Oltre il Circolo polare artico

testo e foto di Valentina Tamborra |


Una storia che ha dell’incredibile. E affonda le sue radici in sei secoli fa.  Ma c’è qualcuno che la tiene viva, in un remoto e sconosciuto angolo del mondo. Una vicenda che crea legami tra due popoli. E pochi lo sanno.

Il 25 aprile del 1431 Pietro Querini, un nobiluomo veneziano, mercante ed esploratore, salpò da Candia (l’odierna Creta) alla volta delle Fiandre con un carico di 800 barili di Malvasia, cotone, spezie e altre merci.

Non poteva immaginare che si sarebbe ritrovato sulle coste delle allora sconosciute isole Lofoten, precisamente sull’isola disabitata di Sandøy, vicino a Røst. Furono i venti e i mari a decidere la sorte del capitano e del suo equipaggio. Questa è la storia di un naufragio che da sventura diventò opportunità, che da tragedia si trasformò in un secolare rapporto di amicizia: ancora oggi infatti, l’isola nella quale Querini e i superstiti del suo equipaggio furono accolti e ospitati, serba intatto il ricordo di quell’avvenimento.

Di 68 uomini della «Cocca Querina», solo 11 si salvarono, toccando terra il 14 gennaio del 1432: decimati dal naufragio, dalle condizioni terribili del mare, dalla notte polare e dal freddo artico, affamati e ridotti allo stremo delle forze, vennero salvati da alcuni pescatori dell’isola di Røst, che li ospitarono per circa quattro mesi nelle loro case. Quando il capitano Querini e i suoi uomini ripartirono, portarono con sé, insieme al ricordo della bontà d’animo e della semplicità di vita dei pescatori, un carico di quello che era il bene primario per l’isola: lo stoccafisso.

Fu così che un pesce dell’artico, che appartiene alle gelide acque del Nord, arrivò in Italia, precisamente a Venezia, diventando la prelibatezza che tutti conosciamo.

Il racconto di questa vicenda è oggi custodito in due luoghi affascinanti e carichi anch’essi di storia: la Biblioteca Apostolica Vaticana e la Biblioteca Marciana di Venezia. Il capitano Querini, infatti, scrisse di proprio pugno un diario che oggi è custodito in Vaticano, mentre alla Marciana viene conservata la deposizione di due marinai: Cristofalo Fioravante e Nicolò De Michiele, che con Querini scamparono al naufragio.

Ma oltre ai due manoscritti, cosa resta oggi di questo incontro?

Røst, l’ultima

Røst è un’isola piatta. A spezzare la linea dell’orizzonte solo un picco che ricorda il cappello di un mago, la montagna di Stavøya.

L’ultima isola delle Lofoten, non raggiunta, o quasi, dal turismo, è dedita interamente alla pesca e essiccazione del merluzzo che viene spedito principalmente in Italia, Spagna, Portogallo e Nigeria. Sono le particolari condizioni climatiche dell’Artico, infatti, a permettere l’essiccazione perfetta di questo pesce.

Singolare è anche il nome del particolare tipo di merluzzo pescato qui: Skrei. Il termine Skrei deriva infatti da un vocabolo (å skrida) che in antica lingua vichinga significa «viaggiare, migrare, muoversi in avanti».
Lo Skrei, infatti, compie ogni anno una vera e propria migrazione dal mare di Barents verso le acque più calde della costa settentrionale norvegese al fine di riprodursi.

Già nell’epoca vichinga le qualità del merluzzo erano conosciute e apprezzate. Una volta essiccato, poteva durare mesi ed essendo altamente proteico, costituiva un importante elemento per la dieta piuttosto povera degli abitanti delle isole remote.

Ancora oggi lo stoccafisso viene prodotto usando gli stessi ingredienti e lo stesso metodo dell’epoca in cui il capitano Querini naufragò su sull’isola: tutto naturale.

Røst conta oggi circa 500 abitanti, fra questi un solo medico, un poliziotto e un prete. La comunità è completamente coinvolta nella vita di mare. Chi non è un pescatore, pur non uscendo in mare ogni giorno, si dedica in qualche modo all’industria della pesca, per lavoro o per diletto.

I bambini ad esempio, durante le vacanze scolastiche, aiutano genitori e nonni nella pulizia del pesce. In particolare, imparano a tagliare le lingue che, una volta impanate e fritte, sono considerate una vera prelibatezza.

L’Italia

La piccola isola di Røst ha una peculiarità: l’eredità del passaggio degli italiani è talmente forte, da aver ispirato ben due realtà davvero particolari.

Qui infatti ha sede il comitato più a Nord della Società Dante Alighieri: il suo presidente è  Kjell-Arne Helgebostad, l’unico medico dell’isola. Kjell-Arne parla perfettamente italiano ed è ben lieto di fare da guida a chiunque desideri approfondire la storia di questa dimenticata porzione di mondo.

Il medico ha fondato anche una piccola biblioteca dove è possibile trovare libri in italiano e norvegese dedicati alla storia dell’isola e di Pietro Querini.

C’è poi una donna, un’artista eclettica e sognatrice: Hildegunn Pettersen. Cantante lirica originaria dell’isola, padre pescatore, vive oggi a Oslo dove canta e insegna musica.

È lei ad aver dato vita a un’opera lirica interamente dedicata alla vicenda del Querini. Ogni anno in agosto, viene organizzato il Querini Festival, durante il quale l’opera viene rappresentata sull’isola di Røst e coinvolge buona parte della comunità. Dalle altre isole, in molti raggiungono Røst per assistere alla rappresentazione.

Sul palcoscenico insieme a Hildegunn si possono trovare pescatori e produttori, esportatori di pesce, insegnanti della scuola, il medico e chiunque, sull’isola, voglia far parte della tradizione e della memoria.

I ragazzi della scuola hanno aiutato a costruire le scenografie, e sul palcoscenico campeggia un leone di Venezia in polistirolo dipinto d’oro che è in tutto e per tutto «uguale» all’originale.

Parte dell’opera Querini è cantata in italiano. Il sogno di Hildegunn è portare lo spettacolo a Venezia, magari proprio accanto al mercato ittico di Rialto, sotto il quale si celano le rovine di quella che fu «Casa Querina».

Un ristorante e una stele

Per ricordare il naufragio, sull’isola di Sandøya, nel punto più alto, si erge la stele dedicata a Pietro Querini. Furono gli abitanti di Røst a porla qui nel 1932 in ricordo dell’evento che sancì l’antica amicizia.

Sono passati quasi 600 anni da quando un pescatore dell’isola e i suoi due figli si imbatterono in quel gruppo di sopravvissuti

che non appartenevano al loro mondo: «Dopo che a parole e a gesti gli facemmo comprendere che eravamo naufraghi bisognosi di aiuto, cominciarono a parlare, ci dissero il nome dell’isola e tante altre cose di cui non capimmo nulla», scriveva Pietro Querini nel suo diario, e ancora oggi quell’antica ospitalità viene tenuta in vita.

Oltra alla stele di Sandøya sull’isola di Røst esiste un piccolo ristorante che è anche il punto di ritrovo della comunità: è il Querini Pub.

Gestito da Anna Cecilie, propone ricette locali e rivisitazioni del piatto più importante di queste parti: lo stoccafisso.

Svolvaer, Henningsvaer e «le altre»

La tradizione della pesca al merluzzo però, non fa parte solo del retaggio culturale della piccola isola di Røst.

Anche isole come Svolvaer, Henningsvaer, Leknes, seppure più conosciute come meta turistiche, hanno una fortissima storia legata al merluzzo.

L’economia di tutto l’arcipelago è strettamente legata alla pesca e ci sono luoghi come Ballstad, non lontano da Leknes, che sono essenzialmente villaggi di pescatori.

Le tipiche casette rosse costruite a ridosso della costa, chiamate rorbuer, sono nate come abitazioni dei pescatori norvegesi. Tradizionalmente spartane, ospitavano gli uomini che ormeggiavano la propria barca lungo i porti delle Lofoten. Oggi molti rorbuer accolgono turisti e sono diventate luoghi esclusivi, dai quali è possibile ammirare non solo la bellezza della natura, che pure in questi luoghi domina, ma anche l’andirivieni dei pescatori che ogni mattina, dalle quattro e mezza in avanti, salpano dal porto verso il mare aperto.

La vita e i ritmi della natura

Hemingway nel suo «Il vecchio e il mare» scriveva: «Chiunque sa fare il pescatore di maggio». E viene proprio da pensarlo qui, oltre il Circolo Polare Artico, dove la natura domina ed è l’uomo a doversi adattare a lei e non viceversa. Se è pur vero che i moderni sistemi di navigazione hanno ridotto di molto i rischi, è altrettanto vero che i mari del Nord sono particolarmente difficili da navigare. Capita talvolta, specialmente tra gennaio e aprile, i mesi durante i quali lentamente la luce fa capolino dopo la «blue season» (una stagione dell’anno dove la luce del sole è solo un tenue bagliore blu all’orizzonte), che in una giornata si arrivi a vivere quattro stagioni: il vento infatti, può cambiare nel giro di pochi secondi e un cielo azzurro e terso può trasformarsi in un «muro» di neve  che rende impossibile definire l’orizzonte. Se è vero che il gps aiuta a trovare la rotta, è anche vero che bisogna conoscere a menadito «le strade del mare», i fondali bassi, le rocce che con gli strani giochi di luce e le maree scompaiono alla vista e rischiano di far incagliare le barche.

Si esce in mare ogni giorno da queste parti, con qualsiasi condizione climatica: quello della pesca resta un mestiere pericoloso, e lo sa bene Håvard, un giovane pescatore la cui barca porta il nome del nonno, Åge Steinar.

Quando lo incontro, mi racconta dell’incidente di pesca che fu fatale per il nonno, esperto pescatore, nonché suo maestro.

La barca carica di pesce stava rientrando in porto quando all’improvviso una forte tempesta rese difficile la navigazione. La barca affondò portando con sé l’uomo. A nulla valsero gli sforzi di altri pescatori accorsi sul luogo della tragedia: solo Håvard riuscì a salvarsi. Eppure, nonostante tutto, come dicono da queste parti, nessuno vorrebbe cambiare mestiere perché: «Puoi togliere una barca al suo uomo, ma non un uomo dalla sua barca».

Storie di donne

Arrivando sul porto di Svolvaer, è facile scorgere, proprio poco distante dalla battigia, posta a picco su alcuni scogli, una statua dalla figura esile: è la moglie del pescatore. Una mano alzata a schermare gli occhi dalla luce Artica, scruta il mare in attesa del ritorno del suo uomo. È la rappresentazione tipica delle mogli dei pescatori. Donne che attendono e sembrano poco coinvolte nella vita di mare. Ma non è per nulla questo il ruolo di donne, come Lone e Line.

La prima, una trentenne con un tatuaggio sulla schiena che rappresenta tre stoccafissi e quello di un’ancora sul braccio destro, è una pescatrice. Fuggita dai ritmi della città, si è rifugiata a Røst dove oggi vive di pesca.

Lone ha dovuto farsi strada in un mondo ancora oggi prettamente maschile: inizialmente guardata con stupore, oggi è a tutti gli effetti «un lupo di mare». Nel tempo libero ama suonare il pianoforte e colleziona strumenti antichi, come un arpicordo che tiene appeso in salotto.

Line invece è una vraker, ovvero una selezionatrice. Figlia di pescatori, ha imparato il mestiere da un vero e proprio maestro: Ansgar Pedersen, dell’azienda Glea. Ogni giorno Line annusa migliaia di stoccafissi per stabilirne la qualità e il mercato di destinazione. Ha provato per un periodo a trasferirsi in città, abbandonando l’isola, ma non faceva per lei. Ha deciso di restare quindi a Røst dove oggi è sposata e ha due bimbi.

