Fr. Giuseppe ARGESE, IMC, conosciuto come Mukiri – il silenzioso – il 20 settembre 2018 a Maua – Meru – Kenya è tornato alla casa del Padre. Chiediamo le vostre preghiere per il suo eterno riposo.
“Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia,
voi che cercate il Signore;
guardate alla roccia da cui siete stati tagliati,
alla cava da cui siete stati estratti”.
Isaia, 51, 1
“La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine”. 1 Cor. 13, 4-7
Carissimi,
il nostro missionario FRATEL GIUSEPPE ARGESE è morto il 20 settembre 2018 nella sua amata terra del Kenya, a Mukululu dove ha vissuto e realizzato la gran parte della sua missione. Era conosciuto come Mukiri, il silenzioso, per le poche parole che diceva nella giornata e il tanto lavoro che faceva. In un mondo dove si parla molto fratel Argese ci ha insegnato il valore del silenzio e del lavoro generoso. Ha amato la sua gente fino a dare la vita per loro, fino a morire a Mukululu dove ha vissuto. Possiamo dire che in lui la missione si è fatta persona. Grazie carissimo Fratello per quanto sei stato e per quanto ci hai dato, dal cielo prega per noi ed aiutaci ad essere dei degni figli della Consolata. Buon viaggio, riposa in pace!
Mukululu. Fratel Mukiri a quota 80: omaggio a un vecchio combattente che non molla mai.
(foto Gigi Anataloni e TWS)
La vecchia Land Rover arranca sui ripidi saliscendi della pista. Lasciato il campo base di Mukululu, ci dirigiamo nel cuore della foresta del Nyambene. L’autista, abbondanti capelli bianchi al vento, guida sicuro. Ogni tanto qualche parola per farmi notare un albero di canfora, una frana recente, un sentirnero che si perde nel verde, le tracce ingoiate dalla vegetazione di lavori iniziati quarant’anni fa. Il piccolo Raimondo, sul sedile posteriore, continua a parlare, sentendosi escluso dal gioco dei grandi.
Arriviamo alla diga numero uno che tracima allegra. Un piccolo bacino quasi invisibile: acqua e foresta hanno lo stesso colore. Diga numero due, il laghetto si fonde col blu del cielo mentre una cascatella di schiuma bianca restituisce al torrente Ura l’acqua in sovrappiù. Ma per poco. Lasciata la strada, l’autista, bastone in mano, Raimondo che gli trotterella davanti e dietro, s’inerpica con passo lento ma sempre deciso su un sentirnero appena tracciato tra gli alberi. Poi la foresta finisce di colpo. Lavoro dell’uomo. Un ampio spazio è stato disboscato. Sullo sfondo, dove la valle si chiude come un imbuto, ci sono uomini al lavoro con picconi, pale e carriole. Una diga sta crescendo, anzi è a buon punto dopo un anno di lavoro. L’acqua si sta già raccogliendo nella parte più bassa del bacino. Grossi tubi la immettono nelle cistee di distribuzione dell’acquedotto di Tuuru. I lavori procedono spediti o quasi, a dispetto della mancanza di fondi e delle continue emergenze. Da una parte si scava, dall’altra s’innalza; qui si recupera l’argilla, là si compatta. Cordicelle, bastoncini e fili vari, tracciano un reticolo preciso per guidare i lavori. L’autista, che è il capomastro, ispeziona, controlla, rimbrotta, corregge, incoraggia. Mi ha portato a vedere il suo sogno, o parte di esso: un nuovo bacino in cui immagazzinare acqua a sufficienza per 250.000 persone, senza contare gli animali, per almeno un mese nel caso – probabilissimo – di una nuova siccità. Una diga a basso costo, essenziale, nell’attesa del grande sogno, la diga definitiva, capace di un milione di metri cubi, non solo 120.000 attuali, che risolverebbero per sempre la sfida di una vita.
Era il 3 gennaio 2012. Ero ospite nella casa del «vecchio orso», amico carissimo dai miei primi anni di teologia, inizio anni Settanta. Fratel Giuseppe Argese, che gli amici chiamavano «ursus in silvis» (l’orso nella foresta), nonostante gli acciacchi, aveva voluto accompagnarmi personalmente a vedere il progresso della sua lunga battaglia per l’acqua, iniziata nel 1969 a Tuuru, nel Meru (Kenya), per il bene dei molti bambini poliomielitici. Non ho più scritto di quei giorni, perché il mio viaggio non si concluse come pianificato. Fu fratel Giuseppe stesso che dovette organizzare per me un avventuroso trasporto a un ospedale di Nairobi dopo che il 5 gennaio un infarto mi aveva atterrato sulla collina di Mekinduri. «Non lasciarmi anche tu», aveva detto mentre mi portavano via.
Scrivo ora, queste poche righe perché molte cose sono successe da allora. Mi aiuto con i messaggi flash di fratel Giuseppe.
«Da settembre 2010 razioniamo l’acqua. Le piogge (son) fallite. Sono sei mesi che mi angoscia questo problema. Sto preparando un terzo invaso nella foresta dalla capacità di 120.000 m3, anche se non so dove e come avere i soldi, ma la Divina Provvidenza ha sempre provveduto» (28/02/2011). Più di una volta in nostro Mukiri (il silenzioso) ha dovuto mandare il laconico messaggio: «Ho bisogno di soldi per pagare gli operai e il materiale della diga» (04/03/2012). «Ogni volta che andavo in foresta, (a) vedere la diga 2 vuota (a causa della siccità), mi sentivo stringere il cuore» (02/03/2012), aveva appena scritto. Da qui nasceva l’urgenza di catturare più acqua possibile durante le abbondanti piogge e accelerare i lavori. «Grazie a tutti gli amici. Tutto il 2011 (è stato) sotto pressione e angoscia, (costretto) a fermare tutto! (per mancanza di fondi). Abbiamo ancora bisogno del vostro aiuto, stiamo completando la diga» (05/04/2012).
