Meno di trenta chilometri separano Ramallah da Betlemme. Nonostante questo, soprattutto per i Palestinesi, recarsi alla cittadina della natività è diventato quasi impossibile.
I taxi aggirano i check-point israeliani passando dalle montagne, dalle valli senza strade asfaltate, tra i vicoli dei villaggi e gli uliveti. È impossibile evitarli tutti. In uno, quello principale sulla congiunzione che va verso Gerusalemme, ogni macchina viene ispezionata con cura. Molte sono le persone che vengono fatte scendere per essere perquisite. A volte ci vogliono ore. Per questo ci si sposta solo se strettamente necessario.
Normalmente, in questo periodo prenatalizio, Betlemme è affollata di turisti e pellegrini che si recano in visita alla basilica della natività. Centinaia sono i negozi di articoli religiosi e souvenir, oggi quasi tutti chiusi. Betlemme vive di turismo per il 70%. Dal 7 ottobre però, non è più così. Pur essendo domenica, sono pochissimi i fedeli che hanno assistito alla messa. Lo spiazzo antistante la basilica, sempre pullulante di macchine e autobus, è tristemente vuoto.
Entrando all’interno della Basilica, incontro padre Athanasios, uno dei sacerdoti greco ortodossi della chiesa. Racconta: «Io sono qui da più di 30 anni. Ho vissuto entrambe le intifada, ma non ho mai visto la chiesa così vuota come in questi ultimi due mesi. Non solo la chiesa, guardati attorno, tutti i negozi sono chiusi. Sono intere famiglie che dipendono dal turismo religioso. Queste persone possono resistere con i propri risparmi per un po’. Poi sarà davvero impossibile, se qualcosa non cambia presto. Noi celebreremo, come sempre, tutte le funzioni. Ma verranno solo i fedeli di Betlemme, per chi vive nelle città e nei villaggi vicini, sarà impossibile spostarsi».
Una signora, che ha appena acceso una candela all’interno della grotta della natività, dice: «Noi cristiani siamo sempre meno qui. I miei figli sono in America, hanno trovato lavoro lì e non torneranno. I fedeli rimasti sono quasi solo persone della mia generazione, tutti anziani. I cristiani, però, non vanno via per un problema di convivenza con i musulmani, anzi, viviamo assolutamente fianco a fianco senza nessuna difficoltà. La maggior parte delle persone va via perché l’occupazione militare israeliana è diventata soffocante. Fa poca differenza se musulmani o cristiani, per loro siamo Palestinesi, e quindi non abbiamo diritti».
La cappella nella grotta, normalmente, è il punto più affollato della basilica. La piccola scalinata porta ad uno spazio ristrettissimo. Soprattutto a Natale, ci vogliono ore di fila per accedervi. Oggi è totalmente vuota. Sono presenti solo due suore, scese qui per accendere una candela.
Spostandomi verso il centro, ritrovo nei fatti le parole di padre Athanasios, una lunga via deserta fatta di negozi dalle porte chiuse. La città si rianima verso il centro, lì dove ci sono i bazar arabi. In queste stradine trovo la Chiesa evangelico luterana della natività. Questo luogo è salito, di recente, agli onori della cronaca per il suo presepe.
In questa particolare natività si rappresenta Gaza. Gesù Bambino è avvolto da una kefiah e giace su un mucchio di macerie. Il suo artefice è il reverendo Munther Isaac, giovane pastore palestinese. Mi confessa: «Non mi aspettavo tutto questo clamore mediatico. Da quando ho realizzato il presepe, mi richiedono anche dieci interviste al giorno. Sono esausto. Oggi sono venuti anche quelli della Rai, a loro ho detto: “Non dovreste essere qui. Questa chiesa non è una notizia. Dovreste documentare quello che sta accadendo a Gaza”».
La moschea di Omar Ibn Al-Khattab sorge proprio di fronte alla basilica della natività. Spesso, le campane della chiesa risuonano contemporaneamente al canto del muezzin, il richiamo alla preghiera per i musulmani. Betlemme è sempre stato un grande esempio di convivenza tra religioni.
Quindici anni fa, la percentuale di cristiani della cittadina era dell’80%. Oggi, causa le continue limitazioni imposte da Israele, i cristiani sono appena il 10% degli abitanti di Betlemme.
Lo scorso 29 novembre, le autorità locali hanno annunciato che si terranno le messe, ma, festeggiamenti, processioni e i tradizionali concerti verranno annullati, per solidarietà nei confronti della popolazione di Gaza.
Angelo Calianno da Betlemme
Tempi di angoscia e confusione
Caro Gesù Bambino,
come ogni dicembre torno a scriverti nel ricordo della tua venuta, festa di luce e di pace. Quest’anno però sono più confuso che mai, vista la situazione di crisi internazionale che tutti stiamo vivendo. Pensa che, probabilmente, a Betlemme quest’anno non potranno celebrare in sicurezza e libertà la memoria della tua nascita.
È proprio la terribile guerra che è riesplosa nella terra dove tu sei nato che aumenta il mio disagio e la mia confusione. La Palestina non trova pace, oggi come ieri: devastata nei secoli da violenze e stragi da cui anche tu sei stato colpito, quando sei dovuto fuggire con la tua famiglia dalla spietatezza degli sgherri di Erode venuti nel tuo villaggio a uccidere senza pietà tutti i bambini per essere certi di colpire te.
La guerra di oggi mostra la stessa spietatezza: non passa giorno che non ci siano notizie di massacri di bambini, addirittura neonati, senza contare quelli di anziani, donne e persone indifese. Non passa giorno senza la distruzione di case, scuole, ospedali e luoghi di culto. Neanche la guerra in Ucraina, con le sue folli violenze, ci ha abituati a una violenza sui civili tanto indiscriminata e su vasta scala.
Ma quello che fa male è soprattutto il fatto che, invece di spingerci a reagire rinnovando il nostro impegno per la pace e la vita, questa ennesima guerra (ennesima, perché sono almeno 59 quelle in atto nel mondo, con violenze inenarrabili sui civili, nell’indifferenza generale) sta tirando fuori il peggio di noi stessi, facendoci schierare – spesso con intolleranza – per una parte o per l’altra. La logica della violenza ci travolge, modella i nostri comportamenti, ci convince che solo con la distruzione dell’altro, il nemico, la pace sia possibile. E tornano in campo stereotipi che pensavamo superati, il razzismo riprende quota, la caccia al nemico diventa un dovere, l’antisemitismo riemerge. E tutti diventano nemici senza volto per i quali non c’è compassione, ma solo rabbia, rancore, odio o totale indifferenza. Ma non è con «mors tua vita mea» (la tua morte è la mia vita) che si ritrova la pace.