Line racconta che, fino a una ventina di anni fa, addirittura si diceva che «le donne in barca portassero sfortuna». Oggi invece il ruolo femminile all’interno del mercato della pesca è pienamente accettato.

Dove lavorare

Eppure non solo i norvegesi sono esperti pescatori: ogni anno infatti, durante la stagione della pesca al merluzzo da gennaio ad aprile,  sono in molti a raggiungere le Lofoten da zone come la Lituania, in cerca di lavoro.

È il caso di Arturas che, nella sua terra natale, era fotografo e cameraman. Dopo la crisi economica che ha colpito il suo paese ha dovuto reinventarsi. Oggi da gennaio a maggio si sposta alle isole Lofoten dove ogni giorno prende il mare con il suo capitano, Odd Helge Isaksen, a caccia dei migliori skrei.

Tra leggenda, superstizione e tradizione

Ogni uomo di mare, si sa, ha una storia da raccontare. Un’avventura particolare, una tempesta cui è scampato fortunosamente o una pesca particolarmente disastrosa.

Ma c’è sempre una «storia» a cui ogni pescatore è particolarmente affezionato. E ad essa, un po’ per superstizione, un po’ per tradizione, si collegano alcuni piccoli riti di buon auspicio. È il caso ad esempio, del saluto alla montagna di Vågakallen, un picco che domina il porto di Svolvær.

Nelle prime ore del giorno, quando il buio ancora avvolge il villaggio, i pescatori preparano le barche e prendono il mare. Prima di partire, però, fanno un inchino e un saluto a questa montagna: che li protegga, che li accolga nuovamente nel porto sicuro, carichi di pesce, al ritorno.
Durante la stagione della pesca non è difficile imbattersi in quello che è forse uno degli spettacoli naturali più affascinanti al mondo: l’aurora boreale.

In Norvegia queste scie colorate che accendono la notte artica, vengono chiamate Nordurljos: «Luci del Nord».

La leggenda narra che, ogni qualvolta il cielo si accende di questi colori brillanti, da qualche parte le Valchirie sono in battaglia: secondo il mito, i bagliori in cielo, dal verde al rosso al rosa, non sono altro che il riflesso del sole sulle armature delle guerriere.

Valentina Tamborra

Questo lavoro è diventato una mostra fotografica e un libro: «Skrei. Il viaggio», Valentina Tamborra, Silvana Editoriale, 2020.




Popolo Indigeno d’Europa

testo e foto di  Valentina Tamborra |


Nell’estremo Nord del continente da sempre vivono i Sami. Nella storia oppressi e assimilati, stanno oggi lottando per mantenere la loro cultura e tradizioni. A dispetto della modernità che avanza.

I Sami sono una popolazione indigena che oggi conta circa 75mila persone. Divisi dalle frontiere di quattro stati – Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia – vivono in un’area da loro chiamata Sapmi.

L’area ha una propria bandiera i cui colori identificano le sue diverse zone: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia, dove vivono la maggior parte dei Sami.

I nativi di queste zone sono comunemente definiti «lapponi». Il termine però, aveva inizialmente una valenza dispregiativa in quanto la parola svedese «lapp» stava a indicare una «toppa, pezza».

Solo nel 1989 è stato istituito un parlamento sami della Norvegia, in riconoscimento dei loro diritti. L’edificio è stato costruito nella città di Karasjok e la sua architettura ricorda la forma di un lovvo, ovvero una tenda (abitazione tradizionale dei Sami dediti all’allevamento delle renne), pur essendo moderno e all’avanguardia.

Inoltre, dal 1956 è attivo il Sami Council, organizzazione volontaria non governativa che ha come scopo la promozione della cultura e la difesa dei diritti e degli interessi di questo popolo.

La costituzione di un parlamento sami è di particolare rilevanza, in quanto i nativi del Sapmi hanno subito una sorte che sfortunatamente, nella storia, ha toccato diversi popoli nativi.

Sami, Valentina Tamborra

Assimilazione forzata

Tra il 1850 e il 1970 infatti, il popolo sami ha subito quella che è stata chiamata «norvegizzazione».

Durante questo periodo ai Sami residenti in Norvegia venne impedito di parlare la propria lingua e imposto di assumere un cognome norvegese per poter acquistare delle terre e integrarsi con il resto della popolazione norvegese. A quei tempi appartenere al popolo Sami era un marchio d’infamia.

Gli adulti vennero assimilati al modo di vivere occidentale e solo con estrema fatica alcuni di loro – soprattutto i Sami della tundra – continuarono a lavorare con le renne e a preservare la tradizione.

I bambini nati durante il periodo della norvegizzazione infatti, spesso non imparavano neppure la propria lingua. I genitori, per preservarli e far sì che si integrassero fra la popolazione norvegese, parlavano con loro solo nella nuova lingua. Ad oggi molti sono gli adulti che sentono di aver perso le proprie radici.

Una delle prime distinzioni da fare quando si parla di questo popolo è quella fra Sami di mare e Sami della tundra. I primi, vivendo lungo le coste dei fiordi che costellano il paese, sono stati fra i primi a subire il processo di norvegizzazione. Fra di loro, la percentuale di persone che non parlano Sami è molto alta. Mediamente le persone fra i 30 e i 60 anni di età, infatti, non conosco la propria lingua madre. Per ovviare a questo, sono in corso diverse iniziative per il recupero dell’identità: il parlamento sami, infatti, ha reintrodotto la lingua sami nelle scuole e con essa anche lo studio della tradizione e della storia. Esistono poi specifici corsi per adulti che desiderino apprendere la lingua.

I Sami della tundra invece, in quanto nomadi dediti all’allevamento delle renne, hanno subito meno la norvegizzazione e in città come Karasjok e Kautokeino, entrambe in Norvegia, l’85% della popolazione parla sami come prima lingua.

Sami, Valentina Tamborra

I nomadi della tundra

I Sami della tundra sono dediti all’allevamento delle renne e questo li rende nomadi in quanto debbono seguirne i movimenti.

Sin da bambini vengono iniziati dai genitori a questo lavoro che prevede un costante e completo contatto con la natura.

Le renne vivono in assoluta libertà e sono gli uomini a doversi adattare ai loro movimenti. Gli animali infatti, si spostano dalla costa alla tundra a seconda delle stagioni, e seguono la stessa tratta da millenni: lo spostamento segue questa rotta da quando i primi Sami iniziarono a vivere di questa attività, e il movimento è strettamente connesso alla ricerca di cibo da parte delle renne.

I Sami sono al seguito delle renne. Se una volta essi si avvalevano di slitte trainate da renne e sci, oggi le renne vengono dotate di collare gps, e un’apposita App permette di localizzare con più precisione possibile dove gli animali si stanno muovendo.

Questo ha ovviamente semplificato di molto il lavoro dei Sami: prima dell’avvento del gps infatti, era necessaria una costante vigilanza sulla mandria. Intere famiglie Sami vivevano per mesi smontando e rimontando il proprio lovvo seguendo il movimento degli animali. Quando la mandria si fermava a riposare, anche la famiglia poteva fermarsi, ma se gli animali si rimettevano in cammino bisognava immediatamente seguirli. L’ultima transumanza con le slitte e le renne è stata fatta, in Norvegia, nel 1976.

Oggi grazie alla moderna tecnologia, i Sami hanno costruito delle cabin (sorta di piccoli rifugi costruiti in legno, molto basici, vedi box) nelle tratte di percorrenza delle renne e, con potenti motoslitte in inverno e quad (specie di moto a quattro ruote) in estate, sono in grado di raggiungere gli animali molto velocemente.

Sami, Valentina Tamborra

La marchiatura

In estate, quando i nuovi nati fanno capolino nella mandria, è il momento della conta: ogni Sami si predispone a seguire la mandria e direzionarla verso grandi recinti dove ogni renna giovane verrà marchiata con il simbolo proprio del Sami che riuscirà a prenderla.

Portare le renne nei recinti della marchiatura è operazione tutt’altro che semplice: per loro natura infatti, in quanto animali liberi e non abituati all’uomo, le renne tendono a fuggire non appena qualcuno si avvicina. Così i Sami si dividono in gruppi: le motoslitte accerchiano le renne e, stando a una distanza importante (circa 200 metri), cercano di spingerle verso i recinti. Le renne si spostano naturalmente in una sorta di fila indiana che può raggiungere centinaia di metri se non a volte anche qualche chilometro. Raccogliere la mandria è un’operazione assai delicata in quanto se uno solo degli animali cambia percorso, tutte le altre renne lo seguono.

Dopo la marchiatura, che avviene con il tradizionale coltello Sami realizzato a mano utilizzando legno, osso e acciaio, le renne vengono immediatamente rimesse in libertà.

In inverno, tra dicembre e febbraio, sarà il momento di tornare nella tundra e scegliere quali animali verranno utilizzati per fornire carni, pelli e quanto serve per il sostentamento.

Oggi questa forma di allevamento è messa a dura prova in quanto, con lo scavo di nuove miniere e l’installazione di pale eoliche o tralicci della corrente, le renne trovano difficile orientarsi. La nuova conformazione del paesaggio nonché i rumori prodotti da queste installazioni disturbano gli animali durante la transumanza costringendoli a cambiare percorso e facendo loro spendere molta energia in più rispetto al passato. Questo mette a dura prova la mandria e molti animali non sopravvivono. La paura dei Sami, oggi, è quella di vedere nuovamente venir meno la propria tradizione e la propria cultura in nome dell’avanzamento tecnologico.

Sami, Valentina Tamborra

Nel profondo dei fiordi

I Sami di mare vivono prevalentemente lungo le coste norvegesi e non sono nomadi.

Il nome «Sami di mare» potrebbe suggerire una tradizione di pesca, ma in realtà essi si occupavano, in passato, prevalentemente di allevamento di ovini e di tessitura di lana. La pesca non rappresentava la principale fonte di sostentamento ma era parte dell’economia che si reggeva prevalentemente sul baratto. I legami fra Sami di mare e Sami della tundra infatti, erano e sono ancora oggi fortissimi. Le prime strade di collegamento con il resto della Norvegia infatti, vennero costruite solo nel 1970, dunque fino a quegli anni l’economia doveva per questioni di forza maggiore, basarsi sullo scambio fra le due popolazioni Sami.

Se i primi potevano fornire lana, materiale tessile e oggettistica realizzata in legno e osso (oggetti tipici chiamati duodji e dunque utensili come coltelli, calze in lana, coperte, il tutto rigorosamente fatto a mano), i secondi potevano rifornire i Sami di mare con pelli di renna (ottimo isolante dal freddo di queste zone oltre il circolo polare artico), e carne.

Oggi i Sami di mare svolgono i più svariati lavori: perfettamente integrati nel tessuto sociale norvegese, non vivono più di forme di baratto ma sono impegnati in lavori quali insegnanti, medici, cuochi.

Sami, Valentina Tamborra

Spiritualità e religione

Sebbene i Sami siano per lo più luterani, il loro legame con la religione d’origine, lo sciamanesimo, resta estremamente forte.

Lo sciamanesimo era un culto politeista che traeva la propria ispirazione dalla natura. Tra le più antiche divinità troviamo quindi la Madre Terra (colei che governa le nascite e dunque la vita) e il Dio del tuono.

Tra il XIII e il XVI secolo ci furono molte spedizioni missionarie atte a convertire i Sami al cattolicesimo e al luteranesimo. Con l’avanzata dei coloni scandinavi e norvegesi, intere comunità sami furono costrette ad abbandonare le pratiche religiose pagane.

