Nicaragua. Una Chiesa in esilio


Cacciati il nunzio apostolico, alcuni vescovi, presbiteri e persino le suore di Madre Teresa. Il regime di Daniel Ortega accusa la Chiesa cattolica di sostenere gli oppositori. Ma i vescovi del Paese centroamericano replicano che loro sono solo dalla parte degli ultimi.

Era la fine di giugno del 2022 quando Daniel Ortega ha deciso l’espulsione delle Missionarie della Carità dal Paese.

Presenti a Managua dal 1986, le suore di Madre Teresa hanno dovuto lasciare il Nicaragua perché non avevano rispettato le leggi sul «finanziamento del terrorismo e sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa». Questa almeno era l’accusa rivolta loro dalla «Direzione generale di Registro e controllo delle organizzazioni senza scopo di lucro» del ministero dell’Interno nicaraguense. La stessa motivazione con la quale sono state messe al bando, in questi ultimi anni, oltre cento organizzazioni non governative (Ong).

(Photo by Cesar PEREZ / Nicaraguan Presidency / AFP)

Fuori chi contesta il regime

Il caso dell’espulsione dal Paese delle suore di Madre Teresa che, con una mitezza divenuta addirittura proverbiale, portano la loro assistenza agli ultimi in quasi tutti gli angoli del mondo, anche in contesti di guerra come sono oggi Gaza o l’Ucraina, ha fatto il giro del mondo. Le fotografie e i video che le ritraggono mentre, con le poche cose che avevano deciso di portare con loro, attraversavano a piedi il confine con il Costa Rica, sono tra le immagini simbolo della persecuzione dei cristiani in Nicaragua.

Un’oppressione che negli ultimi anni non ha avuto riguardo per nessuno, neanche per il Papa che si è visto cacciare su due piedi il nunzio apostolico dal Paese.

Monsignor Waldemar Stanislaw Sommertag, vescovo polacco, ambasciatore vaticano a Managua da quattro anni, il 6 marzo del 2022 è stato, infatti, accompagnato all’aeroporto della capitale in tutta fretta. Gli erano state concesse poche ore per raccogliere le sue cose prima di essere espulso.

L’ambasciatore della Santa Sede era arrivato in Nicaragua nel 2018, proprio quando esplodevano le proteste contro il governo di Daniel Ortega e sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo.

La Chiesa già allora era nel mirino per avere sostenuto la popolazione che protestava.

Venivano assaltate le chiese dai paramilitari e minacciati i vescovi. Uno di loro, il vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Managua, monsignor Silvio Josè Baez, nel 2019 era stato costretto a lasciare il Paese. Una sorte che sarebbe toccata a molti, fino a monsignor Rolando Alvarez, il vescovo di Matagalpa che, dopo oltre cinquecento giorni di carcere duro, e con una condanna a 26 anni di detenzione, il 14 gennaio del 2024 è arrivato a Roma, accolto in Vaticano insieme ad altri diciotto ecclesiastici scarcerati. Liberati grazie a una delicata trattativa condotta dalla Santa Sede, ma espulsi. Tutti messi su un aereo con un biglietto di sola andata.

La cacciata del nunzio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Il nunzio Sommertag i primi anni aveva cercato di tenere il dialogo aperto con il Governo consumando anche qualche frizione con la Chiesa locale.

La volontà era di utilizzare gli strumenti diplomatici per pacificare il Paese. E nel 2019 era stato anche mediatore nei colloqui tra Governo e oppositori.

Negli anni, però, la situazione si è fatta via via più difficile. Uno dei motivi è stato certamente la vicinanza espressa dal nunzio ai familiari dei tanti prigionieri, molti dei quali oppositori al regime di Ortega, che gli avevano chiesto di mediare per la loro liberazione. Una vicinanza che non è stata gradita dal Governo.

La situazione è poi precipitata quando il rappresentante della Santa Sede ha utilizzato l’espressione «prigionieri politici». A novembre 2021 è arrivato il primo segnale concreto del «non gradimento» quando è stato tolto al nunzio Sommertag il titolo di «decano» degli ambasciatori. In seguito, la situazione si è sempre più deteriorata fino all’espulsione. Oggi la Nunziatura apostolica è vuota, ed è custodita dal personale dell’ambasciata italiana a Managua.

Minacce, confische, arresti

«Le sofferenze inferte alla Chiesa in Nicaragua sono immani», commenta Alessandro Monteduro, il direttore della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) che sostiene i cristiani nelle terre di persecuzione. «Dall’aprile del 2018 sono stati centinaia gli attacchi nei confronti di religiosi, religiose e fedeli perpetrati dalla polizia fedele al regime di Ortega. Con la parola attacchi si indicano atti come minacce, rapine, profanazioni, arresti arbitrari, espulsioni, confische, divieti di ogni genere».

Tra le mosse per tagliare le gambe alla Chiesa, a metà del 2023, il Governo ha deciso anche il blocco dei suoi conti correnti. Questo ha portato come conseguenza la difficoltà, quando non la vera e propria impossibilità, di pagare qualsiasi cosa, persino le bollette della luce e dell’acqua. Per non parlare di tutte le opere di sostegno alla popolazione in difficoltà, dalle mense agli aiuti in denaro.

«Il Governo da anni è quotidianamente impegnato nel tentativo di mettere a tacere la Chiesa – riferisce ancora Monteduro -. Sacerdoti e vescovi sono stati arrestati, molte Ong sono state cacciate. Ma anche alcune manifestazioni di pietà popolare come la Via Crucis o le processioni sono state impedite. Succede anche che le spie del regime si presentino alle messe per registrare le omelie. I sacerdoti versano in uno stato di reale persecuzione».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

L’università dei Gesuiti

Fanno paura al regime di Managua anche i centri del sapere. La storica Uca, l’Università centroamericana del Nicaragua, ad agosto del 2023 è stata sottoposta a sequestro, e tutti i suoi beni, mobili e immobili, sono stati trasferiti allo Stato nicaraguense.

Sono stati gli stessi Gesuiti, che avevano fondato il prestigioso ateneo nel 1963, a rendere nota, in quei giorni, la notifica da parte del decimo Tribunale penale di Managua, con la quale si accusava l’Uca di essere «un centro di terrorismo che organizza gruppi criminali».

La Provincia centroamericana della Compagnia di Gesù ha obiettato a quelle accuse definendole «totalmente false e infondate» e affermando con coraggio, in un comunicato del 16 agosto del 2023, che il sequestro e la confisca altro non erano che il frutto «di una politica governativa che viola sistematicamente i diritti umani e che sembra essere finalizzata al consolidamento di uno Stato totalitario». Da allora l’Uca ha sospeso le sue attività accademiche.

Scout, Ong e vie crucis

La scure è caduta anche sugli Scout, la cui associazione, a metà febbraio 2024, ha perso la personalità giuridica. Questo a causa, sostiene il Governo di Managua, di irregolarità nella presentazione dei bilanci.

Con gli Scout, in quella stessa data, hanno subito la medesima sorte altri dieci organismi, tra cui la Fraternidad misioneras del fiat de María. Un mese prima, il 16 gennaio, a farne le spese erano state sedici Ong, dieci delle quali cattoliche o evangeliche.

Le organizzazioni non governative soppresse o cacciate sono ormai innumerevoli.

A tutto questo si aggiunge il fatto che anche in questo 2024, come era già accaduto negli anni scorsi, ai cristiani è stato impedito di celebrare la Via Crucis nelle strade durante la Quaresima. I divieti sarebbero stati almeno quattrocento, secondo quanto ha denunciato alla stampa indipendente l’avvocata e attivista Martha Patricia Molina, anche lei, come tanti, da anni in esilio.

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

La delicata posizione della Santa Sede

Gli interventi pubblici del Papa e del Vaticano sulla situazione della Chiesa in Nicaragua sono stati in questi anni centellinati al contagocce. La situazione è troppo pericolosa per i cattolici che vivono nel Paese, per questo la Santa Sede è impegnata in un paziente lavoro diplomatico quanto più possibile lontano dai riflettori dei media.

Quando a gennaio di quest’anno sono arrivati a Roma due vescovi (monsignor Rolando Alvarez e monsignor Isidoro Mora Ortega), quindici sacerdoti e due seminaristi scarcerati, e sono stati presi in carico dal Vaticano, su di loro è scesa una cappa di protezione. L’unica informazione trapelata è che sono ospitati da diverse diocesi italiane, da quella di Roma a quella di Civitavecchia-Tarquinia. Ma c’è il massimo riserbo sulle località o le parrocchie nelle quali alloggiano e continuano, per quanto possibile, il loro ministero.

Il Papa in questo 2024 ha parlato del Nicaragua pochissime volte, e sempre per chiedere il rispetto dei diritti umani e lo spazio per aprire un dialogo.

