terrorismo, fa propria la dottrina wahhabita, nota per la sua interpretazione estremistica dell’Islam, che, tra l’altro, considera gli sciiti eretici e, quindi, anche passibili di morte. Gli stessi rapporti annuali sul terrorismo stilati dal governo americano denunciano l’utilizzo nelle scuole saudite di «libri di testo con insegnamenti che istigano all’intolleranza e alla violenza, in particolare verso chi è ritenuto politeista, apostata o ateo»6. Insomma, si fa fatica a capire perché quello iraniano debba essere ritenuto peggiore di altri regimi.
Tornando a quanto si diceva all’inizio, si può scegliere di illuminare solo una faccia della realtà e usare alcuni termini pro domo nostra. «Terrorismo» è uno di questi.
«È tutta politica», così reagiscono gli iraniani quando si parla di tali argomenti, intendendo con ciò i propri, come gli altrui politici. Sono stufi di sentire i loro rappresentanti e il clero fare predicozzi agli altri e propaganda a se stessi. La Repubblica islamica non farebbe che pensare al bene dei propri cittadini, migliorare i servizi, soccorrere nelle difficoltà, trasmettere buoni insegnamenti. Ma, se da quarant’anni si va di bene in meglio, perché la gente comune boccheggia nei lacci di una burocrazia pervasiva e arbitraria, vede prosperare una classe politica corrotta e crescere il divario tra poveri e ricchi, osserva lo «Stato profondo» utilizzare le risorse del paese per finanziare se stesso e i propri amici all’estero? Allo stesso tempo gli iraniani sono però anche stufi di vedere l’ipocrita interessamento di altri paesi ai fatti di casa loro. Non gradiscono che li si istruisca su che cosa devono fare.
Durante gli eventi del dicembre 2017 (approfondimento alla pagine 24-25, ndr), quando le proteste contro il carovita hanno portato nelle strade migliaia di persone, diverse voci si sono levate da fuori per incoraggiare gli iraniani alla ribellione. A sentire gli incitamenti di persone al sicuro nelle proprie case, chi ha vissuto la guerra contro l’Iraq si è ricordato di quando Khomeini gridava: «A Karbala! A Gerusalemme! Combattere fino alla vittoria!» e mandava migliaia di giovani a morire in Iraq, mentre lui, i suoi famigliari e gli altri membri del clero se ne stavano a casa tranquilli. Di nuovo bisogna constatare: che differenza c’è?
Subito dopo l’elezione di Trump in Iran è comparsa una serie di aneddoti che lo paragonavano ad Ahmadinejad. Gli iraniani hanno individuato negli atteggiamenti del nuovo capo della Casa bianca una grande somiglianza con quelli del loro ex presidente, uno dei politici che maggiormente solletica il loro senso dell’umorismo. Perché, fortunatamente, gli iraniani amano scherzare su se stessi. Attraverso la rete e gli sms girano decine di aneddoti, sfornati a velocità strabiliante a ogni nuova occasione, anche tragica. È un modo di esprimere critica e disappunto, tollerato (qualcuno dice addirittura utilizzato, facendo circolare aneddoti ad hoc) dal regime, forse perché vi vede una valvola per far sfogare una rabbia altrimenti troppo compressa. Ce n’è per tutto e per tutti. Solo della Guida suprema e delle organizzazioni a lui legate (Sepah, Basij) non si parla mai direttamente. La Guida è il vicario in terra dell’«Imam nascosto», offendere lui è blasfemia e merita la morte.
Maria Chiara Parenzo
Note
(1) Anche qui quando si parla di iraniani si dice, in realtà, una verità parziale. Le opinioni che trasmettiamo sono state raccolte nella fascia urbanizzata del nord dell’Iran. Sono trasversali per classe sociale (dal povero al ricco), ma non riflettono il pensiero di chi ha incarichi pubblici o appartiene al clero.
(2) Il nome completo è «Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica». «Sepah» significa corpo.
(3) Vedi anche Annalisa Perteghella, «Due anni dalla firma del Jcpoa: l’accordo funziona ma non è ancora al sicuro», 14 luglio 2017, in www.ispionline.it.
(4) Annalisa Perteghella, Tiziana Corda, «Usa e Iran: l’azzardo di Trump sul nucleare», 11 ottobre 2017, in http://www.ispionline.it.
(5) Zarif: Trump ‘succhia’ i soldi dell’Arabia saudita, 22/05/2017, in www.asianews.it.
(6) «…some textbooks continue to contain teachings that promote intolerance and violence, in particular towards those considered to be polytheists, apostates, or atheists». U.S. Department of State, «Arabia Saudita», in «Country Reports on Terrorism 2016», p. 222.
I fatti del dicembre 2017
Dietro «la rivolta delle uova»
Quelli di dicembre sono stati eventi legati alla perenne lotta tra i conservatori moderati del presidente Hassan Rouhani e gli ultraconservatori vicini alla Guida suprema. Da qualsiasi parte si analizzi la situazione, un dato è certo: in Iran la gran parte dei religiosi e delle persone legate al regime vivono nella ricchezza più sfacciata. Alla faccia della Rivoluzione e del popolo.
L’hanno chiamata «la rivolta delle uova» perché proprio in quei giorni il loro prezzo era triplicato, non per motivi politici, ma per una malattia dei polli che le aveva fatte scomparire dal mercato. Un nome scherzoso per qualcosa di molto serio. La scintilla è scoccata il 28 dicembre 2017 a Mashhad, feudo di Ebrahim Raisii, religioso a capo della miliardaria fondazione benefica che custodisce il mausoleo dell’Imam Reza, nonché rivale politico del presidente Hassan Rouhani. Occasione: l’aumento del costo di alcuni generi di prima necessità, tagli di sussidi e altre misure di austerità annunciate dal governo Rouhani. Sembra ormai assodato che sia stata una mossa mal calcolata nella lotta tra Rouhani, espressione dei conservatori moderati che vorrebbero modificare il sistema per permettergli di sopravvivere, e gli ultraconservatori, concentrati tra il clero e le organizzazioni non elettive dello «Stato profondo», cui le riforme sottrarrebbero parte di privilegi e potere. La presidenza Rouhani sta cercando di rendere più efficiente e trasparente il sistema economico. Ciò vuol dire anche ridurre i privilegi di fondazioni e organizzazioni paramilitari religiose, cui la Repubblica islamica concede di vivere in un limbo dove non si pagano tasse e non si è obbligati a spiegare come si utilizzano le ingenti risorse a disposizione. Queste istituzioni, di cui non è possibile stimare con esattezza il giro d’affari, hanno una presenza pervasiva in tutti i settori economici. È, in sostanza, un sommerso autorizzato che, secondo calcoli approssimativi, controllerebbe due terzi della ricchezza del paese. Dai tempi di una Rivoluzione fatta anche nel nome degli ultimi, religiosi e personalità legate al regime hanno accumulato fortune personali notevoli, e ciò è davanti agli occhi di tutti.
Trasparenza e rabbia popolare
Lo scorso 10 dicembre i telespettatori hanno sentito per la prima volta il presidente elencare le voci di spesa contenute nella legge di bilancio. La novità, insieme all’inedita richiesta di rendicontare per il futuro l’utilizzo dei contributi governativi, è stata interpretata come un tentativo di ottenere una maggior trasparenza. Si è venuto, così, a sapere che, se da un lato si programmavano aumenti di tasse e prezzi, dall’altro si destinavano ingenti somme a fondazioni religiose e le spese militari crescevano del 20% (l’inflazione è ufficialmente intorno al 10%). I telespettatori hanno capito che, mentre avrebbero dovuto aspettarsi un peggioramento delle proprie condizioni di vita, il regime concedeva ulteriori risorse a già facoltose istituzioni parassitarie e faceva pagare loro i costi di una politica estera ambiziosa. Nei giorni di dicembre queste novità correvano su tutte le bocche, alimentando una rabbia che già covava. Così è bastato poco per portare la gente in strada. La protesta si è fatta sentire, più che a Teheran, nelle provincie, dove più basso è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. I manifestanti, soprattutto giovani, hanno gridato la propria frustrazione contro il sistema, ma non in nome di qualcosa o qualcuno. Per quanto si è capito, si è trattato di manifestazioni spontanee, organizzate grazie al passaparola e ai social network, non un movimento con chiari obiettivi e riferimenti politici. Ad esempio, a Izeh, nel Khuzestan, i manifestanti hanno occupato stazioni di polizia e uffici governativi, ma poi li hanno evacuati, non sapendo che farne.
Il discredito dei religiosi
C’è da chiedersi: chi ha dato inizio alle proteste per fare un dispetto al presidente non ha capito che avrebbe così anche dato la stura a sentimenti che già ribollivano nella gente, rischiando di trasformare una lotta di potere interna al sistema in una rivolta contro il sistema stesso? Chi è al potere, soprattutto se da lungo tempo, acquisisce una straordinaria incapacità di capire la realtà, perfino nelle sue forme più ovvie. Ed è ovvio che la gente comune è sempre più lontana dai discorsi ufficiali, sempre meno disposta a credere agli esponenti di una classe politica e religiosa, le cui parole anno dopo anno sono state sbugiardate dai fatti. Glielo si legge negli occhi, sempre più foschi di frustrazione e ansia per il futuro. A quegli occhi la classe al potere è caduta in totale discredito, riformisti o radicali che siano. E i più discreditati di tutti sono i religiosi, ai quali piace caricare sulle spalle della gente pesi che essi, invece, non sono disposti a portare. Per fare solo un esempio, consigliano ai malati di andare a impetrare guarigione al santuario dell’Imam Reza. Se loro hanno problemi di salute, invece, intraprendono costosi soggiorni all’estero per cure mediche.
Il predicatore del venerdì a Teheran, l’ayatollah Kazem Seddiqi, ha definito i protestatari «spazzatura». Altre personalità, tra cui la Guida suprema Ali Khamenei, hanno gettato la responsabilità della rivolta sui nemici esterni: Israele, gli Usa, i paesi del Golfo. È vero che da parte di Rouhani e dei moderati si è provato a dare una valutazione più realistica di ciò che è accaduto, ma quanto ciò corrisponda a sentimenti sinceri si capirà solo alla prova dei fatti.
I pericoli
C’è da augurarsi che i pallidi tentativi di cambiamento cui si è accennato si rafforzino e portino a una seppur graduale ristrutturazione del sistema, altrimenti c’è il rischio che tra qualche tempo ci si trovi ad affrontare altre rivolte. Non c’è da augurarsi che ciò si risolva in reazioni violente. Gli iraniani temono che il loro paese, in cui convivono etnie e confessioni diverse, possa diventare teatro di sanguinose lotte intestine, dove non sarebbe certo la gente comune a vincere.
Un cattivo governo è sempre preferibile alla guerra civile e chi ha incitato gli iraniani alla rivolta, o è un irresponsabile, o, molto più probabilmente, persegue un proprio interesse.
Maria Chiara Parenzo
Corea del Nord:
Verità e segreti oltre il 38° parallelo
Kim, il dittatore incompreso.
Kim Il Sung, detto il Grande leader, suo figlio Kim Jong Il e suo nipote Kim Jong Un, l’attuale presidente, hanno guidato la Corea del Nord (Repubblica democratica popolare di Corea) dal 1948 a oggi. In questo dossier presentiamo un viaggio tra politica, economia, diritti umani e nucleare per scoprire se la Corea del Nord costituisca un pericolo reale, soprattutto dopo il sesto test atomico (con la prima bomba termonucleare) effettuato da Pyongyang lo scorso 3 settembre. E senza scordare che la guerra di Corea (1950-1953) ancora non è stata chiusa con un accordo di pace.
