Nigeria. Perseguitati, uccisi, ignorati


Da anni in Nigeria, soprattutto dove vige la Sharia, le milizie di Boko Haram, gli estremisti fulani e, sempre più, generici predoni, compiono violenze, stragi, rapimenti. Spesso contro le comunità cristiane. Centinaia di migliaia di sfollati interni vivono nella paura. Tutto nell’indifferenza della comunità internazionale.

Il gruppo di pastori fulani, popolazione nomade di fede islamica, è arrivato nella notte da diverse direzioni. È entrato nel campo per sfollati gestito da padre Remigius Ihyula nello Stato di Benue, nel centro nord della Nigeria, e ha sparato all’impazzata: 38 morti e 51 feriti. Tra loro diversi cristiani.

È successo lo scorso aprile, durante la Settimana santa: «Un sabato santo nero», afferma il religioso che dirige la sezione di Benue della Commissione per la giustizia, lo sviluppo e la pace (Jdpc), organizzazione cattolica nigeriana che cerca di rendere meno difficile la vita delle persone scacciate dalle loro terre.

Pochi giorni prima, la Domenica delle palme, era stata assalita la chiesa pentecostale di Akenawe, sempre nello Stato di Benue.

Gli assalitori, anche in questo caso si sospetta una banda di pastori fulani, avevano ucciso un uomo, ferito diverse persone e rapito il pastore della chiesa con alcuni fedeli.

Sono solo alcuni degli ultimi episodi di violenze e persecuzioni in Nigeria, uno dei paesi più pericolosi al mondo per i cristiani.

Children and friends gave Amina these colourful bracelets. “It cheers me up to wear them and look at them, they remind me of Nigeria when it was peaceful,” she confides. UNHCR / H. Caux / January 2014

Le cifre della persecuzione

Secondo uno studio del 2022 di Genocide watch, intitolato Nigeria is worst in the world for persecution of christians, tra gennaio 2021 e giugno 2022, in Nigeria oltre 7.600 cristiani sono stati uccisi e più di 5.200 sequestrati. Nel 2021 si sono registrati più di 400 attacchi a luoghi cristiani.

In base ai dati Onu, si stima che 36mila persone siano morte e due milioni sfollate a causa di due decenni di violenze da parte di Boko Haram.

Il Comitato internazionale della Croce Rossa ha riferito che la metà delle oltre 40mila persone scomparse in tutta l’Africa in questi anni, provengono dalla regione nord orientale della Nigeria, teatro di attacchi e rapimenti da parte di Boko Haram.

Se da una parte ci sono i terroristi di Boko Haram, jihadisti che nel 2015 hanno giurato fedeltà allo Stato islamico, dichiarando di fatto guerra a tutte le comunità cristiane, dall’altra i villaggi soffrono quotidianamente l’incursione dei pastori fulani, popolazione nomade appartenente alla comunità islamica. Alcuni fattori, tra i quali i cambiamenti climatici, hanno spinto questi allevatori a cercare nuovi terreni per i loro pascoli. Di fatto si impossessano, a mano armata e perpetrando ogni genere di violenza, dei terreni degli agricoltori appartenenti per lo più alla comunità cristiana. Omicidi, devastazioni, rapimenti di sacerdoti e cristiani, sono all’ordine del giorno nel paese affacciato sul Golfo di Guinea. Nonostante la gravità della situazione, però, le notizie riguardanti questi eventi faticano a trovare spazio nel circuito dell’informazione internazionale.

La Via Crucis delle donne

Ci sono storie di violenza contro i più indifesi, a partire dalle donne, che per la loro efferatezza sembrano inverosimili, ma che invece sono reali e lasciano ferite difficili da rimarginare.

Lo sanno bene al Trauma center della diocesi di Maiduguri, Stato di Borno, nato grazie al sostegno della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).

«Arrivano qui dopo aver subito le violenze più terribili, dopo essere state anche torturate», dice padre Joseph Fidelis, responsabile del centro che offre cure e sostegno psicologico, e che vaglia, caso per caso, se sia necessario un supporto più specialistico, a livello psichiatrico e ospedaliero.

Quando hai visto qualcuno uccidere davanti a te un figlio, un fratello o un padre, quando sei stata violentata e torturata, quando hai vissuto in una gabbia come un animale per mesi, fai fatica anche a trovare le parole.

Per questo al Trauma center opera personale formato ai massimi livelli in grado non solo di accogliere le donne che hanno subito violenze, la maggior parte delle quali cristiane, ma anche di indicare un futuro di speranza.

This photo taken and handout on March 8, 2023 by The Vatican Media shows Pope Francis blessing Janada Marcus, a young Nigerian victim of Islamist group Boko Haram, during the weekly general audience on March 8, 2023 at St. Peter’s square in The Vatican. (Photo by Handout / VATICAN MEDIA / AFP)

Maria e Janada

Arrivano proprio dal Trauma Center di Maiduguri le storie di Maria e Janada, due giovani donne vittime di Boko Haram che, nel marzo scorso, sono state in Italia. Esse hanno incontrato papa Francesco per fare conoscere al mondo che cosa significhi essere cristiane oggi in Nigeria, quale scelta difficile sia resistere alle violenze per mantenere la propria fede in Cristo e non abbracciare, come i terroristi chiedono, quella islamica.

Le abbiamo incontrate a Roma, in occasione dell’8 marzo, la giornata internazionale della donna. Minute, con lo sguardo triste, una voce flebile che si sentiva a fatica. La testa bassa per il dolore e la paura delle violenze subite, e anche la vergogna.

Nei loro occhi abbiamo visto soprattutto le lacrime che, a distanza di mesi dalla loro liberazione, Maria e Janada non riescono ancora a trattenere.

Maria Joseph, 19 anni, e Janada Markus, 22, sono state vittime di Boko Haram, il gruppo jihadista che imperversa in Nigeria grazie anche alla sostanziale inerzia delle autorità locali.