All’Angelus del primo gennaio ha lanciato un vero e proprio appello: «Seguo con preoccupazione quanto sta avvenendo in Nicaragua, dove vescovi e sacerdoti sono stati privati della libertà. Esprimo ad essi, alle loro famiglie e all’intera Chiesa del Paese la mia vicinanza nella preghiera. Alla preghiera insistente invito pure tutti voi qui presenti e tutto il popolo di Dio: che si cerchi sempre il cammino del dialogo per superare le difficoltà».

In seguito, la situazione del Paese è emersa nelle parole del Pontefice nel discorso dell’8 gennaio al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, «desta ancora preoccupazione la situazione in Nicaragua: una crisi che si protrae nel tempo con dolorose conseguenze per tutta la società nicaraguense, in particolare per la Chiesa cattolica. La Santa Sede non cessa di invitare ad un dialogo diplomatico rispettoso per il bene dei cattolici e dell’intera popolazione».

Scalata la classifica dei Paesi a rischio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Nella classifica dell’organizzazione Open doors, la World watch list che misura i Paesi con il più alto tasso di persecuzione dei cristiani, il Nicaragua nel 2023 si è collocato al trentesimo posto, mostrando un peggioramento della situazione rispetto all’anno precedente.

«L’obiettivo del Governo – spiega la Ong nel suo rapporto presentato lo scorso gennaio – non è semplicemente quello di mettere a tacere la voce dei cristiani, ma, data la loro influenza nel Paese, di ostacolare la loro credibilità e impedire la diffusione del loro messaggio. Va notato che mentre molti cristiani sono in prima linea, c’è una minoranza di credenti che, per paura o convinzione, sceglie di tacere. In alcune comunità ecclesiali ciò sta causando divisioni, che probabilmente stanno facendo il gioco del Governo».

Tra le tante storie colpisce quella del pastore evangelico Wilber Alberto Perez. Prima di essere espulso dal Paese, nel 2021 era stato arrestato e condannato a dodici anni di carcere. L’accusa inizialmente era di avere sollecitato una rivolta solo perché era stato trovato seduto in un luogo dove si erano assembrate molte persone. Dato che lui era riuscito a dimostrare di essersi trovato in quel luogo a riposare in compagnia di amici, è stato allora accusato di traffico di droghe illegali. Detenuto per un po’ di tempo, anche in una cella al buio, infine, gli è stato dato il foglio di via.

Un Paese cristiano

Ma che cosa è successo in questo Paese, a larghissima maggioranza cristiana?

Secondo i dati più recenti, riferiti al 2020, dell’Association of religion data archives, i cristiani in Nicaragua sono il 95% della popolazione. La maggior parte cattolici. Secondo altre stime più prudenti, i cristiani superano comunque l’80 per cento della popolazione. Perché dunque il Governo mette in atto la repressio- ne di un sentimento così diffuso? Perché la distruzione di chiese, la cacciata di religiosi e religiose?

Secondo gli osservatori è proprio la larga adesione alla Chiesa, l’unica che può dare voce a coloro che si sentono oppressi, che intimorisce il regime di Ortega.

Uno dei primi a essere stato esiliato e, dal febbraio 2023, anche privato della cittadinanza nicaraguense, è monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, che vive attualmente tra Miami, negli Stati Uniti, e il Vaticano.

Il 16 novembre del 2023, nel ricevere la «Medaglia per il servizio alla democrazia» dell’istituto statunitense National endowment for democracy, ha dichiarato: «Questa onorificenza non è solo un onore personale, ma una testimonianza della resilienza collettiva del popolo nicaraguense e dell’impegno incrollabile della Chiesa cattolica del Nicaragua nel difendere la libertà, la pace e la giustizia». Parole inequivocabili sulla posizione della Chiesa nel Paese e che dunque mettono paura al regime che ha scelto la strada del non dialogo e della repressione.

Secondo mons. Báez, «nel corso della storia, il popolo del Nicaragua ha dimostrato un coraggio eccezionale di fronte a sfide immense. Abbiamo affrontato il dominio oppressivo di una dittatura brutale e abbiamo assistito alla lenta erosione dei valori democratici, fino alla loro completa scomparsa». In questo contesto, sottolinea il vescovo, la Chiesa cattolica in Nicaragua «è sempre stata un rifugio sicuro per i poveri e gli oppressi e continua a essere un faro di speranza nella società».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Un futuro incerto

«La liberazione ad opera del regime Ortega-Murillo dei diciannove religiosi il 14 gennaio scorso – commenta Alessandro Monteduro, rispondendo sulle prospettive future dei cattolici in Nicaragua – ha consentito all’intera comunità cattolica mondiale di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, non è ancora chiaro se sia stata il frutto di un nuovo clima o una manovra politica.

Certamente ha influito la pressione internazionale che si è intensificata sia sul fronte politico, dagli Stati Uniti all’Alto commissariato dell’Onu per i Diritti umani, sia su quello mediatico.

Tutto ciò avrebbe indotto il regime a trattare con la Santa Sede. È probabile – prosegue Monteduro – che abbia inciso anche la volontà del Governo di non alienarsi completamente la comunità cattolica. Tuttavia, è anche vero che Ortega ha espulso un gruppo di leader caratterizzati da notevole spessore pastorale e ampia visibilità pubblica. Cosa che, agli occhi del regime, rappresenta un’azione di successo nel più ampio tentativo di reprimere e depotenziare la Chiesa.

Al di là dei toni apparentemente rassicuranti del Governo, è pertanto opportuno valutare l’accaduto con molta cautela».

Manuela Tulli

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com




La Cina è latina


Sono molti i paesi latinoamericani che firmano accordi commerciali con la Cina. La «Belt and road initiative» dà la possibilità al gigante asiatico di intensificare gli investimenti. Le aziende tecnologiche cinesi sono sempre più presenti nel continente, il che diventa un’influenza geopolitica. Cosa che non piace agli Usa, storicamente «padroni» di quel territorio.

La «trade war» con gli Stati Uniti, la corsa ai materiali critici, ma anche la necessità di trovare nuove opportunità di investimento e assoldare ulteriori partner per portare avanti la riforma dellʼordine mondiale: la Cina ha molte buone motivazioni per guardare allʼAmerica Latina. E i numeri confermano come lʼinteresse sia già tangibile. Complice il clamoroso ritardo di un Occidente restio a concretizzare le annose mezze promesse. Ad esempio, Guillermo Lasso, presidente uscente dell’Ecuador, liberale e con un passato da dirigente alla Coca Cola, il 15 maggio ha siglato un accordo di libero scambio con Pechino. Non è il solo da quelle parti a rivolgere lo sguardo a Oriente. Cile, Costa Rica, Perù, Paraguay, Uruguay e Honduras hanno già firmato trattati analoghi o si apprestano a farlo.

Mentre gli Stati Uniti, potenza regionale, frenano lʼespansione dei commerci citando il mancato rispetto dei diritti umani, la Cina – con circa 500 miliardi di dollari di interscambio – è ormai il secondo partner commerciale per tutta lʼAmerica Latina dopo Washington. Nel Sud America è già il primo. Soia, grano, mais, cotone, tabacco e carne bovina: sono alcuni dei 106 prodotti statunitensi a cui Pechino nel 2018 ha applicato tariffe rialzate fino al 25% per rappresaglia contro i dazi imposti da Donald Trump sulla tecnologia cinese. Questi prodotti oggi guidano la lista delle esportazioni dallʼAmerica Latina verso la Repubblica popolare cinese (Rpc). Più merci scambiate vuol dire anche maggiori occasioni per effettuare pagamenti in valuta locale, tanto che recentemente lo yuan, la moneta cinese, ha superato lʼeuro come seconda valuta di riserva estera del Brasile.

La via della seta

Poi ci sono gli investimenti. Oltre venti paesi dellʼAmerica Latina hanno aderito alla Belt and road initiative (Bri), il progetto lanciato da Pechino nel 2013 per costruire reti di trasporto in giro per il mondo. Dal 2005 al 2022 le banche cinesi hanno concesso prestiti ad aziende e governi regionali per oltre 136 miliardi di dollari. Dopo un periodo di assestamento, lʼultimo anno è stato contraddistinto da un ritorno ai finanziamenti su larga scala, con un crescente interesse per le energie rinnovabili anziché per lʼindustria petrolifera. Seguono tecnologia digitale, scienze e tecnologie agrarie, e comunicazioni satellitari: la Cina cementa la propria presenza nel continente e lo fa intercettando abilmente le aspirazioni dei governi in carica.

Gli avvertimenti americani sono serviti a poco: Huawei – bandita (completamente o in parte) dal 5G di una decina di paesi europei -, secondo il Center for latin america and latino studies, avrà verosimilmente accesso alla rete di Colombia, Venezuela, Cile, Argentina e Uruguay. Forse anche del Brasile, dopo lʼuscita di scena del sinoscettico Jair Bolsonaro e lʼelezione a presidente di Lula, che ha personalmente visitato un centro di ricerca Huawei durante un viaggio a Shanghai dello scorso aprile.