In questa logica, non vediamo più le persone vere e concrete, ma un’indistinta massa di nemici da colpire.
Proprio tutto il contrario di quanto tu hai provato a insegnarci con la tua vita, e papa Francesco ci ripete oggi senza stancarsi: la guerra è una follia che non risolve i problemi, non migliora la vita, non crea giustizia, non porta alla pace. L’unica risposta vera che costruisce la pace è l’amore, il perdono, la misericordia. «Porgi l’altra guancia», ci hai detto. «Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano».
Rompere, rovesciare la logica della violenza, come hai fatto tu sulla croce, è l’unica via.
Grazie di averci donato una persona come papa Francesco che, come il profeta anonimo di cui parliamo questo mese (vedi pag. 32), continua a ricordarci quello che davvero conta per la vita, per la pace, per l’ambiente: guardare a te che ti sei fatto vicino, che cammini con noi, che non ci molli mai, che sei la luce che scaccia confusione, tenebra, indifferenza, assuefazione e scoraggiamento, che sei parola di verità che decodifica fake news, luoghi comuni e slogan urlati senza contraddittorio.
Grazie anche per tutti coloro che, pur non facendo notizia, siano essi israeliani o arabi, ebrei, musulmani o cristiani, continuano a operare nel silenzio per la pace, pagando di persona per essere vicini a chi soffre, e contestano la logica della guerra con azioni concrete di riconciliazione, di vicinanza alle vittime, di soccorso a chi ha perso tutto.
Grazie per chi, in Palestina o in altre parti del mondo, continua a credere con te che la luce vince le tenebre, l’amore è più forte dell’odio, e che la pace si costruisce col perdono, il dialogo, il rispetto di tutti, specialmente dei più piccoli e dei più poveri.
È urgente imparare da te la misericordia, quella forza originariamente femminile e materna con la quale ti sei immedesimato, che cambia il nostro modo di relazionarci gli uni agli altri e ci fa vedere, pensare e agire in modo nuovo.
Che la luce della tua nascita possa essere per tutti più luminosa dei bagliori dei bombardamenti, del fuoco degli incendi, dell’oscurita dell’odio. Cacci ansia, confusione, indifferenza e riaccenda in ciascuno di noi la voglia di operare per la pace. Che la tua luce ci dia la capacità di guardarci in faccia senza paura e scoprirci fratelli e sorelle.
Black friday e l’alternativa del commercio equo
Nella settimana del Black friday, un meme circola sui social: «Black friday. Se non compri niente risparmi il 100% su ogni prodotto».
Noi potremmo aggiungere: «Per Natale, valuta l’acquisto di prodotti del commercio equo e solidale». Mettere sotto l’albero regali che hanno una storia di giustizia, fatta di rispetto dei diritti umani (di bambini, donne, lavoratori, persone con disabilità), dell’ambiente, che contribuiscono a costruire dialogo e pace è possibile.
E in molti, da diversi anni, lo fanno.
Così ci si può orientare a un tipo di commercio che garantisce la giusta paga e condizioni dignitose a persone come Nilanjana Banerjee, donna indiana sordomuta che ha studiato progettazione al Silence training institute e oggi è una delle migliori designer di Silence, una Ong locale che esporta prodotti artistici in diversi paesi del mondo nel circuito del Wft (World fair trade organization), l’organizzazione mondiale per il commercio equo e solidale.
La storia di Silence dovrebbe accompagnare la confezione del pacchetto da porgere il giorno della festa, perché, a differenza di un prodotto qualsiasi, di cui si ignora la provenienza, con il Commercio equo, insieme all’oggetto, si regala anche un pezzo di storia concreta di persone che vivono e lavorano in paesi e contesti a volte difficili di immaginare. È raccontata in uno dei podcast che si trovano sul sito di Equo garantito, l’associazione di categoria delle organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale.
«Silence è un’organizzazione che si dedica alla riabilitazione socioeconomica di persone con disabilità, in particolare persone sorde», dice il podcast. Nasce a Calcutta, in India, nel 1979 «dallo sforzo collettivo di un piccolo gruppo di artisti sordi alla ricerca dell’autosufficienza economica» e dall’idea di produrre biglietti di auguri dipinti a mano.
Presto l’iniziativa diventa una Ong. Nel tempo, grazie alle vendite in paesi come Usa, Canada, Regno Unito, Germania, Italia, Austria, Francia, Australia e Nuova Zelanda, «diventa in grado di coprire la maggior parte dei costi di produzione e del personale» e di offrire servizi pensionistici per i suoi lavoratori, così come un fondo di previdenza, un fondo volontario di risparmio mensile e si occupa anche di assicurazione sulla vita e copertura di infortuni.
Circa l’80% del personale di Silence è composto da persone con disabilità fisiche, mentali o psichiche che, per la gran parte, hanno dovuto abbandonare la scuola fin dall’infanzia e sono soggette a umiliazioni e discriminazioni.
Il Commercio equo e solidale non concepisce se stesso come beneficenza. È un modo di impostare il mercato diverso dallo sfruttamento e, allo stesso tempo, dall’elemosina e dal paternalismo.
In Italia se ne parlava molto alla fine degli anni Novanta e nel primo decennio del 2000. Oggi se ne parla di meno, ma i dati raccolti e divulgati da Equo garantito nel suo rapporto annuale del 2023, pubblicato a maggio, in occasione dei 20 anni dalla fondazione dell’associazione, ne offrono una fotografia positiva: le dieci organizzazioni italiane di importazioni dirette dai produttori del Sud del Mondo, nel 2021 hanno importato prodotti da 16 organizzazioni locali africane per 3,3 milioni di euro, da 80 organizzazioni in Asia per 5 milioni, da 50 organizzazioni in America Latina per 5,3 milioni e da tre organizzazioni in Europa per 243mila euro. Un totale di 43 paesi del mondo coinvolti, migliaia di famiglie che lavorano dignitosamente, mandano i figli a scuola, hanno la possibilità di immaginare un futuro.
In Italia il commercio equo nel 2021 ha dato lavoro a 491 persone, coinvolto 3.960 volontari e 29.135 soci. E promosso, nel suo piccolo, la cultura della sostenibilità sociale e ambientale.
Luca Lorusso
Sul tema leggi anche:
– Luca Lorusso (a cura di), Natale possibile, Dossier MC dicembre 2012.
Sia lodato Gesù Cristo.
Carissimi fratelli e sorelle
consentitemi, sotto il suono della sirena, che invita a nascondersi nel rifugio anitaereo, di esprimere a voi e alle vostre famiglie la mia più profonda gratitudine e una preghiera di riconoscenza per il vostro cuore aperto, per il vostro sostegno e la vostra solidarietà verso il popolo ucraino, che sta attraversando ore difficili, a causa della guerra e delle manifestazioni di odio umano da parte della federazione russa.