Maria ha vissuto nel bosco con i terroristi per nove anni: «Avevo sette anni – ci ha raccontato -. Sono arrivati nel nostro villaggio in silenzio, senza sparare, e ci hanno catturati tutti. Io sono stata messa in una gabbia. Poi ci hanno insegnato a leggere il Corano». Le hanno dato un nome islamico e hanno anche provato a farla sposare con uno dei capi del gruppo terrorista, ma lei si è rifiutata. Dopo nove anni di prigionia, violenze e torture è riuscita a scappare.

Janada Markus aveva invece 17 anni quando è stata rapita da Boko Haram: era in ospedale, dove aveva appena subito un intervento. «Mi hanno portata via dall’ospedale che non mi ero neanche ripresa dall’anestesia. Mi sono risvegliata nelle loro mani». Dopo un po’ è riuscita a scappare, ma in seguito è stata di nuovo catturata. È scappata un’altra volta ed è stata ripresa.

Ci ha raccontato che il secondo rapimento l’ha subito mentre era nella sua fattoria con la famiglia: «All’improvviso siamo stati circondati dagli uomini di Boko Haram. Hanno puntato un machete contro mio padre e gli hanno detto che ci avrebbero rilasciati se lui avesse fatto sesso con me davanti a tutti. Lui si è rifiutato, e loro gli hanno tagliato la testa». La terza volta è accaduto a novembre del 2020, quando i miliziani di Boko Haram l’hanno rapita e torturata per sei giorni.

Campo UNHCR per sfollati interni. Maiduguri, Stato del Borno, Nigeria. novembre 2020

Segni di rinascita e speranza

Entrambe, Maria e Janada, ora sono accolte dal Trauma Center di padre Fidelis. «Quando sono arrivate non riuscivano neanche a parlare», racconta il sacerdote.

Ma anche lui, a volte, davanti alle storie che incontra, resta senza parole e si chiede: «Perché l’uomo è diventato un lupo, un animale? Questi terroristi fanno violenze in nome di una religione? Non è possibile: la religione ci aiuta ad avvicinarci a Dio, non a infliggere sofferenze. È il male, questo, non è Dio».

Il sacerdote nigeriano, che dopo avere studiato alla Pontificia Università Gregoriana a Roma, ha deciso di tornare nella sua terra proprio per aiutare i cristiani perseguitati, ammette: «La mia fede è stata provata. A volte mi chiedo dove sia Dio. In quei momenti, però, cerco di avere fiducia e gli chiedo aiuto. E Lui, nel silenzio e nella sofferenza, mi risponde attraverso le persone che cerchiamo di aiutare».

Le ragazze accolte del Trauma Center, infatti, tornano un po’ per volta, cura su cura, a riprendere in mano la loro vita.

Alcune vengono anche aiutate a trovare un lavoro: imparano a cucire, a cucinare, a realizzare cosmetici con prodotti locali.

«Piano piano i segni del trauma cominciavano a sparire – ci ha detto Maria -, e ho iniziato a relazionarmi con gli altri. Potevo parlare, e quello che i terroristi mi avevano inculcato nella testa ha cominciato a sparire».

Janada, invece, dopo aver lentamente superato il trauma, ha chiesto di andare a scuola: oggi studia al college e sogna di diventare un medico specializzato in medicina tropicale.

da un campo per sfollati nel nord est della nigeria. Novembre 2020

Rapimenti e indifferenza

In Occidente, il tema della persecuzione dei cristiani fatica a entrare nel dibattito generale, «come se la libertà religiosa fosse un diritto di serie B», argomenta Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) Italia. In Nigeria ci sono violenze, ma anche frequenti sequestri di religiosi e cristiani che poi, in molti casi, finiscono in omicidi. Secondo i dati diffusi a fine marzo dalla Conferenza episcopale nigeriana, dal 2006 al 2023 nel paese sono stati rapiti 53 sacerdoti, dodici aggrediti e sedici uccisi: un totale di 81 sacerdoti in diciassette anni.

È il nord della Nigeria l’area dove i rapimenti sono legati alla presenza di varie formazioni terroristiche, a iniziare da Boko Haram. Da questo gruppo jihadista, a causa di diverse scissioni, ne sono nati altri, il più importante dei quali è l’Islamic state of west Africa province (Iswap).

Il fenomeno dei rapimenti, però, negli ultimi anni si è esteso a diverse altre zone della Nigeria, compreso il sud (a maggioranza cristiana, ndr).

In tutti i casi non è facile distinguere tra i sequestri compiuti dai terroristi e quelli compiuti da gruppi criminali che cercano solo un ritorno economico. Terroristi e banditi hanno modi simili di operare: assaltano villaggi saccheggiandoli alla ricerca di cibo e bestiame, e rapiscono le persone. L’unica differenza è che i banditi comuni non rivendicano le loro azioni su basi ideologiche.

Sta di fatto che la comunità cristiana, a partire dai sacerdoti, è la più bersagliata dai sequestri. «Ma su queste vicende impera il silenzio – osserva Monteduro -. Non sono considerate meritevoli di attenzione da parte della comunità internazionale e della maggior parte dei media occidentali. Ma soprattutto sono ignorate dalle autorità civili, politiche e militari della stessa Nigeria. A urlare il proprio dolore, a chiedere aiuto, è solo la Conferenza episcopale della nazione».

Che siano estremisti appartenenti all’etnia dei fulani, o terroristi aderenti a gruppi jihadisti come Boko Haram, oppure semplici gruppi criminali interessati al riscatto, importa poco. Ciò che importa, spiega Monteduro, è che «in Nigeria oggi è terribilmente pericoloso professare la propria fede. Importa la sostanziale incapacità e inadeguatezza delle autorità e istituzioni federali e locali. Importa l’altrettanto sostanziale disinteresse che registriamo in Europa.

Ora, poiché non possiamo e non dobbiamo considerarlo un fenomeno irreversibile, abbiamo il compito far sentire in Occidente, in quell’Europa dalle radici cristiane, la nostra indignazione. Certamente sarà un modo sincero per esprimere la nostra vicinanza alle vittime».