(Photo by Luis Barron / Eyepix Group). (Photo by Eyepix/NurPhoto)

Aziende cinesi in America Latina

La regione è sempre più laboratorio per lʼinternazionalizzazione delle aziende tecnologiche cinesi: in Colombia, quella di Didi è stata lʼapp di trasporto più scaricata del 2020, mentre lo scorso luglio il colosso cinese delle auto elettriche Byd ha annunciato che investirà 624 milioni di dollari in Brasile per costruire un nuovo complesso industriale, il suo primo impianto fuori dallʼAsia.

La Cina raccoglie anche quanto lasciato dallʼOccidente. Nella lista figurano dieci progetti idroelettrici in Brasile abbandonati dallʼamericana Duke Energy nel 2016, nonché quote di partecipazione nel colosso del litio cileno Sqm, lasciate due anni più tardi.

«Washington è come la Chiesa cattolica, i cinesi sono come i mormoni»: è il paragone eloquente utilizzato da un ministro degli Esteri latinoamericano, citato dal Financial Times, per descrivere lʼapproccio pragmatico di Pechino in opposizione agli aut aut ideologici degli Stati Uniti, convinti che gli affari vadano subordinati alla difesa dei valori democratici.

La «nuova Africa»

Lʼimpressione è che lʼAmerica Latina stia diventando – insieme al Medio Oriente – la «nuova Africa». Lʼaumento del debito africano, la permeabilità del continente al terrorismo islamico, la corruzione dilagante stanno spingendo la Cina a diversificare i mercati di sbocco per i propri investimenti nonché ad assicurarsi nuovi fornitori di materiali critici. Secondo i dati del Servizio geologico degli Stati Uniti, Bolivia, Argentina e Cile sono i primi tre paesi al mondo per riserve di litio, rispettivamente con 21, 19,3 e 9,6 milioni di tonnellate. Lʼinnalzamento di barriere normative in Namibia e Zimbabwe ha reso più appetibili le miniere sudamericane.

Proprio come in Africa, ora quei contatti economici coltivati nelle ultime decadi diventano paravento per sinergie meno innocue. LʼAmerica Latina sta diventando lo scacchiere di una nuova partita tra grandi potenze che vede la penetrazione cinese assumere connotazioni non più solo economiche, ma anche politiche e militari. È il segno di come la capacità di stringere accordi commerciali, dispensare investimenti e concedere prestiti, abbia contemporaneamente assegnato a Pechino una preziosa leva diplomatica in unʼarea del mondo centrale nel risiko per la leadership globale. Inoltre, trattandosi del «cortile di casa» statunitense ogni vittoria cinese assume un valore simbolico elevatissimo.

President of Brazil Luiz Inacio Lula da Silva (L) and President of China Xi Jinping (R) (Photo by Phill Magakoe / AFP)

Taiwan

Tutto, o quasi, ruota intorno a Taiwan (vedi dossier su questo numero ndr), lʼisola che la Cina rivendica come parte integrante dei propri territori. La maggior parte dei paesi latinoamericani hanno riconosciuto la Repubblica popolare cinese subito dopo il viaggio a Pechino del presidente americano Richard Nixon nel 1972. Da allora il legame ideologico è servito da collante politico in tutti quei paesi storicamente guidati dalla sinistra, come Venezuela, Argentina, Cuba, Bolivia e Messico. Ciononostante, per decenni la regione è rimasta ugualmente una delle più accoglienti per Taipei, alleata degli Stati Uniti fin dalla Guerra fredda.

Una decina di stati latinoamericani ha continuato a tenere fede agli impegni presi negli anni ʼ40, quando – su istruzione dellʼamministrazione Truman – iniziarono a diventare ferventi anticomunisti.

Nel 2016 lʼarrivo al potere a Taiwan dei filo indipendentisti del Partito democratico progressista (Dpp, in inglese) ha spinto Pechino a ostracizzare ancora di più lʼisola, proprio sfruttando il forte ascendente economico. Da allora Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno interrotto rapporti ufficiali con Taiwan per riconoscere la Cina popolare. Alcune isole dei Caraibi, Haiti, Guatemala, Paraguay e Belize sono rimaste le uniche nazioni regionali con cui Taipei intrattiene ancora relazioni diplomatiche. Una fedeltà precaria spesso messa in discussione durante le campagne elettorali, quando promettere lʼarrivo di capitali cinesi torna comodo agli aspiranti presidenti. Dʼaltronde Taipei, sebbene non estranea alla cosiddetta «diplomazia dei dollari», ha presa ormai solo sulle nazioni meno sviluppate dellʼAmerica Latina, mentre i paesi più avanzati, come Panama, da tempo orbitano nella galassia cinese. Tanto che ad agosto il Parlamento centroamericano (istituzione politica per lʼintegrazione regionale, ndr) ha espulso lʼex Formosa come osservatore permanente dopo oltre ventʼanni.

Questione di sicurezza

Inutile dirlo, è una questione che preoccupa anche gli Stati Uniti. Quando El Salvador ha reciso i legami con Taiwan a favore della Repubblica popolare, al Congresso Usa è stata proposta la sospensione degli aiuti al governo di Nayib Bukele come monito per gli altri governi regionali ancora indecisi.

Il fatto è che il crescente affiatamento tra la dirigenza cinese e i leader dellʼAmerica Latina ha risvolti anche in termini di sicurezza. Come sottolinea su Asia Times Evan Ellis del Us army war college strategic studies institute, la Cina gestisce diverse strutture commerciali sparse tra Messico, Bahamas, Panama e nei Caraibi, potenzialmente utilizzabili per la raccolta di informazioni dʼintelligence. È uno degli aspetti più controversi della Belt and Road Initiative, additata dai detrattori.

A giugno il Wall Street Journal ha riacceso i riflettori sulla presenza a Cuba di avamposti utilizzati dal ministero della Sicurezza dello stato cinese ad appena 100 miglia dalle coste della Florida. Non è esattamente una novità: la Cina utilizza lʼisola caraibica per la raccolta di informazioni militari fin dal 1999, quando LʼAvana ha concesso al governo cinese di stabilirsi a Bejucal, città a sud della capitale, in una struttura dove operavano precedentemente i servizi sovietici.  Per stessa ammissione della Casa bianca, nel 2019 Pechino avrebbe provveduto a potenziare la base, non è chiaro se in cambio di nuovi investimenti nel paese o della rinegoziazione dei debiti, annunciata lo scorso novembre. Sempre secondo fonti del quotidiano finanziario (Wsj), la possibile nuova struttura militare fa parte del «Progetto 141», unʼiniziativa con cui la Cina mira a espandere la propria rete di supporto militare e logistico in tutto il mondo.

Mentre la vicinanza geografica agli Stati Uniti rende gli stati latinoamericani degli avamposti troppo vulnerabili per un attacco navale in caso di guerra, la stessa prossimità fisica si rivela invece strategica per portare avanti operazioni di disturbo a livello di comunicazione elettronica. A questo proposito giocano a favore della Repubblica popolare gli accordi commerciali stretti a livello locale dalle big tech cinesi: ad esempio il G5 Huawei (azienda privata ma legata al governo cinese, accusata di spionaggio in vari paesi).

Come sottolinea sempre Ellis, lo scenario bellico più probabile coinvolge proprio Taiwan, definita da Pechino il «rischio più importante» per le relazioni con Washington. Un coinvolgimento degli Usa al fianco di Taipei potrebbe rendere necessario il supporto delle nazioni dellʼAmerica Latina.

(Photo by Ecuadorian presidential palace / XINHUA / Xinhua via AFP)

«Fratellanza Sud-Sud»

Ma lʼinvasione cinese dellʼisola – salvo colpi di scena – non sembra imminente. Più che a imbracciare le armi, nellʼimmediato, il sostegno della regione latinoamericana è teso perlopiù alla promozione di valori e aspirazioni condivise. La chiamano «fratellanza Sud-Sud», è la solidarietà che lega Cina e molti paesi emergenti, accomunati da un passato simile. Nel 1840, centinaia di migliaia di immigrati cinesi furono portati dai colonizzatori portoghesi e americani a Cuba e in Perù per lavorare come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero o nelle miniere dʼargento. Oggi gli echi di quellʼimperialismo occidentale nel cosiddetto «Sud globale» sono amplificati dal malcontento accumulato negli ultimi decenni a causa della mancata riforma dellʼordine internazionale. Da noi si parla di «revisionismo», ma per molti paesi emergenti lʼarchitettura mondiale è composta da istituzioni ormai obsolete che non rispecchiano adeguatamente i nuovi equilibri economici e geopolitici.

Nuovo ordine mondiale

Prendiamo i Brics, lʼacronimo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nata nei primi anni Duemila, lʼorga-nizzazione ha acquisito nuovo vigore dopo la guerra in Ucraina e la contestuale rinascita di un terzo blocco di nazioni «non allineate», ovvero non favorevoli allʼinvasione russa, ma critiche nei confronti della Nato. Sono sempre di più i paesi a valutare un ingresso nella piattaforma.