Il giorno 8 novembre 2022 la nostra organizzazione, Caritas Spes di Lutsk (Ucraina), ha ricevuto da parte del padre Luca
Bovio Imc un aiuto materiale della somma di 4mila dollari Usa. Per noi questo aiuto è tanto importante e necessario da rendere impossibile esprimere quanto senza lacrime di gioia. Infatti, la nostra organizzazione si prende cura di diverse categorie della popolazione: rifugiati, indigenti, anziani, ma un’attenzione particolare è riservata ai bambini orfani, bambini con sindrome di Down e invalidi. Con estrema sofferenza, i bambini, che rappresentano il nostro futuro, sono diventati testimoni della guerra, dell’odio e della violenza. La risata infantile si è mutata in pianto, la gioia in dolore, le voci allegre dei bambini nel suono delle sirene e delle bombe. Grazie al vostro sostegno e aiuto, però, la nostra organizzazione ha potuto regalare un momento di gioia e felicità a 150 bambini invalidi della regione di Volyn. Grazie al vostro sostegno abbiamo potuto comperare e distribuire generi alimentari e prodotti igienici per questi bambini.
Con i fondi devolutici abbiamo comperato 150 pacchi di generi alimentari e prodotti igienici, nella fattispecie: zucchero, riso, pasta, grano saraceno, paté, conserve di pesce e di carne, tè verde e nero, olio, farina, shampoo, sapone liquido per la doccia, sapone solido, dentifricio e spazzolino, carta igienica. Tutto ciò è il minimo necessario per una famiglia, ma per questi bambini rappresenta un aiuto straordinario (vedi foto). Queste famiglie, infatti, godono di introiti minimali e non sono sempre in grado di assicurare a se stesse e ai propri figli i prodotti di prima necessità.
Cogliendo l’occasione, pertanto, desidero esprimere, a nome mio e a nome di tutti i bambini che hanno ricevuto un aiuto così importante e necessario, parole di gratitudine per il Vostro cuore aperto e il vostro sostegno.
Il Signore ricompensi tutti i benefattori col centuplo e con abbondanti benedizioni! Che Maria, Vergine santissima e Regina della pace, conservi le vostre famiglie nella tranquillità e nell’armonia, affinché sulle vostre case riposi un cielo di pace! Con sentita riconoscenza
Ks. Pawel (Paolo) Chomiak direttore Caritas Spes di Lutsk, Ucraina, 14/11/2022
Da Isiro con amore
Dal Nord del Congo vi giunga il mio saluto e il mio grazie per il vostro cuore missionario!
Grazie per la vostra generosità verso i nostri piccoli e differenti progetti che realizziamo con il vostro sostegno.
La mia salute è abbastanza buona, tolta qualche malarietta che ogni tanto arriva, ma ci si cura e tutto passa.
Sono ora nella parrocchia di Samana, a Isiro, capitale dell’Alto Uélé. La vita, malgrado le diverse difficoltà, è sana e bella e i nostri laici (mamme, papà, giovani, ragazzi) sono molto impegnati. La domenica celebriamo due messe e stiamo pensando d’ingrandire la chiesa perché c’è sempre molta più gente fuori che dentro. Sogniamo anche la costruzione di una scuola, lasciando che le attuali aule diventino sale parrocchiali, visto il crescere di tante attività.
Seguiamo con preoccupazione quello che succede in Ucraina e insieme ai nostri cristiani preghiamo ogni giorno per la pace. Purtroppo, questa guerra ha «offuscato» la situazione tragica del nostro paese.
Sulla frontiera con il Rwanda e l’Uganda i criminali del movimento M23 e altri gruppi (se ne contano una cinquantina) continuano a uccidere, bruciare persone e saccheggiare i villaggi, creando ogni giorno migliaia di profughi. Da trent’anni non c’è pace in Congo: questa terra è troppo ricca in materie forestali, agricole e minerarie che fanno gola a molti paesi in Asia, Europa e America, i quali poi si servono del lungo braccio del Rwanda e altri paesi confinanti per sfruttare la situazione.
Quando potranno i nostri bimbi e giovani giocare, studiare, e preparare il loro futuro? Quando i nostri papà e mamme potranno dormire tranquilli e sognare un Congo nuovo?
Le responsabilità internazionali sono grandi, ma anche i nostri politici e amministratori congolesi hanno le loro responsabilità: corruzione, potere sporco, collaborazionismo con forze esterne, interessi personali, conti all’estero. Purtroppo, si continua così vedendo che solo il Signore non ci abbandona e non ci imbroglia. Con gioia aspettiamo papa Francesco!
Per questo con tutta la Chiesa continuiamo a donare e ricevere speranza e coraggio alle e dalle nostre comunità con la Parola di Dio, i sacramenti, la scuola, pozzi, centri di salute e ospedali, progetti di sviluppo. Quanto bene fa la Chiesa.
Vi giunga il mio augurio per il nuovo anno 2023. Vi assicuro la nostra preghiera, certo della vostra. Un arrivederci quotidiano nella santa messa. Vi voglio bene.
padre Rinaldo Do Isiro, Natale 2022
Un grande amico: padre Franco Bertolo
Il 16 ottobre 2022 è morto, improvvisamente, a Torino, nella Casa Madre dei Missionari della Consolata, padre Franco Bertolo, legato a me da profonda e lunghissima amicizia. Pur nel profondo dolore, voglio ricordarne alcuni momenti.
Anni di formazione 1961-1966
Frequentammo assieme il liceo classico presso il seminario della Consolata di Varallo Sesia (Vc). Franco ed io facevamo l’articolo «il», in quanto lui era basso di statura e io alto. Uno degli aspetti che ci univa era il fatto che entrambi non amavamo giocare al pallone. C’erano i due capitani che sceglievano le due squadre. Io ero sempre l’ultimo ad essere scelto, Franco il penultimo. Ci mettevamo in un angolo del campo a chiacchierare e, quando il pallone si avvicinava, gridavamo e facevamo finta di giocare. Qualche volta, quando c’era la possibilità di scegliere tra «pallone» e «passeggio», cercavamo di gridare forte per ottenere di andare a passeggio. Raramente riuscivamo ad averla vinta.
Dopo l’anno di noviziato che io feci a Bedizzole (Bs), mentre Franco lo fece alla Certosa di
Pesio (Cn), trascorremmo un anno assieme a Rosignano Monferrato (Al) per lo studio della filosofia. Dopo ci separammo. Franco andò a studiare teologia negli Stati Uniti, mentre io andai in Inghilterra. Fummo ordinati sacerdoti lo stesso anno, io il 7/08/1971 e padre Franco il 18/09/1971. Tutti e due fummo destinati al Tanzania.