Proprio in Norvegia, nel 1716, nacque il Seminarium Lapponicum: organizzazione con il compito di cristianizzare i Sami fornendo loro le Sacre scritture in lingua Sami. Questa iniziativa fallì in quanto la maggioranza ecclesiastica si oppose alla conservazione dei valori tradizionali (fra cui la lingua) e si procedette al sequestro e al rogo degli oggetti simbolici, come i tamburi, legati al culto pagano.

Fu con l’arrivo di Lars Levi Laestadius, nel XIX secolo, che avvenne una vera svolta.

Questo pastore luterano di origine sami fondò un suo proprio movimento, il Laestadianesimo.

Il primo precetto di questo movimento è la remissione dei peccati e l’incontro con lo Spirito Santo.

Dopo l’arrivo dei coloni infatti, complice il forte cambiamento di vita con l’imposizione di nuove abitudini, l’esproprio forzato dai terreni, la perdita della lingua madre, molti Sami erano caduti nella spirale dell’alcool.

L’alcool però era altresì associato alle pratiche sciamaniche, necessario per cadere in trance.

Laestadius, grazie alla fondazione del suo movimento religioso, aiutò i Sami a trovare una nuova salvezza dalla spirale di abbruttimento nel quale erano caduti dopo l’invasione dei coloni, ma allo stesso tempo impose loro concetti molto restrittivi creando fratture fra la comunità stessa. Chi non si convertiva, infatti, veniva guardato con sospetto e messo in qualche modo al bando dalla comunità.

Il racconto del processo di colonizzazione e di quanto avvenne in quel tempo è ben documentato nel film «La rivolta di Kautokeino» del regista Nils Gaup. Il film è incentrato sulla rivolta di un gruppo di Sami, nel 1852, contro un mercante locale e il suo alleato, un pastore luterano.

Ad oggi, come dicevamo, molti Sami seguono il cristianesimo ma continuano a conservare figure come il «guaritore». La differenza con il passato è che, se una volta il guaritore/sciamano, utilizzava il tamburo per mettersi in collegamento con gli Dei e guarire una persona, oggi la guarigione viene operata tramite l’uso della Bibbia e di Gesù. Questa mescolanza fra cristianesimo e paganesimo è ancora più forte quando scopriamo che alla celebrazione del Natale i Sami affiancano il «Nissetoget» per la celebrazione del Capodanno.

La notte del 31 dicembre, infatti, è usanza ritrovarsi verso le ore 20 per dar luogo a una lunga processione in maschera: ogni famiglia, nelle settimane precedenti all’evento, costruisce maschere e costumi.

Le maschere sono spaventose perché debbono rappresentare i demoni o comunque il «male» che verrà bruciato alla fine della processione, a mezzanotte, in un grande rogo simbolico per far iniziare il nuovo anno al meglio.

Con il rogo delle maschere, gli spiriti maligni vengono allontanati e si fa spazio agli dei benevoli a cui rivolgere le proprie preghiere per un anno nuovo sereno.

Sami, Valentina Tamborra

Le pietre del sacrificio

C’è poi un’altra usanza che dimostra come l’antico credo legato alla terra e alla natura sia radicato e forte. Nella tundra infatti, ci si può imbattere in quelle che vengono definite «pietre del sacrificio». Si tratta di grosse rocce su cui i Sami lasciano offerte (possono essere monete, corna di renna, carne) per ingraziarsi gli dei della natura e ottenere così una buona pesca o un buon anno di caccia o di allevamento.

Oltre alle pietre del sacrificio, restano ancora oggetto di attenzione e di culto altre rocce: un tempo infatti, prima dell’avvento del luteranesimo, i Sami identificavano come luogo sacro ove ritrovarsi a pregare, delle pietre di forma particolarmente allungata verso il cielo – luoghi che simboleggiavano l’unione fra terra e mondo invisibile.

Molto importante è poi per questa popolazione, il legame con gli antenati: la morte, che è vista come passaggio e naturale parte della vita, non è la fine di tutto. Per i Sami chi ci ha preceduto è in qualche modo eternamente presente. Una credenza diffusa infatti è che portare via un oggetto da una delle molte pietre del sacrificio, possa far infuriare gli spiriti che non daranno pace ai vivi sino a quando l’oggetto non verrà riposto nel luogo ove è stato trafugato.

Paganesimo, cattolicesimo, luteranesimo e sciamanesimo si fondono creando così una spiritualità molto forte che attinge alla tradizione antica.

Tutto questo è ben espresso nelle parole di un guaritore che per rispondere alla domanda «in quale dio credi?», ha usato la seguente espressione: «Che importanza ha il nome che gli dai? Se è uno, se sono molti? Ciò che conta, è che tutti si preghi per la pace».

Sami, Valentina Tamborra

La natura e la lingua

I Sami, sia di mare che della tundra, vivono strettamente a contatto con la natura. Questo li porta a un rispetto e a un rigore estremo.

Pur dovendo cacciare e allevare, non esiste Sami che non biasimi ad esempio la pesca o la caccia sportiva.

Per questa popolazione infatti, il rispetto della Madre Terra resta la base di ogni azione. Prima della caccia, prima della pesca, all’inizio della stagione della transumanza, si ringrazia e si chiede il permesso a Madre Terra per portare avanti la propria attività.

Un altro aspetto singolare e che racconta molto di quanto possa essere complicato e allo stesso tempo strettamente legata alle questioni ambientali la cultura Sami, è la loro lingua.

Catalogata in undici differenti dialetti, di cui uno estinto nel 1800 e l’altro nel 2003, solo sei di loro hanno una storia letteraria. È molto complicato comprendere e imparare questa lingua in quanto per una singola parola abbiamo talvolta più di 100 diverse espressioni, un esempio concreto è la parola neve. Vivendo nell’artico infatti, ove per circa sei mesi all’anno la neve, il ghiaccio e la poca luce fanno da padroni, è necessario poter definire al meglio uno dei componenti essenziali che determina la loro capacità di movimento e di lavoro in territori tanto duri come la tundra. E così per descrivere una neve secca, o fragile, o farinosa, o ghiacciata si usano parole completamente diverse fra loro.

Modernità e tradizione

Ad oggi risulta sempre più difficile per i Sami portare avanti il loro tradizionale stile di vita per via di diversi fattori che concorrono a rendere difficile la prosecuzione di una vita nomade e «al servizio» dei ritmi naturali: cambiamenti climatici, riduzione delle terre loro concesse per l’allevamento delle renne, nonché un turismo che raggiunge sovente mete che sino a poco tempo fa erano precluse proprio perché dedicate all’allevamento e al pascolo delle renne, sono tutti elementi che rendono difficile il mantenimento della tradizione.

In alcune città fra Norvegia e Svezia si sono già verificate proteste al fine di impedire la costruzione di nuove miniere, e alcuni capi della comunità dei Sami della tundra hanno provato a far sentire la loro voce ai propri governi. Nonostante ciò sembra inevitabile l’avanzamento del progresso e con esso, come spesso avviene, il sacrificio di realtà minori e dedite a una vita lontana dalla frenesia moderna.

Ciò che si spera, nella comunità, è che la tenacia, la forza di volontà e l’attaccamento alle radici consentano ai giovani Sami di portare avanti la propria tradizione anche se con fatica e sacrificio.

Valentina Tamborra

Sami, Valentina Tamborra

Vivere nelle cabin

Il riparo dei «rennari»

Le cabin, rifugi molto spartani, hanno sostituito l’utilizzo dei lovvo, tende tipiche che oggi vengono utilizzate essenzialmente per affumicare la carne di renna. Ciononostante la vita nella cabin è tutt’altro che agevole: l’energia elettrica viene fornita da un generatore posto all’esterno della cabin stessa e non è presente acqua corrente.

Date le temperature rigide dell’inverno, all’interno della cabin raramente si superano i 15 gradi e si è costretti a stare in molti dentro spazi davvero risicati. Spesso infatti gli allevatori condividono un rifugio formato da due o tre piccole stanze, in sei o sette persone.

L’acqua per cucinare o lavare le stoviglie viene ottenuta grazie al ghiaccio che si forma sulla superficie dei laghi. Raccolto in contenitori di metallo, viene poi sciolto sul fuoco.

Il bagno non è ovviamente presente, si costruiscono delle piccole capanne in legno a circa 200 metri dalla cabin.

I Sami che seguono la transumanza spesso restano nella tundra per due o tre settimane, adattandosi così a un modo di vivere estremamente semplice e spartano.

V.T.

Sami, Valentina Tamborra

 




Isole Svalbard, l’ultima frontiera

Testo e foto di Valentina Tamborra


L’arcipelago delle Svalbard sono il lembo di terra abitato più a Nord del pianeta. Qui la vita è dura e domina una natura estrema. Storicamente area di miniere, oggi sta prendendo piede anche il turismo. Ci vivono circa 2.200 persone di 40 nazionalità diverse. L’autrice vi ha condotto un particolare lavoro di approfondimento fotografico.

Le Isole Svalbard sono un territorio amministrato dalla Norvegia ma soggetto a un trattato internazionale che ne riconosce l’autonomia.

Si tratta di un arcipelago del Mar Glaciale Artico, di isole posizionate fra il 74° e l’81° parallelo Nord. Sono la parte più settentrionale della Norvegia e le terre abitate più a Nord del pianeta. Le terre emerse coprono un’area di circa 62.000 km2 e si trovano a circa 1.000 km dal Polo Nord geografico. Per questo l’immaginario comune le vuole interamente coperte dai ghiacci e con poche forme di vita (orsi polari, renne, volpi artiche, foche, balene). Il termine Svalbard infatti, significa «costa fredda».

Un progetto fotografico

«Mi Tular» in antico etrusco significa «Io sono il confine». In questo lembo di terra ghiacciata incastonato nel Mar Glaciale Artico, orsi polari e uomini si contendono un confine invisibile. La parola Tular riporta alla mente il mito dell’Ultima Thule, l’ultima isola del mondo conosciuto.

Questa è l’idea di fondo del mio progetto fotografico, che mi ha portata a viaggiare fino alle Isole Svalbard.

Quando ho deciso di indagare queste isole, ad attirarmi è stata proprio l’idea di assenza di confine: il deserto artico, per sua natura, è un mondo di ghiaccio e luce assoluta. Luce che spesso inganna gli occhi, i sensi, rendendo impossibile indovinare l’orizzonte.

Alle Isole Svalbard l’unico confine è quello fra esseri umani e animali: sono infatti le terre dell’orso polare, 3.500 orsi contro circa 2.200 abitanti.

Sulla mappa, il confine sicuro è indicato da una linea rossa che mostra la zona entro cui si può girare non armati: oltre è necessario possedere un fucile. Camminando per Longyearbyen, la città più popolosa delle Svalbard (sede dell’aeroporto e della residenza del Governatore, qui chiamato Sysselmannen), è possibile imbattersi in cartelli che indicano la fine del confine sicuro proprio con il disegno di un orso.

E in effetti alle Svalbard tutti hanno un fucile e tutti sanno sparare ma è il luogo con il minor tasso di criminalità al mondo. Nessuno infatti, spara a cuor leggero, nemmeno a un orso polare, perché la legge prevede, in caso di uccisione di uno di questi meravigliosi animali, un’inchiesta del tutto simile a quella che si avrebbe in caso di omicidio.

Un luogo multiculturale

Queste isole sono anche il luogo con la più alta concentrazione di nazionalità differenti: ben 40, anche grazie al Trattato delle Svalbard, il cui articolo numero 3 sancisce la piena libertà di diventarne cittadino legittimo senza necessità di visto, e recita così: «I cittadini di tutte le nazioni aderenti dovranno avere uguale libertà di accesso ed entrata per qualsiasi ragione od oggetto, qualsivoglia fiordo e porto dei territori specificato nell’articolo 1 (confini territoriali Svalbard, nda); sono soggetti all’osservanza delle leggi e regolamenti locali, possono mandare avanti senza alcun impedimento qualsiasi attività marittima, industriale, mineraria e commerciale, sulla base dell’assoluta uguaglianza.