L a «Storia delle Cinque dinastie», compilata nel 974 dallo storico cinese Xue Juzheng durante la dinastia Song, racconta che nel 946 d.C. il monte Paektu – al confine tra la Corea del Nord e la Cina – fu sconvolto da una violenta eruzione. I geologi fanno risalire a quell’evento naturale la formazione del lago del Paradiso, lo specchio d’acqua che riempie il cratere del vulcano. Sembra però che la guida che mi accompagna ansimando lungo la parte nordcoreana della caldera non sia al corrente di questa acquisizione scientifica riguardo alla formazione del lago: «Da qui si domina tutta la Corea. Le acque di questo lago hanno visto due degli episodi più importanti della storia della Corea», racconta seduto guardando la riva opposta appartenente alla Cina. «È qui che è nato Dangun (il leggendario fondatore del paese, ndr) ed è qui che, quattromila anni dopo, il Grande Leader Kim Il Sung ha donato a una Corea umiliata e colonizzata, il suo futuro leader: Kim Jong Il. Kim Il Sung, Kim Jong Il e Kim Jong Un sono i veri e unici eredi di Dangun e il lago del Paradiso ne è il perpetuo testimone».
I primi cenni storici riguardanti Dangun risalgono al XIII secolo d.C.. Egli è il leggendario fondatore del primo regno coreano nel 2333 a.C., un personaggio sospeso tra mito e realtà che Kim Il Sung ha voluto storicizzare e prendere come pietra miliare per rafforzare la successione di Kim Jong Il, meno carismatico del padre, facendolo nascere ai piedi del monte Paektu, il «sacro luogo della rivoluzione coreana dove il giovane generale Kim Il Sung creò la guerriglia antigiapponese».
In Corea del Nord epopee, leggende, miti, fatti storici si intrecciano tra loro in un groviglio inestricabile alimentando molta letteratura fantasiosa che circonda il paese asiatico e di cui un certo tipo di giornalismo poco serio, alla ricerca di facili scoop e di likes sui social network, si è ormai appropriato.
Leggende metropolitane e bufale sulla Corea del Nord se ne contano a decine. Anche le redazioni delle testate più quotate e popolari troppo spesso preferiscono sorvolare sulla verifica delle fonti e sulla veridicità delle notizie per conquistare la loro fetta di lettori (e di pubblicità).
Certamente parlare con cognizione di Corea del Nord, un paese difficile (ma non impossibile) da visitare ed in cui è complicato (ma non impossibile) separare la propaganda dalla realtà, non è facile. Per questo molti si accontentano di riportare come veri fatti ripresi da testate satiriche o semplicemente da siti poco attendibili (vedi sotto: «Piovono le bufale»).
I «signori dei soldi» e il mercato immobiliare
Varcare a Nord il 38° parallelo non è, come pretendono molti, un viaggio a ritroso nel tempo: la Corea del Nord, in particolare dopo che, nel 2011, Kim Jong Un è succeduto a Kim Jong Il, è una nazione in continua trasformazione economica, sociale e, seppur in modo meno evidente, politica.
L’attuale giovane leader nordcoreano ha dimostrato di credere nel mercato rivoluzionando un governo gerontocratico e anchilosato dai militari, mettendo al loro posto tecnocrati ed economisti.
Ed i risultati si vedono, a cominciare dalle città che in questi ultimi anni sono state oggetto di un drastico riassetto urbanistico caratterizzato da un boom immobiliare. Strano a dirsi, in un regime a mercato socialista, la compravendita di immobili è oggi uno dei maggiori giri d’affari del paese tanto che a Pyongyang (ma non solo) c’è un nuovo quartiere residenziale i cui prezzi sono schizzati talmente alle stelle che viene spesso soprannominato Pyonghattan. Qui, lungo la Changjon Street, joint venture sino-nordcoreane hanno costruito appartamenti utilizzando strutture moderne, nuovi materiali, nuovi spazi che dovranno essere riprodotti negli altri centri urbani del paese. Case insonorizzate, vetrate più ampie per dare luminosità alle stanze, colori vivaci, coibentazione per risparmio energetico: sono le residenze dei donju, letteralmente «i signori dei soldi», i nuovi ricchi della Corea del Nord, coloro che, grazie a conoscenze o parentele all’estero, sono riusciti, durante gli anni Novanta e la prima decade del Duemila, a creare redditizie attività commerciali (si stima che i soli 10.000 nordcoreani che lavorano in Sud Corea inviino al Nord circa 10-15 milioni di dollari annui)1.
«I donju occupano quelle posizioni imprenditoriali e economiche che il governo, per mancanza di fondi o di inventiva, non riesce a colmare», spiega Kang Go-eun, professoressa di Economia alla Pyongyang University of Science and Technology (Pust), l’unica università privata della Corea del Nord, creata e finanziata dalla Chiesa cristiana evangelica sudcoreana ed in cui, durante l’anno scolastico, una sessantina di professori provenienti da Cina, Stati Uniti, Canada, Corea del Sud e Gran Bretagna, si alternano a insegnare a una élite di 500 studenti le basi dell’economia di mercato. Nelle aule della Pust, ma anche in alcuni corsi della più famosa università del paese, la Kim Il Sung University, si sta formando la futura classe economica della Corea del Nord, che si avvia sempre più verso un’economia di mercato.
È in questo nuovo contesto sociale che avvengono le cospicue transazioni immobiliari nordcoreane; mediatori contattano funzionari dei vari Dipartimenti regionali di assegnazione degli alloggi i quali, con una «commissione» che va dal 10 al 30%, riservano a chi ne fa richiesta i migliori appartamenti. Un affare da trilioni di won, vista la crescita esponenziale avuta negli ultimi anni dei prezzi degli immobili dal 2004 a oggi. Un appartamento di 100 metri quadrati sulla Changjon situato sui «piani reali» (fino al terzo o quarto piano di un edificio e così chiamati perché più accessibili senza l’ausilio di ascensori spesso fermi per mancanza di energia elettrica), può costare l’equivalente di 170.000 euro. In centro a Pyongyang i prezzi medi si aggirano sui 1.000 euro al metro quadrato, mentre a Chongjin, una città in piena fase di sviluppo sulla costa settentrionale ci si accontenta di 800 euro al metro quadrato. Se si pensa che nel 2004, quando iniziarono a funzionare le prime transazioni immobiliari, un appartamento a Pyongyang costava meno di 2.000 euro, si può capire quanto sia consistente il movimento di denaro che interessa il settore.
Il governo è naturalmente a conoscenza di tale commercio, così come di altre attività private quali ristorantini, pubs, bar, discoteche, negozi che permettono alla maggior parte delle famiglie nordcoreane di aumentare i loro introiti, ma fa buon viso a cattivo gioco. Un funzionario statale guadagna tra i 3.000 e i 5.000 won al mese, l’equivalente di 15-33 euro che però si riducono a 30-60 centesimi di euro al mercato nero2; un’inezia anche per un paese, come la Corea del Nord, dove – in teoria, ma in pratica avviene sempre più di rado – ogni cittadino avrebbe diritto a ricevere cibo e generi di prima necessità gratuitamente da parte dello stato. In realtà si stima che, per sopravvivere, una famiglia di quattro persone necessiterebbe un’entrata mensile di 100.000 won3. Molte famiglie guadagnano ben più della cifra minima di sopravvivenza e l’80% delle entrate di un nucleo famigliare proviene dalle attività private.
Nei centri commerciali: i prodotti e i prezzi (in «won»)
I prezzi non sono più determinati dallo stato, ma dal mercato (e quindi dal cambio nero). Nell’affollatissimo centro commerciale di Kwanbok trovo bottiglie di Chivas a 272.000 won, mele a 5.500 won al chilo, shampoo L’Oréal a 40.000 won, diverse marche di vino di produzione cinese a 100.000 won, un chilo di riso a 5.000 won, scarpe a 200.000 won, e poi lavatrici, frigoriferi, tablets, Pc e, cosa sempre più popolare in una nazione in cui sono normali black out energetici, pannelli solari che costano tra i 500.000 e i due milioni di won. Dal 2015 le strade di Pyongyang sono percorse da un numero sempre maggiore di biciclette elettriche cinesi Anqi, che trovo al centro commerciale a 2.620.000 won. Uno smartphone, che 2,5 milioni di nordcoreani posseggono, costa 2 milioni di won4.
Il tutto può essere pagato sia in contanti che con due tipi di carte di credito valide, però, solo all’interno del circuito nordcoreano: la «Narae» e la «Chonsong».
Trovo anche televisori a schermo piatto che potrebbero far sorridere pensando che ufficialmente nel paese vi sono solo tre canali dal palinsesto abbastanza scarno e ripetitivo, due dei quali trasmettono solo nei giorni feriali per 4 o 5 ore al giorno. In realtà le Tv sono i prodotti che vanno per la maggiore perché i nordcoreani adorano guardare i Dvd venduti al mercato nero delle serie televisive cinesi e soprattutto sudcoreane (la più popolare di queste porta sullo schermo le gesta militari di Taeyang-ui Huye, «I discendenti del Sole»). Il fenomeno è divenuto talmente virale che lo stesso Kim Jong Un ha ritenuto suo dovere denunciarne la corrente: «È necessario contrastare l’ideologia imperialista, l’avvelenamento culturale per proteggere e preservare strettamente il nostro stile di vita e la nostra cultura socialista […]. Dobbiamo stabilire una forte disciplina morale nella società. […]. È necessario aumentare ulteriormente il potere dell’ideologia politica e militare»5.
Situazione alimentare e migrazioni
Lontano dalle città, dove non esistono supermercati e centri commerciali, ci sono i golmokjang (mercati contadini non autorizzati, ma tollerati), e i jangmadang (mercati contadini autorizzati).
Le «Misure del 30 maggio», il pacchetto di riforme avviate da Kim Jong Un nel 2014, consentono ai contadini di trattenere tra il 30 e il 60% del raccolto per proprio consumo o per commercializzarlo, mentre ai dirigenti d’impresa vengono offerti forti incentivi sui profitti delle aziende statali. Questo ha permesso all’economia nordcoreana di riprendere vigore, tanto che recentemente in alcune contee questi jangmadang hanno iniziato a vendere anche piccoli animali d’allevamento, in particolare anatre, galline, maiali, conigli.
Nelle campagne la terribile crisi degli anni Novanta è solo un ricordo ma il problema alimentare perdura, anche se oggi non si muore più di fame, ma c’è malnutrizione e non si parla di disponibilità, ma di accessibilità al cibo. La produzione agricola è aumentata, ma per sfamare i 25 milioni di abitanti, il paese deve importare ogni anno tra le 400 e le 500mila tonnellate di cibo, circa il 10% della necessità alimentare6, sotto forma di aiuti internazionali, il 75% dei quali giungono rispettivamente da Cina, Sud Corea, Stati Uniti e Giappone. Nulla di strano che le nazioni più ostili al governo nordcoreano siano anche le più generose nell’elargire gli aiuti: a nessuno, infatti, gioverebbe un crollo improvviso del regime, che porterebbe milioni di profughi a varcare il 38° parallelo per dirigersi a Sud o a inondare le aree cinesi a ridosso della frontiera settentrionale.