I lavori sono andati avanti, ma non finiti. Mukiri ha dovuto fermarsi, e non solo per mancanza di quid. Non ce la faceva più, le gambe non reggevano, la salute traballava, gli anni si facevano sentire. È rimasto bloccato a Nairobi per oltre un mese, per rimettersi in sesto.
Il 13 ottobre 2012 ho ricevuto da Mukululu un file zippato, «Dam 3 disaster» (il disastro della diga 3). Poche foto di uno squarcio enorme: il bacino vuoto, l’acqua andata. Fratel Giuseppe era ancora a Nairobi. Mi è venuto un groppo alla gola. Solo due settimane dopo, finalmente una email dal fratello. «Vedi disastro diga 3. (Nella) notte 12/10/2012 dalle ore 7pm alle ore 3am (sono caduti) 178 millimetri di pioggia, volume in m3: 934.500 (nell’intero bacino). Sono tornato a Mukululu domenica 21 ottobre, sto benino anche se ho problemi di gamba destra. Intestino (: l’) operazione (ha) rimosso 7 polipi, (mi si è) riaperta ulcera duodeno, (ho) perso molto sangue, sono molto debole e giallo, pieno di guai. … Uniti nella preghiera, siamo nelle mani della Divina Provvidenza, poteva andare peggio. Non ci sono vittime, solo danni (là) dove il volume d’acqua è passato» (25/10/2012).
Due anni di lavoro spazzati via in una notte. Un terribile colpo basso anche per lui, vecchia guardia che non si arrende mai.
Alla mia risposta che balbettava incoraggiamento, scriveva: «Carissimo Gigi, grazie amicizia, ormai sono quasi solo a combattere. Non preoccuparti» (03/11/2012). Si era già messo in moto per ricominciare. Un milione di metri cubi di pioggia che ti scappano sotto il naso in una notte… ci deve essere il modo di domarli.
Il 10 novembre scorso è stato il suo compleanno: 80 anni. Non so se c’era voglia di far festa quel giorno a Mukululu. Immagino che se han tagliato una torta, la fetta più grossa sia andata al piccolo Raimondo. Ero là quando celebrò i 75, che coincisero anche con i suoi 50 anni di Africa. C’erano molti amici quel giorno. Oggi il vecchio orso della foresta è più solo. Forse quel giorno ha passato diverse ore nella quiete silenziosa della nuova bellissima chiesa costruita con pazienza certosina. L’impresa che lo vede lottare da mezzo secolo lo sta consumando. Ma non demorde. Lo spinge un’indistruttibile fiducia nella Divina Provvidenza. Quella stessa fede che tanti anni fa gli fece dire sì al vescovo che gli chiedeva acqua per i piccoli poliomielitici di Tuuru nonostante non avesse la minima idea di dove trovarla e con essa i soldi necessari. E il grande amore per la gente del Nyambene, la sua gente, con cui ha condiviso giornie e dolori, fatiche e speranze, fallimenti e grandi risultati realizzando insieme, colpo di machete dopo colpo, zappata dopo zappata, badilata dopo badilata, scarriolata dopo scarriolata un’opera titanica di grande impatto umano e ambientale che ha cambiato la vita di un’intera regione.
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Come una goccia di rugiada
Mukululu – Gallarate: quando lacrime di gioia e di dolore diventano gocce di vita e fraternità
Le gocce della foresta pluviale del Nyambene sono tra quelle più fotografate al mondo. Io stesso le ho fotografate per vent’anni. Non sono gocce diverse dalle altre, è sempre e solo acqua, eppure quelle hanno un fascino tutto speciale, perché da quelle gocce dipende ormai la vita di migliaia di persone. Vi riassumo qui quarant’anni di una storia, che forse avete già letto altre volte su queste pagine.
GOCCE, MILIONI, MILIARDI DI GOCCE
C’era una volta una regione ai piedi del Monte Kenya, tutta terra vulcanica fertilissima, dove fiumi, ruscelli o sorgenti sparivano ingoiati dal terreno dopo una vita fugace. L’acqua era il cruccio e la fatica più grande delle donne. Se ne trovava poca e a grandi distanze. I bambini soffrivano; la poliomielite era di casa.
Un giorno, negli anni Sessanta, un missionario dal cuore (P. Franco Soldati) grande creò a Tuuru un centro per i piccoli malati di polio. Vi si facevano miracoli di carità. All’acqua provvedeva la pioggia. Poi venne una grande siccità, ma nessuno aveva il cuore di rimandare i piccoli là da dove erano venuti. Il vescovo del posto (Mons. Lorenzo Bessone di Meru), che doveva fare il burbero, ma burbero non era, convocò senza preamboli un giovane fratello missionario che si era già fatto notare per la sua capacità di risolvere situazioni impossibili. «I bambini hanno bisogno di acqua», gli disse. «Pensaci tu». Il giovane, che mago non era, ma aveva intelligenza, volontà e cuore da vendere, si mise all’opera e trovò l’acqua lontano, lontano, nascosta nella foresta su un vulcano addormentato, il Nyambene. Giuseppe si chiamava, della famiglia degli Argese da Martina Franca, la terra dei trulli, dove l’acqua è sempre stata un bene più prezioso dell’oro.
Una foresta generosa
Senza soldi e tanto ingegno si mise all’opera per far sì che i piccoli polio di Tuuru potessero bagnarsi nelle salubri acque della foresta del Nyambene. Motori e pompe fuori questione, si alleò con la gravità e in men che non si dica, si fa per dire, il progetto fu pronto. Con l’aiuto del vescovo si trovarono anche i finanziatori, generosi ed efficienti, della Misereor di Germania. «Compera uno scavatore e il lavoro sarà fatto in un attimo», gli dissero. Fece due conti. Uno scavatore = lavoro per 100 operai per tre anni. Comperò pale, picconi e carriole; formò sul campo muratori e carpentieri, falegnami e scalpellini, idraulici e tubisti. Ed ecco là: nel 1971 a Tuuru bastava aprire un rubinetto e l’acqua scorreva in abbondanza. Ma …
Ma non erano solo i piccoli di Tuuru ad aver bisogno di acqua. Lungo i 25 chilometri del tracciato quante capanne, quanti villaggi, quante scuole. Acqua, più acqua, ancora acqua. Però la sorgente iniziale era davvero piccola.