Saranno ammessi alle medesime condizioni di uguaglianza, all’attività marittima, industriale, mineraria e commerciale, sia a terra che in mare e nessun monopolio dovrà essere stabilito da parte di alcuno».

È quindi possibile ottenere la residenza permanente senza bisogno di avere visti o permessi di soggiorno, ma non si ottiene così la cittadinanza norvegese. Infatti, ci sono persone che pur vivendo alle Svalbard da più di 10 anni non posso restare in Norvegia continentale per un periodo superiore da quello concesso dagli accordi fra il loro paese d’origine e la Norvegia.

Ma chi sono dunque gli abitanti delle Svalbard?

È un luogo dove non si può nascere: per questioni di sicurezza infatti le donne incinte vengono mandate a partorire sulla terraferma, a Tromsø, città a Nord della Norvegia. Ma non si può neppure essere seppelliti: a causa del permafrost, che «rigetterebbe» il corpo. Il permafrost è un terreno tipico delle regioni dell’estremo Nord Europa, della Siberia e dell’America settentrionale e risulta perennemente ghiacciato. In realtà durante l’estate i primi due metri di profondità, a causa del riscaldamento superficiale che può raggiungere anche i 10 gradi, si sciolgono dilatandosi. Quest’attività di congelamento e scongelamento dello strato superficiale determina un movimento di contrazione del terreno che agisce su quanto è interrato nel suo primo strato, facendo sì che risalga.

In queste isole come è possibile creare una propria identità? Esiste una memoria condivisa?

Questi sono gli interrogativi che mi sono posta e a cui le persone che ho incontrato hanno saputo fornire una risposta.

Le Svalbard prima di tutto hanno una memoria storica legata all’attività mineraria. L’estrazione del carbone infatti, è stata per anni l’unica fonte di lavoro e l’unica ragione per decidere di stabilirsi qui, in uno dei luoghi più inospitali del pianeta.Basti pensare infatti che in inverno la temperatura scende fino a -35° e che la luce è completamente assente da novembre a febbraio. Tempeste di neve sono all’ordine del giorno e negli ultimi tempi, a causa del cambiamento climatico, ci si è trovati a fare i conti anche con il rischio di valanghe.

Passato e presente di miniere

Ad oggi due sono le miniere ancora attive alle Svalbard: la Mine 7, a Longyearbyen, e l’altra a Barentsburg, cittadina abitata da 500 minatori di nazionalità russa e ucraina.

Ho incontrato alcuni minatori e con loro sono scesa nelle viscere della montagna: 200 metri sotto il ghiaccio ho trovato un mondo nero, buio ma ricco di vita. Uno dei minatori, Tommy, lavora qui da oltre 20 anni. La miniera è «casa sua», nonostante sia originario di Oslo.

Tommy nel tempo libero compone canzoni e scrive fiabe per bambini: lontano dallo stereotipo del minatore rude e schivo, ha sempre il sorriso e la battuta pronta.

Mi racconta che oggi le Svalbard vivono prevalentemente di turismo e che per loro, i minatori, è sempre più difficile vivere qui.

Ogni mattina Tommy si sveglia alle 4,30 e alle 5 è già in miniera per preparare il caffè per i suoi ragazzi. Si prende cura degli altri minatori, come un padre, forse proprio perché conosce questo lavoro duro e antico che porta gli uomini a muoversi in cunicoli alti poco meno di un metro.

Ci sono dei passaggi infatti, in cui ci si può muovere solo carponi.

Eppure quello che mi viene raccontato dai minatori, non solo da Tommy, è l’attaccamento a questi luoghi: la miniera è una sorta di rifugio oltre che lavoro. È un mondo altro, nascosto sotto al ghiaccio, è forse la vera natura di questo luogo così remoto che sono le Svalbard.

«Ieri sera hai visto cosa faccio per divertirmi, oggi vedi cosa faccio per vivere». Questa è la frase con cui mi accoglie Daniel, 24 anni, uno dei ragazzi che lavorano con Tommy. Sì, perché la sera prima l’avevo visto cantare nel coro della compagnia mineraria Det store Norske.

Molti dei minatori cantano nel coro ma non solo loro: ne fa parte infatti, anche il direttore dell’unico ospedale dell’isola, il prete e uno dei capi della compagnia mineraria.

Un gruppo variegato che, come è normale su queste isole, non fatica a condividere provenienze e formazioni diverse ma anzi ne fa un punto di forza. Canzoni folk, ma anche repertorio blues e pezzi conosciutissimi come «sixteen tons» fanno parte dei loro concerti.

Turismo alle Svalbard

Ma c’è un altro lavoro che è diventato fondamentale alle Svalbard: la guida turistica. Con l’incremento del turismo infatti, è sempre necessario avere figure preparate che sappiano guidare le persone alla scoperta di un territorio selvaggio e pericoloso.

Incontro una di loro, giovanissima, Astrid: trasferitasi qui tre anni fa con l’idea di rimanere solo per una stagione, ha deciso di stabilirsi alle Svalbard e farne casa propria. Oggi lavora per Svalbard Husky e tutti la conoscono come «la fiamma» per via dei suoi capelli rosso fuoco che spiccano nel paesaggio bianco che ci circonda. Astrid insegna ai turisti come guidare una slitta trainata dai cani, e con loro raggiungere posti meravigliosi come la blue cave (una spettacolare grotta di ghiaccio azzurro che si confonde con il cielo). Mi racconta che qui non è così facile però trovare casa, soprattutto per le guide. I prezzi sono alti, le case poche e spesso le guide si ritrovano a condividere un piccolo appartamento in 3 o 4 persone.

Questa, dice, è la parte più difficile del vivere qui: non avere un posto proprio.

Pyramiden

C’è poi da raccontare di un altro luogo, ancora più isolato, Longyearbyen, ovvero Pyramiden, un insediamento minerario russo semiabbandonato ormai dal 1998.

Città fondata nel 1910 da minatori svedesi, venne venduta alla compagnia mineraria Russkij Grumant e in seguito, nel 1930, alla Arktikugol che tutt’ora ne è proprietaria pur rimanendo Pyramiden terra norvegese. Insediamento costruito per ospitare circa mille persone, non solo minatori ma anche le loro famiglie e un ufficio del Kgb, era fornito di ogni comodità: una biblioteca, un ospedale, una scuola, ma anche un cinema e una piscina pubblica. L’erba che ricopre il suolo era stata importata dall’Ucraina al fine non solo di abbellire il luogo, ma anche e soprattutto di consentire la coltivazione di frutta e verdura. Doveva infatti fungere da città modello del perfetto comunismo: l’insediamento mostrava al mondo la grandezza dell’Unione Sovietica.

Oggi in questo luogo a ridosso del ghiacciaio Nordenskjoldbree, dove comunicare è possibile solo grazie a telefoni satellitari o via radio, vivono undici persone fra cui un governatore: Petr Petrovich.

Qui il cibo viene portato tramite elicottero e paracadutato sulla comunità. La comunicazione con questa «porzione» delle Svalbard è possibile tramite motoslitta in inverno (con un viaggio di quasi un giorno) e tramite nave in estate. Ad oggi è possibile visitare Pyramiden con dei tour organizzati di qualche ora: si possono vedere gli edifici semi abbandonati e bere un caffè o una tipica grappa russa all’unico bar e hotel del luogo.

In pochi si fermano per più di poche ore nonostante l’hotel sia accogliente: è un luogo remoto, dove la natura domina e dove è facile infatti sentirsi in soggezione.

Eppure chi vive qui oggi, ha fatto questa scelta proprio per fuggire al «rumore» del mondo.

Zheka, la guida che mi ha condotta in giro fra edifici abbandonati e ghiacciai incontaminati, lascia Pyramiden solo una volta l’anno per uno o due mesi. Mesi in cui si dedica alla sua grande passione: la musica. Organizza concerti, suona diversi strumenti e viaggia in giro per il mondo. Poi, torna nel suo angolo di paradiso, o almeno lui così lo definisce.

C’è anche Barentsburg: l’altra «grande» città delle Svalbard. Cinquecento minatori russi e ucraini che difficilmente parlano inglese e che vivono solo e soltanto attorno alla miniera. Anche qui è presente un hotel e due bar (uno di questi però riservato ai soli minatori) ma davvero pochi turisti decidono di fermarsi a Barentsburg

Architettura tipicamente sovietica, Barentsburg fu fondata nel 1932 da una compagnia carbonifera olandese che la cedette in seguito alla sovietica Arktikugol’, che tutt’ora gestisce la miniera.

Dista circa 55 km da Longyearbyen ma non vi sono strade di collegamento fra i due centri abitati. Per raggiungerla infatti, ho compiuto un lungo viaggio in motoslitta: quasi 5 ore la sola andata.

Non ultima in termini di importanza, la cittadina di Ny-Ålesund è un insediamento situato nel Nord Ovest dell’isola, popolato da circa 200 abitanti in estate e soltanto 30 in inverno, per lo più ricercatori scientifici. Anch’essa è raggiungibile in nave durante il periodo estivo e in motoslitta (circa sei ore da Longyearbyen).

Un archivio mondiale

Ma c’è un altro fatto che caratterizza le Svalbard. Abbiamo detto che la memoria storica è legata al carbone e dunque l’identità del luogo è strettamente connessa al lavoro dell’uomo. Ma è proprio qui alle Svalbard che trovano sede due realtà interessantissime: Il Global seed vault e l’Arctic world archive.

Il primo è una sorta di «banca mondiale dei semi»: in caso di guerra, di disastro nucleare o carestia l’umanità trova qui una sua riserva per ripartire. Semi da tutto il mondo giacciono addormentati sotto il permafrost.

Ma se l’uomo per vivere ha bisogno di cibo è pur vero che ha bisogno anche di ricordarsi da dove viene: ed è con questa idea che la Piql, azienda norvegese, ha creato l’Arctic world archive.

Sito nella miniera numero 3, ormai in disuso, il container ospita, scansionati su un’apposita pellicola creata dalla Piql in un polimero segreto, alcuni fra i documenti più importanti della storia dell’umanità.

I primi a portare qui documenti sono stati l’archivio della Biblioteca apostolica vaticana, l’Esa (Ente spaziale europeo), l’archivio Alinari e la cineteca di Bologna.

In un luogo privo di confini e con una memoria recente dunque, nasce il tentativo di creare una memoria del mondo.

Questa è davvero forse l’ultima Thule.

Valentina Tamborra

 

 




Viaggio in Norvegia: le scelte di Oslo

La ricetta norvegese


Testo e foto di Piergiorgio Pescali


Da molti anni la Norvegia si situa ai primi posti nella classifica dell’Indice di sviluppo umano. I suoi abitanti – poco più di 5 milioni – hanno un’elevata qualità della vita. Il Fondo sovrano norvegese – che gestisce i corposi proventi del petrolio – è ricchissimo, ma anche attento all’etica dei propri investimenti. Nonostante tutto questo, ci sono questioni aperte. Per esempio, anche a queste latitudini i problemi ambientali sono in rapido aumento. Inoltre, i norvegesi stanno cercando di porre un freno all’immigrazione, anche premiando partiti populisti anti immigrati. La ricetta complessiva rimane buona, ma oggi il paese deve trovare risposte adeguate alle nuove sfide.