«La Corea del Nord sta sfruttando questa paura di esodo biblico come “arma di migrazione di massa” per ottenere aiuti dall’estero», spiega Kelly Greenhill, professoressa alla Tufts University di Medford, Massachusetts, specializzata in politica dei flussi migratori. Un collasso improvviso del regime porterebbe nei mesi immediatamente successivi 300.000 profughi in Sud Corea e Cina, mentre nel primo anno la migrazione interesserebbe diversi milioni di nordcoreani7. Una cifra che terrorizza sia la Cina, ma anche, e soprattutto, la Corea del Sud, già alle prese con grossi problemi di inserimento dei 27.000 nordcoreani presenti sul suo territorio, molti dei quali devastati da problemi psicologici e dediti al crimine organizzato, all’alcolismo e alla droga8.
In Cina, poi, la situazione è ancora peggiore: qui molti dei 100.000 rifugiati nordcoreani sono visti come bassa manovalanza da sfruttare nei lavori meno gratificanti; nel peggiore dei casi, alcune delle ragazze hanno terminato il loro viaggio in bordelli gestiti da bande sino-coreane.
La versione ufficiale della Corea del Nord nei confronti di questi cittadini fuggiti dal loro paese è che siano «terroristi che si oppongono al sistema sociale della Dprk (acronimo inglese per «Repubblica democratica popolare di Corea», ndr), paese in cui i cittadini godono di una vita genuina e felice»9.
Naturalmente ben pochi a Nord del 38° parallelo sono ancora convinti di vivere in un paradiso, ma l’osmosi di notizie tra Nord e Sud ha anche cambiato la visione del mondo di molti nordcoreani. I talbukja, letteralmente «coloro che sono scappati dal Nord», nonostante le difficoltà rimangono in contatto con le loro famiglie e questo ha permesso di sfatare alcuni dei miti che rendevano Cina e Sud Corea delle mete incantate e ineffabili.
Questa disillusione, accompagnata anche dal sensibile miglioramento delle condizioni di vita registrato dai primi anni Duemila, ha fatto sì che le fughe, oggi principalmente dovute a motivi economici più che politici, si siano ridotte.
I rapporti economici con Cina e Russia e le sanzioni internazionali
Secondo il ministero dell’Unificazione della Corea del Sud, il 48,4% dei nordcoreani che nel 2014 si erano trasferiti al Sud erano disoccupati10. Per arrestare questa emorragia di giovani lavoratori (il 58,2% aveva tra i 20 e i 39 anni)11 Pyongyang deve trovare il modo di migliorare la propria economia e, soprattutto, modernizzare le proprie infrastrutture. Alle strade, porti, macchinari industriali fatiscenti e obsoleti si aggiungono frequenti interruzioni di energia elettrica che mantengono le compagnie straniere lontane dall’altrimenti allettante mercato nordcoreano.
Nel paese ci sono una trentina di aziende europee e, secondo un rapporto della Samsung Economic Research Institute, il governo ha commissionato alla Cina la costruzione e la ristrutturazione di impianti e servizi per 6,5 miliardi di dollari. Gli investimenti stranieri, che nel 2010 ammontavano a 1,475 miliardi di dollari, sono destinati ad aumentare, ma sino a quando la nazione asiatica non stabilizzerà le proprie leggi sul lavoro non sono molte le industrie intenzionate a concludere affari con Pyongyang.
«Guarda l’hotel Ryugyong», mi dice un membro di una delegazione europea in visita nel paese indicandomi l’edificio di 330 metri che avrebbe dovuto essere completato sin dal 1989 per divenire l’hotel più alto al mondo. «È dal 1987 che è in costruzione e a distanza di trent’anni non è ancora finito. È l’emblema di come sia inefficiente e inaffidabile il sistema nordcoreano».
Al tempo stesso, la necessità di «espandere e sviluppare le relazioni economiche con l’esterno»12 ha indotto Kim Jong Un a continuare con la realizzazione dell’idea avuta da Jang Song-taek (marito della sorella di Kim Jong Il e, quindi, zio di Kim Jong Un e da questo fatto prima imprigionare e poi fucilare, ndr) nel 2013 di creare tredici nuove «Zone ad economia speciale» (Zes).
La più redditizia e sviluppata è (era) il Kaesong Industrial Complex (Kic), creata nel giugno 2000 e chiusa temporaneamente dalla Corea del Sud nel febbraio 2016 in risposta al lancio del satellite Kwangmyongsong-4 e al presunto (ma mai avvenuto) test termonucleare. La Kic ospitava 123 compagnie sudcoreane che davano lavoro a 55.000 nordcoreani con un introito, per le casse di Pyongyang, di 90 milioni di dollari annui e un giro di affari di 1,2 miliardi di dollari, pari al 4,1% dell’intero Pil nordcoreano.
Da allora gli sforzi nordcoreani sono rivolti alla Zes di Rason, nel Nord Est del paese, in cui operano aziende cinesi e russe.
Dopo l’esecuzione di Jang Song-taek e la purga della fazione «cinese» (dicembre 2013), la Corea del Nord guarda con sempre maggiore interesse alla Russia come possibile partner commerciale e politico, non disdegnando, al tempo stesso, altri mercati come l’Iran o l’Africa. Il Mansudae Art Studio, il principale centro di produzione artistica nordcoreano, solo nel 2016 ha costruito statue e monumenti in 15 paesi africani.
Alla ricerca continua di investitori, ogni anno la Corea del Nord organizza viaggi di affari per imprenditori europei interessati a credere nel mercato nordcoreano, ma senza destare grandi interessi.
Dopo le recenti dure prese di posizione da parte di Pechino nei confronti di Pyongyang per via dei test missilistici e soprattutto del test termonucleare dello scorso 3 settembre, quest’ultima non ritiene più sufficientemente affidabile il vecchio alleato. Il simbolo del gelo che si è venuto a formare tra i due paesi lo trovo a Sinuiju, la città al confine cinese da dove passa la ferrovia che collega la Corea del Nord con Dandong e dove transita il 70% del commercio tra i due paesi. Qui mi siedo sulle sponde del fiume a guardare il Nuovo Ponte sullo Yalu che avrebbe dovuto rafforzare i legami economici sino-coreani. Costato 350 milioni di dollari e iniziato nell’ottobre 2011, la sua costruzione è stata sospesa nel 2013, subito dopo la fucilazione di Jang Song-taek. I suoi piloni si stagliano contro il cielo sorreggendo un inutile campata significativamente vuota perché i nordcoreani non hanno terminato la strada di raccordo con l’autostrada verso la capitale. La Cina, con un commercio bilaterale di 5,29 miliardi di dollari13, continua ad essere il principale partner commerciale della Corea del Nord, ma la Risoluzione 2270 delle Nazioni Unite che impone sanzioni economiche a Pyongyang ha indotto il governo cinese a ridurre del 75% le importazioni di carbone, la principale fonte di entrate economiche della nazione.
La Russia, che condivide con la Corea del Nord 17 chilometri di confine con solo un ponte ferroviario, sembra abbastanza restia ad entrare nel mercato coreano, ed obiettivamente non potrà mai sostituirsi alla Cina. Il commercio bilaterale tra le due economie è solo di 83,8 milioni di dollari (quasi interamente importazioni di prodotti russi)14 e recentemente è stato inaugurato il primo traghetto passeggeri che unisce la Corea del Nord con Vladivostok. I rapporti tra le due nazioni sono comunque migliorati da quando, nel 2012, la Russia ha cancellato il 90% degli 11 miliardi di dollari di debiti contratti da Pyongyang con l’ex Urss e creato il ministero dello Sviluppo dell’Estremo Oriente, divenuto il principale interlocutore di Mosca con il governo di Kim Jong Un. Al tempo stesso la Russia ha alzato a 50.000 la quota di permessi concessi a lavoratori nordcoreani nelle proprie industrie tessili, edili e di pesca nelle regioni di Amur, Khabarovsk e Primosky (per confronto, la Cina ha emesso 933.000 visti per lavoro a cittadini nordcoreani).
La guerra (1950-1953) e l’unificazione
Più complicati sono i rapporti con la Corea del Sud, nonostante tra i due stati esistano scambi commerciali che ammontano a 2,34 miliardi di dollari annui, pari all’8,8% del Pil della Corea del Nord15.
Seoul si sente minacciata dai test missilistici e nucleari nordcoreani: in caso (improbabile) di guerra sarebbe il Sud a subirne le maggiori conseguenze.
«La Corea del Sud deve prima di tutto divincolarsi dalla sudditanza americana. Solo allora il suo presidente avrà il potere di decidere il destino del popolo sudcoreano», mi spiega So Mi-yeon, la onnipresente (e obbligatoria) guida che mi accompagna durante la visita in Nord Corea ripetendo un mantra, quello della colonizzazione statunitense, ancora in voga nei libri di testo nordcoreani. Secondo Pyongyang, infatti, la penisola coreana è divisa in due non tanto perché vi sono due governi indipendenti e ostili tra loro, ma perché – come ha scritto il Rodong Sinmnun, il giornale del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori – il Sud sarebbe occupato da un «gruppo di fantocci sudcoreani che si comportano in modo avventato» succubi di Washington. I vari governi che si sono susseguiti nel Nord, guidati da Kim Il Sung, Kim Jong Il e oggi da Kim Jong Un, sarebbero i soli e legittimi rappresentanti del popolo coreano. Tra Pyongyang e Seoul non esiste ufficialmente belligeranza, ma un armistizio (quindi non un trattato di pace) tra Pyongyang e Washington. Gli sforzi della Corea del Nord per portare gli Stati Uniti al tavolo delle trattative si concentrano principalmente su questo punto: trasformare l’armistizio del 27 luglio 1953 in un vero e proprio trattato di pace. L’elezione di Moon Jae-in a presidente della Repubblica di Corea, salutata con ottimismo da quasi tutti i governi della regione a partire dalla Cina, è invece guardata con cautela dal Nord: «La Dprk e la Corea del Sud dovrebbero aprire un nuovo capitolo per migliorare le relazioni tra loro rispettandosi reciprocamente e stringendosi le mani come partner per giungere all’unificazione», scrive il Rodong Sinmnun, punzecchiando il nuovo inquilino della Casa Blu (nome della residenza del presidente della Repubblica della Corea del Sud, ndr) proprio sul tema apparentemente più propagandato da lui stesso: quello del dialogo tra Nord e Sud e della futura potenziale unificazione della penisola: «Se il governo sudcoreano insiste sulla proposta della “unificazione dei due sistemi” – una proposta assolutamente ingiusta – e decide di incamminarsi lungo la via della guerra, l’unica cosa che (Seoul, ndr) affronterà sarà la morte e una spaventosa distruzione». Pyongyang ha sempre osteggiato l’unificazione politica tout court, che vede come un tentativo di assimilazione del Nord da parte del Sud, preferendo ad essa una più soffice e meno traumatica via federale da realizzarsi in un lungo periodo di transizione durante il quale l’economia dei due paesi si integrerebbe mantenendo però un sistema politico e ideologico bicefalo. La soluzione proposta dal Nord potrebbe, nel giro di diversi decenni, livellare l’immenso abisso oggi esistente tra le due economie che vede il Pil pro capite della Corea del Sud sopravanzare quello del Nord di 20 volte (un nordcoreano produrrebbe ogni anno un Pil di 1,33 milioni di won contro i 25 milioni di won del collega sudcoreano), mentre in termini assoluti, il Pil del Sud è 38 volte quello del Nord (tabella a pag. 36).
