Mondo. È lontana la «pace con la natura»

Era bello il titolo assegnato alla sedicesima Conferenza sulla biodiversità tenutasi a Cali, in Colombia, dal 21 ottobre al 1 novembre: «Paz con la naturaleza». Il vertice, organizzato dalle Nazioni Unite e noto come Cop (Conference of the parties) 16, è arrivato a due anni dall’ultimo, tenutosi a Montréal nel dicembre 2022. In quell’occasione, quasi 200 paesi avevano sottoscritto un ambizioso piano in 23 obiettivi – denominato the Kunming-Montreal global biodiversity frameworkper invertire la perdita di biodiversità entro la fine del decennio.

Con il termine biodiversità s’intende la varietà della vita presente sulla Terra: animali, piante, funghi e microrganismi come i batteri. Nel suo insieme, essa fornisce il necessario per la sopravvivenza, tra cui acqua dolce, aria pulita, cibo e medicine. Da tempo, questa biodiversità si sta rapidamente riducendo, principalmente a causa delle attività umane, come espansione della frontiera agricola e delle attività minerarie, inquinamento e mutamenti climatici. È stato calcolato che circa il 40% degli habitat naturali (foreste, fiumi, oceani) sia degradato e un milione di specie vegetali e animali sia a rischio estinzione.

Dopo due settimane di trattative, sabato 2 novembre (in ritardo rispetto al calendario ufficiale e con molti negoziatori già ripartiti) i delegati rimasti hanno concordato su due questioni centrali, da qualcuno già definite storiche: istituire un organismo sussidiario che includerà i popoli indigeni nelle future decisioni sulla conservazione della natura e obbligare le grandi aziende (per esempio, quelle farmaceutiche) a contribuire alla difesa della biodiversità quando, per la produzione dei loro prodotti, vengano utilizzate informazioni genetiche naturali (Digital sequence information, Dsi, ovvero i dettagli del Dna e dell’Rna di un organismo).

Una salamadra pezzata. (Foto Biodiversity Credit Alliance)

L’accordo sul «the Cali found» stabilisce anche quanto esse dovrebbero pagare: l’1 percento dei loro profitti o lo 0,1 percento delle loro entrate. I singoli governi sono invitati ad adottare misure legislative o di altro tipo che possano spingere le aziende a contribuire. Secondo una ricerca, un fondo del genere potrebbe raccogliere un miliardo di dollari all’anno per la conservazione della biodiversità. Tuttavia, non sono stati stabiliti né obblighi né tempistiche.

L’effettiva portata delle decisioni della Cop16 potrà essere valutata soltanto nei prossimi mesi. Però, gli impegni finanziari assunti sono stati irrisori e non promettono nulla di buono. Inoltre, molte organizzazioni ambientaliste hanno espresso forti perplessità sui contenuti del vertice. «Siamo profondamente delusi – ha affermato Amazon Watch – dal fatto che gli accordi finali e le posizioni della maggior parte dei governi alla Cop16 non abbiano preso gli impegni necessari per salvaguardare tutta la vita sulla Terra e il nostro futuro collettivo. Questioni chiave, come l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, sono state escluse dai documenti finali, mentre vengono promosse false soluzioni che mercificano la natura, come i “crediti per la biodiversità”, per mantenere il business come al solito».

Al di là delle critiche, di sicuro rimane il solito dubbio di fondo: pur importante (è sempre fondamentale che i Paesi s’incontrino e si confrontino sulle tematiche comuni), il vertice di Cali riuscirà a passare dalle dichiarazioni di principio alle azioni? Nel frattempo, chiusa la Cop16 sulla biodiversità, dall’11 al 22 novembre si terrà la Cop29 sui cambiamenti climatici. Sarà ospitata nell’Azerbaijan del petrolio e dell’autocrate Ilham Aliyev.

Paolo Moiola




Colombia: Giardini pensili


Alla scoperta delle bellezze di una natura ancora incontaminata e sempre capace di sorprendere, nello scenario dei grandi fiumi che dalle Ande colombiane scendono a confluire nel grande Rio delle Amazzoni.

Ricevo un’offerta che non posso rifiutare. «Andiamo in Colombia?». Ma dai! Quasi non ci credo. Subito penso che padre Angelo (Dutto) mi stia prendendo in giro perché conosce i miei interessi per lo studio degli insetti e la mia passione per le foreste tropicali. Ma il tono è serio e poi so che lui da sempre ci tiene a conoscere quella fetta di Sudamerica dopo quarant’anni passati in Africa orientale. Anzi, per la verità il Sudamerica era stata la sua prima scelta quando gli avevano domandato dove avesse voluto andare dopo l’ordinazione.