Burned villages and fields, from the UNHAS helicopter transporting humanitarian workers to the camps, from the UNHAS helicopter transporting humanitarian workers to the camps

Al top della classifica

Nel gennaio 2023 Porte aperte (un’organizzazione evangelica, www.porteaperteitalia.org ndr) ha pubblicato il suo ultimo dossier sulla libertà religiosa nel mondo. La Nigeria risulta al sesto posto nella classifica dei paesi che negano questo diritto umano fondamentale, soprattutto per i cristiani, dopo la Corea del Nord, la Somalia, lo Yemen, l’Eritrea e la Libia. «La Nigeria sale ancora nella classifica – si legge -, confermandosi la nazione dove si uccidono più cristiani al mondo: 5.014, mai così tanti».

Nonostante i cristiani siano quasi metà dei circa duecento milioni di abitanti del paese, ci sono zone, come ad esempio lo Stato di Kaduna nel Nord, dove è impossibile costruire nuove chiese o insegnare il catechismo.

«I cristiani vivono sotto schiavitù», dice l’arcivescovo di Kaduna, Matthew Manoso Ndagoso.

In alcuni stati a maggioranza musulmana vige la Sharia (la legge islamica), ed è sempre più difficile costruire chiese o altre strutture per i cristiani negli stati settentrionali di Kano, Sokoto, Katsina e Zamfara.

«Da oltre sessant’anni – aggiunge l’arcivescovo – non viene rilasciato ufficialmente nessun certificato alle comunità cristiane per costruire una chiesa. Solo nei primi anni Novanta, quando ci fu un governatore cattolico, venne rilasciato un singolo permesso.

In questa parte del nostro paese, nonostante le garanzie della Costituzione, i cristiani non sono liberi di praticare la loro fede. Perché se non posso costruire una chiesa, se non posso comprare un terreno, non potete dirmi che sono libero. Ai bambini cristiani non si può insegnare la loro religione. Nelle scuole non vengono assunti insegnanti cristiani, ma nelle stesse scuole il governo non solo permette l’insegnamento dell’islam, ma vengono anche utilizzati fondi pubblici per assumere insegnanti per insegnare la fede islamica. C’è una chiara discriminazione e persecuzione», conclude.

“Sono venuti a bussare molto forte alla nostra porta. Ero così spaventato che stavo tremando troppo per aprire la porta. Alcuni di loro sono entrati con la forza e hanno fatto irruzione in casa mentre gli altri hanno scavalcato la recinzione ed sono entrati. Hanno ucciso mio marito e tutti i miei figli tranne uno”.
Asma, 45 anni, trema ancora mentre ricorda quello che ha subito due anni fa. Dopo il brutale attacco, è fuggita dal suo villaggio nel nord-est della Nigeria ed è diventata una delle 1,7 milioni di persone sfollate all’interno del paese a causa della violenza. Classificata come molto vulnerabile, Asma riceve un sostegno finanziato dall’UE dall’NRC – Norwegian Refugee Council per aiutarla a sbarcare il lunario. © Unione europea 2018 (foto di Samuel Ochai)

Un grido inascoltato

A lanciare il proprio grido di aiuto è, ogni volta che si verifica un crimine contro la comunità cristiana, la Conferenza episcopale nigeriana.

Come il 5 giugno di un anno fa, quando un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco e lanciato ordigni contro i fedeli riuniti nella chiesa di San Francesco a Owo, nello stato di Ondo, mentre si celebrava la veglia di Pentecoste. Una cinquantina i morti, tra i quali diversi bambini.

Il presidente dei vescovi cattolici nigeriani, monsignor Lucius Ugorji, sottolineava dopo quell’attacco che «nessun luogo sembra essere al sicuro nel nostro paese, nemmeno entro i sacri recinti di una chiesa. Condanniamo con la massima fermezza lo spargimento di sangue innocente. I criminali responsabili di tale atto sacrilego e barbaro dimostrano la loro mancanza del senso del sacro e del timore di Dio».

«Il governo – ha aggiunto ancora – dovrebbe assumersi la sua responsabilità primaria di garantire la vita e la proprietà dei suoi cittadini. Il mondo ci sta guardando. Soprattutto, anche Dio ci guarda».

Papa Francesco, il giorno dopo, ha inviato un messaggio ai vescovi: «Prego per la conversione di coloro che sono accecati dall’odio e dalla violenza e perché possano scegliere la strada della pace e della giustizia».

Appelli che si ripetono ciclicamente dopo ogni massacro o rapimento. Ma restano di fatto inascoltati, non solo dalle autorità locali, ma anche dalla comunità internazionale.

Manuela Tulli*

 *Giornalista dell’Ansa, si occupa di Vaticano e informazione religiosa. Autrice, tra gli altri, di Eroi nella fede (Acs), sui cristiani in Egitto, e de Il grande tema del senso della vita (Shalom), per la collana dei Quaderni del Giubileo del Dicastero vaticano per l’Evangelizzazione.

Binta Ali is a beneficiary of emergency relief items to displaced families hosted at a camp in Borno State, in north-east Nigeria. © 2018 European Union (photo by Samuel Ochai)




Nigeria: Estremisti fulani, armati e impuniti

testo di Marta Petrosillo di ACS |


Meno noti dei terroristi di Boko Haram, uccidono più di loro. Gli islamisti fulani, nella cintura centrale del paese, fanno migliaia di vittime, anche per motivi religiosi. Nell’impunità e nell’indifferenza del mondo.

Nel 2018 la Nigeria è stato il secondo paese al mondo per numero di vittime da terrorismo: per il Global terrorism index 2019 (Gti), le vittime sono state 2.040, meno dell’Afghanistan (7.379), più dell’Iraq (1.054).

In un rapporto dello scorso settembre, la Croce rossa internazionale ha illustrato cifre da guerra: nell’ultimo decennio gli attacchi del noto gruppo islamista Boko Haram hanno provocato, soprattutto nel Nord, 27mila morti, 22mila dispersi, di cui più della metà minorenni, e più di 2 milioni di sfollati.