Missione in Tanzania: 1972-1979
Il periodo in Tanzania fu il più intenso. I superiori chiesero a Franco, a me e a padre Virgilio
Panero (già in paradiso dal 24/04/2020), di formare un team pastorale nella missione di Wasa, per iniziare un modo diverso di fare missione. Io, ufficialmente, ero il parroco, ma Virgilio e Franco non erano viceparroci, bensì membri del team. Mettevamo tutto in comune: offerte, decisioni, azioni, preghiera. La nostra comunicazione era continua e prendevamo insieme tutte le decisioni. Affrontammo molti problemi, ma sempre con una linea di azione comune.
C’era una profonda amicizia tra noi tre. Il fatto che fossimo così bene in armonia fu un’esperienza bellissima, anche se contrasti e problemi con altri non mancavano. Questi contrasti cementarono ancor di più la nostra unione.
Da Roma a Londra: 1979-1987
Lasciai il Tanzania nel 1977 e andai a studiare Bibbia a Roma. Franco mi raggiunse nel 1979 e studiò Teologia Morale. Eravamo entrambi destinati a Londra, per cui pianificavamo il futuro assieme. Io andai nel seminario di Teologia di Totteridge, lui invece nella casa provinciale di Camden Town.
Ogni volta che mi era possibile, ci trovavamo. Franco divenne vicesuperiore del gruppo e io consigliere. Ci consultavamo e aiutavamo in vari modi. Poi le nostre strade si separarono. Franco andò in Casa Madre a Torino e si fermò lì per servire come cappellano all’Ospedale Koelliker e aiutare i confratelli a sbrigare le pratiche per i loro documenti anagrafici, mentre io andai in Israele, in Etiopia e in Kenya.
Torino: 1987-2022
Ci siamo trovati molte volte a Torino, quando io ci andavo per vacanze e/o cure mediche. Franco mi ha sempre accolto con grande gioia. L’anno scorso abbiamo celebrato assieme 50 anni di sacerdozio. Spesso abbiamo camminato assieme fino al Santuario della Consolata. Ora il Signore ha preso Franco con sé.
Il giorno in cui ricevetti la terribile notizia della sua morte, avevo meditato su questo tratto del Vangelo di Luca: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» (Lc 12,35).
Questo brano del Vangelo si applica molto bene a Franco. Quel mattino si stava preparando per andare a servire il Signore celebrando la santa messa per i malati all’ospedale. Il Signore lo ha chiamato a sé improvvisamente. Adesso è il Signore a servire Franco. Mi piace immaginare la scena in cui Gesù gli dice: «Vieni, Franco. Siediti qui nel posto di onore. Ti preparo una pizza che è formidabile. Avrai del salame buonissimo, come quello dei Panero. Beviti un bel bicchiere di Bonarda. Gustati un tiramisù favoloso. Te lo sei meritato!».
Arrivederci, Franco. Arrivederci, Virgilio. Un giorno, presto, staremo tutti assieme.
padre Ottone Cantore Allamano House, Nairobi, 11/11/2022
A Charkiv, un Natale speciale
Con padre Luca Bovio a Kharkiv in Ucraina il 6 e 7 gennaio 2023, per celebrate il Natale secondo il rito greco-cattolico e ortodosso.
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Ed ecco alcuni semplici video che aiutano a vivere con padre Luca questi momenti speciali.
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I ringraziamenti del direttore della Caritas di Kharkiv.
Caro Gesù Bambino,
quando sei nato c’era la «pax romana». Che fosse pace lo dicevano i dominatori del tempo e i loro lacchè, ovviamente. In realtà la maggioranza delle persone viveva sotto una servitù diffusa, drogata da «panem et circenses». Se nascessi oggi, troveresti invece la «pax atomica», «garantita» da oltre 13mila testate nucleari. Una vera follia, visto che se ne esplodessero anche solo 600, ogni forma di vita sarebbe estinta per sempre su tutta la terra. Nessuno, per ora, sembra davvero intenzionato a lanciare la prima. E speriamo non lo sia mai.
Intanto, però, tutte le altre guerre «normali» continuano e prosperano. In questo 2022 se ne contano ben 59 in giro per il mondo. Sono in aumento e fanno la felicità dei mercanti di armi che hanno visto le spese militari mondiali superare i due bilioni di dollari e hanno buone speranze che crescano ancora. C’è poi anche il mercato gemello, quello delle «armi piccole» nelle mani dei privati, che inonda, ad esempio, il Messico, fiorisce negli Stati Uniti al ritmo di stragi di civili, e avvelena le relazioni etniche nell’Africa subsahariana. Risultato? Oltre cento milioni di profughi nel mondo «a causa di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che compromettono gravemente l’ordine pubblico», come informa il report del giugno di quest’anno dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Tra essi ci sono milioni di ucraini, siriani, venezuelani, etiopi, sudanesi e poi afghani, birmani, somali, eritrei, nigeriani, congolesi, maliani… una lista senza fine. A questi devi aggiungere i profughi e migranti a causa dei cambiamenti climatici (almeno venti milioni ogni anno).
Caro Gesù, i tuoi genitori sono potuti scappare abbastanza facilmente in Egitto, dove sono rimasti fino a quando il tuo persecutore è morto. Fossero fuggiti oggi da uno dei tanti Erodi del mondo, probabilmente sarebbero, con te in braccio, su un camion che percorre le piste nascoste del deserto, oppure su uno dei barconi che cerca di attraversare il Mediterraneo, per essere, se va bene, raccolto da una delle navi delle Ong che poi rimangono al largo senza accesso a un porto sicuro per motivazioni pretestuose (navi pirata), propagandistiche (favoriscono l’invasione) e disumane (donne e bambini ignorati). E saresti tra i fortunati, visto il gran numero di barconi che, invece, affondano nel «mare nostro» con tutti i loro occupanti, o quelli che sono respinti verso il «porto sicuro» della Libia, dove i trafficanti non hanno scrupoli a pestare, uccidere, ricattare, violentare, torturare, con l’Europa che finanzia e tace.
Vorrei dirti tante altre cose, ma una in particolare mi preme. Voglio ringraziarti perché ogni anno ci dai l’opportunità di celebrare la tua nascita e ricaricare così la nostra voglia di vita, di speranza, di giustizia, di pace. Se consideri anche solo questi ultimi tre anni, tra Covid, cambiamenti climatici e guerra, davvero la tentazione di mollare tutto è stata grande. E invece vieni tu presentandoti a noi nella fragilità di un bambino che ha bisogno di tutto. Non parli, non minacci, non incuti timore. Eppure, con i tuoi occhi arrivi dritto al cuore. Quando ci avviciniamo a te e, soprattutto, ci lasciamo guardare da te attraverso gli occhi, i volti, le storie di chi oggi è vittima di guerra, violenza, intolleranza e fanatismo, sfruttamento e tratta, non possiamo più barare con noi stessi. Il tuo sguardo ci scruta nell’intimo più profondo, là dove gli occhi della gente che ci sta attorno non arrivano. È un balsamo contro lo scoraggiamento e la rassegnazione, perché tu continui a dirci che non ti sei stufato di noi, che credi in noi, nell’umanità più vera che sta nel profondo di ogni uomo. Grazie, perché tu credi in noi più di noi stessi e più di quanto noi crediamo in te.