Nel 2022, anticipando lʼadesione dellʼArgentina, il presidente (uscente, ndr) Alberto Fernández ha definito il gruppo «unʼalternativa cooperativa a un ordine mondiale che ha lavorato a beneficio di pochi». Lo stesso vale per il Venezuela. Incontrando a Brasilia lʼomologo Luiz Inacio Lula da Silva alcuni mesi fa, Nicolas Maduro ha affermato che Caracas è pronta a contribuire alla «costruzione della nuova architettura geopolitica mondiale che sta nascendo». Si tratta di un supporto simbolico ma non solo, considerata la vagheggiata intenzione di introdurre una moneta dei Brics in grado di affrancare gli stati membri dal dollaro.

Ecco che, mentre oggi tutti gli occhi sono puntati su Taiwan e le acque agitate dellʼIndo-Pacifico, lʼepicentro della competizione tra Cina e Stati Uniti si sta spostando proprio in America Latina.

Alessandra Colarizi

Nel numero di ottobre abbiamo pubblicato un articolo sulla Russia in America Latina.


La storia infinita del canale del Nicaragua

Doppio canale

Agli inizi del Novecento gli Stati Uniti avevano due opzioni per la costruzione di un canale che mettesse in comunicazione il Pacifico con l’Atlantico: passare per il Nicaragua o attraverso Panama. Il Congresso votò per la seconda opzione. Non solo perché era il percorso più breve, ma anche perché permetteva di aggirare i vari vulcani attivi che costellano l’America Centrale.

Un secolo dopo, con l’aumento del traffico marittimo, l’idea di un’alternativa nicaraguense torna d’attualità. Stavolta sono i cinesi a fiutare l’affare, incoraggiati dalla nascente Bri e dal contestuale interesse economico di Pechino per i mercati emergenti.

Nel giugno 2013, la Hk Nicaragua canal development investment group (Hknd), società registrata a Hong Kong e guidata dall’imprenditore Wang Jing, ottiene una concessione di 50 anni per finanziare e gestire l’opera. Ma nel 2015 il terremoto del mercato azionario cinese compromette fortemente la stabilità finanziaria dell’ex miliardario e del suo impero economico. Tre anni dopo il progetto è praticamente da considerarsi defunto: non solo, nel frattempo la Cina ha ormai spostato molti dei suoi investimenti a Panama.

A seguito di difficoltà finanziarie, nel 2018 la Hknd chiude i suoi uffici e sparisce nel nulla. È solo nel novembre 2021 che Wang ricompare con una lettera di congratulazioni per la conferma del presidente Daniel Ortega a un quarto mandato. «Il Gruppo Hknd e io abbiamo fiducia nel progetto del Canale grande», scrive l’affarista quasi a voler esorcizzare le pile di debiti che in patria lo hanno messo nei guai. E non è l’unico: passività e insolvenze da anni rallentano l’espansione della Bri.

C’è chi ritiene che Managua non abbia mai pensato seriamente di cedere la costruzione del canale ai cinesi. Piuttosto, il governo nicaraguense voleva dimostrare agli Stati Uniti di avere altre valide alternative, spiega alla Bbc la ricercatrice Sarah McCall Harris.

Poco dopo la vittoria elettorale, Ortega ribadisce il messaggio interrompendo le relazioni diplomatiche con Taiwan per allacciare contatti ufficiali con Pechino.

Lo scorso 31 agosto i due paesi annunciano la firma di un trattato di libero scambio che coinvolge pratiche doganali, tariffe, servizi finanziari e accordi ambientali multilaterali. Ma del famigerato canale, oltre la Grande muraglia, non se ne parla più.

A.C.




Nicaragua. La triste fine del sogno sandinista


Nel paese centroamericano, gli abusi della coppia presidenziale Daniel Ortega-Rosario Murillo non conoscono fine. Gli oppositori sono in carcere o in esilio, mentre la Chiesa cattolica è sotto assedio.

Baffetti neri, indossava sempre una divisa militare e un paio di occhiali a goccia poggiati sul naso. Serio, determinato, di poche parole. Aveva portato alla vittoria il Fronte sandinista (Fsln) sconfiggendo il dittatore Anastasio Somoza e i suoi poderosi alleati, gli Stati Uniti di Ronald Reagan. Nel luglio del 1979, era entrato a Managua, capitale del paese, da trionfatore, accolto da una folla di nicaraguensi entusiasti, applaudito all’estero da schiere di ammiratori.

Managua, febbraio 2023.  Baffetti grigi, abiti civili, cappellino in testa. Circondato dai suoi collaboratori, parla con un tono di voce tranquillo e monocorde, ma usando il vocabolario tipico del nazionalismo più spinto: agenti stranieri, traditori, terroristi, mercenari al soldo dell’imperialismo. Gli epiteti sono riferiti ai 222 prigionieri politici da lui stesso improvvisamente rilasciati, messi su un volo charter e spediti negli Stati Uniti, ma non prima di essere stati spogliati della cittadinanza. Protagonista di questi eventi è Daniel Ortega Saavedra, un tempo mitico comandante sandinista, oggi presidente del Nicaragua o, secondo l’opinione più accreditata, dittatore senza se e senza ma.

Il presidente russo Putin durante la sua visita al Nicaragua di Ortega e Murillo l’11 luglio 2014. Lo scorso 23 febbraio 2023 il Nicaragua ha nuovamente votato a favore della Russia durante l’Assemblea delle Nazioni Unite. Foto Cesar Perez – Presidencia de Nicaragua – AFP.

Ortega-Murillo, coppia «regale»

Prima, dal 1979 al 1990, poi, dal 2007 a oggi, Daniel Ortega ha ormai raggiunto i 27 anni alla guida del paese centroamericano. Il suo passaggio da presidente ad autocrate (eufemismo per dittatore) è stato graduale, ma sistematico, con la progressiva neutralizzazione di ogni opposizione, in primis quella interna al movimento sandinista. Punto di svolta sono state le proteste di piazza (contro la riforma del sistema di sicurezza sociale, Inss) dell’aprile del 2018, concluse con un bilancio di (almeno) 350 morti. In quell’occasione, il governo ha giustificato la propria reazione accusando i manifestanti di terrorismo golpista che minacciava la stabilità del paese. Nelle elezioni del novembre 2021, Ortega è stato rieletto con il 75% dei voti, ma praticamente senza avversari, visto che i principali concorrenti erano stati incarcerati prima del voto (Cristiana Chamorro, Arturo Cruz, Félix Maradiaga, Juan Sebastián Chamorro, Miguel Mora, Medardo Mairena e Noel José Vidaurre Arguello) o avevano preferito lasciare il paese (María Asunción Moreno).

Dal 2019 il Nicaragua è sottoposto a sanzioni internazionali da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Anche per questo, si sono fatte sempre più strette le relazioni del paese con le due principali autocrazie mondiali: la Russia di Putin e la Cina di Xi (soprattutto dopo la rottura, nel dicembre 2021, delle relazioni tra Managua e Taiwan). Peraltro, entrambe le potenze sono coinvolte nel megaprogetto del canale del Nicaragua tra l’Atlantico e il Pacifico in futura concorrenza con l’unico canale ad oggi aperto, quello di Panama (di proprietà panamense, ma di fatto controllato dagli Stati Uniti). Le scelte di campo sono chiare. Il 23 febbraio Managua si è nuovamente schierata con Putin nella risoluzione delle Nazioni Unite contro l’aggressione della Russia all’Ucraina (unendosi – unico paese latinoamericano – a Bielorussia, Corea del Nord, Siria, Eritrea e Mali). Mentre una settimana dopo (2 marzo) è uscito un report delle Nazioni Unite che accusa il governo nicaraguense di gravi violazioni e abusi dei diritti umani (detenzioni arbitrarie, esecuzioni extragiudiziali, tortura, privazione arbitraria della nazionalità e del diritto di rimanere nel paese).

A queste alleanze internazionali Ortega ne affianca un’altra. Da molto tempo, al suo fianco siede la moglie Rosario Murillo, inizialmente come primera dama, dal 2017 anche con la carica ufficiale di vicepresidente, formando un controverso governo familiare che ricorda più le monarchie ereditarie che le istituzioni repubblicane.

Consolidano la dinastia Ortega-Murillo i nove figli della coppia. Tutti occupano posizioni importanti, ad eccezione di Zoilamérica, la primogenita di Murillo da anni in rotta con la famiglia. Laureano Ortega, il sesto figlio, già cantante d’opera, ha assunto il ruolo di «assessore» nel campo degli investimenti e della cooperazione internazionale, in particolare con la Cina, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con Taiwan. In quest’ottica, lo scorso 11 febbraio il giovane Ortega ha incontrato a Pechino Wang Yi, direttore della Commissione affari esteri (il diplomatico cinese di più alto grado).