Delle 2mila vittime del 2018 contate dal Gti, però, ben 1.158 sono attribuite non a Boko Haram, ma agli estremisti fulani.

Se gli sforzi dell’esercito nigeriano, infatti, ottengono finalmente qualche vittoria contro Boko Haram, cresce però il pericolo dei pastori islamisti che, nella cintura centrale del paese, uccidono impuniti.

Un problema che affligge gli agricoltori cristiani almeno dal 2013, ma di cui il mondo si è accorto solo nell’aprile 2018, dopo l’attacco alla chiesa di Sant’Ignazio nel villaggio di Mbalom, nello stato di Benue. Quel giorno sono stati trucidati 17 parrocchiani e due sacerdoti.

Storia di un popolo

I Fulani sono un popolo semi nomade dedito alla pastorizia, presente in larghe parti dell’Africa occidentale, dalla Mauritania al Camerun. Dei circa 20 milioni totali, 14 milioni vivono nella sola Nigeria.

Si tratta di un’etnia con una lunga storia alle spalle: è possibile trovarne menzione già in antichi scritti arabi.

Molti di loro hanno iniziato a dedicarsi all’allevamento del bestiame tra il XIII e il XIV secolo. La tribù ha vissuto il suo momento di maggiore espansione prima del periodo coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo, assumendo il nome di califfato di Sokoto, e si ritiene che si debba a essa la diffusione dell’Islam nell’Africa occidentale. Con l’arrivo dei colonizzatori francesi e britannici, tuttavia, l’impero fulani è collassato.

Sebbene vi siano anche dei Fulani sedentari, la cultura tradizionale è stata preservata principalmente dai nomadi.

Radicalizzati e armati

I mandriani fulani in Nigeria hanno sempre fatto pascolare liberamente il loro bestiame nel Nord del paese e nella cosiddetta Middle Belt, la cintura di stati che si frappone tra il Nord a maggioranza musulmana e il Sud a maggioranza cristiana.

Alcuni attribuiscono l’escalation di violenza degli ultimi anni a fattori di tipo etnico o economico. Certamente le tensioni tra agricoltori e pastori, aggravate dalla diversa appartenenza etnica, sono sempre state presenti. È anche vero che i cambiamenti climatici e la riduzione delle terre da pascolo stanno spingendo i Fulani a spostarsi in zone nuove. Ma negli ultimi anni gli attacchi si sono fatti sistematici, più feroci e, soprattutto, con una connotazione religiosa.

Gli obiettivi, infatti, sono spesso cristiani, così come le aree sono quelle a maggioranza cristiana.

Don Polycarp Lamma, della diocesi di Jalindo, non ha dubbi sul fatto che le violenze siano religiosamente motivate: «Quando attaccano, gridano “Allah u Akbar”. Se volessero semplicemente attaccare un diverso gruppo etnico, perché gridare una simile frase? Vogliono attaccare i cristiani».

Sebbene il Gti spieghi che gli eventi attribuiti agli estremisti fulani riflettono l’uso del terrorismo come una tattica utilizzata nel conflitto tra pastori e agricoltori, e che non ci sia un vero e proprio gruppo unico e organizzato, è innegabile che molti tra di loro si sono radicalizzati e, soprattutto, si sono dotati di armi di ultima generazione che prima non possedevano.

Nigeria, Kaduna / © Aid to the Church in Need

I sospetti sul potere

«Prima i Fulani portavano le mandrie assieme alle loro famiglie e avevano con sé dei semplici bastoni – ci racconta mons. William Amove Avenya, vescovo di Gboko, nello stato a maggioranza cristiana di Benue -, oggi sono armati di fucili Ak 47. Armi costose che non possono permettersi. Chi le fornisce loro? Poi, in quelle aree ci sono check point ogni due chilometri. Perché nessuno li ferma?».

Nonostante i ripetuti massacri, nessun colpevole è stato fino a oggi indagato, arrestato o condannato.

Secondo alcuni, il principale motivo di questa assenza di misure di contrasto alla violenza, sta nell’appartenenza dell’attuale presidente Mohammed Buhari proprio all’etnia fulani.

«Vogliono colpire i cristiani, e il governo non fa nulla per fermarli, perché anche Buhari è di etnia fulani», ha dichiarato lo scorso anno ad Acs, Aiuto alla Chiesa che soffre il vescovo di Lafia, nello stato di Nassarawa, mons. Matthew Ishaya Audu.

A lui si unisce anche monsignor Peter Iornzuul Adoboh: «È triste, ma dobbiamo constatare che è come se vi fosse un ordine da parte del governo federale di non intervenire. E così i Fulani uccidono, distruggono e poi fuggono, mentre nessuno fa niente. Anzi, se la polizia trova la gente locale con le armi che cerca di difendersi, generalmente arresta questi anziché i Fulani. I mandriani si sentono forti, perché c’è un loro uomo al potere che li protegge».

Buhari è perfino il patrono della principale organizzazione di pastori fulani, la Miyatti Allah cattle breeders association of Nigeria, Macban, che, secondo alcune Ong locali, dovrebbe essere perseguita per terrorismo. E, come fa notare la Ong nigeriana International society for civil liberties & the rule of law (nota come Intersociety), l’ondata di violenze dei Fulani si è intensificata già a partire dal giugno 2015, un mese dopo l’elezione di Buhari a presidente.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Difficile da definire, chiaro nella sua gravità

Se il Gti parla di 1.158 vittime degli estremisti fulani nel 2018, e Amnesty international cita, per lo stesso anno, 2.000 morti e 182mila sfollati, Intersociety sostiene addirittura che i morti siano 2.400, a testimonianza di quanto sia ancora difficile da descrivere e monitorare il fenomeno.