Come accontentare tutti? Osservazione e gambe buone furono gli alleati di fratel Mukiri (già, perché la gente aveva cominciato a chiamarlo così, il silenzioso). L’osservazione, che gli fece notare come i canali appena scavati si riempissero d’acqua ogni santo giorno. Le gambe buone, che lo portarono ad esplorare ogni angolo della vasta foresta alla scoperta di sorgenti e rivoletti d’acqua.
Da dove veniva quell’acqua che invadeva gli scavi, visto che non c’erano né sorgenti né ruscelli né scrosci di pioggia nottua? Quel che osservava era solo la gran nebbia mattutina e la rugiada abbondante in un ciclo continuo tra la foresta e l’atmosfera. Saltò allora dentro gli scavi e cominciò a studiare il terreno, strato dopo strato. Ed ecco lì il segreto svelato: un leggero manto di argilla impermeabile raccoglieva tutta l’acqua immagazzinata dall’humus della foresta. Evaporazione, condensazione, nebbia, gocce di rugiada sulle foglie, inumidimento dell’humus: un ciclo vitale continuo dove la foresta assorbiva l’umidità dell’atmosfera anche durante i periodi senza pioggia.
Da qui allo scavo di gallerie che seguissero lo strato sotterraneo di argilla, il passo fu breve. Le gocce, milioni, miliardi di gocce divennero rivoletti. I rivoletti, convogliati nell’acquedotto, si trasformarono in vita per cento, mille, centomila persone in più.
Un lungo cammino
Dopo quarant’anni i risultati sono là, davanti a tutti. C’è una rete di oltre 250 chilometri di tubi con molti serbatorni sparsi sul territorio; ci sono centinaia di water points (lett. punti acqua) e rubinetti comunitari, in villaggi, posti di mercato e case; decine di scuole e centri di salute possono riempire i loro serbatorni, e oltre 270 mila persone e quasi 70 mila animali beneficiano dell’acqua della foresta pluviale del Nyambene. Ogni giorno, quando le stagioni sono regolari, 3 milioni e mezzo di litri vengono distribuiti (ca. 13 litri per persona, non contando gli animali). Non molti secondo i nostri standard (noi consumiamo in media 80 litri a testa al giorno!), molto meglio di quando di litri ne avevano solo 40 per famiglia alla settimana, ma ancora molto lontano dal livello minimo di 25 litri per persona al giorno suggerito dalle Nazioni Unite.
Durante i periodi di siccità, che non mancano mai, l’acqua viene razionata e ridotta a un milione e mezzo di litri al giorno, equivalente a solo 6 litri a testa. Poco sì, ma … è vero, dopo quarant’anni di lavoro c’è ancora molto da fare per assicurare quello che è un bene essenziale e un diritto fondamentale di ogni uomo (checché ne dicano certe convenzioni interazionali manipolate dalle lobby dei signori dell’acqua che ne vogliono la privatizzazione a tutti i costi).
Evidenzio poi, tra gli altri, due grossi risultati: il centro per bambini polio a Tuuru è quasi senza clienti e, dopo quarant’anni, il progetto continua a funzionare, cresce ed è pieno di nuove idee. Se pensate che questo sia un risultato da poco, basta ricordare che moltissimi altri progetti contemporanei o simili sono disastrati o defunti.
Un sogno che cerca altri sognatori
L’ultimo sogno? Fare una diga in foresta per creare un grande bacino artificiale sul torrente Ura (che si perde presto nel fiume Tana), e poter immagazzinare la maggior quantità possibile di acqua, sfruttando le piogge torrenziali caratteristiche del posto. Ci sono già due piccole dighe che insieme immagazzinano 63,5 milioni di litri di acqua, il sufficiente per ammortizzare 20 giorni di distribuzione durante i periodi di siccità o di disastri naturali. Ma è niente quando la siccità dura per mesi, come è successo già più volte, l’ultima l’anno scorso, 2009, quando fu necessario razionare l’acqua per oltre cinque mesi. Così il non più giovane Giuseppe (il prossimo novembre avrà 78 anni) accarezza un sogno: una nuova doppia diga che raccolga prima 500 milioni e poi un miliardo di litri, allora sì, i lunghi periodi di siccità non farebbero più paura, e ci sarebbe acqua anche per orti e piccoli campicelli.
Questo sogno non è di ieri, Giuseppe, i suoi amici e collaboratori del Tuuru Water Scheme (TWS) ci stanno lavorando dal 2006. I progetti sono pronti nei minimi particolari, persone generose ci hanno lavorato per anni con Mukiri. Il tutto è stato studiato in ogni dettaglio, secondo la filosofia che ha caratterizzato il TWS fino ad ora: rispetto, difesa e miglioramento dell’ambiente, coinvolgimento della popolazione locale e tecnologia non invasiva. Questi sono i tre capisaldi che hanno fatto sì che il TWS sia ancora vivo e funzionante, esempio studiato e copiato in tutto il mondo.
Una meraviglia ecologica
Entrare nella foresta del Nyambene è come entrare in una cattedrale gotica. Lasciato il campo di Mukululu, dove Fratel Giuseppe Argese ha la base, si sale attraverso una strada sterrata stretta che zigzaga nel verde di splendidi campi di tè che assediano la foresta da tutti i lati. Entrati nella foresta viene subito da guardare in su in cerca della luce che penetra a stento tra il fitto fogliame, gli alberi enormi come colonne che sostengono il cielo. La foresta è una fragile e stupenda meraviglia ecologica, un prodotto di milioni di anni di paziente lavoro della natura su quello che resta di un vulcano spento, una delle tante bocche ai piedi del maestoso vulcano che era il Monte Kenya.