Questo sistema di «due paesi una economia» si innesta sulla richiesta fatta dal Nord a Moon Jae-in di ridiscutere i confini del 38° parallelo e quelli marittimi. Su queste premesse il dialogo tra i due paesi sembra irto di ostacoli: le differenze di vedute, pur non essendo insormontabili, sono comunque ampie e quandanche Moon e Kim dovessero inaugurare una nuova versione della Sunshine Policy («politica alla luce del sole») c’è sempre l’incognita delle forze conservatrici (sia del Nord che del Sud) e dell’ambiguità politica di Washington e di Pechino. La Cina difficilmente perdonerà la Corea del Nord di aver dato l’occasione agli Stati Uniti di dispiegare il Thaad («Terminal High Altitude Area Defense», sistema antimissile statunitense, ndr) a pochi chilometri dalle sue coste dopo che lo stesso Giappone lo aveva rifiutato qualche anno addietro. Il Pentagono, da parte sua, non si azzarderebbe mai a scatenare una guerra suicida nella regione nordorientale asiatica sapendo anche che i suoi due alleati sono assolutamente contrari ad azioni di forza.
La politica del «byungjin»
Se nessuno vuole provocare una guerra, allora perché Kim Jong Un ha accelerato il programma missilistico e nucleare, strettamente legati tra loro? Nel 2012 la costituzione della Corea del Nord venne emendata con la dichiarazione che la Dprk era uno stato nucleare16. Il 31 marzo 2013 il Grande Leader ha inaugurato una nuova linea di sviluppo per il paese: la byungjin, o pyongjin («sviluppo parallelo»), che andava a sostituire la politica della songun («prima i militari») che aveva contraddistinto il governo di Kim Jong Il.
Il nuovo indirizzo economico-ideologico di Kim Jong Un intendeva perseguire una politica di sviluppo economico e sociale sostenuta dal programma nucleare: «Le forze nucleari della Dprk rappresentano la vita della nazione e non potranno mai essere abbandonate sino a quando le minacce nucleari e imperialiste esisteranno sulla terra… Solo quando lo scudo nucleare di autodifesa sarà completato, sarà possibile frantumare le ambizioni imperialiste Usa di annettere la penisola coreana con la forza per rendere i coreani dei moderni schiavi»17.
L’obiettivo era molteplice: concentrandosi solo sul programma nucleare la ricerca avrebbe subito un’accelerazione consentendo al tempo stesso di diminuire il budget della Difesa del 2-3% rispetto alla politica della songun dato che sarebbero state finanziate solo quelle attività correlate agli studi e ai test atomici. Il taglio ai militari avrebbe permesso a Kim Jong Un di rafforzare il proprio potere all’interno del Partito eliminando gli elementi ostili. L’eventuale successo dei programmi nucleari e missilistici ad esso connesso, avrebbe permesso a Kim Jong Un di elevare il prestigio internazionale del paese proponendosi, inoltre, come nazione guida per quegli «stati paria» impossibilitati a promuovere simili progetti. Infine, i ritorni finanziari dovuti al risparmio sulle spese militari e sui ricavi delle eventuali commesse derivate dalle ricerche avrebbe consentito di allocare più risorse per i programmi di sviluppo economico e sociale.
Quasi tutti gli obiettivi della byungjin sono stati raggiunti: dopo aver indebolito e allontanato (più con le cattive che con le buone) l’opposizione, Kim Jong Un ha completato – nel giugno 2016 – la scalata al potere sciogliendo la potentissima Commissione di difesa nazionale, di cui Jang Song-taek era vice presidente, per formare la nuova Commissione degli affari di stato, l’organo più importante della Corea del Nord che presiede la sicurezza interna ed esterna della nazione e di cui lo stesso Kim Jong Un è presidente. Con questa mossa il leader nordcoreano, oltre che essere presidente del Partito dei lavoratori (il segretario generale eterno è Kim Jong Il, morto nel 2011), Comandante supremo delle forze armate e presidente della Commissione centrale militare del Partito dei lavoratori, è de facto presidente dello stato (il presidente eterno è Kim Il Sung, morto nel 1994).
La trasformazione degli organi di stato ha consentito a Kim Jong Un di circondarsi di uomini a lui fedeli. Due dei tre vicepresidenti della Commissione degli affari di stato, il vice maresciallo Hwang Pyong-so e il primo ministro Pak Pong-ju, sono stretti collaboratori e sostenitori delle riforme volute dal Grande Leader, mentre il terzo, Choe Ryong-hae, ritenuto un cane sciolto e meno legato al presidente, è comunque isolato.
I test e la prima bomba termonucleare
I successi in politica interna di Kim Jong Un si sommano a quelli in campo militare. Dal suo insediamento il programma missilistico, atto a dotare le Forze armate nordcoreane di un missile balistico intercontinentale capace di trasportare una testata atomica, ha fatto passi da gigante, siglando la quasi definiva conclusione lo scorso 3 settembre 2017 con il sesto test nucleare che, a differenza degli altri, ha confermato il possesso della bomba termonucleare negli arsenali di Pyongyang.
Se Kim Jong Il aveva voluto il programma nucleare per consentire alla Corea del Nord di sopravvivere al disastro energetico e all’isolamento economico, la volontà di Kim Jong Un di dotarsi di armi nucleari è dovuta, oltre che per recuperare prestigio interno nei confronti dei militari, anche alle considerazioni fatte osservando la fine riservata ai suoi «colleghi» oltreoceano dalle potenze Occidentali.
Secondo la visione del Grande Leader la caduta in disgrazia di dittatori con cui la famiglia Kim aveva tessuto stretti rapporti di cooperazione (Gheddafi, Saddam Hussein, Assad) è stata favorita dalle loro «debolezze» nell’accettare le condizioni richieste da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Oltre che inutile sarebbe quindi dannoso per la leadership nordcoreana privarsi della minaccia nucleare. La byungjin, quindi, è la chiave che chiude la cassaforte del potere di Kim Jong Un. Gli scienziati e i tecnici nordcoreani stanno oggi lavorando su tre fronti intrecciati tra loro: quello missilistico, quello nucleare e quello termonucleare.
Il programma missilistico sarà completato solo quando dalle basi di lancio nordcoreane partirà un vettore potenzialmente capace di raggiungere il territorio statunitense (obiettivo raggiunto lo scorso 28 luglio con il razzo Hwasong-14), ma, al tempo stesso, capace di trasportare una ogiva nucleare.
Sul fronte nucleare, dopo i cinque test svoltisi tra il 9 ottobre 2006 e il 9 settembre 2016, i ricercatori nordcoreani lo scorso settembre sono riusciti a miniaturizzare l’ordigno, creando un’arma potente e sufficientemente leggera da poter essere trasportata da un razzo. Dopo l’annuncio fatto il 6 gennaio 2016 dalla Kcna (Korean Central News Agency, l’agenzia di stampa nordcoreana)18 che la Corea del Nord avrebbe fatto scoppiare la sua prima bomba termonucleare (la bomba all’idrogeno o bomba H), rivelatosi un bluff, ora il paese asiatico ha effettivamente testato la tanto temuta bomba H. L’effetto sismico generato dall’esplosione sotterranea attorno al sito di Punggye-ri il 3 settembre sarebbe stato provocato da una bomba di circa 120 kilotoni, tra le 6 e le 10 volte più potente dell’ultimo test nucleare avvenuto il 9 settembre 2016. È esattamente la potenza che dovrebbe avere una bomba termonucleare rispetto a quella di una normale bomba a fissione dato che la più semplice bomba termonucleare, quella a singolo stadio, avrebbe una potenza detonante pari a circa sei volte quella di una pari bomba nucleare.
Nel cuore del programma nucleare
Mentre ci spostiamo verso Chongjin da Wonsan, attraversiamo la città di Hamhung. Qui c’è la Hungnam Chemical Fertilizer Complex, una fabbrica di produzione agricola costruita negli anni Trenta dai giapponesi che oggi avrebbe anche un impianto per la produzione del Litio-6, metallo necessario per la produzione del trizio, componente fondamentale nella bomba a idrogeno.
Il Litio-6 è un isotopo contenuto nel litio naturale, elemento abbastanza abbondante in natura, ma perché lo si possa utilizzare nel programma nucleare occorre arricchire questo isotopo portandolo dal 7,56% al 40-95%. Nella fabbrica agricola di Hamhung esisterebbe un impianto di arricchimento per aumentare la percentuale di Litio-6. La General Precious Metal, azienda nordcoreana del gruppo Green Pine Associated Corporation, avrebbe cercato di vendere Litio-6 ad alta purezza online19.
Da diversi anni la Hungnam Chemical Fertilizer Complex è chiusa alle visite, ma riesco ad ottenere un permesso per visitare l’impianto di ricerca nucleare di Yongbyon. Qui, in mezzo ai campi coltivati, centinaia di scienziati, tecnici, lavoratori si occupano di realizzare l’incubo peggiore degli Stati Uniti: la bomba nucleare miniaturizzata. Subito mi viene mostrato il luogo dove sorgeva la torre di raffreddamento dell’acqua proveniente dal reattore, distrutta nel 2008 sulla base degli accordi nucleari con gli Stati Uniti20. Fu l’unico segno dato dal governo nordcoreano di rispettare i punti dell’intesa: pochi mesi dopo, il 14 aprile 2009, dopo l’ennesimo rifiuto di permettere le verifiche sullo stato di smantellamento dell’impianto di arricchimento di uranio per usi militari, il governo nordcoreano espulse dal sito di Yongbyon tutti i tecnici stranieri.
Nel 2009 Kim Jong Il aveva autorizzato la costruzione di un secondo reattore ad acqua leggera (Lwr) da 30 MWe21, ma i lavori, terminati esteriormente, non sono mai stati completati, quindi l’unico reattori oggi funzionante è il piccolo e vecchio reattore di grafite ad acqua pesante da 5 MWe. Ogni due anni le 8.000 barre di uranio, pari a circa 50 kg di combustibile nucleare, vengono estratte e lasciate per 5 mesi nelle apposite piscine di raffreddamento per poi essere processate nel laboratorio di radiochimica, situato poco distante dal reattore, su una penisola lungo l’ansa del fiume Taeryong.
Con un processo simile a quello utilizzato negli Stati Uniti, il Purex, plutonio e uranio vengono separati in circa 3-6 mesi di lavorazione per ottenere il plutonio-239, elemento base per la costruzione di bombe nucleari. L’ultimo periodo di attività del laboratorio risale all’estate 2016 e ad ogni ciclo si produrrebbero tra i 5,5 e gli 8 kg di plutonio, sufficienti per 2,5 bombe.
Poco distante il famoso impianto di arricchimento di uranio, avviato con l’aiuto di Abdul Qadeer Khan, padre della bomba nucleare pakistana, nel settembre 2009, solo cinque mesi dopo l’espulsione dei tecnici stranieri. Dal 2013 la potenza dell’impianto è stata raddoppiata ed oggi si stima che sia in grado di produrre uranio Wgu (Weapon Grade Uranium) necessario per la produzione di bombe nucleari a nucleo composito, molto più leggere rispetto a quelle tradizionali. Estrapolando i dati sopracitati è possibile fare una stima dell’arsenale nucleare in possesso dalla Corea del Nord: il paese sarebbe in grado di produrre tra le 3 e le 5 bombe nucleari ogni anno, avrebbe separato circa 33 kg di plutonio-239 e prodotto 175-645 kg di uranio Wgu (175 kg con 2.000 centrifughe; 645 con 4.000 centrifughe). Questi numeri portano ad una cifra di 13-30 bombe nucleari a disposizione del paese a cui si devono detrarre le bombe utilizzate nei cinque test sino ad oggi svolti (agosto 2017).