Intersociety aggiunge che tra il giugno 2015 e il dicembre 2018, gli estremisti fulani hanno ucciso non meno di 6mila cristiani e incendiato o distrutto più di mille chiese. Una tendenza che purtroppo non pare invertirsi nel 2019: nei primi quattro mesi dell’anno, infatti, i fondamentalisti hanno massacrato tra i 550 e i 600 cristiani, e distrutto centinaia di abitazioni e dozzine di chiese. Un numero superiore anche alle vittime di Boko Haram che, nello stesso periodo, ha ucciso «solo» 200 cristiani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Il fattore religioso

Difficile sostenere la tesi secondo la quale quello religioso non sia almeno uno dei fattori all’origine delle violenze. Così come riteniamo sia improprio descrivere quanto accade oggi in Nigeria come un «conflitto etnico tra pastori e agricoltori».

Il numero delle vittime – che si contano anche tra i Fulani – è troppo sbilanciato da una parte.

«I mandriani arrivano di notte, mentre la gente dorme – spiega mons. Adoboh -. Le abitazioni dei contadini in genere sono isolate, perché circondate dai terreni e, dunque, gli assassini possono agire indisturbati.

Lo schema è semplice: danno fuoco alla casa costringendo gli abitanti a uscire. Poi li massacrano. Adulti, bambini, donne incinte, anziani. Sono davvero scene orribili. I contadini cristiani non hanno le armi per difendersi, mentre i fulani sono armati fino ai denti».

Sì perché a inizio 2018, mentre le violenze dei Fulani si facevano più numerose e cruente, il governo nigeriano ha disposto il sequestro o la consegna volontaria di tutte le armi da fuoco personali. Un passo mirato a rastrellare le armi in vista delle elezioni generali del febbraio 2019, e a ridurre le violenze. Un provvedimento comprensibile in un paese come la Nigeria, nella quale circola gran parte degli otto milioni di armi dell’intera Africa occidentale, e dove il 59% dei loro detentori sono civili, solo il 38% membri delle forze armate governative, il 2,8% poliziotti.

Il problema, però, è che tale misura non è applicata ai Fulani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Espansione islamista

«Viviamo nel terrore. I Fulani sono ancora qui e rifiutano di andarsene. E noi non abbiamo armi per difenderci», scriveva nel gennaio 2018 su Twitter padre Joseph Gor, ucciso poi mentre celebrava la messa assieme a padre Felix Tyolah e a 17 fedeli il 24 aprile a Mbalom.

La piccola chiesa di Sant’Ignazio a Mbalom è stata colpita mentre i vescovi della Nigeria si trovavano a Roma per la visita ad limina apostolorum. Ma anche a distanza l’episcopato si è fatto sentire attraverso un comunicato ufficiale nel quale ha apertamente messo sotto accusa la mancanza di azione da parte del governo. «Il fatto che sia stato teso un agguato ai due sacerdoti, assieme ai loro parrocchiani, proprio durante la celebrazione della santa messa di mattino presto, suggerisce che il loro omicidio sia stato accuratamente pianificato. Questo atto malvagio non può essere definito un attacco per vendetta (come spesso è stato sostenuto in questi casi). Per quale motivo sono stati attaccati? Perché nessuno è intervenuto?».

All’indomani del tragico attacco a Mbalom, mons. Wilfred Chikpa Anagbe, vescovo di Makurdi, ha dichiarato ad Acs: «C’è una chiara agenda, un piano per islamizzare tutte le aree a maggioranza cristiana della Middle Belt nigeriana».

Lo stato di Benue, tra i pochi nell’area a maggioranza cristiana è, infatti, quello più colpito dalle violenze. Tra i cristiani è forte il sospetto che vi sia un piano per espandere l’influenza islamista nella cintura centrale e nella Nigeria meridionale.

Impunità

Più volte i vescovi hanno richiamato le autorità federali al proprio dovere. Anche il 22 maggio 2018, la giornata in cui si sono celebrati i funerali delle vittime di Mbalom e si sono tenute in tutto il paese marce di protesta pacifiche per chiedere al governo di porre un freno agli attacchi. Quel giorno i vescovi hanno intimato al presidente Buhari di fare il proprio dovere. Primo fra tutti, l’allora arcivescovo di Abuja, il card. John Onaiyekan, che, in un messaggio al presidente, ha affermato: «Proteggi le nostre vite oppure fatti da parte. I nigeriani continuano a venire uccisi e molti di noi si stanno chiedendo se esiste ancora un governo nella nostra nazione».

Eppure la risposta è stata debole. La proposta di Buhari è stata semplicemente quella di creare delle aree per permettere ai Fulani di far pascolare le proprie mandrie; aree, peraltro, che dovrebbero essere sottratte ai contadini. Vi è stata perfino una campagna dal provocativo slogan: «Meglio vivi senza la terra, che morti con la terra».

© ACN / Diocesi di Makurdi

Sotto gli occhi di tutti

Intanto si aggrava di giorno in giorno il bilancio delle vittime. Nella notte del primo agosto scorso un gruppo di uomini armati ha ucciso un sacerdote, don Paul Offu, parroco di Saint James the Greater (Ugbawka) nella diocesi di Enugu. È stato il sito web della diocesi a riferire che, con tutta probabilità, è stato ucciso da mandriani fulani.

Stessa sorte era toccata precedentemente, sempre nell’area di Enugu, a padre Clement Rapuluchukwu Ugwu, parroco di San Marco. Il sacerdote, rapito nella notte del 17 marzo 2019, è stato poi trovato morto nella boscaglia dai suoi parrocchiani.

Il 15 luglio 2019 una donna incinta è stata brutalmente uccisa assieme ad altri due cristiani ad Ancha, nello stato nigeriano di Plateau. Cinque giorni dopo, il 20 luglio, nella diocesi di Jalindo nello stato di Taraba, il giovane agricoltore cristiano Solomon Yuhwam è stato ucciso nella sua abitazione da mandriani fulani. Nel marzo del 2014 era riuscito a salvarsi – fingendosi morto – da un altro attacco fulani che era invece costato la vita a suo fratello e a tanti altri cristiani del suo villaggio.

La lista è lunga, così come è elevato il numero di cristiani che fuggono dalle proprie case, spingendo le diocesi dell’area ad aprire campi di accoglienza.