In questa foresta centinaia di uomini hanno lavorato per oltre quarant’anni a caccia di acqua, e il loro impatto è minimale. Le piste sono strette e zigzaganti tra albero ed albero, abbastanza per passare con un trattore o un fuoristrada. Dove si è lavorato, altri alberi sono stati piantati; dove i lavori sono di tanto tempo fa, la foresta ha riconquistato i suoi spazi perduti. Una pattuglia attenta di guardiani protegge dai boscaioli abusivi a caccia di legno pregiato, come la canfora. I sentieri sono rinforzati con paletti per farne delle scalinate onde evitare inutili erosioni. I disastri naturali sono curati, anche a costo di enormi sacrifici, come è successo l’anno scorso, quando dopo una notte in cui sono caduti 200 millimetri di pioggia, si sono registrate grosse frane, cedimenti negli sbarramenti e occlusioni ai punti di raccolta acqua.
C’è poi il piano di cintare la foresta, registrata dal governo come area protetta, per evitare le intrusioni, il disboscamento e l’impoverimento del manto boschivo a difesa di un’area essenziale alla vita di tante persone. Il tutto accompagnato anche da un lavoro di sensibilizzazione nelle scuole e nelle comunità locali, tante volte manipolate da affaristi o politicanti senza scrupoli che vorrebbero mettere le mani su una realtà dalle grandi potenzialità economiche (legname) e politiche (controllo di voti e mani sui fondi di gestione e mantenimento del progetto TWS).
Che possiamo fare?
In questi quarant’anni si sono spesi (bene) miliardi di lire in un progetto amato dalla gente e stimato a livello internazionale. Il finanziamento locale (la gente paga 2 centesimi di euro per ogni 20 litri di acqua, ma non tutti pagano) serve per la manutenzione ordinaria, il rinnovamento delle linee, i salari del personale impiegato nella gestione e manutenzione della rete. Per il grande sogno, la nuova diga con relativo bacino, sono necessari circa un milione di euro.
Sono in molti a crederci: la Diocesi di Meru, il TWS, gruppi di amici ed Onlus (anche la nostra) e Ong varie. Fratel Giuseppe è sereno su questo. Ha cominciato senza soldi e la Provvidenza ci ha pensato. Se anche questa è un’opera che Dio vuole, i soldi arriveranno.
Per gli ampliamenti a livello locale, piccole linee aggiuntive e nuovi punti di distribuzione, si punta invece molto sulla cooperazione locale con l’aiuto di mini progetti sostenuti da amici in tutto il mondo. È in questo contesto che l’esperienza seguente trova il suo spazio. Vi lascio a Samuele Cattaneo, che condivide con noi una storia bellissima.
LA FONTANA DI SUSANNA
Gianluca Water Point
Quante volte chi – come noi – ha figli in età scolare si è domandato il senso dei ripetuti regali di fine anno scolastico o di fine ciclo propinati alle insegnanti? Quante discussioni sfibranti sono state fatte circa il colore della cintura o la caratura della collanina, o la pietra dell’anellino – dell’ennesimo anellino di cui talune insegnanti magari prossime alla pensione hanno pieni i cassetti? Per i nostri tre figli Isacco, Noemi e Susanna, un sacco di volte. Forse per questo motivo, quando Noemi concluse la scuola dell’infanzia, come rappresentanti di classe proponemmo, ai genitori dei bambini che avrebbero definitivamente salutato la maestra Donatella, di pensare a qualcosa di diverso, e forse a lei più gradito. Donatella è stata insegnante d’asilo anche di Isacco, che ora ha 11 anni: la conosciamo bene fin da quel tragico anno (Isacco era al suo secondo anno di scuola materna) in cui in un incidente stradale perse Gianluca, suo unico figlio diciannovenne, dopo più di un mese di terapia intensiva. Con tantissima fatica Dona(tella) si è rialzata dalla grande tristezza, e ha continuato a far crescere con amore i nostri figli e i figli di molte altre famiglie di Gallarate. E dunque quale regalo migliore poteva esserci se non quello di dedicare a Gianluca qualcosa di speciale? Di certo Dona l’avrebbe gradito più che non l’ennesimo ciondolo d’oro bianco … Bisognava solo trovare qualcosa di più comprensibile e utile tanto a chi riceveva, quanto a chi offriva il dono, in questo caso famiglie di bimbi di 5/6 anni. In quell’anno a scuola Dona aveva trattato ampiamente il tema dell’acqua, all’interno di un percorso di educazione ambientale, facendo comprendere quanto questa sia un dono prezioso, da rispettare e non sprecare, soprattutto pensando a quei paesi che ne soffrono l’estrema scarsità. L’acqua è un diritto di tutti, e di tutto bisogna fare perché tutti ne abbiano disponibilità. Perché allora non dedicare a Gianluca la costruzione di un pozzo? Ci siamo subito informati presso diverse associazioni ed ONG, laiche ed ecclesiali, ma ci siamo subito scoraggiati: l’importo minimo per l’escavazione di un pozzo nelle diverse microrealizzazioni a noi note non era inferiore ai 2.500 euro; noi avremmo al massimo potuto raccoglierne 500, almeno inizialmente …
L’incontro con Mukiri
La Provvidenza ha poi fatto sì che la nostra ricerca incrociasse la storia di Fratel Argese e della sua opera come fratello missionario della Consolata in Kenya. Là, da quarant’anni, Mukiri, il silenzioso, unendo ingegno e fatica al naturale fenomeno della rugiada mattutina prodotta dalla fortissima escursione termica lungo le pendici del Monte Nyambene, ha realizzato un sistema idrico che eroga acqua potabile in centinaia di punti di distribuzione ed evitando così decine di chilometri a piedi per l’approvvigionamento d’acqua. Contattati i missionari della Consolata a Torino scoprimmo che con le nostre forze avremmo potuto realizzare un punto di distribuzione per rendere più usufruibile l’acqua di Mukiri. Ecco cosa avremmo regalato a Dona come segno di riconoscenza per l’affetto e la dedizione educativa di quegli anni: un rubinetto aperto in Kenya, a circa 5.800 km da Gallarate!