2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia
Dopo il 2020, anche il 2021 è stato un anno difficile a causa del persistere della pandemia di Covid-19, che ha colpito in modo particolare tutti quei paesi che non hanno né le infrastrutture né i mezzi per adeguate campagne vaccinali.
20 Natali di solidarietà
Missioni Consolata Onlus è il braccio operativo del Missionari della Consolata in Italia per sostenere i progetti dei loro confratelli nei tre continenti dove annunciano il Vangelo con opere e parole.
È grazie all’aiuto generoso di voi, amici e benefattori, persone normali, che conoscete la fatica del vivere e del guadagnarsi il pane quotidiano se in centovent’anni (di cui 20 con la nostra Onlus) siamo riusciti a realizzare scuole, ospedali, dispensari, centri per bambini abbandonati e donne vittime di violenza; se abbiamo «vestito gli ignudi, dato da mangiare agli affamati, consolato i prigionieri, dato l’acqua agli assetati, accolto gli stranieri», difeso la vita e l’ambiente, formato leader e quanto altro la creatività dell’amore è stata capace di inventare; se abbiamo fatto nascere comunità cristiane vivaci e gioiose, costruito cappelle e chiese.
Grazie – Thank you – Asante sana – Ace olen – Akiba – Sobodi – Matondo – šukran – Merci – Gracias – Obrigado.
Le sfide davanti a noi sono ancora tante, aggravate dalla pandemia, dal cambiamento climatico e dall’irresponsabile attitudine dei potenti che non hanno occhi né cuore per i più poveri e i più indifesi.
Con il vostro aiuto potremo continuare a essere testimoni e servitori della misericordia di Dio e della tenerezza della nostra Consolata.
In queste pagine vi presentiamo solo alcuni dei progetti in corso. Ogni anno Mco pubblica il suo bilancio sociale sul sito missioniconsolataonlus.it nel quale sono presentati tutti i progetti e i conti relativi al periodo.
I Missionari della Consolata, che vivono in molte di quelle nazioni, per rispondere alle tante situazioni di difficoltà che il Covid-19 ha determinato, hanno avviato diversi progetti in favore delle fasce più fragili della popolazione.
Quella del Messico è una realtà molto dura per le donne. Padre Ramón Lázaro Esnaola, che da circa due anni lavora a San Antonio Juanacaxtle, stato di Jalisco, ne racconta le difficoltà e i drammi nei resoconti che condivide con confratelli e amici: «In questi mesi ho incontrato persone in situazioni davvero difficili: un’adolescente abbandonata quando aveva due anni alla quale la pandemia ora ha portato via anche la madre adottiva; una giovane donna a cui i cartelli del narcotraffico hanno ucciso il marito e di cui ora non sa nemmeno dove sia il corpo; tante donne, ragazze, bambine che subiscono maltrattamenti e abusi da parte padri, patrigni, compagni occasionali delle madri, parenti. E tante che il marito abbandona per un’altra e che si trovano sole, in condizioni economiche precarie, a crescere figli senza un compagno che le aiuti».
La violenza sulle donne è uno degli aspetti della violenza che permea di sé tutta la società messicana, dove gli omicidi sono 36mila all’anno, 29 ogni 100mila abitanti@. Per avere un metro di paragone, secondo i dati Istat, l’Italia nel 2019 ha avuto 315 omicidi, pari a 0,53 ogni 100mila abitanti@. In un simile contesto, è chiaro che «la violenza in tutte le sue espressioni – sui minori, familiare, di genere, giovanile, istituzionale … – è il nostro pane quotidiano», continua padre Ramón. «Ci sono giorni in cui, di fronte a certe storie, ci si sente davvero sobrepasados, sopraffatti. Poi, però, ci ricordiamo del motivo per cui siamo qui: per stare vicini alle persone, consolare e seminare speranza, e ritroviamo la forza per costruire il Regno».
Per sostenere padre Ramón e i suoi confratelli in Messico nello sforzo di offrire un’alternativa alle donne vittime di traumi, lutti e violenza, gli Amici Missioni Consolata avevano dedicato la mostra di solidarietà e la connessa raccolta fondi dell’8 dicembre 2020 al progetto Promuovi la vita difendi la donna@. Il progetto che padre Ramón ha seguito e realizzato in collaborazione con Mati, un’associazione locale di psicologi, ha avuto un costo di circa 16.498 euro, ha interessato circa 500 famiglie ed è quasi concluso, ma le attività della Casa Hogar Florecitas Madre Naty e di Mati continueranno a raggiungere decine di donne in condizioni di vulnerabilità.
Acqua e allevamento per la Tanzania
Alla fine del 2020, i missionari della Consolata in Tanzania, in uno dei villaggi dalla missione di Pawaga, nella municipalità di Itudundu, Iringa, hanno realizzato un piccolo impianto idrico che serve 108 famiglie, una scuola e un dispensario. Fondi donati da privati, pari a circa 7.800 euro, hanno permesso di acquistare una pompa alimentata da un impianto fotovoltaico per connettere una fonte d’acqua con quaranta punti di distribuzione nel villaggio, in modo da garantire a tutte le famiglie di potersi procurare l’acqua senza dover percorrere chilometri a piedi. Il contributo degli abitanti del villaggio è consistito in venti giornate di lavoro volontario per installare la pompa e i tubi, montare i pannelli solari e piantumare alberi nel mezzo ettaro di terra che circonda la fonte d’acqua. Ora le oltre 750 persone del villaggio possono contare su un punto di distribuzione di acqua a meno di un chilometro dalla propria abitazione, in più la scuola primaria e il dispensario hanno impianti idrici adeguati.
Un altro progetto è a Kimbiji, nella diocesi di Dar es Salaam, dove, grazie al sostegno di Caritas italiana, si è avviata una piccola attività di allevamento generatrice di reddito per alcuni giovani per i quali la pandemia ha reso ancora più complicato trovare lavoro. La Banca Mondiale riporta che nel 2020 circa mezzo milione di tanzaniani è sceso sotto la soglia di povertà a causa delle restrizioni e delle conseguenze della diffusione del virus@. A Kimbiji, ora, diciassette giovani sono direttamente coinvolti nell’avvio di un allevamento di suini. A beneficiare della formazione fornita nell’ambito del progetto sulle tecniche di allevamento suino saranno fino a sessantacinque persone.