«D’accordo, ma purché si vada in Amazzonia», rispondo io. È la parte più «selvaggia» di quelle terre, ancora ricca di foreste percorse dai grandi corsi d’acqua che alimentano il re dei fiumi: il Rio delle Amazzoni.

Conosco padre Angelo da almeno una trentina di anni, da quando, missionario in Tanzania, sugli altopiani amati da Livingstone e da Hemingway, mi ospitava e prendeva parte attiva alle mie ricerche di entomologia. Ora è tornato a Torino ed è uno dei responsabili del Museo etnografico e di scienze naturali dei missionari della Consolata.

Trovato il volo che fa per noi, ci dividiamo la logistica: a me la parte tecnica, a lui il contatto con i colleghi missionari di quei luoghi. Come meta si sceglie Puerto Leguìzamo, cittadina ai confini col Perù posta sul fiume Putumayo, raggiungibile solo con piroga o con piccoli aerei. Saremo accolti nella casa del vescovo e qui troveremo, grazie all’appoggio di colleghi naturalisti, un aiuto insperato nella persona di un’ornitologa locale di nome Flor, una rarità per quelle latitudini.

A Bogotá arriviamo ai primi di ottobre, ospiti della casa regionale dei missionari nel quartiere di Modelia. I 2.600 metri di altitudine si fanno sentire con una leggera emicrania che però passa presto. Il tempo di prendere fiato e già siamo di nuovo in volo per Florencia, una cittadina ai piedi delle Ande. È una soluzione di ripiego: i voli diretti per Puerto Leguìzamo sono al momento indisponibili e questa è la sola possibilità; da qui con un secondo volo potremo raggiungere l’Amazzonia. Come sempre siamo accolti a braccia aperte. Sorvolate le Ande ci troviamo a fare i primi incontri con la natura lussureggiante dei tropici.

Non è vero che i giardini pensili li hanno inventati i babilonesi. Sono creazioni degli alberi. Questi giganti che trovi nelle foreste sudamericane ospitano una quantità tale di epifite che non finiscono mai di stupirci: dagli umili muschi, ai licheni, alle felci, ai cactus, a decine di bromelie per giungere a orchidee dalle forme e dai colori che solo l’illimitata fantasia della natura può creare. Ogni albero è una serra che ospita decine di specie vegetali in continua eterna competizione, lottando per sfruttare le posizioni migliori di luce, umidità e temperatura. Ogni centimetro di corteccia è un piccolo mondo adatto a essere colonizzato dal più forte o da quello che meglio si sa adattare alle peculiari condizioni microclimatiche. Ogni specie ha il suo spazio preferenziale adatto alle proprie esigenze e grazie al quale riesce a prendere il sopravvento sulle specie rivali. A una osservazione superficiale sembra una disposizione caotica e disordinata, ma in realtà nulla è lasciato al caso, come una rigorosa scacchiera.

Sul fiume Putumayo. «Vedi Napoli e poi muori», recita un detto. Bisognerebbe dire «vedi i fiumi del bacino amazzonico e poi muori». Almeno per i naturalisti come noi. La grandiosità dello spettacolo che offrono è da mozzafiato. Viaggiare ore su una piroga con la foresta che fa da muro e a volte da tetto, fra stormi di pappagalli multicolori e chiassosi, tucani dai becchi enormi, farfalle dai colori impossibili, scorgendo la sagoma di qualche scimmia, su acque perennemente limacciose da cui puoi aspettarti di vedere emergere per pochi istanti la sagoma di un delfino rosa, è bellissimo. Dalla riva, dove si scorgono piccoli nuclei di capanne o isolate palafitte, pescatori ti guardano passare indifferenti, concentrati a lanciare le reti a sparviero con cui traggono a riva pesci dalle forme e dalle livree impensabili.

Sono le quattro del pomeriggio e il sole comincia a rifiatare dandomi un po’ di tregua. Il fiume è immobile. Calma piatta. Nemmeno gli uccelli si fanno sentire. La lenza penzola inerte dalla canoa. Se continua così stasera a cena si tira la cinghia. All’improvviso uno sciacquio: un branco di pesci schizza fuori dall’acqua. Sembrano impazziti. Pochi istanti e ne capisco la ragione: le inia sono in caccia! Eccoli finalmente i delfini rosa delle Amazzoni! Cominciavo a pensare di non poterli osservare. Sono almeno quattro, usano la stessa tattica delle balene con le sardine e con manovre circolari spingono i pesci a formare un branco nel quale entrare poi a turno per fare man bassa. Sono tranquilli. La calma della sera mi ha favorito. Ogni tanto emergono per respirare e Angelo ha la possibilità di scattare qualche difficile foto. Non li vedo saltare come i fratelli del mare, ma scivolano invisibili sotto la superficie, favoriti dalle acque perennemente torbide.