«Dal Cielo, dove Gianluca abita tra le braccia del Padre Buono, scende la rugiada. Le mani silenziose di Mukiri l’hanno incanalata in mille zampilli che dissetano la gente di Mukululu, e gli allievi grandi di Dona, che lasciano la scuola materna, “hanno aperto” un altro rubinetto, quello della Fontana di Gianluca. Altri bambini berranno da lì, ricordandosi dei loro amici italiani, della loro maestra e di suo figlio».
Con non poche difficoltà queste parole ci aiutarono a convincere gli altri genitori, un po’ frastornati dalla novità dell’iniziativa, e una sera, tutti in pizzeria insieme a Dona, i bambini alternarono la lettura della filastrocca «La fontana di Gianluca» con le loro grida ripetute come tam tam nella savana. Pochi mesi dopo, grazie alla fattiva collaborazione di P. Adolfo De Col, giungeva a Dona la foto del «Gianluca’s water point», come là ormai viene chiamato.
Questa nano-realizzazione ebbe poi un seguito imprevedibile: l’idea di dedicare alla memoria di una persona cara una parte dell’impianto di distribuzione idrica del progetto acqua di Mukiri raccolse altre adesioni: ormai sono numerose le “fontane” che hanno un nome italiano sulle colline del Nyambene.
Ma lo Spirito non aveva smesso di soffiare …
Una goccia di nome Susanna
Pochi anni dopo, nel 2007, Isacco doveva partecipare alla sua messa di Prima Comunione. E anche qui si ripeteva il solito rito consumistico del regalo che ci lasciava tanti dubbi. Pensammo allora che le fontane di Mukiri potevano essere anche qualcosa di diverso da cippi funerari: perché non suggerire ai missionari della Consolata il meccanismo delle “bomboniere solidali” della Caritas Ambrosiana? Al posto dei soldi gettati in angioletti in gesso o in peltro, potevamo offrire gocce di rugiada per una nuova fontana in Kenya, non più dedicata alla memoria di un defunto, ma come segno vivo di una promessa di vita cristiana, di volta in volta arricchita dai doni sacramentali. Iniziammo così a versare le nostre prime offerte per «Isaac’s water point», la Fontana di Isacco. In calce alla targa della fontana, non più una data di morte, ma la scritta «Jesus give him Living Water, Living Bread» (Gesù, donagli l’Acqua viva, il Pane vivo).
Poi il 27 dicembre 2008, alle ore 8.50, un’altra goccia cadde sul Monte Nyambene. Non era una goccia di rugiada, ma la prima di tante lacrime versate da quella mattina per la morte improvvisa di Susanna, la nostra piccola di tre anni e mezzo, stroncata in meno di 48 ore da una polmonite fulminante… «Guidami, Luce Gentile nel buio che mi avvolge, Guidami Tu. La notte è oscura e la casa è lontana, Guidami tu. Custodisci i miei passi. Non ti chiedo di vedere l’orizzonte lontano, un passo alla volta è abbastanza per me …» (J. H. Newman).
Ci fece subito visita la direttrice dell’asilo, insieme a Dona (Susanna da tre mesi aveva iniziato, ancora con lei, la scuola materna): «Molti genitori vorrebbero offrire dei fiori, ma ho preferito prima chiedere a voi»… Guardo negli occhi Daniela (mia moglie) e subito rispondiamo che avremmo preferito dirottare questi soldi … in un’altra fontana. «Susanna’s water point – A life that is lit and that will never stop shining»: una vita che si accende e non si spegnerà mai, furono le parole che ci disse il nostro Vescovo in quei giorni e che ora si leggono sull’insegna di quella fontana in Kenya.
Alla fine della celebrazione della «Nascita al Cielo di Susanna» c’era la necessità di parlare ai numerosissimi bambini presenti: cosa dire per rendere meno dolorosa la partenza della loro amica, o compagna o sorella dei loro compagni di scuola? Forse bastava spiegare che le nostre lacrime dovevano trasformarsi in gocce di rugiada, e raccontare di nuovo la storia di Mukiri: «… E sapete, bambini? Da oggi, per la generosità di molti tra i presenti e in ricordo della vostra compagna di scuola, di queste fontane di rugiada, ce ne sarà una in più, a disposizione di tutte le mamme dell’Ura Valley, a nord del vulcano Nyambene. La chiameremo la Fontana di Susanna. Perché a Susanna piaceva scavare e giocare con la terra. Perché nelle sue ultime ore Susanna aveva una gran sete e oggi dal Cielo sarebbe contenta di offrire un po’ d’acqua a chi la prova tutti i giorni in terra d’Africa. Perché anche Susanna è un po’ come una goccia di rugiada, che una mattina è caduta, piccolissima, nella terra, che ora sembra non esserci più, ma che non smetterà mai di dissetare con la sua vivacità le arsure della nostra esistenza».
Nano-realizzazioni
Il testo girò nelle scuole, la notizia della micro realizzazione si diffuse tra le famiglie, gli allievi e le orchestre in cui suona Daniela, tra i colleghi di lavoro, il Nuoto Club a cui sono iscritti i nostri figli, parenti e amici. Nel giro di pochi mesi la somma raccolta fu così consistente che ci ha permesso di offrire, oltre alla Fontana di Susanna, anche la cucina e la sala mensa dell’Asilo Infantile di Mukululu, là dove Mukiri, dopo averne dissetato i corpi, ora disseta anche la mente dei bambini del Nyambene!
La notizia della Fontana di Susanna ha ridato nuovo vigore all’idea della nano-realizzazione: sono sempre più numerose le persone che si sono rivolte ai missionari della Consolata per dedicare un punto di distribuzione idrica a persone defunte o a testimonianza di un sacramento ricevuto.
Forse un giorno avremo la possibilità di unirci a quanti ogni anno partecipano alla carovana dei missionari della Consolata in Kenya, e lavare le nostre quotidiane lacrime alla Fontana di Susanna. Per ora ci basta gioire, ogni mattina presto, nel vedere una goccia di rugiada velare l’erba sotto casa: anche a 6.000 km da lì Susanna, in braccio a Dio Padre, sta dissetando nello stesso modo qualche suo e nostro fratello africano.