Una foto storica: la trionfale entrata a Managua dei sandinisti, il 19 luglio 1979.

Senza esclusione di colpi

Da tempo, la Chiesa cattolica del Nicaragua è critica verso il governo di Ortega e Murillo e per questo è finita nel mirino della coppia presidenziale. Occorre però ricordare che all’inizio, subito dopo la caduta di Somoza (1979), una parte importante del cattolicesimo nicaraguense si schierò con i sandinisti tanto che alcuni sacerdoti (legati alla teologia della liberazione) entrarono in quel governo: Miguel D’Escoto, Edgard Parrales, Fernando Cardenal, Ernesto Cardenal. Famosa è rimasta la scena del 4 marzo 1983 nella quale Giovanni Paolo II, in visita al paese, con il dito alzato rimproverò pubblicamente padre Ernesto Cardenal, inginocchiato davanti a lui. Più recentemente, nel 2005, il cardinale Miguel Obando y Bravo celebrò le nozze religiose tra Ortega e Murillo.

Oggi i rapporti tra governo nicaraguense e Chiesa cattolica sono ai minimi storici. La coppia presidenziale accusa la Chiesa di appoggiare la rivolta iniziata nell’aprile 2018 e per questo ha iniziato una capillare persecuzione dei suoi rappresentanti. Eppure, a maggio 2018, cinque membri della Conferenza episcopale avevano fatto da mediatori negli incontri (mesa del diálogo nacional) tra il governo e la società civile. A quel tavolo di mediazione – ben presto rivelatosi fallimentare – sedeva anche monsignor Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa e amministratore apostolico della diocesi di Estelí, nonché critico instancabile del governo.  Nell’agosto 2022 i contrasti s’inaspriscono. A inizio mese, la polizia chiude le sette emittenti radio di proprietà della diocesi e pone agli arresti domiciliari il vescovo e i suoi collaboratori. La foto dell’arresto del prelato, con lui inginocchiato a terra e con le mani alzate davanti alla polizia di Ortega, fa il giro del mondo. Dopo quindici giorni, chiusi all’interno della curia di Matagalpa, il 19 agosto la polizia preleva i prigionieri e li conduce a Managua.

Il 9 febbraio arriva la mossa a sorpresa di Ortega con la liberazione e l’espulsione dei prigionieri politici, tra cui monsignor Álvarez. Questi però non smentisce la sua fama di oppositore intransigente: rifiuta la liberazione e l’espatrio. Il giorno seguente un Tribunale lo condanna a un totale di 26 anni di carcere.

Un primo piano di mons. Álvarez, il vescovo che, dopo aver rifiutato l’espulsione dal Nicaragua, è stato condannato a 26 anni di carcere. Foto Diocesis de Matagalpa.

Traditori della patria e paternalismo

L’offensiva repressiva del governo non si ferma però alla condanna del vescovo Álvarez. Il 15 febbraio un altro tribunale nicaraguense toglie la cittadinanza a 94 oppositori in esilio tra cui gli scrittori Sergio Ramírez e Gioconda Belli (entrambi sandinisti della prima ora) e il vescovo Silvio Báez. Tutti dichiarati «traditori della patria».

Secondo il magistrato di Managua, «gli imputati hanno compiuto e continuano a compiere atti criminali a danno della pace, della sovranità, dell’indipendenza e dell’autodeterminazione del popolo nicaraguense, incitando alla destabilizzazione del paese, promuovendo blocchi economici, commerciali e finanziari, il tutto a scapito della pace e del benessere della popolazione».

Oltre che nella Chiesa e nella società civile, il regime Ortega-Murillo ha individuato nelle organizzazioni non governative (Ong) un altro nemico. A fine 2022, su 7.227 Ong ufficiali ne erano state chiuse 3.106 (fonte «Expediente Nicaragua»), in teoria per mancanza di un’adeguata rendicontazione, in realtà per impedire un associazionismo considerato veicolo di critiche e per un avere un controllo ancora più stretto sulla popolazione. Molte Ong fornivano servizi essenziali per la salute, l’educazione e lo sviluppo.

Erano essenziali perché il Nicaragua rimane il terzo paese più povero delle Americhe (dopo Haiti e Honduras), nonostante la propaganda governativa. Per esempio, nel «Piano nazionale di lotta contro la povertà e per lo sviluppo umano 2022-2026» del luglio 2021 è scritto testualmente: «Il modello cristiano e solidale, con i valori cristiani e le pratiche di solidarietà che guidano la costruzione di circoli virtuosi di sviluppo umano con il recupero dei valori, la restituzione dei diritti e il rafforzamento delle capacità che ci hanno permesso di superare i circoli viziosi della povertà e del sottosviluppo». Questa sorta di «paternalismo cristiano» costituisce un mantra ad uso e consumo della coppia presidenziale.

Sentire (Multinoticias Canal 4, televisione di cui sono proprietari i figli Juan Carlos e Daniel Edmundo) o leggere (El 19) i discorsi della compañera Rosario lascia interdetti per la profusione di parole come amore, felicità, pace, dignità, libertà, sovranità, sempre «por gracias de Dios» (grazie a Dio).

Volenti o nolenti, il destino dei nicaraguensi – almeno al momento – rimane nelle mani di Daniel Ortega e Rosario Murillo, probabilmente la peggiore rappresentazione di quello che fu il sogno sandinista.

Paolo Moiola

Il vescovo Silvio Báez privato della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Fotogramma.


Come il potere cambia gli individui

Dall’empatia all’arroganza

La scrittrice Gioconda Belli privata della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Foto da Facebook.

L’esperienza di oggi e del passato dimostra che il potere cambia gli individui. Certamente non tutti alla stessa maniera, ma è difficile rimanere indenni dalla metamorfosi che il potere produce negli atteggiamenti e nei comportamenti delle persone. Nello Spirito delle leggi (1748), la sua opera più nota, Montesquieu (1689-1755), padre riconosciuto del principio della «separazione dei poteri», scrive: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti».

È quello che lo psicologo Dacher Keltner dell’Università della California di Berkeley ha chiamato il «paradosso del potere» (2016). Secondo i suoi studi, una volta raggiunto il potere il protagonista perde le qualità che sono state necessarie per conseguirlo. Questo significa che le persone di potere tendono ad avere meno comprensione dei punti di vista altrui, meno sensibilità, meno compassione verso le sofferenze degli altri ovvero – per dirla in breve – presentano un «deficit di empatia».

«Il deficit di empatia – scrive la psicologa Jennifer Delgado Suárez – non riguarda tutte le persone che hanno potere. C’è chi conserva la capacità di connettersi con gli altri e mettersi nei loro panni. Dopotutto, il potere non è una posizione, ma uno stato mentale. Un politico può sentirsi potente, così come un ufficiale delle forze di sicurezza dello Stato o un giudice, ma può sentirsi potente anche il proprietario di un’impresa o l’insegnante che esercita una certa autorità sui suoi studenti. Chi comprende la responsabilità che deriva dal potere e lo vede come uno stato transitorio che gli consente di aiutare gli altri e migliorare la propria vita, può preservare la propria empatia».

Lo scrittore Sergio Ramírez privato della cittadinanza nicaraguense il 15 febbraio 2023. Fotogramma.

Al potere è anche collegata quella che viene chiamata la «sindrome dell’arroganza» (Hubris syndrome). «La sindrome di Hubris – scrive David Owen (Clinical Medicine, agosto 2008) – è indissolubilmente legata al potere: il potere è un prerequisito, e quando il potere passa la sindrome normalmente si risolve». È meno probabile che essa si manifesti nelle persone che sanno rimanere modeste, che rimangono aperte alle critiche o che sono dotate di senso dell’umorismo.

Sfortunatamente – lo insegna la storia e lo vediamo nella quotidianità – il potere corrompe e per alcuni diventa difficile o impossibile farne a meno. Spesso neppure la separazione dei poteri risulta sufficiente per arginare la deriva del potere. Sono necessari almeno altri due requisiti: una democrazia solida e una società istruita e dotata di spirito critico.

Pa.Mo.


SCHEDA PAESE

Superficie: 130.374 km²
(il paese più esteso dell’America centrale).

Popolazione: 6.702.379 (2022).

Capitale: Managua (un milione di abitanti).

Forma di governo: repubblica presidenziale (Daniel Ortega e Rosario Murillo).

Religioni: 44,9 per cento di cattolici, 39,8 di evangelici
(di varie denominazioni).

Economia: fondata sul settore agricolo che produce fagioli, sorgo e mais per il consumo interno, e caffè, carne bovina, zucchero di canna, banane, cotone e tabacco per le esportazioni; tra le attività minerarie, l’estrazione dell’oro riveste una sempre maggiore importanza.

Condizione socioeconomica: i dati sulla povertà non sono univoci variando dal 30 al 43 per cento della popolazione.