Eppure sembra che nessuno possa o voglia fermare le violenze, nonostante i ripetuti appelli, anche all’Occidente, da parte dei vescovi nigeriani. «Non commettete lo stesso errore che è stato fatto con il genocidio in Ruanda – ha più volte ribadito monsignor William Amove Avenya, vescovo di Gboko -. Era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo ha fermato».

Marta Petrosillo




Nigeria: Boko Haram califatto made Africa


Boko Haram è un nome che incute paura. La sua storia è legata a un’area ben definita della Nigeria. Ma vanta legami inteazionali. Come si è arrivati a questo fenomeno africano? E cosa rappresenta nello scacchiere del terrorismo internazionale? E il jihad in Africa in che direzione sta andando? Un libro appena uscito cerca di dare queste e molte altre risposte.

«Boko Haram è una realtà del jiahadismo internazionale, in particolare dopo l’adesione di Aboubakar Shekau al califfato di al Bagdhadi. L’Africa è stata scoperta essere uno scenario importante dal terrorismo, prima ancora che dalla politica internazionale e dall’Europa. Il terrorismo internazionale, infatti, investe molto nel continente africano». Chi ci parla è Raffaele Masto, giornalista, specialista di Africa, esperto di Nigeria e delle sue storie. Masto ha appena pubblicato «Califfato Nero», editori Laterza, nel quale racconta le origini e le gesta della setta integralista nigeriana. Il vero nome di questa formazione è «Gruppo della gente della Sunna per la propaganda religiosa e il Jihad», mentre Boko Haram signigica: «L’educazione occidentale è vietata».

«Si tratta dell’unica realtà del terrorismo internazionale che ha una logica locale, e ha avuto un’origine tutta africana. Gli altri gruppi presenti in Africa, per esempio in Mali, sono un’emanazione del jihadismo magrebino, un tentativo delle formazioni del Nord di penetrare in Africa nera e controllare quel vasto e remoto deserto che è la scena di traffici inteazionali molto lucrosi. Dall’altra parte, sulla costa orientale, in Somalia, c’è al Shabaab che è un’emanazione di Al Qaeda. Boko Haram rientra in questo scenario, ed evidentemente copre un territorio ambito dal terrorismo internazionale».

This video grab image created on August 14, 2016 taken from a video released on youtube purportedly by Islamist group Boko Haram showing what is claimed to be one of the groups fighters at an undisclosed location standing in front of girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014. Boko Haram on August 14, 2016 released a video of the girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014, showing some who are still alive and claiming others died in air strikes. The video is the latest release from embattled Boko Haram leader Abubakar Shekau, who earlier this month denied claims that he had been replaced as the leader of the jihadist group. / AFP PHOTO / HO / RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / BOKO HARAM" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS
This video grab image created on August 14, 2016 taken from a video released on youtube purportedly by Islamist group Boko Haram showing what is claimed to be one of the groups fighters at an undisclosed location standing in front of girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014.
Boko Haram on August 14, 2016 released a video of the girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014, showing some who are still alive and claiming others died in air strikes. The video is the latest release from embattled Boko Haram leader Abubakar Shekau, who earlier this month denied claims that he had been replaced as the leader of the jihadist group. / AFP PHOTO / BOKO HARAM

Così vicini

Ma che importanza ha oggi Boko Haram sullo scacchiere internazionale? E perché un europeo ha interesse a conoscere l’esistenza e le azioni di un gruppo sanguinario che agisce nel cuore dell’Africa?

«Per l’Europa tutto ciò ha grande importanza, perché solo il Maghreb, sempre più burrascoso, e quel deserto, il Sahara, che è un territorio di traffici e affari, la separano dalla zona dove tutto questo avviene. Ma è anche quell’Africa che sfoa profughi, rifugiati e migranti verso il vecchio continente. Voglio dire che è una realtà abbastanza vicina a noi europei e ci conviene conoscerla». Continua Masto: «Non è che dobbiamo farlo per buonismo o per occuparci di un’Africa dimenticata. No, l’Africa è diventata uno scenario importante, ci è vicina per una serie di questioni, per cui dovremmo capire meglio che cosa accade “là dentro”. Questo ci spiega anche, in questo momento, alcune dinamiche inteazionali che ci sfuggono».

Raffaele Masto dal 1989 lavora nella redazione di Radio Popolare e ha seguito, come inviato, crisi in Medio Oriente, America Latina, e in particolare in Africa, continente per il quale è diventato un vero riferimento nel giornalismo italiano. E non solo.

Anche questo suo ultimo lavoro nasce da anni di frequentazione della Nigeria, da una raccolta minuziosa di dati e testimonianze dirette sul campo. Ci confida: «La Nigeria è un paese difficile da percorrere, ci vuole molto denaro, perché spesso bisogna essere scortati. Io non ho dei grandi budget per i viaggi, ho dietro una testata che non è ricca, anche se è prestigiosa nel suo genere, e quindi la prima difficoltà è stata quella di conciliare le spese per viaggi d’inchiesta con i soldi a disposizione».

E continua: «Ma direi che i viaggi sono stati essenziali, perché un fenomeno studiato dall’Europa continua ad avere dei buchi che si riempiono e si comprendono solo se si riesce ad andare sul posto.

Io ho cercato di farlo preparando molto bene le missioni, creando e mantenendo relazioni con persone fidate in loco, e cercando di risparmiare».

Il libro «Califfato Nero» descrive un fenomeno complesso con parole semplici, intervallando descrizioni di situazioni nigeriane ricche di spunti, con parti di storia, cronaca e analisi approfondite.

«La dinamica locale di Boko Haram, secondo me, è la cosa veramente importante. Questo gruppo terrorista è nato dalla necessità di alcune lobby politiche ed economiche della Nigeria del Nord. Solo in un secondo momento è stato inglobato in una dinamica più ampia. Questo è esattamente quello che si poteva prevenire. Se si fosse affrontato prima il problema non ci troveremmo di fronte a un jihadismo africano radicato in tre regioni con il rischio che si crei un cornordinamento».