Gigi Anataloni e Samuele Cattaneo
MUKIRI: Uomo dell’acqua e costruttore di chiese
Fratel Giuseppe Argese, detto Mukiri: 50 anni a servizio della chiesa e degli africani
Lo scorso settembre ha celebrato senza rumore 50 anni di lavoro in Kenya: non per nulla la gente
lo chiama «Mukiri» (il silenzioso). Al suo posto parlano tante chiese costruite nella diocesi di Meru e, soprattutto, l’acquedotto di Tuuru, un’opera d’ingegneria idraulica che non cessa di stupire. Ma il più bello deve ancora venire, a Dio piacendo.
Porto di Mombasa, 27 settembre 1957. Un uomo scruta i volti di tutti i passeggeri che sbarcano dalla nave appena attraccata. «Tre preti e una suora» grida. Li trova finalmente: due preti, un fratello laico e una suora. «Haraka!» (sbrigatevi). Non c’è tempo per il benvenuto; il treno sta aspettando. Il tempo di arrivare alla stazione, prendere il biglietto del treno notturno per Nairobi e… benvenuti in Kenya!
Il giorno dopo, un missionario veterano li attende alla stazione di Nairobi. Rapidi saluti, una sbrigativa sosta all’ufficio immigrazione per le formalità, un cambio di macchina alla procura a Muthaiga, un «arrivederci» ai tre compagni di viaggio in mare e il giovane fratello, appena 25enne, comincia a prendere confidenza con le polverose strade verso il nord, destinazione: la città di Meru. Ci arriva il 29 settembre, dopo una nottata a Kyeni e un interminabile viaggio, serpeggiando su e giù per le colline nella rovente calura della stagione secca.
Giuseppe Argese, nato nel 1932, missionario della Consolata, è arrivato nella diocesi che segnerà per sempre la sua vita. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone è in Italia; a dargli il benvenuto è fratel Francesco Costardi, non ancora 33enne, arrivato in Kenya all’inizio dello stesso anno, con l’incarico di costruire la cattedrale di Meru, che spunta appena dalle fondamenta. Per dicembre è previsto l’arrivo di altri tre fratelli: Giovanni Comaron, Dino Bottaro e Bruno Bessani; ma saranno destinati a costruire un santuario dedicato alla Consolata a Karatina, per ringraziarla del ritorno in Kenya dei missionari che, durante la seconda guerra mondiale, erano stati portati in campo di concentramento in Sudafrica. Progetto mai decollato e poi costruito a Nairobi.
Il giorno dopo, 30 settembre, fratel Costardi si ammala ed è portato all’ospedale. Fratel Argese si trova solo a dirigere la costruzione della cattedrale: 80 lavoratori aspettano pazientemente le sue direttive.
È troppo! Due settimane prima era ancora in Italia e, all’improvviso, eccolo là, con una cattedrale tutta da costruire. Si rifugia nella sua camera e si siede sconsolato sul baule. Dopo pranzo prende la decisione: se una cosa va fatta, è meglio affrontarla subito. Esce e comincia a lavorare con gli 80 uomini.
La cattedrale cresce; artigiani e muratori si abituano al nuovo capo che non sa una parola della loro lingua (il kemeru), ma migliora di giorno in giorno nella comunicazione non verbale.?Tre anni dopo, il 10 settembre 1960, la cattedrale viene ufficialmente inaugurata.
COSTRUTTORE DI CHIESE
Quando mons. Bessone si stabilì a Meru, gli unici edifici in pietra nella diocesi erano l’abitazione dei missionari e la chiesa a Kyeni. La casa era stata costruita in pietra per motivi di sicurezza durante il periodo dell’emergenza mau-mau; ma la chiesa era in condizioni tali che poteva crollare da un momento all’altro.
A quei tempi, i fratelli abitavano a Meru, insieme al vescovo, ma operavano su tutto l’immenso territorio della diocesi, oggi suddiviso nelle diocesi di Meru, Embu, Garissa, parte di Malindi e vicariato di Isiolo.
La cattedrale di Meru è una delle tante chiese costruite dal gruppo dei missionari fratelli. Ma quasi tutte le chiese della diocesi di Meru portano l’impronta di fratel Argese: quella di Chuka, costruita nello stesso periodo della cattedrale, quella di Muthambe con colonne in calcestruzzo, e poi Egoji, Mkabone, Kianjai e Mujwa.
Anche a Isiolo la prima chiesa fu opera sua, provvisoria anch’essa, perché mancava l’autorizzazione per costruire strutture permanenti.
Correva l’anno 1963. Don Luigi Locati era giunto a Meru per aprire una missione affidata ai preti fidei donum della diocesi di Vercelli. Fratel Argese, su incarico del vescovo, portò il prete vercellese in lungo e in largo attraverso la diocesi, dal Tharaka a Garissa, da Wajir a Chuka, da Embu a Isiolo: qui don Luigi decise di fondare la nuova missione e il fratello gli costruì la prima chiesa e prima casa.
Quante volte fratel Argese, da solo, si recò a Merti, per portare acqua e viveri ai costruttori di una scuola-cappella. Sono quasi 300 km da Isiolo, in una regione desertica in cui incontrava solo la pattuglia della polizia, che si recava da quelle parti una volta la settimana.
Dopo 11 anni, nel 1968, fratel Argese toò in Italia. Fece appena in tempo a godersi le vacanze, che fu chiamato a risolvere i problemi della costruzione del santuario della Consolata a Nairobi: le fondamenta erano state fatte male, mettendo a rischio la stabilità di tutta la struttura in cemento armato.?Vi restò per sei mesi, quindi toò a Meru, ma si ammalò e dovette stare per qualche mese in ospedale.
Intanto crescevano altre chiese a Tuuru, Laare, Maua, Kirwa, Adero… L’ultima la sta costruendo con pazienza nel campo base dell’acquedotto di Mukululu.
ACQUA, PER FAVORE!
