Iraq: la rivolta e la speranza
testo e foto di Valentina Tamborra |
Nel novembre 2019 manifestanti pacifici invadono le piazze per protestare contro un governo poco democratico. Sono donne e uomini di tutte le età ed estrazioni sociali. Ma la repressione è violenta e le vittime sono a tre cifre. Oggi c’è una calma apparente, ma i giovani non desistono.
Poco distante da Nassiriya, a soli 20 km dalla città, in mezzo al deserto iracheno, sorge la Ziggurat di Ur. Monumento risalente al III millennio a.C. nel 2016 è stato dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco. È infatti un luogo rappresentativo dell’antica civiltà sumera. Svetta, la Ziggurat, si innalza su tre piani e, dall’alto, domina il deserto.
il guardiano
Siamo fra Baghdad e Bassora, a inizio novembre 2019, e da pochi giorni, nelle città e nei villaggi vicini, infuria la rivolta.
I giovani iracheni hanno fame di democrazia.
Camminando per Nassiriya, abbiamo sentito cantare «Bella ciao» da ragazze e ragazzi, donne e bambini che riconoscono, in quel canto, un segno di ribellione. Camminavano a testa alta e sventolano bandiere, non c’è violenza. Sarà con la violenza però che li fermeranno.
Qui, nel deserto di Ur, non c’è spazio per nulla che non sia silenzio. È un mondo altro, lontano da tutto, dove sembra che il tempo si sia fermato.
Ed è qui che incontriamo Daeef, l’anziano guardiano della Ziggurat.
Daeef ci fa da guida e ci spiega, in un perfetto inglese, la simbologia di questo straordinario monumento. Ci racconta degli archeologi arrivati da ogni parte del mondo per scavare e rivelare qualcosa di tanto prezioso. Daeef ha visto tutto, ha assistito a ogni momento. Ecco perché oggi parla perfettamente tre lingue e una la sta imparando: inglese, giapponese, italiano e un po’ di tedesco, oltre alla sua lingua madre ovviamente, l’arabo.
Quest’uomo, vivendoci proprio di fronte, vede la Ziggurat come prima cosa quando apre gli occhi al mattino e come ultima prima di dormire. Lui, che da sempre vive nel deserto occupandosi dei suoi animali (qualche gallina, due o tre pecore), oggi ha un nuovo compito che adempie con orgoglio e amore.
Indossa una camicia e una giacca, pantaloni eleganti e cammina con la grazia propria di chi sa come porre un piede davanti all’altro anche quando la sabbia pesa nelle scarpe e fa affondare.
È facile, ascoltando la sua voce, trovarsi immersi in un passato maestoso, qui fra i fiumi Tigri e Eufrate, in quella che fu la Mezzaluna fertile.
I giorni della rivolta
Eppure, nelle città infuria la rivolta.
Quando torniamo verso Nassiriya ci imbattiamo in diversi posti di blocco: carri armati, militari, mitra. La tensione è palpabile. Ci fermano almeno cinque volte, ci controllano i documenti, telefonano a qualcuno per verificare chi siamo, dove stiamo andando e perché siamo in Iraq.
Quando finalmente passiamo il ponte di Al Zaitoon, collegamento fra il deserto e la città, vediamo sventolare uno striscione. È dedicato ad Ahmed, 21 anni e una colpa: quella di essersi inginocchiato ad aiutare uno dei ragazzi feriti durante una manifestazione pacifica nelle strade della città, e per qusto è morto.
Restano qualche fiore, una candela e una bandiera irachena a raccontare di questa giovane vita che si è spenta troppo presto, stroncata da una pallottola nella schiena.
Chiediamo al nostro accompagnatore, un giornalista iracheno, di portarci nella piazza che è il cuore pulsante della rivolta: piazza Habboubi, dove si muovono ogni giorno migliaia di manifestanti.
L’atmosfera che troviamo qui è festosa: canti, balli, bandiere indossate come mantelli o sventolate gioiosamente, bambini in spalla ai genitori, limonata preparata e offerta da anziane signore accompagnate dai loro figli o dai nipoti.