Sanzioni internazionali: a partire dalla repressione dell’aprile 2018, molti paesi (Stati Uniti e Unione europea in primis) hanno adottato sanzioni contro il regime Ortega-Murillo. L’ultima condanna delle Nazioni Unite è del 2 marzo 2023.


L’Università dei Gesuiti (Uca) e la rivista «Envío»

I vulcani non avvertono

L’Università centroamericana di Managua – generalmente conosciuta con l’acronimo di Uca – è la prima università privata nata in Centroamerica. È stata fondata il 23 luglio 1960 dalla Compagnia di Gesù.

Tra i numerosi meriti dell’ateneo dei Gesuiti c’è quello di essere stato l’editore della rivista Envío. Il primo numero del mensile uscì nel febbraio 1981, l’ultimo è del giugno 2021. Inizialmente, la rivista fu soprattutto uno strumento di «appoggio critico» alla rivoluzione nicaraguense e al pensiero sandinista. Dal 1990 – in concomitanza con la sconfitta elettorale del Fronte sandinista (Fsln) – si aprì all’America Latina e a molte altre tematiche (dall’ambiente ai popoli indigeni), fino a quando è esplosa la crisi del Nicaragua.

«Aprile 2018 – si legge nell’editoriale del numero di dicembre di quello stesso anno – sarà per sempre impresso nella coscienza nazionale. La sproporzionata risposta repressiva del regime contro le prime proteste cittadine fece esplodere il vulcano. Nessuno aveva presentimento, ma c’erano innumerevoli ragioni che annunciavano che sarebbe successo. Un decennio di sfrenato autoritarismo ha trasformato lo scoppio in un’insurrezione della coscienza nazionale. La gioventù universitaria l’ha iniziata, e la gioventù è stata seguita da gente, tanta gente, sempre più gente. Per anni c’erano morti e terrore nelle zone rurali ma Managua, León, Masaya, le città del Pacifico sembravano addormentate. Al risveglio, hanno sollevato l’intero paese. Com’è stato possibile? Non per una cospirazione dall’esterno, ma a causa della molta lava accumulata all’interno. I vulcani non avvertono.

Questa è una sintesi, un resoconto di quanto abbiamo scritto quest’anno alla vigilia dello scoppio e nelle giornate indimenticabili di resistenza civica e ribellione popolare vissute da aprile».

Infine, l’ultima svolta, raccontata così sul sito che oggi funge da archivio: «Nell’aprile 2018 ci siamo impegnati nell’insurrezione cittadina che chiedeva un Nicaragua libero. A giugno 2021, quando abbiamo compiuto 40 anni, abbiamo deciso di porre il punto finale a quest’esperienza informativa tanto preziosa».

Poche semplici righe che, pur senza entrare nei dettagli, sono sufficienti per spiegare l’eutanasia della storica rivista.

L’Università dei gesuiti riuscirà a resistere? La domanda è lecita visti gli ultimi sviluppi. Il 7 marzo il governo Ortega-Murillo ha, infatti, deciso la chiusura di due università: la Universidad Juan Pablo II (Managua e altre quattro città) e la Universidad cristiana autónoma de Nicaragua (León e altre cinque sedi). Allo stessso, tempo è stata costretta alla chiusura (formalmente per autoscioglimento) l’organizzazione della Caritas. In Nicaragua, la repressione non si ferma.

Pa.Mo. 

IL NICARAGUA SU MC

Paolo Moiola, Rosario e Daniel Ortega Spa, gennaio-febbraio 2017




I perdenti 52. Augusto César Sandino, libertà e riscatto sociale

testo di Don Mario Bandera |


È passato diverso tempo da quando, in Nicaragua, in un agguato teso dagli sgherri del dittatore Anastasio Somoza è stato assassinato Augusto César Sandino. Era il novembre del 1934.

Da allora, la figura dell’eroe nicaraguense è entrata nell’iconografia del continente americano, come simbolo della lotta per la libertà e del riscatto sociale per tutti i popoli del Centro America. Ricordare Sandino oggi, ci permette di fare memoria soprattutto dell’eroe dell’antimperialismo capitalista made in Usa, voce profetica non solo del suo Nicaragua, ma di tutti i popoli oppressi dal grande capitale al soldo delle nazioni più potenti. Proprio questa sua veste di oppositore al colonialismo militare, economico e culturale yankee, mostra l’attualità e genialità del pensiero di Sandino.

Forse la leggenda legata alla sua persona sta proprio nel fatto che egli non è stato l’eroe solitario, lontano e irraggiungibile, ma l’uomo che, gomito a gomito con gli oppressi ed emarginati di ogni latitudine, ha lottato per la dignità e la libertà di ogni uomo e singola nazione. Ancora oggi nei murales che coprono i muri del Nicaragua, il suo volto creolo risalta per il colore bronzeo che lo caratterizza come un qualunque contadino centroamericano. Il cappello, poi, bianco alato con una striscia alla base, è quello tipico di tutti i lavoratori della sua terra che si recano al lavoro alle prime luci dell’alba.

Sandino era, e resta, un eroe popolare, per questo lo sentiamo parte dei nostri ideali. Nella sua vita ha incarnato pienamente l’eterna resistenza degli ultimi, quando questi si ribellano alle condizioni disumane di lavoro e di vita imposte dall’alto. La sua grandezza sta proprio nella sua ribellione. Forse, il gesto più significativo della sua vita è stato quello di dire di no al padre, che da uomo semplice e tranquillo, obbedendo agli ordini del governo, era andato dal figlio a dirgli: «Augusto César, arrenditi!». Sandino, fedele ai suoi ideali, non ha obbedito e ha «mandato a quel paese» i generali che gli chiedevano la resa. Sandino era, e resta, l’emblema dell’uomo libero. In breve tempo egli è diventato «il generale degli uomini liberi».

Gli uomini liberi in quel periodo erano un esercito di straccioni: uomini, donne e bambini, che lo seguivano sugli impervi sentieri delle montagne del Nicaragua, gridando: «Qui non si arrende nessuno!», sventolando le bandiere sandiniste sporche di fango e rotte da mille lotte.

Caro comandante, una delle prime cose che suscitano un certo stupore in chi ti avvicina è il modo con cui accogli l’interlocutore…

Da sempre, quando saluto o accolgo qualcuno non gli dò la mano, ma preferisco abbracciarlo: sono convinto, infatti, che ogni uomo – specialmente il più povero – porta dentro di sé la pienezza della dignità insita in ogni essere umano. Così facendo cerco di portare alla luce questa qualità nei centroamericani.

Parlaci un po’ di te, della tua vita in Nicaragua.

Nacqui il 18 maggio 1895 a Niquinohomo, nel dipartimento de Masaya, figlio illegittimo di un ricco coltivatore di caffè che aveva approfittato di mia madre che lavorava nei suoi campi. Abbandonato a 9 anni da mia madre, per un po’ vissi con mia nonna e, appena fui in grado di lavorare, venni accolto nella casa di mio padre dove dovevo comunque lavorare per guadagnarmi da vivere

A 17 anni, era il 1912, restai molto impressionato dalla morte del generale Benjamin Zaledon, un patriota della mia terra che, con pochi uomini e con scarse risorse a sua disposizione, si era opposto alle truppe statunitensi che erano sbarcate in Nicaragua a sostegno del presidente Adolfo Diaz.

Sopravvissi lavorando nella terra di mio padre fino al 1921, quando in un violento litigio ferii uno che aveva fatto commenti denigratori su mia madre.

E cosa comportò quel ferimento?

Dovetti scappare dal paese per evitare la vendetta della sua potente famiglia. Mi misi a viaggiare e a lavorare per i paesi del Centro America, arrivando in Messico. Fu in quel paese che cominciai la mia «formazione politica» e iniziai a rendermi conto degli influssi pesanti dell’ingerenza nordamericana nella vita dei nostri paesi. Direi che fu lì che mi convertii all’antimperialismo. Nel 1926 rientrai in Nicaragua, andando al mio paese, dove nel frattempo il mio vecchio nemico era diventato sindaco. Fui costretto a rifugiarmi in una città del Nord.

In quel periodo scoppiò lo scontro aperto tra liberali e conservatori.

Con l’appoggio statunitense quelli del partito conservatore avevano estromesso il presidente liberale. I liberali allora avevano iniziato una vera guerra perché fosse rispettata la Costituzione. A sostegno dei conservatori e dei loro interessi (era in gioco anche il progetto della costruzione di un secondo canale dall’Atlantico al Pacifico che doveva passare attraverso il Nicaragua) gli Usa avevano occupato militarmente le coste catturando anche il leader dei liberali. In questa situazione io entrai a far parte delle truppe liberali, inizialmente senza grandi successi.

Ma poi le cose cambiarono.

Dopo le prime sconfitte, mi misi a studiare a fondo le tattiche di guerriglia e in breve le cose cambiarono, riuscendo anche ad avere un nutrito gruppo di cavalleria proveniente dalla città di San Juan de Segovia. Con loro riportammo vittorie significative sulle truppe dei conservatori sostenuti dagli statunitensi. Ma, di fronte al rischio di un intervento diretto degli Usa, i liberali e i conservatori nel 1927 si misero d’accordo rimandando tutto alle elezioni del 1928.