Una banca del sangue a Dianra
Al centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa D’Avorio, è in corso un progetto, sostenuto da un donatore privato e seguito da padre Matteo Pettinari, che si concentra sulla formazione del personale, sul miglioramento dei servizi del dispensario, come il trasporto dei pazienti, e sul sostegno delle attività legate alla salute infantile. Ma la parte del progetto che aggiunge al centro di salute un servizio fondamentale è quella della banca del sangue e delle trasfusioni. Avviata lo scorso settembre – dopo che ad agosto era arrivato il frigo per la conservazione delle sacche di sangue ed era stata completata la necessaria formazione del personale del centro -, la banca del sangue ha un ruolo fondamentale nel contrastare patologie, come l’anemia infantile strettamente legata alla malaria che è endemica nella zona.
Prima di questo intervento, spiegava nel progetto padre Matteo, era necessario andare nei centri trasfusionali più vicini, dai 30 ai 200 km di distanza su strade spesso impraticabili. «Ora, dal 14 settembre, data della prima trasfusione, a oggi», scriveva padre Matteo il 27 ottobre, «abbiamo già utilizzato 50 sacche di sangue: di queste, tre per trasfusioni a donne nel reparto maternità, le altre 47 sono tutte andate a bambini fra 0 e 5 anni».
Progetti ancora aperti
In Mongolia si è concluso l’intervento che mirava a dotare il centro per i bambini di Chingiltei, nella periferia della capitale Ulan Bator, di uno spazio giochi con campo sportivo. Il centro è attivo dal 2017 e offre attività creative, ludiche e sportive, oltre al doposcuola per una trentina di bambini. Ora è pronto per tornare in funzione – la pandemia ne aveva imposto la chiusura – e per farlo deve acquistare materiale scolastico, identificare i bambini in condizioni di maggiore vulnerabilità per offrire loro borse di studio, e stipendiare il personale docente. Connesso con il lavoro del centro c’è anche un programma di sostegno per le famiglie più in difficoltà, alle quali vengono forniti beni di prima necessità.
Un posto sicuro per studentesse
Inhangoma è una missione che dista circa 30 chilometri da Mutarara, una cittadina di 60mila abitanti nella provincia di Tete, Nord del Mozambico. Ha un centro educativo che comprende una scuola secondaria frequentata da 1.250 alunni fra la ottava e la dodicesima classe. Gli studentati maschile e femminile, dove alloggiano gli allievi provenienti da zone lontane, sono sotto la responsabilità del ministero della Pubblica istruzione, ma la struttura per le studentesse è in uno stato fatiscente. Così, la mancanza di un alloggio sicuro e di condizioni igieniche adeguate scoraggia le ragazze che spesso abbandonano la scuola, in un contesto dove sono pochi gli studenti che arrivano alla fine del ciclo secondario. Il Mozambico ha un tasso di completamento della scuola secondaria inferiore al 24%, venti punti in meno della media dell’Africa subsahariana@.
«Da un po’ di tempo», spiega monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «la diocesi ha ricevuto la richiesta di farsi carico di questo studentato femminile, a cominciare dal rifacimento del tetto fino alla tinteggiatura dei muri, dalla sostituzione di porte e finestre danneggiate, all’approntamento di servizi igienici adeguati». Questo primo intervento, per il quale monsignor Antunes ha chiesto sostegno a Missioni Consolata Onlus (Mco), ha un costo pari a circa 7.300 euro e offrirà un’ospitalità dignitosa e sicura a 45 ragazze che potranno così continuare i propri studi senza paure.
Una biblioteca per la scuola in terra indigena
La scuola indigena Shiminiyosi si trova nella comunità di Cantagalo nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. È nata, come altre scuole indigene, in reazione all’imposizione da parte dello stato brasiliano di un sistema educativo che non tiene in considerazione le peculiarità storiche, linguistiche, ambientali e culturali dei popoli indigeni e tenta di omologarli alla cultura dominante.
Padre Joseph Mugerwa, che si occupa in particolare delle attività della comunità di Cantagalo, dove si trova la scuola, scrive:
«Nel dicembre 1988, le famiglie e le comunità di questa zona decisero, di propria iniziativa, di creare una scuola che fosse anche un luogo di valorizzazione della cultura indigena. Furono le famiglie degli studenti di allora e la comunità stesse, accompagnate dai missionari, che scelsero un luogo adatto e costruirono questa scuola, che oggi accoglie 120 alunni delle elementari. Su richiesta dei leader locali, la scuola è stata riconosciuta e approvata dal decreto del dipartimento dell’Istruzione dello stato di Roraima, ha un corpo docente di sedici insegnanti e il numero di studenti è in continua crescita».
Ma nonostante il riconoscimento ufficiale, la scuola non ha ricevuto alcun sostegno dallo stato per migliorare le proprie strutture. «Le piogge del 2019 hanno distrutto il tetto: con il progetto che presentiamo a Mco, dal costo di 9.749 euro, chiediamo assistenza per sistemare la struttura», precisa padre Joseph, «e per creare una biblioteca per gli studenti».
Dal 26 settembre 2021 hanno la responsabilità piena della parrocchia di Saint Louis.
Qui sotto trovate i dettagli di questa nuova avventura missionaria che gli Amici Missioni Consolata vogliono sostenere con le loro iniziative di dicembre, in alternativa a quello che, prima del Covid-19, era la mostra dell’Immacolata.
Chiara Giovetti
Aiuto migranti Oujda | per dettagli clicca sul link qui sotto
Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.
Il furgone verrà utilizzato per
recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.
Luz ci guarda dritto negli occhi. Lo sguardo della piccola messicana in copertina, che mi piace chiamare «Luz» (luce), va dritto al cuore. Il suo sorriso, pulito e pieno di speranza, è un canto alla vita, un inno alla gioia. Questo sguardo bello e fiducioso mi rapisce e mi sento guardato dentro. Non sono più solo gli occhi di Luz che mi fissano. Forse è la suggestione del Natale che ormai si avvicina, ma sento come fosse lo sguardo dello stesso Bambino Gesù che mi cerca. Quello sguardo che certamente ha rubato il cuore dei pastori, dei Magi e di quanti sono andati a visitarlo nella stalla di Betlemme. Occhi che hanno visto dentro ciascuno di loro, li hanno conosciuti e amati e hanno parlato loro, mettendoli di fronte alla verità di se stessi. Guardati da quel bambino, ognuno ha capito che non era arrivato lì per caso, ma che Lui li attendeva da sempre.