La ribalta mediatica

Boko Haram «buca» i notiziari di tutto il mondo guadagnandosi la fama internazionale nell’aprile 2014. Un gruppo di guerriglieri, in quel momento semisconosciuti fuori dai confini della Nigeria, realizza un clamoroso rapimento di massa di ragazze da un collegio femminile a Chibok, nel Nord Est del paese. «C’erano tutti gli elementi necessari per solleticare l’immaginario occidentale: 276 adolescenti in mano a miliziani oscurantisti, sessuofobici, abituati alla violenza e ostili all’universo femminile, considerato utile solamente a soddisfare le necessità materiali maschili», scrive nel suo libro Masto.

L’opinione pubblica si mobilita, viene lanciata una campagna internazionale: Bring back our girls, che non avrà molto effetto.

Ma che origini ha Boko Haram?

«A partire dal 2002, anno della sua nascita, e per circa sette anni, la setta fondata dal predicatore Mohammed Yusuf si rende protagonista dei una netta opposizione al potere costituito, inscenando manifestazioni che degenerano in disordini, scontri, violenti attacchi alle forze di polizia e all’esercito. Questa formazione radicale, che assume da subito una forte valenza religiosa, si scaglia contro la corruzione delle autorità e della politica, così come contro il lassismo dei costumi, criticando duramente quella che ritengono un’applicazione troppo blanda dei dettami della religione islamica».

Yusuf, predicatore dotato di grande carisma, trova terreno fertile nei giovani nigeriani disadattati «che vedevano in un fustigatore dei potenti un’alternativa al sistema imperante della corruzione e nella stretta osservanza della sharia (legge islamica) una possibilità di ristabilire una giustizia e un ordine sociale».

Ma Yusuf è anche bravo nella «real politik», e fin dall’inizio, riceve soldi dal senatore Ali Modu Sheriff, che sarebbe poi diventato governatore dello stato di Boo (proprio dove è nato Boko Haram), e quindi un alto rappresentante di quella classe politica che la setta contestava. Scrive Masto: «Il sodalizio tra Sheriff e Yusuf parve funzionare, perlomeno per qualche tempo: in cambio del sostegno alle elezioni locali, il futuro governatore promise una rigida applicazione della sharia nel Boo». Ma qualcosa in seguito va storto, la legge coranica non viene applicata nella modalità auspicata da Yusuf e presto gli alleati occulti si trovano su barricate opposte.

Al contrario di molti altri gruppi e sette che fioriscono in Nigeria «Il gruppo di Mohammed Yusuf intersecava questioni religiose e politiche, cioè la moralizzazione dei costumi e la critica senza appello della corruzione; e forse fu proprio questa particolarità a fae un movimento diverso degli altri, più incisivo e con un seguito più fedele e radicato».

polizia-nigeria

La svolta

Nel luglio del 2009, violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine scoppiano in diversi stati del Nord della Nigeria, con epicentro lo stato del Boo, nel Nord Est, dove ha origine Boko Haram. La repressione dell’esercito federale è violentissima anche con i civili (le cifre ufficiali parlano di 700 morti, nella realtà saranno molti di più). Yusuf è arrestato e sarà poi giustiziato senza processo. Questo fatto, e il conseguente mutamento di leader, producono il salto di qualità della setta. Dopo una lotta intea con altri tre pretendenti alla successione di Yusuf, emerge Aboubakar Shekau, che si rivelerà spietato e sanguinario, portando, tra l’altro, il gruppo terrorista al record di uccisioni, che nel 2014 superano quelle dello Stato islamico (Isis).

«Da movimento insurrezionale è diventato una formazione terroristica capace di mettere in campo una grande versatilità con veri e propri attacchi militari, quando è possibile sferrarli, e capace di ripiegare su attentati kamikaze quando è necessario.

Di certo la sua evoluzione e la sua crescita costituiscono una vera e propria novità. L’insurrezione del 2009 era stata messa in campo con un esercito di militanti impreparati al combattimento, c’erano poche armi e perlopiù la polizia veniva fronteggiata con machete e bastoni. Oggi questa setta può contare su grandi quantità di esplosivo, su esperti che lo sanno usare, su una buona capacità logistica, su mezzi rapidi ed efficienti per gli spostamenti e su combattenti preparati». Il merito di tutto questo è in gran parte di Abubakar Shekau, ma anche «il risultato di alleanze e relazioni con i movimenti del jihadismo internazionale».Dopo aver raccontato la figura del fondatore Yusuf, Masto dedica un intero capitolo a tratteggiare il ritratto di Shekau, detto l’«immortale», perché lo si è dato per morto ormai innumerevoli volte ma è sempre ricomparso con video e dichiarazioni. Una figura oscura, ma fondamentale, che è necessario tentare di comprendere.

L’autore descrive anche le modee tecniche di comunicazione usate del gruppo terrorista e il loro sviluppo negli ultimi anni.

Espansione di Boko Haram

Sul terreno l’escalation degli attacchi di Boko Haram dal 2010 in poi è innegabile. Assalti a moschee, chiese, mercati, villaggi, postazioni di esercito e polizia e poi scuole, diventano quasi quotidiani. Gli attacchi vengono eseguiti tramite kamikaze con autobombe o miliziani armati, e talvolta rapimenti. Sono colpiti interessi occidentali, ma anche locali, cristiani e musulmani. Da Maiduguri (capitale del Boo) gli assalti si spostano negli altri stati del Nord (clamorosi quelli a Kano nel 2012), anche nel centro (a Jos nel Plateau) e nella capitale Abuja, come l’attentato alla sede delle Nazioni Unite (agosto 2011) che causa 23 morti e decine di feriti.

A partire dal 2013 il gruppo comincia un’operazione di conquista territoriale, che lo porterà, come spiega l’autore, sulla scia del Isis a proclamare il Califfato africano: «Superata la metà del 2014, Boko Haram corona la sua strategia di controllo territoriale: il 24 agosto, dalla cittadina di Gwoza, nel Boo, a Sud Est di Maiduguri, Abubakar Shekau annuncia la nascita del suo Califfato». Boko Haram controlla un territorio più vasto di una grande regione italiana, include la foresta di Samibisa ed è vicino al Camerun e non lontano dal Ciad.