Tu però non accettasti quel patto.

Mi ritirai allora al El Chipote, una cittadina quasi sulla costa del Pacifico, dove misi su famiglia.  Fu lì che la mia lotta ebbe una svolta, da guerra civile (liberali e conservatori) a lotta patriottica contro gli invasori nordamericani. Il 12 maggio 1927 scrissi un messaggio diretto alle autorità locali di tutti i dipartimenti del paese per rendere pubblica la mia determinazione di continuare la lotta finché i militari nordamericani non avessero lasciato il paese.

Il primo giorno del mese di luglio del 1927, insieme ai miei compagni emisi un Manifesto politico rivolto a tutto il popolo del Nicaragua, mentre il 14 dello stesso mese risposi negativamente alla proposta di sospendere le nostre azioni di guerriglia in tutto il paese che il capitano dei marines degli Stati Uniti, Gilbert Hatfield, mi aveva fatto recapitare.

Che successe dopo?

Con un pugno di combattenti mi rifugiai sulle montagne e ben presto mi trovai al comando di un vero esercito, Ejército defensor de la soberanía nacional (Esercito difensore della sovranità nazionale), composto da volontari provenienti anche da altri paesi americani. Con esso condussi per cinque anni un’efficace guerriglia contro gli occupanti statunitensi, infliggendo loro delle sonore sconfitte. Essi risposero organizzando, finanziando e armando la Guardia nazionale (l’esercito ufficiale del Nicaragua) al soldo dei latifondisti, sfruttando la divisione tra le varie componenti del paese. Fu una guerra dura e senza esclusione di colpi. Fino al 1933 quando, negli Usa della Grande depressione iniziata nel 1929, il presidente Roosvelt decise di cambiare tattica e scegliere una «politica di buon vicinato». Vennero ritirate tutte le truppe dai paesi centroamericani e caraibici, Nicaragua compreso. Dopo il ritiro nel gennaio del 1933 delle forze armate americane dal suolo nazionale, accettai di interrompere la lotta armata, ottenendo in cambio dal presidente liberale Juan Bautista Sacasa un’amnistia e la possibilità di creare con i miei uomini delle cooperative agricole nella regione del fiume Coco.

Si può dire che la lotta per gli ideali di giustizia e pace sociale, grazie alla tua volontà e determinazione, a quel punto avesse raggiunto i suoi obiettivi.

Certo che, quando il primo di gennaio del 1933, vidi ritirarsi le truppe nordamericane dal territorio nicaraguense, provai una profonda commozione e una grande gioia. Finalmente eravamo liberi a casa nostra.

Però restava da dare un impianto istituzionale e un programma sociopolitico al nuovo Nicaragua che, grazie a voi, si affacciava con la sua specificità sullo scenario mondiale.

Era una faccenda tutt’altro che facile. Avevo accettato il trattato di pace e deposto le armi, ma la situazione non era pacifica, anche perché la Guardia nazionale, che fu ufficialmente incaricata della sicurezza del paese, non perdeva occasione per rifarsi sui vecchi nemici sandinisti. In più Anastasio Somoza, capo della Guardia, aveva nella propria testa un solo obiettivo: prendersi tutto il potere.

Augusto César Sandino (centro) In viaggio verso il Messico. / Da http://teachpol.tcnj.edu/amer_pol_hist/thumbnail350.html. – Wikipedia

Un uomo buono e deciso, testardo e tutto d’un pezzo come César Augusto Sandino, non poteva immaginare il tradimento di Anastasio Somoza, forse uno dei più viscidi politici della storia dell’America Centrale. Per assumere il potere, Somoza aveva deciso di eliminarlo. Spinto dai propri ideali, Sandino andò incontro alla morte, mentre viaggiava per partecipare a un incontro di pacificazione tra le varie forze nicaraguensi. Fu ucciso in un’imboscata in una notte del febbraio 1934, sotto un cielo pieno di stelle. Il suo nome, la sua forza d’animo e la sua dignità si trasformarono immediatamente in leggenda per tutto il continente americano. Conoscere la storia di questo eroe semplice significa imparare che cosa è l’America Latina «centrale», dove scorrono le sue arterie più nascoste, le sue «vene profonde», là dove la gente conserva e recupera il suo status di umanità. La storia di Augusto César Sandino è la storia della fierezza e della libertà di ogni uomo che non si arrende ai soprusi dei potenti né ai despoti di turno.

Don Mario Bandera




Nicaragua. Rosario&Daniel Ortega spa


Lo scorso novembre Daniel Ortega è stato rieletto presidente del Nicaragua. Sua moglie Rosario Murillo, vicepresidente. In questa intervista María López Vigil, caporedattrice di Envío, prestigiosa rivista dell’Università Centroamericana (Uca) di Managua, traccia un quadro fosco della coppia presidenziale che da 10 anni guida il paese.

Quell’uomo con i baffetti, gli occhiali «a goccia» e un’uniforme verde militare era per molti – anche per chi scrive – un’icona. Lui, Daniel Ortega Saavedra, era il leader del Frente sandinista de liberación nacional (Fsln) che aveva liberato il piccolo Nicaragua dalla dittatura di Anastasio Somoza e resistito per 10 anni (dal 1979 al 1989) alle pressioni militari e politiche degli Stati Uniti, all’epoca guidati da Ronald Reagan.

Dopo gli accordi di Managua (agosto 1989), il paese centroamericano toò alla normale dialettica democratica. Daniel Ortega fu sconfitto nelle presidenziali del 1990 (da Violeta Chamorro), del 1996 (da Aoldo Alemán) e del 2001 (da Enrique Boloños). Nel 2006 Ortega vinse le elezioni, ripetendosi nel 2011.

Lo scorso 6 novembre Daniel Ortega, oggi 71enne, è stato eletto presidente per la terza volta consecutiva, mentre sua moglie Rosario Murillo è stata nominata vicepresidente. Un’abbinata familiare che non rappresenta un delitto, ma certamente non appare come una scelta eticamente opportuna.

María López Vigil

Per parlare delle elezioni e del decennio della famiglia Ortega abbiamo rivolto qualche domanda a María López Vigil, giornalista e scrittrice, caporedattrice di Envío, la rivista pubblicata dall’Università Centroamericana (Uca) di Managua. Va ricordato che la Uca, fondata dalla Compagnia di Gesù nel 1960, è senza dubbio uno dei più noti e prestigiosi istituti universitari dell’America Latina.

I dubbi sulle elezioni

Maria, Daniel Ortega e Rosario Murillo hanno vinto di nuovo. Tutto bene?

«Non sapremo mai i numeri ufficiali di queste elezioni. Da otto anni le autorità elettorali mentono e tutti lo sanno in Nicaragua. Eppure Daniel Ortega non ha stravinto. In ogni caso, ha vinto perché ha preparato tutto per non avere né osservatori inteazionali né partiti reali in competizione. Noi abbiamo calcolato un 70% di aventi diritto che non sono stati a votare, arrivando all’80% nelle zone rurali. Quindi, il 72,5% ottenuto da Ortega è stato calcolato su appena un 30% di votanti. Sarebbe corretto definirla una vittoria di Pirro».

Dopo le elezioni, l’emittente TeleSur ha commentato: «Con il suo processo elettorale esemplare, la democrazia nicaraguense è attaccata con aggressività dai governi e dai media occidentali. (…) Nelle elezioni statunitensi del 2012 Barack Obama vinse con l’appoggio del 31,5% (…). Daniel Ortega ha vinto con un appoggio del 49,4%» (TeleSur, 10 novembre). Dove sta la verità?

«In queste elezioni chi ha vinto è stata l’astensione. Qualcosa di molto significativo in Nicaragua, dove alla gente piace votare, perché le persone hanno “fede elettorale”. Le cifre diffuse dal disprezzato Comitato elettorale non sono credibili. Sono state precedute da tre frodi elettorali provate (2008, 2011 e 2012). Il problema elettorale in Nicaragua è molto grave perché il sistema è collassato».

La povertà resiste

Nel 2015 l’economia nicaraguense ha registrato una crescita del 4,5% (dato Fmi). Significa che il modello economico di Ortega funziona?

«Il governo di Ortega non è progressista. La spinta che ha avuto l’economia del Nicaragua si è basata sull’aiuto venezuelano (si tratta di ingenti prestiti petroliferi che tuttavia sono molto diminuiti negli ultimi due anni, ndr), aiuti che il presidente ha privatizzato. Il modello economico ha favorito fondamentalmente il grande capitale e per questo l’Fmi ogni anno si congratula con Daniel Ortega».

In questi anni il livello della povertà generale è diminuito in maniera significativa: era del 44,7% nel 2009, è sceso al 39,0% nel 2015 (dati Fideg).