La situazione sanitaria
«Sappiamo che all’estero si domandano se sia giusto spendere soldi per il programma nucleare, mentre il popolo langue in un paese che fatica a ritrovare il benessere economico raggiunto negli anni Sessanta e Settanta», azzarda un fisico che lavora a Yongbyon mentre ci salutiamo. «Il fatto è che la Dprk è stata costretta a optare per la ricerca nucleare per proteggere il suo stesso popolo dalla prepotenza degli Stati Uniti». La frase del fisico nordcoreano mi torna in mente quando in seguito visito alcuni ospedali lontani dalle case di cura modello che vengono propinate alle delegazioni in visita. «La condizione sanitaria è problematica nei centri più isolati e nelle province più povere, dove non arrivano gli aiuti internazionali, le Ong hanno difficoltà a operare dove il sistema di assistenza sociale del governo è assente», mi dice un operatore della Croce Rossa Internazionale della provincia di Nord Hamgyong.
Qui, nella città industriale di Chongjin, i medici dell’ospedale provinciale lamentano la mancanza di medicine e di anestetici, ma la situazione si fa drammatica quando ci spostiamo verso Hoeryong, una cittadina di circa 120.000 abitanti posta al confine con la Cina dove nacque Kim Jong Suk, prima moglie di Kim Il Sung e madre di Kim Jong Il. Nel piccolo e fatiscente ospedale locale i pazienti sono ammassati in stanze prive di riscaldamento (in inverno la temperatura scende sotto zero), e i famigliari devono accudire i parenti portando loro coperte, lenzuola, cibo. Le medicine, quando si trovano, sono a pagamento e i medici sono costretti a ricorrere alla medicina tradizionale, più un palliativo che un rimedio. La corrente, così come in molte città nordcoreane lontane dai flussi turistici, arriva solo tre o quattro ore al giorno. Il sistema sanitario nordcoreano, però, si sta riprendendo: dal 2013 le malattie che uccidono maggiormente non sono più quelle trasmissibili, ma quelle cardiovascolari o tumori, un indicatore che, nonostante tutto, evidenza i progressi ottenuti. Tra il 2001 e il 2011 i casi di malaria sono crollati da 300.000 a meno di 25.00022, mentre i casi di Tbc sono scesi da 150 per 100.000 abitanti nel biennio 1996/97 a 27 per 100.000 abitanti nel 201223.
Anche la mortalità infantile al primo anno di vita è scesa dal 57,81 per mille nel quinquennio 1995-2000 a 21,99 nel quinquennio 2010-201524. Ancora alta, se comparata con i paesi dell’area25, ma inferiore a quelle di Cambogia, Myanmar, Pakistan, India, Indonesia.
La questione dei diritti umani
Alla situazione sanitaria fa il paio quella, estremamente dibattuta e spinosa, dei diritti umani. In mancanza di dati ufficiali, l’Undp non inserisce la Corea del Nord in alcuna classifica dell’indice di sviluppo umano26, mentre Amnesty International e Human Rights Watch continuano a registrare abusi ai danni dei cittadini nordcoreani da parte del loro stesso governo27. Lo stato asiatico ha replicato che «non ci sono diritti umani standard che ogni paese può accettare» perché «gli standard dei diritti umani internazionali non devono copiare gli “standard” di particolari paesi e neppure deve essere chiesto di seguire questi “standard”»28.
Nonostante organizzazioni umanitarie e agenzie delle Nazioni Unite abbiano più volte chiesto alla Corea del Nord il permesso di condurre inchieste e indagini in loco, Pyongyang ha sempre negato a loro accesso al paese29. Il Rapporto della commissione d’inchiesta sui diritti umani nella Dprk dell’Human Rights Council delle Nazioni Unite si è, quindi dovuto basare sulla testimonianza di 80 persone fuggite dalla Corea del Nord e rifugiate in Corea del Sud, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti30. Questo metodo ha, in un certo senso, falsificato il rapporto in quanto basato su testimonianze non completamente verificabili e prive di contraddittorio. Non per questo, però, le numerose prove, documenti di vario genere e video, oramai in possesso dalle organizzazioni internazionali lasciano dubbi sulla durezza con cui il regime soffoca ogni tentativo di opposizione interna. Il sistema songbun, che durante il periodo di Kim Il Sung era alla base della società nordcoreana dividendo i cittadini in classi sociali basate sulla fedeltà al regime e decidendo il luogo in cui la famiglia doveva vivere e a quale carriera scolastica e lavorativa potevano aspirare, oggi è meno discriminante31. L’importanza sempre crescente del denaro ha soppiantato il songbun, mentre, dalla prima decade del 2000, i reati di una persona non ricadono più sulla famiglia e sul parentado. Questo significa che solo chi compie una violazione viene punito (a differenza di quanto accadeva nel passato quando la colpa veniva espiata in forma collettiva e, in caso di reati politici, l’intero nucleo famigliare era spedito nei kwanliso, i campi di prigionia riservati agli oppositori del governo). Vi sarebbero tra le 80 e le 120.000 persone detenute in quattro kwanliso ed un numero indeterminato nei kyohwaso, i campi per reati comuni32.
La pena di morte è praticata in luoghi sia pubblici che segreti33 ed è indirettamente confermata anche dalla stessa Corea del Nord, la quale afferma che «le pene (per i crimini e atti pericolosi che violano il potere dello stato, il sistema socialista e la legge e l’ordine, ndr) vanno dalla pena di morte, la rieducazione attraverso il lavoro per un periodo indefinito, la rieducazione attraverso il lavoro per un periodo definito e la disciplina attraverso il lavoro. Pene addizionali sono la privazione del diritto al voto, la confisca delle proprietà, multe, privazione o sospensione di una licenza»34. Il governo nordcoreano difende la scelta di imporre la pena capitale affermando che essa «non costituisce una violazione del diritto alla vita […]. Mantenere o abolire la pena di morte in un paese non può essere un criterio in base al quale si possa giudicare se uno stato protegge o meno i diritti umani»35.
La Corea del Nord avrebbe anche rapito cittadini di 12 nazionalità diverse, tra cui circa 480 sudcoreani. Il Giappone ha ancora un contenzioso con Pyongyang per il rapimento di 17 cittadini giapponesi da parte dei servizi segreti nordcoreani tra il 1977 e il 198336. Il governo ha ammesso 13 rapimenti permettendo a cinque rapiti di far ritorno in Giappone con le rispettive famiglie.
Fatiche e problemi del giovane Kim
La Corea del Nord di Kim Jong Un sta cambiando. A chi afferma che il paese è retto da una dittatura si può rispondere che è vero così come è vero che i suoi cittadini non vivono in un paradiso. Ma sono anche finiti i tempi in cui la figura di Kim Il Sung era esente da ogni critica. Kim Jong Il è sopravvissuto perché era il figlio di Kim Il Sung ed ha vissuto «di rendita» sul mito del padre. Kim Jong Un ha la fortuna di assomigliare al nonno (cosa spesso sottovalutata fuori dal paese, ma importantissima in Corea del Nord), ma sa benissimo che questa somiglianza e la sua parentela non lo potranno proteggere per molto.
La sua giovane età lo ha costretto a ritagliarsi un posto nella leadership. Ecco il perché di tante esecuzioni e di tanti allontanamenti. Kim Jong Un ha anche dovuto smantellare la politica del songun che aveva contraddistinto la linea paterna, per formare un governo più tecnocrate e economico di quanto fosse quello Kim Jong Il, dominato dai militari.
La politica di Kim Jong Un è decisamente fuori dagli schemi, non solo della Corea del Nord. E paradossalmente il giovane leader si è mostrato molto più duro con i dirigenti del regime e del partito che con il popolo. D’altra parte, chiunque abbia visitato il paese durante le tre fasi del potere della famiglia Kim può facilmente testimoniare che la vita dei nordcoreani è decisamente migliorata da quando è salito Jong Un al potere.
Piergiorgio Pescali
Piovono… «bufale»
Periodicamente i media internazionali riportano con molta enfasi notizie riguardanti brutali o «curiose» epurazioni in Corea del Nord. Spesso, anche se non sempre, queste informazioni si rivelano essere delle «bufale» o, nel migliore dei casi, delle esagerazioni. Perché queste notizie riescono a farsi largo nei media internazionali? Generalmente gli articoli sono riadattamenti di pezzi originali pubblicati sulla stampa sudcoreana che, anche se non ancora confermati, trovano ampio seguito in tutto il mondo. La principale ragione per cui queste bufale vengono pubblicate – anche da parte di quelle redazioni che ancora controllano attentamente la veridicità delle notizie – verte sulla quasi totale mancanza di conoscenza del paese Corea del Nord.
Un’altra ragione può essere trovata in una precisa volontà da parte dell’editore e della direzione, di dare in pasto ai lettori notizie sensazionalistiche. Pochi giornalisti spendono il loro tempo a verificare e ad avere conferme delle notizie: essere i primi a dare l’informazione è ora più importante che appurarne la veridicità.
Anche la necessità politica di mostrare alcune nazioni, come, appunto, la Corea del Nord, in modo negativo così da rispecchiare il facile stereotipo del folle tiranno, del popolo affamato, di una società crudele e cinica, rientra nei motivi di questo tipo di divulgazioni.
È, infine, molto più difficile (e destabilizzante) presentare ai propri lettori una visione reale della Corea del Nord (molto differente dagli stereotipi generalmente utilizzati) piuttosto che continuare a scrivere di un paese che il lettore comune vuole sentirsi raccontare.
Quasi tutti i media che pubblicano notizie in seguito rivelatesi false, non fanno alcuna ammenda. E questo non solo perché perderebbero credibilità verso i loro aficionados, ma principalmente perché ai lettori stessi non interessano le rettifiche. Semplicemente non le leggono o non credono ad esse.
Di seguito alcune tra le più famose bufale riguardanti esecuzioni di nordcoreani che, al tempo della loro diffusione, hanno suscitato scalpore e che sono state utilizzate per biasimare il governo di Pyongyang. Da notare che quasi nessun giornale, Tv, radio, sito di informazione ha pubblicato una rettifica dopo che queste notizie sono state dichiarate ufficialmente false.
Nel febbraio 2016 l’agenzia sudcoreana Yonhap riportò l’esecuzione di Ri Yong Gil, capo di Stato maggiore dall’agosto 2013. Nel luglio 2016 Ri Yong Gil vivo e vegeto, apparve nella Tv di stato nordcoreana. Nel maggio 2016 venne anche eletto membro del Comitato centrale del Partito dei lavoratori di Corea.
Stessa sorte venne riservata a Hyon Yong-chol, ex ministro della Difesa, la cui prima uccisione da parte dello stato venne divulgata nell’aprile 2015 dai Servizi segreti nazionali (Ssn) della Corea del Sud (nella comunicazione si precisò che la sua esecuzione avvenne usando quattro cannoni di artiglieria antiaerea). Ragione della presunta condanna fu l’appisolamento durante un discorso di Kim Jong Un (stando alle accuse addebitate, sembra che gli ufficiali nordcoreani soffrano particolarmente di ipersonnia). Il 13 maggio 2015, gli stessi Ssn annunciarono di non poter confermare l’esecuzione. Nello stesso giorno diversi siti occidentali riportarono, forse non ricordando di averla già pubblicata in precedenza, la notizia della morte (la seconda) di Hyon Yong-chol. In alcuni altri paesi, tra cui l’Italia, alcune fonti di informazione annunciarono la notizia (la terza esecuzione) solo nel successivo ottobre, riportandola come se fosse accaduta pochi giorni prima.
Nel 2015 il Korea Times dichiarò che il vice maresciallo Ri Yong-ho, capo di Stato maggiore dal 2009 al 2012, era stato condannato a morte e ucciso nel 2012. Nel gennaio 2016 lo stesso Ri Yong-ho venne ripreso dalla stampa nordcoreana assieme a Kim Jong Un durante un test nucleare. Qualche sito (specialmente occidentale) confuse (e confonde ancora oggi) il vice maresciallo Ri Yong-ho con Ri Yong Gil o con il suo omonimo attuale ministro degli Esteri nordcoreano.