Gli occhi di Luz sono gli occhi di milioni di altri bambini nel mondo. Non tutti sono felici: troppe volte sono occhi terrorizzati dalla violenza della guerra, annebbiati dalla fame, spenti dalla malattia, tristi per l’assenza d’amore, pieni di paura per gli abusi, angosciati per lo sfruttamento. Sempre però sono occhi che interpellano la tua umanità. Occhi che, con semplicità e candore, credono ancora che ogni persona sia capace di amare.
Un desiderio, un grido e una speranza che, oggi più che mai, sono delusi da troppi adulti. E non solo in Afghanistan e Yemen, Siria e Haiti, Nigeria e Venezuela, tanto per ricordare alcuni dei punti più caldi del dolore dell’umanità. L’elenco delle situazioni di morte potrebbe riempire pagine, una lista senza fine nella quale comparirebbe anche la nostra bella Italia, diventata un paese dove non è più appetibile nascere, e dove si nasce sempre meno.
Per questo Natale, auguro a tutti noi di lasciarci guardare dagli occhi di tutti e tutte le «Luz» del mondo. Che i nostri occhi non si lascino riempire e incantare dalle luci abbaglianti di strade e centri commerciali, luci che del vero Natale non hanno più niente, segno come sono di un invito al consumismo più sconsiderato che porta spreco, inquinamento e sfruttamento. Che non siano ammaliati dalle forme, colori e immagini accattivanti della moda, del nuovissimo gadget tecnologico, del modello di macchina ultimo grido. Che non siano accecati dagli ammiccamenti dei cartelloni pubblicitari o degli schermi che titillano la nostra vanità, incoraggiano e giustificano il nostro egoismo, gratificano le nostre pigrizie.
Auguro invece che i nostri occhi si lascino interrogare mettendo in questione il nostro stile di vita, le nostre abitudini, i pregiudizi che ci rendono così sicuri. Che ci lasciamo guardare dentro per imparare a vedere noi stessi e il mondo attorno a noi in modo nuovo, per scoprire che possiamo essere soggetti di speranza e cambiamento e non semplicemente ripetitori e continuatori di uno stile di vita senza amore e senza futuro.
In questo tempo di Natale mettiamo pure con amore la statuina di Gesù Bambino nel nostro presepio, ma non accontentiamoci di quella. Cerchiamo invece gli occhi veri del Bambinello in quelli delle persone che incontriamo, a cominciare dal nostro vicino di casa che spesso neppure conosciamo; dalle persone che partecipano con noi alla messa, con le quali magari non condividiamo neppure un «ciao»; da quelle persone che incrociamo ogni giorno.
Lasciamoci disturbare dagli occhi della piccola Madina Hussein, travolta da un treno in Serbia (copertina di MC 1-2/2018), da quelli radiosi della bimba di cui non conosciamo il nome che esce dalla tenda a Lesbo (MC 3/2021) o da quelli tristi del bimbo lavoratore del Myamnar (Mc 08-9/2021).
Non occorre andare indietro nel tempo per cercare gli occhi di Gesù, non è neppure necessario andare lontano. Basta farsi prossimo.
Guardare e lasciarsi guardare con gli occhi di Gesù Bambino. Scopriremo di essere «fratelli, sorelle, padri e madri, figli e figlie» in una grande famiglia, dove ami e sei amato, dove piangi con chi piange affinché il pianto si tramuti in danza alla musica dell’amore.
Missionari della Vita
Testo di Gigi Anataloni, direttore MC
Il 4 novembre scorso, a mezzogiorno, la Chiesa di Colombia è stata chiamata a «vivere per la vita e la pace», una manifestazione corale di tre minuti per dire «no» a ogni violenza, in particolare quella contro i popoli indigeni. «La vita è ferita – ha detto con forza l’arcivescovo di Popayan, Luis José Ruenda -. La vita ha bisogno di noi. La vita ferita ha bisogno di tutti. In questi giorni abbiamo ascoltato con dolore la notizia che arriva a tutta la Colombia e al mondo intero dal Cauca. La vita è ferita: ci sono stati due massacri, ci sono state molte morti. Molti indigeni, molti operatori sociali, molti contadini, molti giovani hanno perso la vita negli ultimi tempi».
Ha poi continuato: «La vita è ferita e la vita ferita ha bisogno di tutti noi, missionari, iniziando dalla difesa della vita nel ventre materno: non possiamo accettare l’aborto come un diritto. La donna ha diritto ad essere missionaria della vita. L’anziano ha diritto di terminare degnamente la sua vita. Noi dobbiamo essere missionari della vita nella società e nel privato, nel ventre materno e nel campo di battaglia, in tutti i luoghi dobbiamo essere difensori della vita, […] per la vita, per la vita nel ventre materno e per la vita minacciata dalle forze oscure che cercano di distruggere la nostra società». Per questo alle 12.00 del 4 novembre in tutta la Colombia si sono fermati per tre minuti: per suonare le campane, per pregare in ogni casa e per applaudire per un minuto alla vita «perché, applaudendo un minuto, sappiamo che la vita ha bisogno di noi e che la vita è nelle nostre mani».
Le parole dell’arcivescovo sono un fortissimo stimolo alla Chiesa colombiana, ma hanno anche un valore universale perché sono una chiamata a difendere e promuovere la vita in tutte le sue fasi: dal grembo materno alla vecchiaia; in tutte le sue dimensioni sia che riguardino l’uomo che l’ambiente; e in ogni luogo: dal conforto della casa alle lotte per una società più giusta, pacifica, inclusiva e sicura per ognuno, di qualsiasi popolo, nazione, cultura e religione egli sia.
La vita è ferita. È un grido che ci riguarda tutti. Un grido che in questo tempo prima di Natale assume una valenza anche più profonda. La memoria della nascita di Gesù non può essere lasciata alle «luci d’artista» che abbelliscono le nostre strade, né alle promozioni pubblicitarie che riducono un evento chiave della nostra fede a una grande abbuffata consumista. Non possiamo neanche accontentarci dei presepi nelle scuole o sulle piazze, e neppure di quelli ovvii (e dovuti) nelle chiese. Ma far memoria della nascita di Cristo richiede un rinnovato impegno per promuovere la vita in tutte le sue dimensioni, contro tutti i nuovi Erodi.