Uno strattone secco alla lenza. Ha abboccato finalmente. Emerge dall’acqua fangosa un figuro dai bargigli lunghissimi, un pesce gatto armato di spine pettorali e dorsali taglienti come rasoi. So che devo stare attento a slamarlo per non ferirmi. Inutile: come lo sfioro mi frega. Lo adagio sul fondo della canoa e non credo alle mie orecchie: parla! Emette suoni gutturali, una sorta di singhiozzo ripetuto forte e ben udibile. A vedere il mio stupore Flor si mette a ridere: «Los peces de aca, hablan, bailan y toman», «i nostri pesci parlano, ballano e bevono». Vengo così a sapere che questa non è un’eccezione, che l’enorme variegato siete-babas fa altrettanto. Giuro che non userò mai più l’espressione «muto come un pesce».

Oggi ho tempo, ho finito con gli insetti e mi viene di tentare i piraña. Il ragazzo della finca (fattoria) mi indica l’ansa giusta dove posso trovarli, mi procuro un pugno di carne e getto l’amo. Non devo attendere molto. Uno strattone e recupero il filo. Strano. È pesante, si sente che c’è qualcosa attaccato, ma si lascia trascinare inerte. Stai a vedere che ho pescato il classico scarpone. Con mia grande sorpresa emerge invece un granchio rosso. È enorme, trattiene nella chela più grande il mio pezzo di carne e pare non abbia alcuna intenzione di mollarlo. Anzi pare voglia sfidarmi ruotando la seconda chela. Cerco di convincerlo con le buone a mollare la presa e alla fine cede. Non sarà l’unico, praticamente non mi lasceranno portare a casa la cena: all’esca arrivano prima loro dei voraci piraña.

È tardi, mi rendo conto che tra meno di mezz’ora sarà buio e viaggiare sul fiume a notte fonda non è prudente. I grossi tronchi galleggianti trascinati dalla corrente possono sfondare una piccola imbarcazione come la nostra. Ma c’è troppo da fare e da vedere e da imparare. Quando il marito di Flor accende il motore della piroga la notte ci ha già sorpresi. Strano però, anche col buio siamo circondati da decine di uccelli in volo. No, non sono uccelli ma pipistrelli! Cacciano a fior d’acqua, agilissimi e silenziosi, con un volo vellutato. Sono di medie dimensioni, e la loro taglia mi fa pensare che la loro dieta non sia solo a base di insetti, ma anche di piccoli pesci e questa spiega la loro massiccia presenza sul fiume.

Certe cose si avvertono subito a pelle. È un tipo squinternato padre José Fernando (Florez Arias di Puerto Leguízamo), ma quando lo vedo arrivare di corsa in maglietta sudata, sporca quasi quanto la mia, stivaloni infangati, barba trascurata mi è subito simpatico. Capelli lunghi, occhi neri e penetranti, fisico atletico, avrà sì e no quarant’anni. Non fa complimenti ma col suo atteggiamento ti fa sentire subito a tuo agio. È un missionario da avamposti persi nella foresta, uno con gli attributi insomma. Sta preparando le provviste per ritornare alla comunità in cui vive, a un paio di ore di piroga a motore, sulla sponda opposta del fiume Putumayo, in Perù. In questi posti la frontiera esiste solo sulle mappe e la gente passa il confine senza problemi. Ci propone di andare con lui e ovviamente accettiamo. Il posto per un naturalista come me è incantevole, c’è la foresta a un tiro di schioppo, ma non è certo l’ideale per chi ama le comodità. Vive in due stanzette di pochi metri quadrati con l’indispensabile per sopravvivere: un letto con zanzariera, un fornello per cucinare e far bollire l’acqua da bere, una biblioteca tascabile, un lavabo, un servizio igienico. L’unica cosa grande è la chiesa, quella sì, in grado di accogliere una quarantina di fedeli: nessun banco ovviamente, solo sedie. Ma qui si trasforma, sembra un’altra persona e assume un carisma insospettato che catalizza il rispetto dei fedeli presenti. Inutile aggiungere che la messa domenicale diventerà una celebrazione commovente. Solo chi le ha vissute può comprenderne l’intensità emotiva.

Gianfranco Curletti*
* Curatore entomologico del Museo di Carmagnola (Torino).

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I due viaggiatori ringraziano il vescovo del vicariato di San Vicente del Caguán, mons. Francisco Múnera, e quello del vicariato di Puerto Leguízamo, mons. Joaquín Pinzón, nonché tutti i padri che ci hanno aiutati nella ricerca entomologica, in particolare Rino Delaidotti a Solano. Per curiosità, la spedizione ha portato alla scoperta di nuove specie di insetti che saranno oggetto di pubblicazioni scientifiche. Ma questa è un’altra storia.