L’età media dei manifestanti si aggira fra i 15 e i 25 anni, sono i giovani ad aver dato il via al movimento di protesta.
Ci sono adolescenti, velo e cappellino da rapper, che scrivono motti sui muri, disegnano murales per la pace, per la democrazia: «We have a dream», leggiamo.
Questa è l’altra faccia di Nassiriya, quella che i media in Italia, e forse anche nel resto del mondo, non stanno mostrando.
Una doppia realtà
Sappiamo che le persone lontane da questa piazza sono preoccupate: vedono scene di guerriglia urbana, fuoco, copertoni bruciati, feriti, ragazzi che lanciano pietre per rispondere alle pallottole. Ed è vero, ogni sera qui tutto degenera per via delle forze antisommossa e delle milizie infiltrate fra di loro, che sedano con la violenza ogni tentativo di manifestazione. Di notte infatti gli scontri si fanno più duri. Con il favore del buio è più facile picchiare, sparare, attaccare senza essere visti.
La democrazia, da queste parti, non esiste.
Perché la rivolta
La domanda è: per cosa combattono i giovani?
In uno stato che si definisce democratico, la polizia entra nei bar e confisca telefoni con contenuti ritenuti sospetti o pericolosi. Come messaggi o fotografie che dimostrino la partecipazione del malcapitato a una delle manifestazioni pacifiche che giornalmente invadono le strade della città.
Dal primo di ottobre 2019 la connessione internet è stata dapprima bloccata e poi, dopo le prime proteste, restituita, ma con una limitazione di poche ore al giorno e con una velocità bassissima così da rendere praticamente impossibile diffondere in tempo reale ciò che sta succedendo. I ragazzi usano una connessione privata, tramite un’applicazione che permette loro di farlo senza essere geolocalizzati. La scarichiamo anche noi sui nostri cellulari, non si sa mai.
Dai primi di ottobre, anche le scuole sono chiuse, come gli uffici pubblici.
Ogni giorno, «educated people» (persone formate), come vengono definiti medici, infermieri, insegnati, studenti universitari, scendono in strada per manifestare contro questo regime che non si vuole definire dittatoriale, almeno non ad alta voce, ma che a tutti gli effetti rende impossibile l’accesso a servizi fondamentali e lede i diritti umani.
Attacco all’ospedale
Novembre, le forze antisommossa attaccano persino l’ospedale dove ci troviamo per documentare l’operato di una Ong. Vengono utilizzati lacrimogeni contro civili: il bilancio dell’attacco sarà di nove feriti e tre intossicati.
Prima di attaccare, inoltre, hanno tolto la luce: in ospedale si continua a operare muniti di torce, perché non ci sono generatori. I medici restano in sala operatoria fino a quando è possibile. Eppure il peggio deve ancora arrivare.
Il 28 novembre infatti, alle 3 e 5 del mattino, si verifica l’azione più violenta dall’inizio delle proteste.
Diecimila uomini armati intervengono su manifestanti pacifici con la piena autorizzazione, da parte del primo ministro Adil Abdul Mahdi (poi dimissionario), di sparare sulla folla. Bisogna fermare le proteste, l’agitazione deve finire a prescindere dal costo in vite umane.
All’esercito iracheno, rimasto neutrale sino a quel momento, verrà ordinato di lasciare la città.
Il bilancio dell’attacco è di oltre 100 morti, 350 feriti gravi e molti dispersi. La maggioranza delle vittime ha tra i 15 e i 25 anni, ma c’è anche un ragazzo di 13 anni fra i caduti.
La protesta continua
I giovani iracheni comunque, continuano a manifestare contro la corruzione di un governo da cui non si sentono rappresentati – dicono infatti che subisca forti ingerenze dall’Iran – e in fondo vogliono semplicemente avere voce. Sanno che scendere in piazza significa rischiare la vita, ma non importa. Uno di loro, un giovane medico di 29 anni, ci dice che «è meglio morire che vivere così».