Anche Hyon Song-wol, ex fidanzata di Kim Jong Un, venne data per morta nell’agosto 2013 dal giornale sudcoreano Chosun Ilbo perché accusata di pornografia. Song-wol, però, riapparve nel maggio 2014 sugli schermi della televisione nordcoreana. Il professore giapponese Toshimitsu Shigemura, della Waseda University, a suo tempo ipotizzò che l’ex fidanzata del leader nordcoreano fosse stata uccisa per volere della moglie di Kim Jong Un, Ri Sol-ju.
Le notizie infondate riguardano anche i metodi di esecuzione: nel 2014 il Chosun Ilbo scrisse che l’uccisione di O Sang-hon, vice ministro del ministero della Pubblica sicurezza e nipote di Jang Sung-taek, fu compiuta utilizzando lanciafiamme bruciando il malcapitato ancora vivo. Qualche giorno prima i giornali di tutto il mondo scrissero che lo stesso Jang Sung-taek fu ammazzato dandolo in pasto a 120 cani affamati, senza rendersi conto che la fonte da cui proveniva la notizia era un giornale di satira.
Falsi anche gli articoli che annunciavano la condanna (a volte a morte, a volte ai lavori forzati) di alcuni ufficiali, rei di aver mostrato poca emozione e di non aver pianto in modo adeguatamente commosso durante il funerale di Kim Jong Il.
Infine, anche lo sport non viene risparmiato dalla disinformazione: per ben due volte (2010 e 2014) l’intera nazionale di calcio nordcoreana sarebbe stata incarcerata in campi di rieducazione per non essere stata in grado di raggiungere i vertici in competizioni internazionali. Naturalmente, anche queste, si rivelarono delle bufale. Mai rettificate.
Piergiorgio Pescali
Piergiorgio Pescali– Giornalista e scrittore, laureato in fisica, storia e filosofia, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, Giappone e penisola coreana. Dal 1996 visita con regolarità la Corea del Nord. Da anni collaboratore di MC, suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire, Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e Cnn. Dal 2010 cura per Asia Maior (asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar.Ha pubblicato: Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010; ll custode di Terra Santa. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa, Add Editore, Torino 2014; S-21. Nella prigione di Pol Pot, La Ponga Edizioni, 2015. Il suo blog è: www.pescali.blogspot.com.
A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
Avvertenza – Piergiorgio Pescali ha scritto questo dossier privilegiando l’analisi rispetto alla cronaca. Tuttavia, gli avvenimenti raccontati sono aggiornati fino al 3 settembre 2017. Ove fosse necessario, la redazione di MC si riserva di tornare con altri articoli su questi temi. (pm)
Note
(1) Andrei Lankov, Remittances from North Korean Defectors, East Asia Forum, 21 aprile 2011; Sonia Plaza, Is It Possible to Send Remittances to North Korea?, World Bank, 28 luglio 2011.
(2) A luglio 2017 il cambio ufficiale si assestava a 130 won per dollaro, mentre il cambio al mercato nero era di 8.500 won per dollaro. Siti internazionali per trovare il valore ufficiale della valuta nordcoreana: www.xe.com; www.oanda.com.
(3) Institute for Far Eastern Studies, Two Years after DPRK’s Currency Revaluation, Seoul, 8 dicembre 2011.
(4) I prezzi si riferiscono al cambio non ufficiale di 8.500 won per dollaro, la cui quotazione è esposta anche all’interno del grande magazzino.
(5) North Korea’s 7th Party Congress, discorso di Kim Jong Un, 6 maggio 2016.
(6) FAO, Special Alert n. 340 – Prolonged dry weather threatens the 2017 main season food crop production, 20 luglio 2017.
(7) Courtland Robinson, Famine in slow motion: A case study of internal displacement in North Korea, Refugee Survey Quarterly, 19(2), 113-127.
(8) Woo-Teak Jeon, Shi-Eun Yu, Young-A Cho, Jin-Sup Eom, Traumatic Experiences and Mental Health of North Korean Refugees in South Korea, in Psychiatry Investigation 5, n. 4, 2008, pp. 213-220; Joanna Hosaniak, Jessica Jinju Pottenger, Pukhan Inkwon Simin Yonhap, Homecoming Kinsmen or Indigenous Foreigners? The Case of North Korean Re-Settelers in South Korea, Life and Human Rights Books, Seoul, 2011; Jun-Hong Kim, A Study on the Mental Health Outcomes of North Korean Male Defectors: Comparing with General Korean Males and Searching for Health Policy Implication, Journal of the Korean Medical Association 54, n. 5, 2011, pp. 537-548.
(9) Report of the Dprk Association for Human Right Studies, 13 settembre 2014, cap. 2.
(10-11) Ministero dell’Unificazione della Corea del Sud, 2014 Statistics on North Korean Arriving in South Korea.
(12) Kim Jong Un, Speech at the North Korea’s 7th Party Congress, 6 maggio 2016.
(13) The Observatory of Economic Complexity, North Korea Economy, 2015; l’export nordcoreano in Cina è pari a 2,34 miliardi di dollari, mentre l’import è di 2,95 miliardi di dollari.
(14) The Observatory of Economic Complexity, North Korea Economy, 2015; l’export nordcoreano in Russia è pari a 5,58 milioni di dollari, mentre l’import è di 78,2 milioni di dollari.
(15) Ministero dell’Unificazione della Repubblica di Corea, Inter-Korean Exchanges and Cooperation, Seoul, 2014; l’export nordcoreano in Sud Corea è pari a 1,206 miliardi di dollari, mentre l’import è di 1,136 miliardi di dollari.
(16) Socialist Constitution of The Democratic People’s Republic of Korea, Preamble, p.2, Pyongyang, Juche 103 (2014).
(17) Kcna, Report on Plenary Meeting of WPK Central Committee, 31 marzo 2013.
(18) Kcna, DPRK Proves Successful in H-bomb Test, 6 gennaio 2016.
(19) United Nations, Report of the Panel of Experts established pursuant to resolution 1874 (2009) S/2017/150, 27 febbraio 2017, p. 15/326.§
(20) Joint Statement of the Fourth Round of the Six-Party Talks, Beijing, 19 settembre 2005.
(21) Kcna, Dprk Foreign Ministry Declares Strong Counter-Measures against Unsc’s Resolution 1874, 13 giugno 2009.
(22) United Nations Dpr Korea, Fighting Malaria and Tbc in Dpr Korea – A Partnership Approach, 10 agosto 2015.
(23) Who, Estimated Tubercolosis (TB) Cases and Death, 1990-2012, 12 agosto 2015.
(24) Unicef, Infant mortality rate, 9 settembre 2015.
(25) Mortalità al primo anno di vita in Sud Corea; 2,91 ‰, Cina 11,65‰, Giappone 2,2‰, Unicef, Infant mortality rate, 9 settembre 2015.
(26) Undp, Human Developmen Report 2016.
(27) Amnesty International, Annual Report – North Korea 2016/2017; Human Rights Watch, World Report 2017 – North Korea.
(28) Report of the Dprk Association for Human Right Studies, 13 settembre 2014, cap. 1.
(29-33) Human Rights Council, Report of the commission of inquiry on human rights on the Democratic People’s Republic of Korea, 7 febbraio 2014, cap. 2.
(34) Legge per i crimini adottata dal Comitato Permanente della Suprema Assemblea Popolare, Decisione n. 6, Articolo 27, §28, 15 dicembre 1990.
(35) Report of the Dprk Association for Human Right Studies, 13 settembre 2014, cap. 2.
(36) Ministero degli Affari Esteri del Giappone, Abuctions of Japanese Citizens by North Korea, 2012.
Giappone 1 / L’Eredità di Fukishima
Dopo il disastro dell’11 marzo 2011: l’incubo durerà a lungo. Si dice che la bonifica durerà 40 anni. Intanto, nella centrale devastata dallo tsunami del marzo 2011, gli allarmi continuano. Acqua radioattiva è arrivata fino in Califoia. Nonostante gli evidenti problemi, il premier Abe ha confermato la scelta nucleare del paese. E l’ottimismo viene alimentato anche con l’assegnazione al Giappone delle Olimpiadi del 2020. A Fukushima abbiamo camminato tra le rovine e parlato con i sopravvissuti. Queste sono le loro storie.
Il semaforo giallo continua a lampeggiare ritmicamente. Incessantemente. È l’unico segnale di presenza umana rimasto nella cittadina di Futaba, meno di tre chilometri in linea d’aria dalla centrale di Fukushima Daiichi, l’impianto nucleare colpito dallo tsunami del marzo 2011 e da cui continuano a fuoriuscire notevoli quantità di isotopi radioattivi. La statale numero 6, l’importante arteria stradale che segue la costa verso nord, è improvvisamente interrotta: un cartello spiega che oltre è impossibile proseguire, ma non ne indica il motivo, del resto troppo facile da intuire. La ferrovia è completamente avvolta nella fiorente vegetazione.
Parcheggio l’auto lungo quella che era la via principale del nucleo abitato: il silenzio penetra fin dentro le ossa. Improvvisamente un grugnito: dietro me un maiale, a una decina di metri di distanza, mi scruta immobile e titubante prima di riprendere la sua strada e immergersi nel giardino incolto di una casa privata. A Minamisoma, l’ultima città prima di entrare nella zona proibita, mi avevano avvertito della presenza di animali domestici inselvatichiti: maiali, cani, gatti, mucche che si aggirano indisturbati tra i campi abbandonati alimentandosi di prodotti di un suolo dove il Cesio 137 è decine di volte superiore alla norma. Animali destinati a morire nel giro di qualche anno, uccisi da invisibili atomi che rilasciano particelle ad alta energia danneggiando il loro Dna.
Poco più avanti, a Tomioka, i segni dello tsunami sono ancora evidenti: la stazione del treno è distrutta e l’intero paese, anch’esso disabitato, è devastato. Qui il tempo si è fermato a quell’11 marzo del 2011. Nel piccolo ristorante di fronte al porticciolo i piatti sono impilati uno sull’altro in attesa di clienti che ormai non arriveranno più, mentre nelle case sventrate si intravedono giocattoli, quadri, giornali. Un calendario magnetico ha ancora il cerchietto centrato sulla casella dell’11 marzo. Da allora nessuno lo aggiorna, così come nessuno fa ripartire le lancette di un orologio fermo all’ora del disastro. Tutto intorno, per chilometri e chilometri, case distrutte, elettrodomestici accatastati, carcasse di auto, negozi sbarrati da fogli di compensato.
Della «Tepco», ovvero del crollo del mito giapponese.
Se Chernobyl è stata una sciagura, Fukushima continua a essere un cataclisma. Gli incidenti nella centrale giapponese non sono mai cessati e la popolazione si è sentita ingannata da una compagnia elettrica – la Tepco, gestore dell’impianto – inetta e pasticciona appoggiata da un governo bugiardo e infingardo. A tutto questo si aggiunga anche l’incompetenza dei tecnici, e ci troviamo di fronte a un quadro assolutamente desolante e raccapricciante.
Per evitare la bancarotta, Tokyo ha deciso di nazionalizzare, almeno in parte, la Tepco: 22 miliardi di euro che andranno ad aggiungersi ai 190 miliardi di euro (rispetto ai 75 preventivati solo qualche mese fa) necessari per la bonifica dell’area che, secondo l’ultimo rapporto della Commissione per la Sicurezza Nucleare giapponese durerà all’incirca quarant’anni. Nonostante la centrale di Fukushima sia divenuta una divoratrice di denaro pubblico, i problemi che continuano a nascere uno dopo l’altro senza interruzione pongono una seria incognita sul futuro dell’intera regione e sulla sorte dei suoi abitanti.