«Guarda la mappa della Norvegia: un pugno con un dito indice che si allunga verso nord, quasi come a voler toccare l’inviolabile, le terre ostili che si frammentano nel Finnmark». Morten Andreassen mi mostra la cartina della Norvegia mentre è seduto su un masso addentando con gusto un panino. Sta studiando per ottenere un Master in Scienze della globalizzazione e sviluppo sostenibile all’Ntnu, l’Università norvegese di Scienze e tecnologia di Trondheim, l’istituto scientifico più prestigioso del paese dalle cui aule sono usciti cinque premi Nobel. Ogni anno l’Ntnu organizza il Big Challenge Science Festival, uno dei simposi scientifici più seguiti al mondo in cui, per quattro giorni, scienza e spettacolo si mischiano in una serie di eventi memorabili coinvolgendo moltissimi dei duecentomila abitanti di Trondheim e trasformando questa cittadina in una capitale della cultura scientifica, umanistica e artistica.

L’atmosfera tranquilla, ma al tempo stesso pregna di stimoli intellettuali di Trondheim, associata all’eccellente livello di insegnamento impartito nell’Ntnu ha fatto sì che i suoi ricercatori e studenti siano contesi da compagnie e centri di ricerca di tutto il mondo: «Potenzialmente abbiamo un tasso di disoccupazione inferiore allo zero», scherza Magnhild, la ragazza che viaggia con Morten.

Lei, dopo la laurea, è tornata a Tromso, la cittadina dove è nata, per lavorare in una compagnia che si occupa di energie rinnovabili. Magnhild è andata a Oslo a trovare la famiglia di Morten e quest’anno hanno deciso di tornare a Trondheim percorrendo a piedi i 643 chilometri del «Sentiero di Sant’Olav» (foto alle pagine 41-42), il cammino di pellegrinaggio che, partendo dalla Vecchia Chiesa di Aker ad Oslo termina alla cattedrale di Nidaros, dove nell’XI secolo fu sepolto Olav Haraldsson (995-1030), il Rex Perpetuus Norvegiae e patrono della nazione (nonché santo e martire per la Chiesa cattolica).

«Non siamo credenti, anzi siamo atei convinti, ma abbiamo approfittato di trascorrere quattro settimane a stretto contatto con la natura per raccogliere dati sui cambiamenti climatici per le nostre ricerche».

Il Sentiero di Olav, l’università di Trondheim, la passione di Morten e Magnhild per la natura – espressione del friluftsliv[1] che accomuna i norvegesi – e il rispetto verso l’ambiente sono le basi da cui parto per cercare di comprendere quale possa essere stata la chiave che ha portato, in pochi decenni, un popolo povero e circondato da una natura ostile ad occupare oramai da diversi anni, le prime posizioni nelle statistiche dell’Indice di sviluppo umano[2].

Una tigre in Norvegia: la città contro la natura

La statua della tigre che ruggisce – realizzata da Elena Engelsen e dal 2000 posta fuori dalla stazione ferroviaria di Oslo – è forse l’emblema di una città e una nazione che sta cambiando più velocemente di quanto vorrebbe. L’artista voleva rappresentare la vivacità e lo sviluppo della Tigerstaden, la città della tigre, il soprannome con cui oggi è conosciuta Oslo, ma a molti norvegesi il felino ricorda i versi scritti nel 1870 dal poeta Bjornstjerne Bjornson, premio Nobel nel 1903 e autore delle parole dell’inno norvegese, il quale contrapponeva l’immagine pericolosa, violenta e aggressiva della città a quella bucolica, pacifica e genuina della campagna[3].

Sicuramente ai turisti orientali che sempre più numerosi affollano la capitale norvegese, quella statua ricorderà le «tigri asiatiche», le quattro economie dell’Asia (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) che negli anni Novanta bruciavano le tappe dello sviluppo crescendo a dismisura sino a diventare il simbolo di quella riscossa asiatica che, più tardi, avrebbe trovato nella Cina la sua locomotiva.

L’economia norvegese non viaggia quanto le tigri asiatiche (ormai anch’esse sedate) ma la crescita del Pil continua ad aggirarsi attorno ad un onorevole 2% ed Oslo – con circa 700mila abitanti – è considerata la città che si espande più velocemente tra le capitali dell’Europa[4].

Definire la capitale della Norvegia una bella città è una forzatura e il paragone con le «colleghe» scandinave è impietoso: la sua storia è sempre stata offuscata dalle più regali Copenaghen e Stoccolma, i cui regni si sono succeduti pressoché ininterrottamente alla guida della Norvegia dal IX secolo al 1905, quando la nazione trovò la sua indipendenza. Città prettamente operaia e industriale, Oslo non ha certo la grazia di Bergen o il fascino dell’art nouveau di Alesund. Al contrario, la città, che riacquistò il nome originario solo nel 1925 abbandonando il toponimo di Christiania affibbiatole dal re di Danimarca Cristiano IV, è sempre stata quella descritta, con un misto di sagacia e melanconia, da Luigi Di Ruscio, il poeta-operaio emigrato dall’Italia nel 1957 e morto ad Oslo nel 2011: «Poi ci sono i lunghi inverni gelati con le giornate cortissime e le lunghissime notti, le nevi che persistono per mesi e alla fine da bianche che erano diventano nere ed Oslo diventa la città dalla neve nera»[5].

Eppure, l’amministrazione locale è riuscita a realizzare quello che, sino a pochi anni fa, sembrava impossibile: conferire una fisionomia e una personalità unica alla metropoli. Sapendo di non poter competere sul piano monumentale e storico con altri centri scandinavi ed europei, si sono scelti altri campi per rendere Oslo città appetibile al turismo e alla finanza: l’architettura moderna, la cultura e la natura. Gli amministratori norvegesi, con la collaborazione di architetti provenienti da tutto il mondo, hanno trasformato una città anonima e grigia in un interessante esperimento di design urbanistico quasi senza stravolgerne l’assetto storico e valorizzando gli edifici esistenti. Le gru che si innalzano da numerosi quartieri stanno rivoluzionando lo skyline di Oslo che, dal 2020 si doterà di nuovi spazi abitativi, finanziari e culturali offrendo a turisti e abitanti un nuovo volto, più moderno e accattivante.

Accanto all’Opera House stanno sorgendo centri residenziali e lavorativi hi-tech: il Barcode, il Sorenga, il Museo Munch, la Biblioteca nazionale, mentre nell’Aker Brygge tra pochi mesi verrà inaugurata l’immensa Galleria nazionale che si affiancherà al Nobel Peace Centre. Al tempo stesso i polmoni verdi, vero vanto del rispetto ambientale di cui si fregia la città, sono stati mantenuti. Un efficiente e relativamente poco costoso sistema di mezzi pubblici collega 24 ore su 24, sette giorni su sette, anche i quartieri più periferici. In meno di un’ora è possibile raggiungere piste da sci, rifugi immersi nella natura, sentieri montani lasciando la propria auto nel garage. Oslo non è bella, ma è sicuramente la città ideale in cui vivere.

Le sfide ambientali: cambiamento climatico, petrolio, disboscamento, turismo

Quello norvegese è tradizionalmente un popolo culturalmente coeso, che ha fatto del rispetto per la natura uno dei suoi cavalli di battaglia.

«Se chiedi ad un turista medio cosa vorrebbe vedere andando in Norvegia ti risponderebbe “i fiordi”; un turista un po’ più accorto aggiungerebbe Capo Nord o Lofoten. Pochi si aspettano di vedere città come Oslo o Stavanger» mi spiega Gunn Wadzynski, attivista ambientalista di Greenpeace, che poi continua: «Lo stereotipo della Norvegia è che sia un territorio selvaggio, inesplorato, incontaminato e, soprattutto, non inquinato. Purtroppo, la realtà sta cambiando molto velocemente: l’ambiente soffre sempre di più e non solo per i cambiamenti climatici, ma anche per lo sfruttamento che noi norvegesi operiamo sul nostro territorio».

Ogni anno dieci milioni di turisti arrivano in Norvegia, di cui tre milioni su navi da crociera ed oramai il 4,2% del Pil dipende dal loro[6].

L’aumento del turismo è sicuramente una delle cause del degrado ambientale, ma il danno più evidente è dovuto ad un fattore esterno – i cambiamenti climatici mondiali – e uno interno, il continuo dissanguamento delle risorse naturali, causato in particolare dall’estrazione petrolifera e dal disboscamento.

Nel 2016 la temperatura media nelle Svalbard, il piccolo arcipelago situato più a settentrione del paese, è stata di 6,6°C superiore a quella normale[7]. Anche se i dati relativi a questa statistica sono stati contestati da molti ricercatori in quanto basati su una rilevazione effettuata presso l’aeroporto di Longyearbyen e quindi falsati dal microclima esistente in quella specifica parte dell’isola, è un dato di fatto che la coltre di ghiaccio in tutto il Circolo polare artico si sta assottigliando[8].

Per contrastare l’aumento di temperatura, la Norvegia si è data come obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 40% rispetto al 2005.

Uno studio preliminare ha individuato che il 74% delle emissioni di gas serra proviene da due settori: trasporti e agricoltura[9]. È quindi in queste due attività che il governo ha cercato di intervenire con più incisività.

Tra il 1990 e il 2013 sono stati disboscati 140mila ettari di foresta, cosa che ha contribuito per il 4-5% dell’emissione della CO2. Il 33% della deforestazione è stato effettuato per costruire nuove strade, ferrovie e abitazioni, l’11% per linee elettriche e impianti sciistici e il 31% per usi agricoli[10].

«Il 21% dell’abbattimento avviene prima che l’albero raggiunga lo stadio V, la fase oltre la quale il fusto ha ormai sorpassato il tasso di massimo assorbimento di anidride carbonica ed è pronto per la sostituzione», specifica Sigurd Sivertsen, del dipartimento di ingegneria ambientale all’Ntnu[11].

Durante il XX secolo la Norvegia ha implementato una politica di rimboschimento e nei prossimi anni le foreste piantate negli anni Cinquanta e Sessanta raggiungeranno la loro completa maturazione con una diminuzione del tasso di assorbimento di CO2. Per ripristinare la fotosintesi clorofilliana necessaria per mantenere l’equilibrio naturale, nel 2013 la Norwegian environment agency ha proposto la riforestazione di 100mila ettari di terreno per i successivi venti anni che, una volta completata, potrebbe rimuovere 1,8 milioni di tonnellate annue di CO2 nel 2050[12].

Per accelerare l’accrescimento del tronco fino ad un 10-15%, i laboratori di ricerca norvegesi hanno sviluppato un programma di modificazione genetica che, sommato alle tecniche di inseminazione, potrebbe permettere di stare al passo con il programma di assorbimento dei gas serra senza aumentare la superficie boschiva del paese.

Naturalmente questa tecnica invasiva ha riscontrato l’ostilità di numerose organizzazioni ambientaliste: Turid, dell’associazione radicale (e per molti versi cospirazionista) Green Warriors di Bergen afferma che «Il 75% dei nuovi semi utilizzati per la sostituzione degli alberi abbattuti in Norvegia sono geneticamente modificati. In questo modo le politiche ambientaliste del nostro paese sono un palliativo per permettere comunque alle compagnie che contribuiscono all’aumento delle temperature mondiali di continuare a operare le loro politiche distruttive». La critica di Turid ha un fondo di verità, ma la realtà norvegese ci offre una visione molto più variegata che è osservata con interesse da molti attori internazionali: nel 2015 le energie rinnovabili rappresentavano il 46% dell’energia totale fornita al mercato norvegese. Certamente la bassa densità di popolazione e la ricchezza del territorio (il 40% dell’energia utilizzata è idroelettrica[13]) gioca un ruolo determinante nel successo del modello Norvegia, che comunque è ancora lontana dall’escludere le fonti fossili dalla sua dipendenza energetica (il petrolio fornisce il 36,8% dell’energia e il gas naturale il 18,2%[14]).

Al tempo stesso l’utilizzo di fonti naturali permette alla nazione di avere un prezzo al consumatore tra i più bassi in Europa nonostante una tassazione del 38%: 38 euro/MWh (megawattora) contro i 54 euro/MWh che paga un italiano[15].