La passione di costruire chiese non lo ha mai lasciato, ma ciò che accadde nel 1967 cambiò per sempre la sua vita. Padre Franco Soldati aveva aperto, nella missione di Tuuru, un centro per bambini colpiti da poliomielite, una malattia epidemica nella zona di Igembe per la scarsità di acqua e igiene. La missione di Tuuru, come tutta l’area dell’Igembe, si stende su uno spesso strato di detriti vulcanici, privo di acqua potabile, fiumi o sorgenti. Il centro si trovò quasi subito a dovere affrontare il problema dell’acqua. Padre Franco lanciò la sfida a fratel Argese: «Hai trovato acqua per altri, trovala anche per noi!».
In altre località, come Chuka, Mujwa, Egoji, Mikinduri, grazie all’abbondanza di acqua, erano state costruite scuole, chiese e altre opere sociali. Nell’Igembe, invece, per la scarsità di acqua, era tutto in situazione di stallo, evangelizzazione compresa.
«Dateci l’acqua, per favore!». Più facile a dirsi che a farsi. Gli anziani del luogo avevano rivelato con riluttanza a padre Franco che nel profondo della foresta del monte Nyambene c’era una sorgente perenne, dove erano soliti recarsi per fare i loro sacrifici e celebrazioni. La foresta era a 25 km di distanza. Come fare per portare l’acqua fino a Tuuru?
Per fratel Argese era un grande rompicapo, finché entrò nella foresta, fece misurazioni varie, tracciò schizzi, disegnò mappe, studiò testi che trattavano di tubature, dighe, cistee, pressione… ed ecco scaturire il progetto da presentare al vescovo.
– Monsignore, sfruttando la legge di gravità, è possibile portare l’acqua dalla montagna fino a Tuuru.
– Va bene, ma dove troviamo i soldi?
– Monsignore, lei mi ha chiesto se fosse possibile ottenere l’acqua; ora, l’acqua è là, il progetto è qui; ci sono problemi, certo, ma se la cosa deve essere fatta, i soldi arriveranno.
«Non ho soldi» era un ritornello sentito tante volte, quando si trattava di costruire le chiese. «Mi faceva innervosire che monsignore buttasse tutto all’aria per questione di soldi -racconta fratel Argese -. Ci furono anche momenti di tensione. A volte, a Meru, quando ci incontravamo, facevamo percorsi diversi nella casa. Però, non smettemmo mai di cornoperare lealmente, alla ricerca di ciò che era meglio per la gente e la diocesi. Non lo adulavo mai; ma quando morì, piansi e piansi molto! E poi, il denaro necessario arrivava sempre».
Zappe Sì, caterpillar no
Uscito dall’ospedale, nel 1969, fratel Argese ebbe una bella notizia: Misereor, l’organizzazione della Conferenza episcopale tedesca, aveva approvato la prima fase del progetto idrico: 700 mila marchi. E si mise subito all’opera per allestire il campo base a Mukululu, vicino a una cappella fatta di pali, fango e tetto di paglia.
Dalla Germania, i sostenitori del progetto volevano che si comprasse un caterpillar per accelerare lo spostamento della terra e completare l’opera in pochi mesi. Ma fratel Argese non ne volle sapere. Un caterpillar avrebbe distrutto le piccole shambas (campi coltivati) dove doveva passare la conduttura principale. Inoltre, con il costo di una tale macchina avrebbe potuto pagare per più di tre anni il salario di 100 lavoratori, armati di zappe, pale e carriole. Il progetto risultò essere una gran benedizione per la popolazione locale: lavoro e acqua, oltre alla riduzione al minimo dell’impatto ambientale.
Nel gennaio del 1970 si iniziò a scavare. Il tempo non costituiva un problema. Per gente abituata da secoli a disporre di poca acqua, un giorno o un anno in più non avrebbero fatto tanta differenza. Il fattore tempo, però, una differenza l’ha fatta, e grossa pure: il fatto che nell’arco di quasi 40 anni siano state impegnate centinaia, anzi, migliaia di persone, ha fatto sì che il progetto arrivasse nel profondo del cuore della popolazione locale: non era un’opera calata dall’alto da un’efficiente Ong straniera, che arriva e se ne va; ma un progetto fatto con la gente, dalla gente e per la gente.
Goccia a goccia
Nonostante i timori di monsignore, il denaro arrivò fin dall’inizio del Tuuru Water Scheme (Progetto acquedotto di Tuuru) da donatori stranieri e harambee locali. Sono stati investiti milioni di dollari provenienti da vari paesi. Fratel Argese rimane sbalordito quando pensa al sostegno straordinario proveniente da ogni parte.
Come avviene nella foresta, dove l’acqua è raccolta goccia a goccia, formando milioni di litri per rispondere al fabbisogno quotidiano della gente, allo stesso modo, il danaro necessario è stillato goccia a goccia: un marco sull’altro, una peseta sull’altra, una lira sull’altra, un fiorino sull’altro, un euro sull’altro, un dollaro sull’altro… e persino uno scellino sull’altro!
Ed ecco i risultati. Un progetto nato su scala ridotta, è diventato una rete di oltre 250 km di condutture, decine di cistee e migliaia di punti di distribuzione: ogni giorno vengono distribuiti quasi 4 milioni di litri d’acqua a oltre 250 mila persone, più di 40 mila capi di bestiame, 20 mila pecore e capre. E il progetto continua, per rispondere alle necessità della gente nelle zone più remote.
L’acqua ha cambiato la vita alla regione: la poliomielite è quasi scomparsa, villaggi e commerci sono spuntati come funghi intorno ai punti di erogazione, le scuole sono progredite, la popolazione è cresciuta, le donne sono state liberate dalla schiavitù di dover attingere acqua in luoghi lontani e pericolosi, l’igiene personale è diventata più agevole, tanti uomini possono avere un lavoro fisso, molti hanno imparato nuovi mestieri, i problemi di salute si sono ridotti (anche se ne sono sorti altri, come quelli legati al consumo delle foglie narcotiche della miraa).