«Ortega e Murillo sono al governo ormai da dieci anni. Sono diventati milionari con le entrate della cooperazione petrolifera venezuelana. La diseguaglianza sociale è maggiore oggi che dieci anni fa. I problemi principali del paese sono la disoccupazione e i cattivi impieghi (la cosiddetta occupazione informale): 8 su 10 nicaraguensi lavorano in proprio, senza un salario fisso e senza previdenza sociale. L’emigrazione verso Costa Rica e Panamá è massiccia. Le rimesse in dollari che gli emigrati inviano alle loro famiglie sono un sostegno importante per la gente più povera del paese. Il Nicaragua continua a detenere il record di paese più povero del continente dopo Haiti, anche se la differenza tra i due paesi rimane abissale».

Secondo la Cepal, organizzazione delle Nazioni Unite, nella classifica della povertà il Nicaragua viene però dopo di Haiti, Honduras, Guatemala e Messico.

«Premesso che entrare nella “competizione” per chi è più povero è comunque un fatto negativo, le prove per stabilire chi lo è di più sono sempre differenti».

La povertà è un’eredità storica. Cosa manca per diminuirla?

«Il problema principale da risolvere perché il paese superi la sua storica povertà è il sistema educativo di bassissima qualità. Abbiamo le maestre e i maestri peggio pagati dell’America Centrale e la minore percentuale del bilancio nazionale investito nell’educazione (2,5%). L’attuale governo non ha fatto nulla per migliorare l’istruzione».

Nicaragua 2009-2016: tassi di povertà generale (sinistra) ed estrema (destra).

Gli Ortega sostengono che il loro governo è un governo inclusivo.

«Ortega ha incluso nel suo governo la grande impresa privata e la élite imprenditoriale di sempre. Sono i suoi alleati più sicuri, suoi soci anche in varie attività. Per i più poveri ci sono i cosiddetti “programmi sociali”: borse alimentari mensili, maiali e galline per le donne rurali, lamiere di zinco per i tetti, crediti senza interesse per micro-attività urbane… Non c’è dubbio che alleviano la povertà e che i poveri gradiscano molto queste misure, però non risolvono il problema. La sola cosa che sradicherebbe la povertà sarebbe una occupazione stabile con un salario dignitoso.

Il 6 novembre molti di questi poveri, pur beneficiati con i programmi sociali, non sono andati a votare per Ortega. La gente è stanca del controllo sociale che questo governo impone, che si manifesta in varie maniere, più nelle zone rurali che a Managua e in altre città».

Ciò che resta del sandinismo

Mi pare che il sandinismo di oggi sia completamente differente da quello di ieri. Mi sto sbagliando?

«Tutti abbiamo ammirato il sandinismo e da anni siamo tristi per la situazione che viviamo qui. Però non serve a nulla dissimulare e mentire sul Fsln e su Ortega e la sua gente. Non sono sandinisti. Il sandinismo continua a essere vivo in Nicaragua, tuttavia non nelle istituzioni. In altre parole, non c’è alcun sandinismo nell’attuale Fsln».

Cos’è il sandinismo, María?

«È una delle radici di questa nazione. Il sandinismo è giustizia sociale e sovranità nazionale. Oggi invece ci sono diseguaglianza e ingiustizie».

Sovranità nazionale… Com’è la storia del progetto del Grande canale interoceanico nelle mani di Wang Jing, proprietario del gruppo cinese Hknd?

«Ortega è un “vendepatria” come diceva Sandino dei politici del suo tempo. Ha venduto il paese a una impresa cinese perché faccia un canale interoceanico. E anche se non lo facesse, perché questo progetto è una truffa e una pazzia, c’è una legge che già oggi permette a quella impresa e al gruppo di Ortega di appropriarsi delle terre per l’ipotizzato canale e i progetti ad esso associati».

Tuttavia, il Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) continua a vivere ed esistere, o no?

«In realtà il Fsln non esiste, perché è un partito privo di strutture. Quello che c’è è l’”orteguismo”, un progetto politico-familiare che viene comparato con quello di Somoza. In varie occasioni è stato detto: “Ortega e Somoza sono la stessa cosa”. Evidentemente sono passati gli anni, il mondo è diverso, il Nicaragua anche. Assomiglia a Somoza per l’autoritarismo, per il controllo familiare del paese, per la capacità repressiva (specialmente nelle zone rurali), per l’arricchimento personale e del gruppo dei suoi amici, per la corruzione e l’utilizzo privato delle risorse pubbliche».

In Nicaragua operano società multinazionali?

«Certamente. C’è la Cargill, ricevuta con tutti gli onori da Ortega.

C’è l’impresa mineraria canadese B2Gold. C’è la Monsanto. Ci sono zone franche coreane, taiwanesi, statunitensi. Perché il Nicaragua attira tanti investimenti stranieri, di multinazionali e altre imprese importanti? La ragione principale è che il Nicaragua ha i salari più bassi di tutta l’America Centrale. La manodopera è così a buon mercato che è l’unica che può competere con i più bassi salari dei paesi asiatici. Il Salvador ha un salario minimo del 50% superiore al nostro, quello dell’Honduras è due volte maggiore, quello del Guatemala è appena più alto di quello honduregno e quello del Costa Rica è quattro volte maggiore».

Queste multinazionali provocano disastri come negli altri paesi dell’America Latina? Anche in Nicaragua l’ambiente e la natura sono in pericolo?

Le imprese minerarie stanno facendo disastri ambientali ovunque esse lavorino, come nel resto dell’America Latina. In questo momento il governo ha dato in concessione il 10% del territorio nazionale per lo sfruttamento minerario, specialmente dell’oro».

La Chiesa cattolica e le chiese evangeliche

Qual è il ruolo della Chiesa cattolica del Nicaragua? Un tempo, specialmente con il cardinale Obando y Bravo, è stata una grande nemica del sandinismo. Oggi è alleata della famiglia presidenziale. Per favore, María, una spiegazione…

«La gerarchia della Chiesa cattolica è divisa, come in tutte le parti del mondo. Ci sono quattro dei dieci vescovi della Conferenza episcopale del Nicaragua che hanno posizioni critiche verso il governo Ortega. Gli altri mantengono posizioni ambigue: in alcuni momenti sono favorevoli al governo, ma generalmente preferiscono il silenzio. Il vescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio José Báez, è l’unico che ha sempre mostrato una posizione critica. Nelle elezioni del 6 novembre non è andato a votare sostenendo pubblicamente che il processo elettorale era viziato alla radice».

E le chiese evangeliche? Come sta accadendo in molti paesi latinoamericani, anche in Nicaragua la loro diffusione tra la popolazione è rapida.

«Sì, come in tutto il Centramerica e in tutta l’America Latina, esse sono cresciute in maniera esponenziale. In generale, leggono la Bibbia in una maniera che porta al fondamentalismo e a passività e rassegnazione davanti alla realtà. Ci sono le chiese protestanti storiche (battisti, anglicani), ma sono in chiara minoranza rispetto alle denominazioni evangeliche, che sono sempre più numerose, soprattutto nei quartieri poveri delle città e nei distretti rurali».

Le minoranze indigene

Qual è la situazione delle etnie indigene del Nicaragua? Sono 520 mila persone pari all’8,9% della popolazione totale.

«L’etnia maggioritaria è la Miskita. Al secondo posto c’è l’etnia Mayangna. L’etnia Rama è molto ridotta. Ci sono poi i Garifunas come in Honduras.

Queste quattro etnie occupano zone del Nord e Sud Caribe. Storicamente queste regioni, immense e ricche di risorse naturali, erano state ignorate o soggiogate dal governo centrale. Oggi, ogni volta di più, quelle terre sono invase da gente di altre parti del paese, con il tacito consenso di questo governo. È sempre successo. Ma in questi anni è aumentato il conflitto, anche armato, tra gli indigeni e gli invasori, con l’esercito che rimane a guardare».

Cosa spera per il presente e per il futuro di questo paese?

«Spero in un paese migliore, più giusto e più felice. Credo che un altro Nicaragua sia possibile. Anche se non nel breve periodo».

Il potere e le persone

Le risposte di María López Vigil sono dure. A noi rimane in testa il solito dilemma: sono gli anni che cambiano le persone o è il potere che le cambia indipendentemente dagli anni?

Paolo Moiola


Siti internet:

  • www.envio.org.ni
    È il sito della rivista Envío, fondata nel 1981.
  • www.uca.edu.ni
    Il sito dell’Università Centroamericana di Managua.
  • www.cenidh.org
    Il sito del centro nicaraguense per i diritti umani.
  • www.ans21.org
    È il sito dell’associazione «Alteativa Nord Sud per il XXI secolo» che dal 1993 si occupa di Nicaragua (e di Guatemala) e traduce in italiano anche la rivista Envío.
  • www.cse.gob.ni
    Il sito del Comitato elettorale del Nicaragua.
  • www.telesurtv.net
    Il sito dell’emittente Telesur.

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