Così, nonostante un norvegese consumi 5,20 «Tonnellate di petrolio equivalente» (Tep) ogni anno contro una media europea di 4,11, l’impatto ambientale diretto è inferiore rispetto ai cittadini del Vecchio continente[16].

Elettrico sì, ma senza incentivi

Una delle principali azioni espresse dal governo di Oslo per contenere e ridurre l’impatto ecologico nella nazione è stata quella di sostenere l’uso dell’auto elettrica (Ev) mediante un programma di incentivi statali, introdotti sin dalla fine degli anni Novanta per aiutare lo sviluppo della Kewet, una macchina elettrica prodotta da una fabbrica danese che nel 1998 era stata venduta alla norvegese Elbil Norge As[17]. Nel 1997 le macchine Ev[18] hanno ottenuto l’esenzione completa dai pedaggi stradali, nel 1999 dal pagamento dei parcheggi (dal 2017 la gratuità è a discrezione di ogni municipalità), dal 2001 l’esenzione dell’Iva e dal 2009 vengono trasportate gratuitamente sui traghetti.

Qualcosa però sta cambiando anche nel paese: nel 2018 il 31,2% delle nuove auto vendute in Norvegia era Ev e Phev (auto ibride)[19], con queste ultime in costante ascesa[20]. Lungi dal rappresentare una coscienza ecologica popolare, le auto Ev vengono comprate per una questione economica più che ambientale: il 63% dei norvegesi che hanno un’auto completamente elettrica ha anche una seconda auto ibrida o a combustibile fossile.

I motivi sono diversi: in primo luogo lo sviluppo del sistema delle colonnine di ricarica che, pur essendo il più capillare d’Europa, è ancora insufficiente per rendere indipendente la circolazione sull’intero territorio. Al 2 aprile 2019 in Norvegia vi erano 12.612 ricariche (di cui 2.361 a carica veloce, 616 dedicate alla Tesla supercharges[21]); un incremento importante rispetto al 2011 (allora c’erano 3mila colonnine), ma che non segue quello delle vendite e questo ha disincentivato l’acquisto di auto esclusivamente Ev[22].

In secondo luogo, gli incentivi funzionano da motore per chi deve usare l’auto su strade a pedaggi e su traghetti: la più alta concentrazione di auto elettriche al mondo la si trova a Finnoy, un’isola di fronte a Stavanger. Qui il pedaggio del tunnel che connette l’isola alla terraferma costa 150 nok sola andata: un sondaggio della Neva (Norwegian Electric Vehicle Association) ha constatato che gli acquirenti hanno comprato le Ev per non pagare il pedaggio (300 nok al giorno).

Tutto questo, però ha un costo che comincia a diventare troppo ingente per l’economia norvegese: l’Istituto per l’Economia dei trasporti nel 2015 ha stimato che i mancati introiti per lo stato erano pari a 4 miliardi di nok, ancora sostenibili per l’economia norvegese, ma dovranno essere ben presto rivisti. Per ora il governo ha stabilito che le agevolazioni per l’acquisto di auto elettriche verranno mantenute fino al 2020 anche per permettere, entro quella data, alla città di Oslo di rispettare il programma di eliminare completamente i trasporti pubblici a carburante fossile utilizzando solo quelli elettrici.

Le prime voci di dissenso verso questa politica si fanno già sentire dagli scranni dell’opposizione parlamentare: «Non possiamo continuare a finanziare le macchine elettriche», dice Andreas Halse, portavoce per l’ambiente del Partito labourista. Anche le compagnie navali hanno cominciato ad alzare i toni della protesta, così come le società che gestiscono le infrastrutture stradali.

Paradossalmente gli stimoli economici hanno avuto un effetto deleterio sulla circolazione: oltre a non eliminare le macchine a combustibile fossile, disincentivano l’uso dei mezzi pubblici.

Oggi, dunque, il governo si trova di fronte al dilemma su come rendere il mercato delle auto elettriche appetibile al consumatore senza dover offrire promozioni.

Socialità e risparmio energetico

La Norvegia sta cercando di far fronte all’emissione di gas serra anche affrontando la questione del costo della vita che rende problematico per le giovani generazioni l’affrancamento dalle famiglie.

L’affitto medio mensile di un monolocale in centro a Oslo costa circa 1.000 euro, mentre l’acquisto varia da 4.000 euro al metro quadro per un appartamento fuori dal centro a 6.000 euro al metro quadro in centro[23]. Un salasso anche per uno stipendio medio norvegese che si aggira sui tremila euro netti al mese[24].

Dal 2020 le nuove costruzioni dovranno essere energeticamente completamente autonome così da risparmiare, entro il 2030, dieci TWh (terawattora) di consumo, mentre verrà vietato l’uso di riscaldamento fossile per tutti i restanti edifici (attualmente solo il 20% del parco immobiliare è dotato di riscaldamento con energia rinnovabile). Queste direttive (costose e impegnative) hanno indotto gli architetti norvegesi a cercare soluzioni alternative trovandole nelle abitazioni collettive, edifici in cui si cerca di coniugare l’indipendenza del nucleo famigliare con il taglio dei costi e la diminuzione dello spreco energetico. Il co-housing o collective-housing non è una novità nei paesi nordici essendo già praticato negli anni Settanta-Ottanta, ma con l’arrivo del benessere e della ricchezza era andato via via scomparendo. L’esigenza di una propria vita privata è stata preservata garantendo ad ogni famiglia un proprio spazio indipendente e riservato, mentre ci si affida alla gestione collettiva per quelle attività prettamente socializzanti, come una stanza comune per la mensa, le attività ricreative, il giardino.

Una trappola per l’anidride carbonica

Il governo, però, non si affida solo ai singoli cittadini per combattere l’effetto serra: dagli anni Ottanta la nazione ha intrapreso un percorso di ricerca e sviluppo nel campo del Ccs (Carbon capture and storage, Cattura e stoccaggio del carbonio), un processo che, dopo aver liquefatto l’anidride carbonica la inietta in una trappola geologica dove viene stoccata per centinaia di anni. È un metodo utilizzato per ridurre la quantità di CO2 liberata nell’aria, tanto che Oslo ha individuato nel Ccs una delle cinque priorità per contenere l’aumento di CO2 entro il 2030, ma il processo ha anche diverse problematiche evidenziate dagli ecologisti: il gas, che viene iniettato in sacche di terreno cavo (spesso dopo avere estratto petrolio o gas naturale), potrebbe liberarsi improvvisamente a seguito di terremoti avvelenando e asfissiando gli esseri viventi che stanno nelle immediate vicinanze.

Gli scienziati e tecnici norvegesi stanno sfruttando due siti offshore adatti al Ccs: Sleipner and Snøhvit, in cui la CO2 è insufflata a migliaia di metri di profondità (800-1.000 metri a Sleipner e 2.000 metri a Snøhvit), mentre un terzo giacimento esaurito (Troll, nel Mare del Nord) ha avuto il benestare del governo per il suo sfruttamento lo scorso gennaio[25]. «Sino ad oggi sono stati immagazzinati 21 milioni di tonnellate di CO2», spiegano alla Gassnova, l’azienda leader nella ricerca e sviluppo del Ccs, la cui esperienza ha permesso di esportare le tecniche Ccs maturate in Norvegia in diversi paesi (Cina, Indonesia, Sud Africa, paesi del Golfo Persico) e iniziare una collaborazione con molte istituzioni internazionali.

I centri di ricerca Ccs sono tre: il Tcm (Technology Centre Mongstad), Climit e il Norwegian Ccs Research Centre (Nccs). Tra questi il Tcm, operativo dal 2012, è il più grande al mondo ed è di proprietà di un consorzio di aziende guidate dalla Gassnova (77,5%), Equinor (7,5%), Shell (7,5%) e Total (7,5%)[26].

Il peso del petrolio sul Pil norvegese

In tutto questo bel programma ambientale il petrolio continua ad occupare una posizione rilevante nell’economia e nelle società norvegesi. Lungi dall’esserne indipendente, la Norvegia è ancora fortemente vincolata alle fonti fossili che contribuiscono per il 12% al Pil, per il 13% agli introiti erariali del governo centrale, per il 37% alle esportazioni e per il 21% agli investimenti nonostante la produzione sia diminuita del 40% rispetto al 2001 (due milioni di barili al giorno nel 2017 rispetto i 3,4 del 2001, ma nel frattempo la produzione di gas naturale è salita a 120 miliardi di metri cubi all’anno)[27]. E con riserve stimate in 90 miliardi di barili l’economia norvegese e i 200mila lavoratori impiegati nel campo petrolifero possono guardare con relativa tranquillità il proprio[28].

L’industria petrolifera norvegese è tra le più efficienti del mondo e viene vista come modello per altre economie.

Ogni anno si concedono licenze per esplorazioni già in atto e ogni due anni vengono messe all’asta licenze per esplorazioni in nuovi giacimenti. Nel maggio 2016 sono state vendute dieci licenze a tredici compagnie. Alla fine del 2015 la Equinor possedeva 259 licenze, mentre altri cinquantatré operatori ne avevano 182[29].

L’obiettivo a medio-lungo termine del governo non è solo quello di evitare il più possibile l’utilizzo delle fonti fossili nell’ambito nazionale, ma anche di rendersi paese trainante verso un programma etico e ambientale che coinvolga tutto il globo che escluda, nel limite del possibile, lo sfruttamento di energie provenienti da combustibili a base di carbonio.

L’industria petrolifera norvegese ha iniziato a decollare nel 1971, quando la Phillips Petroleum Company cominciò a sfruttare il giacimento di Ekofisk, nel Mare del Nord. Da allora l’oro nero ha rappresentato il carburante che ha alimentato lo sviluppo economico e sociale della nazione la quale, sebbene già relativamente più ricca rispetto al resto dell’Europa, ha cominciato letteralmente a essere inondata di denaro.

L’esportazione dell’oro nero frutta ogni anno alle casse di Oslo 210 miliardi di nok, ma la ricchezza derivata dall’estrazione off-shore non è mai stata ostentata dai protagonisti norvegesi che, in questo senso, si distinguono nettamente dai concorrenti arabi e asiatici.

A differenza della pacchianeria e della ridondante esibizione di questi ultimi, le compagnie petrolifere norvegesi si sono sempre distinte per il loro basso profilo comunicativo e la loro propensione sociale. L’esempio più evidente è visibile nell’eleganza e la linearità dell’enorme sede della Equinor, l’ex Statoil[30], la più grande e facoltosa azienda petrolifera del paese con un fatturato di 61 miliardi di dollari. L’edificio, a basso impatto ambientale, sorge a Fornebu, alla periferia di Oslo ed è stato costruito ad un costo di 1,5 miliardi di nok tra il 2009 e il 2012 dallo studio di architettura A-lab, lo stesso che ha realizzato l’avveniristico Barcode che si affaccia sul fiordo di Oslo[31].

Il Fondo pensioni norvegese, potenza finanziaria alla ricerca dell’etica

L’edificio della Statoil è l’esempio con cui la Norvegia ha amministrato i ricavi derivati dall’esportazione del petrolio. Sin dagli anni iniziali dello sfruttamento dei pozzi, il ministero delle Finanze pubblicava il documento «Il ruolo dell’attività petrolifera nella società norvegese» in cui si avanzava la domanda su come dovessero essere utilizzati i proventi dell’estrazione petrolifera[32].

Nel 1990 è stato fondato il Fondo petrolifero e il 1° gennaio 1998 lo stesso ministero ha affidato alla Banca di Norvegia la gestione delle azioni con la clausola che non si dovesse utilizzare una quantità di denaro superiore ai proventi degli investimenti, stimato nel 3% del capitale di 900 miliardi di euro distribuito in 73 paesi e in 9.158 compagnie[33].