In questi giorni di novembre, quando l’Iraq è di nuovo investito dalla violenza, i civili rivolgono un appello al governo italiano con cui, negli anni, è stato mantenuto un rapporto di amicizia e aiuto reciproco, oltre che al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Viene chiesto aiuto per evitare azioni ancora più violente. Dopo la caduta di Saddam, c’è stata una parvenza di democratizzazione, ma poi i conflitti tra sunniti e sciiti hanno fatto ripiombare il paese in uno stato di violenza e povertà.
Ad oggi le rivolte sono state sedate, ma i ragazzi, soprattutto gli universitari, continuano la loro battaglia di speranza. Sono ancora lì, a dipingere muri, a chiedere democrazia, libertà, rispetto dei diritti umani: «Questa volta riusciremo a cambiare le cose», continuano a ripetere, e la speranza è ciò che fa brillare i loro occhi.
La speranza in mezzo alla devastazione
C’è un’altra storia, parallela a quella di una città in rivolta.
È la storia dei medici iracheni e italiani che lavorano fianco a fianco nell’ospedale di Nassiriya. I medici operano bambini con ferite di guerra o con problematiche legate a labbro leporino e palatoschisi. In Iraq infatti, molte malformazioni sono dovute alla denutrizione a cui si somma il problema di un paese in costante stato di tensione, quando non di guerra, dove purtroppo non è difficile imbattersi in ordigni inesplosi o in scontri a fuoco. Durante i giorni della rivolta di novembre seguiamo in particolare la storia di Adam (nome di fantasia).
Il bambino, affetto da palatoschisi, era in attesa dell’intervento risolutivo da circa un anno.
Il giorno delle dimissioni dall’ospedale i genitori lo portano a casa mentre fuori dall’ospedale infuria la rivolta: in lontananza il fumo dei lacrimogeni si mescola a quello dei copertoni bruciati, alle urla, agli spari.
Eppure questa famiglia sorride: li seguiamo fino a casa, un’abitazione modesta in mattoni vivi, poco fuori Nassiriya. Ad abitare in queste due piccole stanze sono in otto, con qualche gallina da tenere in cortile, per le uova e per la carne.
Prima di andarcene, Adam corre fuori e ci regala una penna: «Così ti ricordi di me».
Khalid, infermiere coraggioso
«Acqua, acqua», furono queste le ultime parole pronunciate dal carabiniere della base militare di Nassiriya poco prima di spirare. Era il 12 novembre del 2003, quando un camion cisterna esplosivo scoppiò davanti all’ingresso della base Msu italiana dei Carabinieri. Molti dei soldati furono portati proprio all’ospedale dove lavora Khalid.
Ai tempi, Khalid l’italiano non lo sapeva, oggi invece, complici le diverse missioni italiane e forse proprio quell’episodio, conosce qualche parola in più.
«Pensavo fosse il suo nome:
Acqua. Così gli ho messo una flebo e sono corso a chiamare un medico, non gli ho dato da bere. Quando sono tornato era morto. Da quel giorno non riesco più a bere un bicchiere d’acqua senza sentirmi in colpa». Khalid è un omone di circa quarant’anni, grande e grosso, cresciuto in una famiglia modesta. Oggi è infermiere nel reparto pediatria dell’ospedale.
Ogni giorno infila un pupazzetto di peluche nella tasca della divisa. Serve a tranquillizzare i bambini, dice. Khalid ha sempre il sorriso, il modo di fare quieto e riservato che caratterizza le persone di questo popolo.
Quello che stupisce, dell’Iraq, degli iracheni, è la capacità di conservare la tenerezza. È un popolo ospitale, generoso. Quel poco che hanno, lo condividono. Ovunque ci si trovi, non mancherà una tazza di tè e l’invito a sedersi, a riposare.
E Khalid non fa eccezione. Ogni giorno prova a dare speranza, a regalare un sorriso anche quando fuori, proprio a pochi passi dall’ospedale e, volte anche all’interno, infuriano dolore e distruzione.
Valentina Tamborra