Il vescovo della Colombia ci ha ricordato che siamo «missionari della vita»: la Vita, quella con la «V» maiuscola, che è Gesù, e missionari di tutto quello che è vita ed è essenziale per la vita. Essere «missionari» vuol dire essere «attori» non «spettatori», vuol dire prendere posizione, assumersi responsabilità e agire; non restare indifferenti di fronte ai continui attentati alla vita, passati a volte come conquiste di civiltà (vedi aborto, eutanasia, fecondazione assistita); promuovere, difendere e sostenere la famiglia; approfondire le questioni senza accontentarsi dei social e diffondere fake news; diventare coscienti dei problemi, dei bisogni e delle potenzialità del proprio territorio e agire per migliorarne la qualità di vita e servizi; interessarsi del proprio condomino, conoscere i propri vicini, avere un’attenzione speciale per gli anziani e per eventuali famiglie povere e in difficoltà; rifiutare il degrado che prospera nell’indifferenza; cambiare attitudine (non padrone, ma servo – direbbe Gesù) nei confronti degli altri, che non sono dei nemici, ma uomini come me e fratelli e sorelle, anche se vengono da altri paesi e hanno la pelle superficialmente diversa dalla mia.
Gesù ci ha dato una regola aurea: «Ama il prossimo come te stesso» (cfr. Mt 22,39) che è anche «fai agli altri quello che vorresti sia fatto a te» (cfr. Mt 7,12). Gli spazi di azione sono senza fine e ognuno può trovare il suo, basta vincere la logica del «divano», non accontentarsi di manifestare e smetterla di dare la colpa agli altri. Anche se poco, anche se arriva
solo al marciapiede davanti a casa, faccio tutto quello che mi è possibile per creare un ambiente più bello, più accogliente, più fraterno, più giusto, dove si respiri pace, dove nessuno si senta escluso,
dove la vita – in tutte le sue dimensioni – sia davvero difesa, accolta, promossa e coccolata.
C’entra con il Natale? Vedete voi. È bello fare il presepio, partecipare alla messa di mezzanotte, ritrovarsi tutti in famiglia per un bel pranzo insieme, ma l’accogliere il «Signore della vita e che è Vita» deve trasformare il nostro modo di vivere quotidiano. Buon Natale.
Caro Gesù bambino
Testo di Gigi Anataloni
Mi fa effetto scriverti una letterina di Natale, adesso che ho i capelli grigi. Non l’ho mai fatto, neppure da piccolo. Dalle mie parti, allora, si preferiva santa Lucia. E non occorreva neanche scrivere, bastava un po’ di crusca per il suo asinello. Oggi invece i bambini scrivono (o messaggiano) a Babbo Natale, alla Befana, a san Nicola, a santa Lucia… Allora è venuta anche a me la voglia di scriverti.
Caro Gesù bambino, mi hai proprio fatto una bella sorpresa. Sono venuto a cercarti perché mi avevano detto che eri nato in una stalla mentre i tuoi erano in viaggio, ti facevano dormire in una mangiatornia e non avevi il necessario. Un po’ sconsiderati i tuoi genitori a muoversi in quelle condizioni, anche se lo so che, poveracci, non avevano avuto scelta.
Trovarti è stato facile. C’era un sacco di gente là fuori. Ma non capivo bene. Oltre a quelli del villaggio c’erano storpi, zoppi, ciechi, sordi, poveri, bambini, pastori nomadi e stranieri: entravano da te con la faccia di circostanza e poi tutti uscivano con un sorriso radioso. Addirittura, c’erano dei poveracci che venivano fuori con un bel pane in mano e anche una schiacciata di fichi. E facevano festa lì fuori, davanti alla casa, come vecchi amici attorno al fuoco. Mi è venuto il dubbio di aver sbagliato posto.
Dopo un po’, sono riuscito a entrare anch’io. Non dalla porta principale, ma da quella che scendeva nella stalla sotto la casa. Il posto era spazioso, ma non grande. In un angolo, legati alla mangiatornia, c’erano una mucca e un asino, anzi due, e un solo basto attaccato a un piolo sulla parete. In un piccolo recinto alcuni agnelli e un vitellino dormivano tranquilli. C’era un uomo indaffarato a rifinire quello che sembrava un giogo per buoi. Accanto a lui, una donna era seduta sull’altro basto intenta a sistemare un cesto, non uno qualsiasi, ma quello da mettere sulla schiena dell’asino per portare il cibo per il viaggio, pane soprattutto, quello d’orzo dei poveri. Che la donna stesse preparando la cena? Ho guardato meglio. Nel cesto non c’era il pane, ma un bambino che dormiva tranquillo ben avvolto in un mantello, quello del papà. Finalmente, ti avevo trovato.
Mi sono avvicinato, con le mani piene delle cose che ti avevo portato per mostrare a tutti la mia generosità. Ho cercato l’attenzione di tua madre. Mi ha salutato sì, ma senza interesse per quello che avevo in mano. Sembrava avere occhi solo per te. Era evidente che ti amava. Ti mangiava con gli occhi, accarezzandoti piano.
In quel momento tu hai aperto gli occhi. Mi hai guardato e mi hai sorriso come se mi conoscessi da sempre e stessi aspettando proprio me. Non so che mi è successo allora. Posata la roba, sono caduto sulle ginocchia. Occhi negli occhi, ti ho guardato, anzi, mi sono lasciato guardare, dentro. Una dolcezza e una gioia grande mi hanno invaso. Ero venuto per accoglierti e far sfoggio di me. Invece sei stato tu che hai accolto me e mi hai fatto sentire atteso, amato, importante per te.
Ho capito allora il perché della festa che c’era là fuori, la gioia e la danza, la fraternità e l’incontro. Ero venuto a cercarti e ho scoperto che, invece, eri tu che cercavi me. Ero venuto per accoglierti e sono invece stato accolto; per darti le mie cose e hai preso il mio cuore. E quando sono uscito, mi sono unito alla festa, danzando attorno al fuoco, per condividere con tutti gli altri, non più sconosciuti e forestieri, la bellezza dell’essere amati da te.
Caro Gesù, scusa la mia storia di fantasia. In essa c’è una verità che rimane: che tu sei venuto a cercarmi e mi hai amato per primo. Non solo me, ma ogni uomo, indistintamente, anzi, personalmente. E questo è bello e continua a essere una Parola di speranza e di vita oggi per ciascuno. La tua fiducia in noi diventa la nostra fiducia negli altri, perché tu ci ami tutti come se ognuno fosse l’unico. La fiducia reciproca è una di quelle cose di cui abbiamo più bisogno, tentati come siamo di costruire muri, piantare paletti, etichettare, distinguere tra «noi e loro», imporre dei «prima» … «Non c’è pace senza fiducia reciproca», scrive Francesco nel messaggio per la giornata della pace che si celebra il prossimo primo gennaio. «Pace [che è] come la buona notizia di un futuro dove ogni vivente verrà considerato nella sua dignità e nei suoi diritti».
Venendo tra noi, tu ci hai già considerati degni del tuo amore, riconosciuti nella nostra dignità di figli e figlie di Dio. La mia preghiera è che possiamo imparare da te a trattarci gli uni gli altri come fai tu con noi. Grazie perché continui a guardarci con amore.