Vi sono delle guide etiche che escludono dagli investimenti da parte del Fondo le ditte responsabili di violazioni di diritti umani, produzione di alcuni tipi di armamenti, produzione di tabacco, di carbone, inquinamento[34].

Così sono bocciate ditte come la Philip Morris, la Posco, Rio Tinto, la Loockheed Martin Corp. (ma la Norvegia è partner nella produzione dell’F-35[35]). Nel solo 2018 sono state escluse dal fondo ditte come l’Aecom, la Bae System, la Fluor Corp., l’Huntington Ingalls Industries Inc. (impegnate nella produzione di armi nucleari), la polacca Atal SA, la cinese Luthai Textile (violazione diritti umani), la Evergreen Marine Corp. Taiwan, Korea Line Corp., Precious Shipping Pcl, Thoresen Thai Agencies (violazione diritti umani e inquinamento ambientale), l’Evergy Inc. la PacifiCorp, Tri-State Generation and Transmission Association, Washington H. Soul Pattinson & Co Ltd (produzione di carbone), l’Halcyon Agri Corp. (inquinamento ambientale), la JBS South Africa (corruzione)[36].

Nel 2017 la Banca di Norvegia ha invitato il ministero delle Finanze a rivedere gli investimenti del Fondo pensioni consigliando di escludere azioni derivate da collocamenti petroliferi. Il consiglio del gestore è stato recepito dallo Storting[37] il quale ha deciso di eliminare 134 compagnie che hanno interessi nell’industria di esplorazione e estrazione petrolifera per un totale di settanta miliardi di nok.

Le critiche, però non mancano, a partire dalle organizzazioni anti Nato, che contestano il coinvolgimento norvegese nel progetto F-35, a compagnie private che si occupano di fondi d’investimento, come la Storebrand Asa, la principale agenzia norvegese che amministra 70 miliardi di dollari affidati da 1,2 milioni di norvegesi.

Jan Erik Saugestad, vice presidente della Storebrand Asa, è critico verso il pacchetto di investimenti effettuati dal Fondo nazionale. Secondo lui il Fondo dovrebbe impegnarsi con più incisività a convincere le compagnie petrolifere a promuovere maggiormente le tecnologie per energie rinnovabili escludendo completamente quelle che hanno ancora attività nel settore dei combustibili fossili. Nel suo ultimo rapporto, la Storebrand Asa ha individuato una lista di società su cui ha deciso di non investire[38].

Per la verità la lista è molto simile a quella del Fondo governativo, dato che la stessa Storebrand non esclude a priori queste società, ma solo quelle che, nel loro portafoglio, hanno guadagni provenienti da attività considerate critiche per l’ambiente superiori a una certa percentuale (ad esempio esclude compagnie che hanno entrate superiori al 5% in tabacco, al 25% in attività collegate al carbone, 20% in attività collegate a sabbie bituminose)[39].

La Storebrand, inoltre, ha recentemente accusato alcune compagnie petrolifere di boicottare le politiche di energie rinnovabili investendo milioni di dollari per impedire o rallentare la successione delle energie alternative da quelle petrolifere. Tra le società accusate vi sono la Bp (53 milioni di Usd – dollari Usa – annui per boicottare queste politiche), la Shell (49 milioni Usd), Exxon Mobil (41 milioni Usd), Chevron (29 milioni Usd), Total (29 milioni Usd). I metodi utilizzati dalle imprese includerebbero pressioni su politici, amministrazioni locali e sull’opinione pubblica[40].

Il rapporto della Storebrand, però, contrasta nettamente con quello di altre agenzie. La Reuter ha recentemente pubblicato una ricerca da cui si evince che le compagnie petrolifere, con in testa la Shell, hanno investito circa tre miliardi di dollari in acquisizioni di energie rinnovabili negli ultimi cinque anni, mentre uno studio della WoodMackenzie, una società di ricerca e consulenza energetica, ha evidenziato che Total, Shell e Equinor sono tra le compagnie petrolifere che investono maggiormente in energie rinnovabili. La sola Equinor investirà in questo settore entro il 2020, il 25% del suo budget di ricerca[41]41.

È stata ancora la Equinor ad aver sviluppato l’Hywind Scotland Pilot Park, il primo centro di produzione eolica mobile off-shore che si trova a venticinque chilometri dalle coste scozzesi di Peterhead, nell’Aberndeenshire. L’Hywind è un complesso di sei turbine eoliche con una capacità energetica di 30 MW (megawatt). Secondo la Windeurope, la Equinor fornisce con i suoi impianti eolici il 7% dell’intera capacità energetica eolica prodotta in Europa nel 2018[42].

La Norvegia e l’ondata migratoria: l’affermazione dei partiti populisti

Con la scoperta del petrolio in Norvegia sono iniziati ad arrivare immigrati estranei alla cultura scandinava: erano pachistani, iugoslavi, maghrebini che non hanno fatto fatica a essere assorbiti nella nascente industria petrolifera. Al tempo stesso, però, la caduta del Muro di Berlino, le crisi politiche ed economiche dell’Europa dell’Est, accompagnate dagli sconvolgimenti militari ed etnici del Centro Asia, Vicino Oriente e Africa hanno messo la Norvegia di fronte a un’ondata migratoria che ha contribuito a sviluppare scetticismo nei confronti all’Unione europea e sospetto verso i nuovi arrivati.

All’inizio del 2018 su 5.400.000 abitanti 746.700 erano immigrati stranieri a cui vanno aggiunti 170mila nati da genitori stranieri[43]43. In totale gli immigrati sono il 17,3% della popolazione e contribuiscono per il 58% all’incremento demografico della nazione[44].

«Il petrolio è stata la fortuna e, al tempo stesso, la sfortuna della Norvegia», sentenzia Bente, una ragazza di Tromso la quale ritiene, come molti suoi connazionali, che il paese dovrebbe porre un freno all’immigrazione.

Questa percezione è stata cavalcata con successo dai partiti populisti di destra e antieuropeisti, in particolare dal Partito del progresso (FrP, Fremskrittspartiet)[45] che, nato nel 1973 come movimento liberista per l’alleggerimento della tassazione con il nome di Anders Lange’s Party for a Drastic Reduction in Taxes, Fees and Public Intervention («Partito di Anders Lange per una drastica riduzione delle tasse e dell’intervento pubblico»), nel 1989, sotto la guida di Carl Hagen si è trasformato in partito anti-immigrati. Dal 2013 l’FrP, oggi capeggiato da Siv Jensen[46], è entrato a far parte della coalizione di governo guidata da Erna Solberg, del Partito conservatore (chiamato «Høyre», destra).

Da allora l’FrP, che nelle ultime elezioni parlamentari del 2017 ha ottenuto un consenso del 15,2%, ha sempre guidato il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) gestendo la politica migratoria della Norvegia. Tutti i sondaggi effettuati dagli anni Novanta che chiedevano quale partito avesse la migliore politica migratoria, hanno visto la netta prevalenza del Partito del progresso. Uno dei politici più popolari nel paese è Sylvi Listhaug, ministro dell’Immigrazione fino al 2018, la quale ha dato una svolta alla politica norvegese definendo «tirannia del buonismo» l’approccio europeo verso l’immigrazione e dichiarando che sarebbe stato più cristiano e ragionevole aiutare più gente possibile nei loro paesi attraverso programmi di aiuto.

Per la verità la stretta sulla migrazione non è prerogativa solo della destra: il primo passo in questo senso è stato fatto dal governo laburista di Gro Harlem Brundtland che con l’Immigration Act del 1988 ha gettato le basi per un maggiore controllo frontaliero, facili respingimenti e rimpatri forzati.

Dove nasce la strage di Utoya

L’attentato di Anders Breivik del 22 luglio 2011, che colpì gli uffici del governo e poi portò alla strage di Utoya, non attenuò l’ondata di risentimento anti immigrati che, anzi, si andò rafforzando anche con l’aiuto di una classe intellettuale aggressiva e critica nei confronti della politica nazionale ed europea. Le idee di Peder Are «Fjordman» Nostvold Jensen che avevano nutrito la mente di Breivik sono oggi rappresentate da scrittori come Kent Andersen, che nel 2011 tacciò il Partito laburista di kulturquislinger («traditore della cultura norvegese») affermando che il governo aveva trasformato la Norvegia in una «Disneyland multiculturale»[47].

Tra i politici di destra si è fatto largo anche il concetto di Eurabia, mutuato dai libri di Bat Ye’Or (soprannome di Gisèle Littman) e di Bruce Bawer[48]. Secondo questa teoria l’Europa sarebbe al centro di una manovra islamico-progressista-comunista il cui fine ultimo sarebbe quello di trasformare il continente in una colonia islamica con l’aiuto della stessa Unione europea. Nel 2009 Per-Willy Amundsen, ministro della Giustizia tra il dicembre 2016 e il gennaio 2018, dichiarò che i musulmani sarebbero diventati la maggioranza in Norvegia entro un ventennio.

Nonostante la Norvegia non abbia aderito all’Unione europea, il paese ha comunque condiviso la Convenzione di Dublino generando critiche da parte di quella fetta di popolazione che vorrebbe un isolamento maggiore della propria nazione.

L’immigrazione: numeri e problemi

La Norvegia di oggi è dunque molto distante da quella che nel 1921 ha visto l’esploratore Fridtjof Nansen diventare il primo Alto Commissario per i rifugiati nella Lega delle Nazioni. Dall’inizio del nuovo secolo i governi che si sono succeduti alla guida del paese (qualunque fosse il loro orientamento) hanno adottato la politica della qualità piuttosto che della quantità accettando solo un determinato numero di migranti economici in base alle proprie esigenze e disponibilità di mercato del lavoro, scolastico e abitativo. Il parlamento ogni anno stabilisce un numero massimo di rifugiati che possono essere accolti nel paese, mentre il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) identifica i paesi di provenienza e la tipologia di rifugiati escludendo a priori coloro che hanno comportamenti e attitudini indesiderate o problemi di tossicodipendenza.

Così nel 2018 il 28% delle domande d’asilo politico è stato respinto (in totale gli immigrati nello stesso periodo sono stati 49.800[49]) mentre 6mila persone senza permesso legale sono state espulse, di cui 5.400 costretti a rientrare a forza nei loro paesi d’origine (4mila per aver commesso un crimine[50]).

Una politica che rigetta l’idea che molti hanno di una Norvegia come paese aperto e accogliente verso chi cerca asilo. L’atteggiamento oggi prevalente è quello utilitaristico mischiato alla retorica dell’«aiutiamoli a casa loro». I migranti economici sono accuratamente scelti tra coloro che dimostrano di essere professionalmente preparati a svolgere determinati lavori perché, come ha detto nel giugno 2018 l’allora ministro dell’Immigrazione Tor Mikkel Wara: «L’immigrazione va a beneficio della comunità solo sino a certi livelli e certe composizioni. Lavoratori con competenze professionali, provenienti da società con valori moderni e liberali, con competenze che sono richieste dal nostro mercato del lavoro sono utili. Ma i benefici si tramutano in danni per i loro stessi paesi, se questi lavoratori professionalmente validi lasciano la loro terra, privando la loro stessa società di elementi validi»[51].

«La vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda sul principio dell’io ti do e tu mi dai», scriveva il norvegese Henrik Ibsen[52].

Così la politica migratoria norvegese è dettata da due fattori: la consapevolezza che il welfare ha risorse limitate, ma al tempo stesso il diritto degli immigrati di godere degli stessi diritti e opportunità dei cittadini norvegesi. «Questo è il punto che ci distanzia da altri paesi dell’Europa», spiega Roger Jensen, teologo e direttore del Centro di pellegrinaggio del sentiero di Sant’Olav, a Oslo. «A differenza della Svezia e della Danimarca, che hanno ghettizzato gli immigrati, noi li abbiamo accolti e li abbiamo aiutati a inserirsi nella società diminuendo i fattori di rischio criminalità».