Lo sversamento in mare di centinaia di tonnellate d’acqua radioattiva utilizzata per il raffreddamento dei reattori fusi è solo l’ultimo di una impressionante catena di incidenti causati, per la maggior parte, dall’imperizia e dalla superficialità con cui la Tepco e il governo hanno affrontato l’incidente. Ora si è aggiunta la paura del cedimento della struttura che ingloba il reattore numero 4, sprofondata per una ventina di centimetri nel terreno reso fradicio dalle perdite di acqua.
La situazione rischia di non essere più controllabile, come dimostra la continua oscillazione delle misure di radioattività che vengono continuamente monitorate nei vari punti della prefettura di Fukushima.
Il passaggio di consegne dello scettro di primo ministro da Yoshihiko Noda, esponente del Partito Democratico (Pd) a Shinzo Abe, del Partito Liberaldemocratico (Pld), avvenuto il 26 dicembre 2012, ha ulteriormente ingarbugliato la matassa politica ribaltando, per l’ennesima volta, l’agenda energetica del paese. Dopo lo tsunami del 2011, infatti, i democratici, allora al governo, avevano deciso di varare un programma che azzerasse, entro il 2040, la produzione di energia nucleare nell’arcipelago dando il via alla nascita di una serie di proposte per l’utilizzo di fonti energetiche alternative a quelle tradizionali. Il più prolifico e concreto tra gli scienziati è Tetsunari Iida, fondatore e direttore dell’Isep (Institute for Sustainable Energy Policies): «Il nostro obiettivo è quello di creare una società che possa essere alimentata per il 100% da energie rinnovabili» afferma il ricercatore con un passato da ingegnere nucleare alle spalle. L’idea, per raggiungere tale traguardo, è esattamente l’opposto di quello che è accaduto in Italia fino a qualche anno fa: anziché tappezzare vaste superfici di terreno con pannelli solari sottraendole alla produzione agricola o di creare megacentrali idroelettriche costruendo dighe ed enormi bacini artificiali, Iida, e con lui molti altri ricercatori giapponesi, propongono piccoli impianti a livello domestico e comunale. «In questo modo l’impatto ambientale sarebbe minimo e competerebbe alla stessa comunità provvedere al suo mantenimento, abbattendo i costi di gestione». Secondo uno studio del ministero dell’Ambiente giapponese, l’introduzione di piccole e medie centrali idroelettriche, l’energia eolica (da potenziarsi principalmente lungo le coste del Tohoku e di Hokkaido), l’energia geotermica potrebbero fornire un contributo energetico importante. Secondo un rapporto del Wwf, il divario tra energia prodotta e energia consumata potrebbe essere colmato entro il 2050 affiancando un aumento dell’efficienza e del risparmio energetico alle fonti rinnovabili (oggi solo il 3,79% dell’energia totale consumata in Giappone proviene da queste ultime).
Le certezze di Shinzo Abe
Di diverso avviso è, invece, l’attuale primo ministro Shinzo Abe il quale, dopo essere salito al governo ha confermato l’opzione nucleare adducendo come giustificazione il fatto che la tecnologia delle energie rinnovabili, con la loro stretta dipendenza dagli eventi naturali, non è ancora pronta a sostituire la continuità produttiva che garantisce la fissione dell’atomo.
Così, dopo anni di sospensione, è ripresa la costruzione di due nuove centrali: quella di Ohma-1, nella provincia settentrionale di Aomori, e Shimane-3, sulla costa meridionale del Mar del Giappone.
A Wakinosawa, nella penisola di Shimokita, Takayuki Isoyama oltre a gestire un ostello è anche membro della Commissione ambientale della Riserva naturale della regione. A lui chiedo se, dopo Fukushima, si sono levate voci contro il completamento della centrale di Ohma-1: «Ben poche» è la sua risposta; «La costruzione della centrale offre opportunità di lavoro a migliaia di locali e, visto che questa è una delle regioni più povere del Giappone, le opzioni sono due: o si emigra o si sfruttano le possibilità che si vengono a creare».
Questa scelta obbligata è uno dei principali motivi per cui il movimento antinucleare trova ostilità anche tra gli stessi abitanti della provincia di Fukushima. Nelle ultime elezioni, tenutesi nel luglio 2013, il Partito Liberaldemocratico ha ottenuto più del doppio dei voti del Partito Democratico. «Merito dei posti di lavoro che l’incidente della centrale ha creato» spiega Sachiko Goto, un membro del movimento antinucleare che, assieme alla sua famiglia, gestisce una tenuta agricola proprio alla periferia della città di Fukushima, ad una cinquantina di chilometri dalla centrale atomica. Ma non è solo questa la motivazione: un impiegato della prefettura (l’equivalente della nostra provincia), che si occupa di misurare la radioattività nel terreno, aggiunge che la vera ragione per cui le ue hanno decretato il trionfo del Pld «non è un premio alla sua politica pro-nucleare, ma un modo per spronare il premier, Shinzo Abe, a varare piani di recupero e di salvaguardia per far rientrare la situazione di emergenza creatasi dopo lo tsunami del 2011». Abe, infatti, ha sempre imputato la scarsa incisività del governo per risolvere la questione di Fukushima, alla divisione del parlamento giapponese. La camera bassa, a maggioranza liberaldemocratica, avrebbe varato leggi e decreti che sarebbero poi stati ostacolati nella loro attuazione dalla camera alta, in mano democratica. Tutti, in realtà, sanno che la vera spiegazione dell’indecisione politica è da ricercarsi nella divisione interna del Pld e nelle sue correnti, che fanno a gara per favorire questa o quella parte industriale nell’accaparramento dei lucrosi appalti. «Ora, però, che il Pld ha la maggioranza assoluta in entrambe le camere, Abe non ha più scuse» conclude l’impiegato prefettizio.
Gli interessi sono enormi, non solo a livello locale, ma anche su scala nazionale e internazionale, visto che la Abeconomy deve passare necessariamente dallo sviluppo nucleare per poter decollare.
Il Giappone ha già concluso contratti miliardari per foiture di impianti e macchinari atomici con Turchia (17 miliardi di euro) ed Emirati Arabi, mentre sta siglando accordi con India, Brasile, Arabia Saudita, Vietnam per un totale di 200 miliardi di euro.
La stessa Keidanren, l’equivalente giapponese della Confindustria, si è apertamente schierata a favore del nucleare, bollando di irresponsabilità la proposta di chiusura definitiva delle centrali atomiche lanciata dall’Enecan, l’Energy & Environment Council giapponese recentemente sciolta dal governo. Gli stessi principali conglomerati nipponici sono pesantemente coinvolti nell’industria della fissione nucleare: la Mitsubishi e l’Hitachi hanno partecipazioni nell’Areva e nella General Electric, mentre la Westinghouse è stata assorbita dalla Toshiba.
Per dimostrare che Fukushima è stato un incidente isolato, i centri di pubbliche relazioni delle centrali nucleari più esposte a eventuali tsunami, hanno aggiunto nuovi pannelli che illustrano le misure di sicurezza intraprese per fronteggiare eventi simili a quelli accaduti nel marzo 2011. Con l’assegnazione delle Olimpiadi 2020 a Tokyo, anche la comunità internazionale ha voluto dare fiducia agli sforzi che si stanno conducendo per tamponare la critica situazione che si è venuta a creare in Giappone.
Nella sua tragedia umana e ambientale, l’incidente di Fukushima ha, però, avuto il merito da una parte di sollevare il problema della sicurezza e dall’altra di rinvigorire lo stremato movimento antinucleare dell’arcipelago.
Così, le stesse industrie impegnate nel nucleare come Mitsubishi e Toshiba, oggi stanno guardando con maggior interesse alle energie rinnovabili. Con un giro di affari che si aggira, nel 2013, sui 20 miliardi di euro, l’industria dell’energia «verde» è appena agli inizi ed è ancora poco competitiva, in fatto di prezzi e di tecnologie, rispetto alle fonti tradizionali, ma la ricerca sta continuamente implementando nuove soluzioni più redditizie.
È comunque la stessa Enecan (quella tacciata di irresponsabilità dalla Keidanren) ad aver indicato che l’attuale costo per kWh dell’energia nucleare in Giappone è di 8,9 yen (0,068 centesimi di euro; in questo conteggio sono compresi i costi di gestione per il rafforzamento della sicurezza), contro i 23-58 yen/kWh (0,176-0,441 Euro) delle energie rinnovabili, a seconda del tipo di energia utilizzata e della potenza dell’impianto.
Stili di vita insostenibili
«Se vogliamo dare un futuro ai nostri figli, dobbiamo deciderci ad abbandonare l’atomo» mi dice Iwasa Miko, accesa sostenitrice del movimento antinucleare che vive ad Hippo, nella prefettura di Miyagi.
Il problema è che, per riuscire a raggiungere l’obiettivo proposto dalle associazioni ambientaliste, non basta aumentare decisamente la produzione di energia «verde»; occorre convincere milioni di giapponesi a modificare radicalmente il loro stile di vita.
Le case, ad esempio, sono un insulto al risparmio energetico: caldissime d’estate e gelide d’inverno, sono estremamente energivore. Solo in questi ultimi anni si è cominciato a costruire appartamenti secondo criteri più consoni all’economia del risparmio. Gli stessi giapponesi hanno scoperto da poco che esiste, nel loro vocabolario, la parola setsuden, «risparmio di energia», ma ci vorrà del tempo per educare un’intera fetta di popolazione a rispettare anche le più elementari regole dell’avvedutezza.
E se, nella prefettura di Tokyo, rispetto agli anni precedenti, ho riscontrato un uso più oculato dell’aria condizionata nei luoghi pubblici, al di fuori delle cinture metropolitane si continuano ad utilizzare condizionatori a temperature inaccettabilmente basse.
«È possibile che il Giappone passi a energie alternative al nucleare, ma tutti dobbiamo impegnarci a raggiungere questo traguardo» mi dice Sachiko Goto.
Lei, assieme ad altri contadini, ha subito le conseguenze del fallout radioattivo perdendo circa il 20% dei suoi clienti: «Tra gli agricoltori della nostra zona siamo stati fortunati. La maggior parte ha subito contrazioni anche del 40%. Noi ci siamo salvati grazie alla scelta di vendere direttamente ai privati, senza passare attraverso cooperative o grandi catene alimentari».
La prospettiva di Sachiko è stata profetica, così come profetica (purtroppo) è stata la sua campagna antinucleare, pressoché solitaria, iniziata all’indomani dell’incidente di Cheobyl.
Problemi e paure di chi è rimasto
Oggi le aziende agricole, per dimostrare che i loro prodotti non contengono isotopi radioattivi, controllano i raccolti con un contatore Geiger. «È un lavoro lungo e faticoso, oltreché costoso, ma, anche se nessuna legge ci obbliga a farlo, preferiamo effettuare le analisi per una questione di sicurezza sociale» afferma Shigeki Oota, marito della già citata Iwasa Miko. Una ventina d’anni fa hanno lasciato Tokyo per trasferirsi tra le montagne di Hippo. Qui hanno iniziato a produrre miso, la salsa usata sulle tavole giapponesi per insaporire la verdura. A differenza degli agricoltori della prefettura di Fukushima, Shigeki e Miko, che vivono nella contigua prefettura di Miyagi, non hanno diritto ad alcun rimborso per le perdite subite a causa del fallout. Le strette vallate e le coltivazioni che si arrampicano sulle pendici dei monti, rendono la vita particolarmente difficile e dura, ma la famiglia Oota, assieme ai loro quattro figli, non si lamenta. «Molti se ne sono andati dopo l’incidente alla centrale nucleare» spiega Miko. «Noi, dopo qualche settimana di trasferimento a Tokyo aspettando che i livelli di radioattività si abbassassero, abbiamo preferito tornare». Una scelta coraggiosa, oltreché difficile, e non solo per l’asprezza della vita. L’impegno antinucleare di Shigeki e Miko non è stato accolto benevolmente dalla comunità montana: «Esiste sempre il timore che prendere precauzioni per controllare i livelli di radioattività, significhi ammettere che si ha un problema di inquinamento atomico, allontanando ancora più i consumatori e incancrenendo la crisi».