Dopo alcuni interventi extraterritoriali, inizia una vera guerra di eserciti combattuata in quella frontiera quadrupla che è il lago Ciad: nel febbraio del 2015 i miliziani attaccano per la prima volta Diffa, una città nel territorio del Niger, paese che fino a quel momento era servito come base a cellule di terroristi e quindi risparmiato. Ciad, Camerun, Niger e pure Benin creano una coalizione militare contro Boko Haram. I villaggi sulle isole del lago Ciad sono più volte conquistati e liberati. Solo in Niger sono decine di migliaia gli sfollati (cfr. MC ottobre 2015).

Fedeltà al califfo

Shekau cerca poi alleati inteazionali. Il 7 marzo del 2015 proclama l’adesione al Daesh (Isis) e, soprattutto, la «sottomissione» di Boko Haram al Califfo Abu Bakr al Baghdadi, il quale pochi giorni dopo, tramite il portavoce Abu Muhammad al-Adnani lo riconosce ufficialmente come «espansione del Califfato in Africa Occidentale». Il passaggio è importante: Boko Haram, fenomeno tutto nigeriano, con la sua propria dinamica e regole, si sottomette al jihadismo mediorientale. Può essere un segno che i finanziamenti «interni» nigeriani si sono ridotti.

Il controllo territoriale presto lo perderà. Nel maggio del 2015 viene eletto presidente della Nigeria Mamadou Buhari, musulmano del Nord, che succede a Goodluck Johnatan, cristiano del Sud. Il nuovo presidente cambia strategia: «Senz’altro Buhari, ha messo in campo un’offensiva militare maggiore di quella che era stato in grado di fare Johnatan, e non tutto per colpa sua. Così ha strappato il territorio dal quale Shekau aveva proclamato lo stato islamico in Africa dell’Ovest. Un’area di una volta e mezza il Belgio, quindi abbastanza significativa. Un classico perché lo Stato islamico irrideva le frontiere coloniali. Ricordiamo che quella è una zona, nello stato del Boo, l’estremità Nord orientale della Nigeria, in cui si ha convergenza di quattro confini e per farli, in epoca coloniale, erano scesi in campo i migliori negoziatori del tempo. Lo Stato Islamico nasce esattamente lì, non è casuale, perché proprio in quella zona può frantumare l’idea di confini, di equilibrio, che provengono da una storia occidentale che il califfato sbeffeggia, rifiuta, non riconosce». Molti analisti danno Boko Haram in declino dai primi mesi del 2016 a causa dell’offensiva del governo federale. Non la pensa esattamente così Raffaele Masto: «Buhari è riuscito a riconquistare il territorio di Boko Haram, ma queste vittorie sul campo sono abbastanza di Pirro. Il terrorismo jihadista ha una caratteristica, lo vediamo anche in Siria e Iraq: adotta la strategia dell’elastico. Se ha un territorio lo amministra, ci ricava ricchezze, risorse, fa addestramento, propaganda. Se non ha il territorio ritorna al terrorismo puro. Boko Haram non ha smesso di fare attentanti».

Cambio di leader?

Per alcuni mesi Shekau non si fa sentire. Poi il 2 agosto scorso, tramite una pubblicazione, lo Stato islamico indica in Abu Musab al-Baawi, portavoce di Boko Haram, il nuovo governatore dello Stato islamico in Africa Occidentale. Ma già la sera successiva, è reso pubblico un audio di Shekau indirizzato ad al Baghdadi, nel quale dichiara che al-Baawi è un deviato e chiede al califfo di posizionarsi. In un video del 7 agosto Shekau si autoproclama «imam del gruppo Boko Haram in Nigeria e nel mondo intero».

Ci spiega Masto: «Oggi la setta è bicefala. Al Baawi, nominato direttamente da Abu Bakr al Baghdadi, dimostra che per il nuovo Isis, la realtà di Boko Haram, la provincia africana, è qualcosa di importante. Per questo hanno nominato un personaggio a loro fedele. Perché Abubakar Shekau è un personaggio sopra le righe, ingombrate, sanguinario, quasi imbarazzante per al Baghdadi. Ai tempi dell’adesione all’Isis qualcuno disse che rovinava l’immagine dello stesso Califfato. Ora con questa nomina, si capisce che lo Stato islamico aveva bisogno di qualcuno di più canonico, e più controllabile, a capo di questa provincia africana. Shekau rappresenta il Boko Haram della metamorfosi, nasce con una dinamica locale, aderisce allo Stato islamico ma vuole mantenere una logica anche locale, mentre Boko Haram di al-Baawi è qualcosa di diverso, più dentro le fila dello Stato Islamico vero e proprio».

Ma sembra chiaro che Shekau è in difficoltà, sia militarmente sia finanziariamente. Siamo lontani dalle disponibilità economiche e conseguenti azioni del 2014 e 2015.

Conclude Masto: «Non si sa quale delle due fazioni avrà maggiore forza, non si sa chi abbia la pateità di alcuni degli ultimi attentati. Di certo la situazione della Nigeria Nord orientale non è tranquillizzante. Rimarrà molto grave anche dal punto di vista umanitario. Inoltre un collegamento dei combattenti e addestratori del califfato mediorientale con gli uomini di al-Baawi sarebbe molto preoccupante. Diventa un cartello del terrorismo e l’Africa è parte di un teatro globale, questa è la cosa più inquietante».

È del 23 agosto, la notizia da fonte governativa nigeriana, che Shekau sarebbe stato «ferito mortalmente» in seguito a un attacco dell’esercito federale. Resta da vedere se e quando, l’immortale, toerà a farsi sentire.

Marco Bello

Archivio MC

Su MC abbiamo trattato a più riprese questioni relative al terrorismo africano: M. Alban e M. Bello, Terrorismo: il grande vuoto, dicembre 2010; E. Casale e M.Bello, Jihad africana, dossier, novembre 2012; M. Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, ottobre 2015.