Un’affermazione, quella di Jensen, che non incontra l’appoggio di parte degli abitanti delle periferie cittadine.

In effetti, visitando alcuni quartieri di Oslo, sembra di sentire il già citato Luigi di Ruscio quando scriveva «Ovunque l’ultimo / per questa razza orribile di primi / ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra / per la sua voce italiana / ultimo ad odiare / e l’odio di quest’uomo vi marca tutti / schiodato e crocifisso in ogni ora / dannato per un mondo di dannati»[53].

Nel sito document.no, uno dei tanti critici nei confronti dell’immigrazione e che raccoglie le idee degli intellettuali vicini al FrP, sono apparsi diversi articoli sulle baby gang. Un’area particolarmente critica è Drammen, un quartiere dormitorio alla periferia di Oslo dove opererebbero sette bande giovanili in cui «la maggior parte dei componenti è immigrata»[54].

È stato anche criticato il logo stilizzato di Oslo, dove, secondo il sito document.no, «non rimane molto né di St. Hallvard né del simbolismo cristiano (…) così i nostri nuovi connazionali (immigrati e musulmani, ndr) possono identificarsi con il nuovo simbolo. Nessuno si potrà offendere per un logo così anonimo»[55].

Per chi rimane: integrazione e diritti

Dalla fine degli anni Novanta si è introdotto l’obbligatorietà di partecipare a programmi di insegnamento della lingua e della conoscenza culturale, storica e sociale della Norvegia e nel dicembre 2018 il governo ha lanciato il programma Integration through education and competence il cui principale obiettivo è inserire gli immigrati nel mondo del lavoro e nella società attraverso l’istruzione pubblica, il lavoro, l’integrazione sociale e l’educazione civica.

Le nuove regole implementate dal governo impongono agli immigrati dei doveri tra cui la frequenza gratuita a 175 ore di scuola di lingua norvegese e a 50 ore di studi sociali, mentre ai rifugiati politici in possesso di un diploma scientifico e tecnologico dei corsi professionali che li indirizzino verso il mercato del lavoro. A tutti gli immigrati, dopo la schedatura e il test obbligatorio Tbc viene offerto un alloggio temporaneo (nel settembre 2018 c’erano circa 4mila residenti, nel 2016, 13.400). Una persona che aiuta uno straniero a entrare illegalmente in Norvegia rischia fino a tre anni di prigione, mentre chi sfrutta l’immigrazione per profitto rischia fino a sei anni. In cambio agli stranieri vengono garantiti gli stessi diritti dei norvegesi.

Ognuna delle 422 municipalità della Norvegia ha diritto di decidere il numero di rifugiati che ritiene di poter accogliere ogni anno. Nel 2018 meno di 250 municipalità hanno offerto la loro disponibilità (136 in meno rispetto al 2017). Il governo concede ai comuni una somma di denaro per ogni rifugiato accolto per 5 anni (nel 2018 era di circa 80.000 euro per ogni adulto e 75.000 per altri adulti famigliari[56]).

Dopo tre anni di soggiorno nel paese senza aver commesso crimini, dopo aver passato un test di lingua A1 (che richiede tra le 300 e le 600 ore di lezione a carico dell’utente) e uno di storia e legislazione norvegese, il candidato può ottenere la residenza permanente, mentre per la cittadinanza occorre risiedere ininterrottamente nel paese per sette anni senza aver commesso reati gravi e passare il test di lingua A2.

Le politiche di integrazione, da qualunque parte le si guardi, sembra comunque stiano funzionando: nonostante quello che molti esponenti della destra xenofoba vanno dicendo e scrivendo, il rispetto tributato dalla società norvegese verso culture provenienti dall’esterno è contraccambiato dall’amore per la nuova patria da parte degli immigrati. Lo dimostra anche un recente rapporto compilato da Statistics Norway in cui si evidenzia che il 76% dei figli di immigrati che sono nati in Norvegia parlano il norvegese oltre alla lingua dei genitori, ma la quasi totalità degli immigrati di seconda generazione sente come propria nazione e cultura più la Norvegia che il paese dei loro padri.

La lezione che la Norvegia può darci è quella di un paese che, in cambio del rispetto reciproco, è possibile che culture tanto diverse in ambito storico, politico, geografico, religioso possano convivere e progredire per lo sviluppo di una sola comunità dalle mille sfaccettature.

Piergiorgio Pescali


Note

[1] Il friluftsliv è l’abitudine dei norvegesi a spendere il proprio tempo libero all’aria aperta.

[2] Undp, Human Development Indices and Indicator, 2018 Statistical Update: Table 1, pag. 22 e Table 2, 1990-2017 pag. 26.

I versi di Bjornstjerne Bjornson sono tratti da Sidste Sang (L’ultima canzone): «Una volta ho sentito di una festa in Spagna: / Un cavallo brado venne lasciato libero nell’arena, / poi una tigre fuori dalla sua gabbia / si aggirò un po’ intorno di soppiatto, / poi si pose sulla pancia».

[4] Statistics Norway, Economic Survey 2019/1 – Economic Development in Norway, Main economic indicators 2007-2022, pag. 31.

[5] Luigi Di Ruscio (Fermo 1930 – Oslo 2011), La neve nera.

[6] Innovation Norway, Key Figures for Norwegian Tourism 2017, The importance of tourism for Norway, pag 6; pag 10; pag. 30.

[7] Nordli et al. (2014). Long-term temperature trends and variability on Spitsbergen: The extended Svalbard Airport temperature series, 1898-2012, Polar Research (http:// dx.doi.org/10.3402/polar.v33.21349).

[8] Norwegian Polar Institute, SvalGlac: Sensitivity of Svalbard glaciers to climate change, 2010-2016.

[9] Statistics Norway, citato. Vedi anche:
https://www.pre-sustainability.com/news/updated-carbon-footprint-calculation-factors.

[10] Norwegian Ministry of Climate and Environment, Norway’s Climate Strategy for 2030: a transformational approach within a European cooperation framework (2016-2017), 16 giugno 2017, pag. 104.

[11] In Norvegia gli alberi sono suddivisi in cinque categorie dalla I alla V. Solo quando le piante raggiungono la V categoria l’assorbimento di gas serra diminuisce repentinamente e sarebbe quindi necessaria la sostituzione.

[12] Miljødirektoratet, Statens landbruksforvaltning og Nibio (2013) Planting av skog på nye arealer som klimatiltak [Afforestation of new areas as a climate mitigation measure], M26-2013.

[13] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, Capitolo 8. Renewable Energy, §Supply and Demand – Renewable energy in the TPES, pag. 126.

[14] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, 1. General Energy Policy, §Key data (2015 estimates) pag. 15.

[15] European Commission, Directorate General for Energy, Quarterly Report on European Electricity Markets, DG Energy, Vol 11, issue 1, first quarter of 2018, Capitolo 2, pag.7.

[16] International Energy Agency, Key world energy statistics 2018, Selected indicators for 2016, pp. 29-33.

[17] Oggi la Kewet e la sua successiva evoluzione, la Buddy, sono scomparse dal mercato. Avevano un’autonomia massima di 150 km, erano piccole, ospitavano al massimo tre adulti, non avevano bagagliaio e somigliavano ad un Sulky, una minicar squadrata degli anni Ottanta.

[18] Ev, «Electric vehicle», veicolo completamente elettrico che si differenza dal Phev, «Plug-in Hybrid Electric Vehicle», veicoli elettrici ibridi.

[19] https://ofv.no/bilsalget/bilsalget-i-2018

[20] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, citata, pp. 52-53.
L’ibrido (Phev) rappresenta il 40% delle auto elettriche vendute nel 2018, nel 2016 era il 35%.

[21] https://info.nobil.no/eng

[22] La direttiva europea consiglia una colonnina di ricarica ogni 10 Ev; in Norvegia la proporzione è di 0,65 colonnine/Ev.

[23] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[24] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[25] https://www.gassnova.no/en/the-government-has-granted-permission-for-co2-storage-in-the-north-sea

[26] http://www.tcmda.com/en/About-TCM/Owners/

[27] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 9

[28] Il Mar del Nord ha il 51% delle riserve petrolifere, il Mar di Norvegia il 23% e il Mar di Barents il 26%. Dal 2009 l’estrazione di petrolio del Mare del Nord è diminuita del 7%, mentre nel Mare di Barents è aumentata del 7%. La Norvegia aveva nel 2016 80 campi di produzione petrolifera off-shore: 62 nel Mare del Nord, 16 nel Mare di Norvegia e 2 nel Mare di Barents.

[29] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 66.

[30] Statoil è diventata Equinor il 15 maggio 2018 con la fusione della Statoil con la Norsk Hydro. Il principale azionista è il governo norvegese (67,0%).

[31] A-lab, Statoil Regional and International Offices, §Fakta.

[32] Hillmar Rommetvedt, The Rise of the Norwegian Parliament, Ed. Frank Cass and Company Limited, Londra, 2003, pp. 189-190.

[33] https://www.nbim.no/en/

[34] Guidelines for observation and exclusion of companies from the Government Pension Fund Global.

[35] https://www.f35.com/global/participation/norway

[36] Norge Bank Investment Management, Responsible Investment Government Pension Fund Global, 2018 – Divestments, §Ethical exclusions, p. 113.

[37] Il parlamento norvegese.

[38] Storebrand, Sustainable investments in Storebrand Q4 2018, Companies that Storebrand does not invest in.

[39] https://www.storebrand.no/en/sustainability/exclusions

[40] Niall McCarthy, Oil And Gas Giants Spend Millions Lobbying To Block Climate Change Policies [Infographic], Forbes, 25/03/2019

[41] https://www.reuters.com/article/us-shell-m-a/shell-buying-spree-cranks-up-race-for-clean-energy-idUSKBN1FF1A8; vedi anche:
https://www.theguardian.com/business/2017/nov/28/   shell-doubles-green-spending-vo ws-halve-carbon-footprint
https://energypost.eu/how-attractive-are-renewables-for-oil-companies/

[42] Windeurope, Offshore Wind in Europe-Key and trend statistics 2018, Capitolo 3 – Industry Activity and Supply Chain, §3.2 Wind Farm Owner, febbraio 2019.

[43] worldpopulationreview.com/countries/norway-population/

[44] Espen Thorud, membro OECD, Expert Group on Migration on Norway, Immigration and Integration 2017-2018, 2018, pag. 38 e pag. 6. – Al 31 dicembre 2017, in Italia la popolazione straniera residente era di 5.144.440 su un totale di 60.483.973 abitanti pari all’8,50% (fonte Istat).

[45] Il FrP rifiuta l’etichetta di partito populista.

[46] Siv Jensen è anche ministro delle Finanze nell’attuale governo Solberg

[47] http://www.aftenposten.no/meninger/kronikker/Drom-fra-Disneyland-6270375.html

[48] Ye’or Bat, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007. Vedi anche: Bruce Bawer, While Europe Slept: How Radical Islam is Destroying the West from Within, Random House, 2006.

[49] Espen Thorud, citato, pag. 10.

[50] Espen Thorud, citato, pag. 7.

[51] EMN Norway Conference, Challenges – introduction by Tor Mikkel Wara, Oslo, 21 giugno 2018.

[52] Henrik Ibsen, Casa di bambola.

[53] Luigi di Ruscio, Ovunque l’ultimo.

[54] https://www.document.no/2019/03/30/gjenger-gjor-drammen-til-et-helvete-pa-jord/

[55] https://www.document.no/2019/03/31/ny-logo-for-oslo-kommune/

[56] Espen Thorud, citato, pag. 32.