Naturalmente non è così, ma il costante martellamento dei media abbinato agli allarmi, molte volte scientificamente infondati, lanciati da alcune associazioni ambientaliste e antinucleari dell’ultima ora, non fanno altro che alzare il livello di guardia dell’opinione pubblica, aggravando le tensioni sociali. Così, la popolazione di Hippo si è divisa tra chi voleva monitorare costantemente il territorio e chi, invece, avrebbe preferito non intervenire. Alla fine molti abitanti antinucleari (per lo più famiglie di recente immigrazione provenienti dalla città), si sono arresi e hanno deciso di trasferirsi. Shigeki e Miko, invece, hanno continuato a combattere per le loro idee trovando, alla fine, un felice compromesso: «Tutti hanno capito che controllare il territorio e i suoi prodotti avrebbe confortato non solo i consumatori, ma gli abitanti stessi».
Meno conflittuale, ma altrettanto drammatica, è stata la vicenda di un altro piccolo produttore locale: Yasuhiko Niida, presidente della Kinpou, una ditta che, dal 1711 produce sake secondo il metodo tradizionale utilizzando solo riso coltivato biologicamente. La nube radioattiva è arrivata anche qui, nella regione di Koriyama, ad una sessantina di chilometri di distanza dalla centrale. «A causa della radioattività il fatturato è crollato del 30%» dichiara Yasuhido. Ma per la famiglia Niida, oltre al danno si è aggiunta anche la beffa: «Nel 2011 la Kinpou avrebbe compiuto trecento anni di vita ed eravamo tutti pronti a festeggiare il traguardo con un anno di eventi già organizzati. Invece ci siamo trovati a lottare per la sopravvivenza dell’azienda».
L’attaccamento alla tradizione famigliare abbinato al carattere tenace di Yasuhido, ha permesso alla ditta di superare il periodo più buio della sua lunga storia e a guardare, oggi, a un futuro più roseo: «Pur tra mille difficoltà siamo riusciti a non licenziare nessuno dei nostri venti dipendenti». Il segreto di tanta costanza sta nell’alta qualità dei prodotti: nel minuscolo ufficio condiviso con i suoi collaboratori più stretti, Yasuhido mostra orgoglioso la lista dei premi nazionali assegnati alla sua azienda. Mentre degustiamo il suo sake mi confida il suo ultimo sogno: «Convincere, entro il 2025, quando varcherò la soglia dei sessant’anni, tutti i contadini del villaggio in cui sorge la fabbrica a coltivare esclusivamente riso biologico». Un desiderio, questo, che manifesta la volontà di riscatto lasciandosi il passato alle spalle.
Quel che resta del mare
Non per tutti, però, è possibile dimenticare ciò che è successo quel terribile 11 marzo 2011. A Ishinomaki, un grosso centro peschereccio a nord della centrale di Fukushima, i pescatori continuano a lottare contro la radioattività. Questa volta proveniente dal mare.
Nonostante la ricostruzione abbia rinnovato la cittadina, le rovine ancora presenti lungo la costa continuano a ricordare agli abitanti che l’oceano è sempre lì, pronto a dare la vita, ma anche a riprendersela.
Prima del 2011 Ishinomaki era il principale punto di rifornimento di prodotti marini di Tokyo. Le perdite nelle acque costiere di sostanze radioattive dalla vicina centrale di Fukushima, hanno convinto gli acquirenti della capitale a rifoirsi più a nord, ad Hokkaido, mettendo in ginocchio l’intera industria ittica della regione. Alle cinque di mattina vado a osservare i primi pescherecci che scaricano il pescato sulle banchine del porto. Alle sei i compratori cominciano ad arrivare: sono tutti locali che riforniscono ristoranti o piccoli centri commerciali della zona. Nessuno di loro manderà i prodotti acquistati a Tokyo. «Una volta che il mercato ha segnato le proprie rotte commerciali, è pressoché impossibile cambiarle» spiega un ricercatore dell’Università di Tokyo che al problema di Ishinomaki ha dedicato uno studio approfondito. Ma forse il luogo che più di tutti rappresenta il dramma che stanno vivendo i giapponesi attorno alla centrale nucleare, è Iitate. Nonostante il paesino non sia stato colpito né dal terremoto né tantomeno dallo tsunami trovandosi ad una sessantina di chilometri dalla costa, nessuno dei suoi duemila abitanti è rimasto a risiedervi. I venti che soffiano dal mare continuano a trasportare atomi di Cesio 137 e Stronzio 90, assieme a finissime particelle di Uranio liberatisi dai tre reattori fusi, che si depositano sul terreno. Le montagne che delimitano le splendide vallate di questa regione sono state una delle cause della sua rovina, incanalando le correnti provenienti direttamente dalla centrale nucleare. Così, mentre attraverso le strade di Iitate, non vedo altro che desolazione ed abbandono: case chiuse, negozi vuoti, pali della luce arrugginiti, cartelloni pubblicitari avvolti nella vegetazione. E al posto delle mandrie di mucche la cui carne era famosa in tutto il Giappone, oggi vedo solo ruspe che scavano il suolo sino a venti centimetri di profondità nella speranza di estirpare la radioattività.
Tutta la terra dragata viene poi raccolta in grossi sacchi neri numerati e stoccata in appositi siti in attesa di trovare un modo sicuro per decontaminarla.
Questo immane lavoro dovrà essere fatto su tutta la superficie colpita dal fallout, vale a dire una striscia di territorio lunga una cinquantina di chilometri e larga dai cinque ai venti. È la lingua lungo la quale gli elementi che fuoriescono dalla centrale si disperdono nell’aria prima di depositarsi a terra. Migliaia di metri cubi di suolo sono già stati raschiati, ma è solo una piccolissima parte di ciò che si deve ancora completare.
Per snellire il lavoro ed evitare di saturare i centri di raccolta, nelle zone meno colpite ci si è limitati a sotterrare il terreno radioattivo coprendolo con suolo incontaminato. Nessuno, però, è in grado di promettere che l’emergenza sia terminata: il Cesio 137 potrebbe trovare il modo di giungere in superficie o, viceversa, penetrare più profondamente trasportato dalle piogge sino ad incontrare falde acquifere inquinandole.
Lontani da Fukushima
Al termine del mio viaggio visito uno dei tanti centri temporanei in cui sono stati smistati circa centocinquantamila abitanti della zona evacuata. Le abitazioni sono state ricavate in container ed ogni famiglia ha diritto ad una o due camere da letto, un minuscolo bagno, una cucina. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla totale mancanza di privacy: gli «appartamenti» sono separati da sottili pareti da cui trapela tutto, e la convivenza diviene molto difficile, specialmente per coloro erano abituati a vivere in grandi case coloniche separate le une dalle altre da distese di campi.
Così, per mitigare la disperazione, molti contadini, appena possono, durante il giorno ritornano nelle loro dimore con la scusa di dover accudire al giardino o di prendere qualche vestito.
Per aiutarli il Centro di Volontari per la Ricostruzione di Minamisoma, in collaborazione con la Caritas locale, organizza giornalmente alcuni campi lavoro. Partecipo a uno di questi: ripulire dalle sterpaglie il giardino di una casa appartenente a un vecchio contadino. Un lavoro «a perdita», nel senso che tutti i partecipanti sanno che la zona non sarà abitabile per anni (se non per decenni), ma «oltre all’aspetto pratico dobbiamo valutare quello psicologico», chiarisce il coordinatore del gruppo. «Il solo fatto di sapere che c’è gente che ti aiuta, che non sei solo a lottare, infonde quella speranza di cui molti hanno estrema necessità per poter continuare a vivere».
La speranza che molti giovani hanno già perduto, abbandonando una terra ormai sterile e cercando di rifarsi una vita. Lontani da Fukushima.
Gli Eventi
11 marzo 2011, ore 14.46: un forte terremoto fa tremare la terra della provincia del Tohoku, nel Nord del Giappone. Con l’interruzione di energia elettrica, i generatori di emergenza della centrale nucleare di Fukushima entrano in funzione.
Ore 15.27: arriva la prima onda dello tsunami causando lo spegnimento della pompa di raffreddamento del reattore numero 1.
Ore 15.46: la situazione si aggrava con l’arrivo della seconda onda, la cui altezza (circa 14 metri) supera il muro di sbarramento a difesa della centrale, costruito per fronteggiare tsunami di massimo 10 metri.
Ore 19.30: i sistemi di raffreddamento si sono interrotti e il combustibile del reattore numero 1, senza liquido di raffreddamento, inizia a fondere.
Ore 21.00: la situazione è compromessa, tanto da indurre il governo a dare l’ordine di evacuazione di tutti coloro che vivono entro un raggio di 3 km dalla centrale.
12 marzo 2011, ore 04.15: le barre di combustibile del reattore numero 3 iniziano a fondere.
12 marzo 2011, ore 21.00: l’ordine di evacuazione viene esteso a 20 chilometri dalla centrale.
14 marzo: è la volta del reattore numero 2 (la Tepco ammetterà soltanto nel maggio 2011 la fusione dei reattori).
settembre 2013: i problemi continuano. Acque radioattive vengono riscontrate dall’altra parte dell’oceano, in California.
PER APPROFONDIRE
• Nicola Armaroli – Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli, Bologna 2011 (il saggio ha vinto il Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica).
• Mirco Elena, Cheobyl e il Trentino. La paura atomica nel piatto, Trento 2007 (l’ultimo capitolo è dedicato a come i media dell’epoca trattarono l’evento, sottolineando anche errori e imprecisioni). Per eventuali richieste: elena@science.unitn.it.
GLI AUTORI
• Piergiorgio Pescali – Gioalista e scrittore, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, penisola coreana e Giappone. Suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Bbc, Cnn, Avvenire, Il Manifesto, Panorama e riviste specializzate. Dal 2010, cura per Asia Maior (www.asiamaior.org) il capitolo sul Myanmar. Ha scritto il saggio Indocina, Edizioni Emil, Bologna 2010.
Il suo blog: www.pescali.blogspot.com.
• Mirco Elena – Fisico e ricercatore trentino, lavora da anni come divulgatore scientifico. Si occupa in particolare di pace e disarmo, di rapporti tra scienza e società e di energia nucleare.
• Tiziano Tosolini – Missionario saveriano. Vive a Osaka, in Giappone, e dirige il Centro Studi Asiatico. Oltre che di cultura e religioni (si veda il suo Inteo giapponese. Tracce di un dialogo tra Oriente e Occidente, Emi, Bologna 2009), si occupa anche di filosofia giapponese (Scuola di Kyoto), e ha ultimamente tradotto il
volume di Tanabe Hajime, Il nulla e la croce. Due saggi filosofici su Buddhismo e Cristianesimo, Mimesis editore, Milano 2013.
• Paolo Moiola – Redattore MC, per il coordinamento giornalistico del dossier.