Si dice che una goccia fa traboccare il vaso; ma in questo caso le gocce d’acqua raccolte con pazienza nella foresta del Nyambene hanno messo in moto un lento ma solido processo di cambiamenti di un distretto che, negli anni ’60, era uno dei più poveri ed emarginati del Kenya.
Mukiri
Dietro a tutto ciò, ecco il nostro uomo, il costruttore di chiese, l’uomo dell’acqua, come è chiamato dalla gente del posto. Il Tuuru Water Scheme ha impegnato gli anni migliori della sua vita. A 75 anni (compiuti il giorno di san Martino), l’uomo ha perduto l’agilità e vigore fisico che aveva quel pomeriggio del 30 settembre 1957, quando iniziò a lavorare alla cattedrale di Meru; la sua mente, però, è più lucida che mai, non solo nel seguire la miriade di progetti intrapresi, ma anche nel pensare a qualcosa di nuovo e imprevedibile.
Per conoscere quest’uomo un po’ più da vicino, curiosiamo fra i suoi libri! Entrando nella sua casetta di tronchi d’albero, a sinistra troviamo scaffali zeppi di libri messi alla rinfusa. Ci sono, naturalmente, libri relativi all’acqua: prese, pompe, dighe, depurazione, tubature, foreste pluviali e così via.?Testi su arte muraria, edilizia e architettura, carpenteria e falegnameria, disegno tecnico e di rilevamento. C’è una nutrita selezione di testi religiosi, sulla sua famiglia, i missionari della Consolata, sulla chiesa in Kenya, spiritualità, vite di santi, sacra scrittura, storia della chiesa.
La storia dell’evangelizzazione lo appassiona: conosce a memoria gli episodi più significativi dell’evangelizzazione dell’Africa e del Kenya in particolare. E poi libri su geografia, popoli e culture del paese di adozione. Infine, e non ci sorprende conoscendo l’uomo, libri su agricoltura, frutteti, fiori, insetti e uccelli, colture resistenti alla siccità e una sezione speciale su ulivi e vigneti. In più, libri su cure con erbe medicinali e metodi naturali.
Su un altro scaffale, libri scelti di cucina, su come preparare marmellate e, perché no, su come fare del buon formaggio. Ci sono pure libri fotografici, sulla sua bella città natale, Martina Franca, sull’Africa, il Kenya e il suo acquedotto… Anch’esso è stato fotografato dentro e fuori, descritto in libri e in video. Non troviamo molti romanzi; quei pochi, si può arguire, sono regali di amici che hanno goduto della sua squisita ospitalità.
Prima di arrivare in Africa, fratel Argese aveva frequentato un corso di edilizia per corrispondenza presso un istituto professionale di Luino, ma non lo aveva terminato. Lo ha completato sul campo, con la costruzione della cattedrale di Meru, fino a diventare, a livello mondiale, un esperto nel raccogliere l’acqua nella foresta equatoriale e un grande ambientalista. Le due realtà, infatti, sono strettamente connesse: la foresta può fornire acqua solo se rimane nelle condizioni originarie.
Difendere la foresta del Nyambene da disboscamento e speculazione edilizia è stata una priorità, portata avanti dalla gestione dell’acquedotto di Tuuru da parte della diocesi di Meru.?Tale impresa, però, è aperta a molte iniziative: dalla cooperazione con università locali e straniere al coinvolgimento di entomologi, botanici, oitologi, zoologi per scoprire biodiversità e peculiarità di una foresta speciale come quella del Nyambene; da campagne educative nelle scuole a dibattiti con le comunità circostanti; da attività di promozione agro-turistica a istruttive visite guidate; da documentari filmati a pubblicazioni.
La gente del luogo lo chiama «mukiri», il silenzioso. Fratel Argese è, infatti, un uomo di azione più che di parole; la sua comunicazione, essenziale, misurata e diretta, è scevra di inutili giri di parole. I suoi operai hanno imparato ad ascoltarlo attentamente, perché non ama ripetere le cose. Insegnamento di base, comunicazione chiara e fiducia sono il fondamento su cui ha costruito il rapporto con i suoi lavoratori.
È questo il segreto delle molte attività che porta avanti da Mukululu. Un lavoro su quattro fronti: progetto idrico, fattoria e vigneto di Liliaba, costruzione del santuario della Consolata, attività di consulenza in tutti i progetti di sviluppo diocesani.
Il Missionario
Quando aprì il campo di Mukululu, Mukiri poteva condividere la sua fede con una manciata di cattolici nella cappella di fango. Non ha avuto tempo di fare catechesi o altre attività di evangelizzazione diretta; eppure oggi la comunità conta più di 2.500 fedeli. La capanna originaria è rimpiazzata da una bellissima chiesa, consacrata nel 1986, 75º anniversario dell’evangelizzazione del Meru, dal vescovo Silas Njiru, che l’ha dichiarata santuario diocesano dedicato alla Madonna Consolata. E la chiesa è diventata troppo piccola per accogliere tutti la domenica. Così, dal 1996, ha iniziato ad ampliarla.
Il santuario è cresciuto insieme alla comunità e in base ai ritmi di lavoro imposti dalla costruzione dell’acquedotto; si è innalzato pietra su pietra, in un’armoniosa combinazione di colori diversi: pietre marroni, rosse, rosa, gialle, nere, bianche… tagliate dagli scalpellini, come nella costruzione delle cattedrali medievali, ciascuna con la sua forma particolare, secondo la posizione specifica da occupare nell’edificio: eloquente immagine della chiesa vivente, dove ogni singola persona è una pietra viva, posta sulle fondamenta della pietra angolare che è Gesù Cristo.
Il santuario è la sintesi dello stile di evangelizzazione di Mukiri: costruisci la persona nella sua pienezza e ne farai un cristiano che dà gloria a Dio; e potrebbe essere il paradigma della relazione tra evangelizzazione e promozione umana: due facce della stessa azione salvifica di Dio. È lo stile dell’Allamano, che ai suoi missionari partenti per la missione tra gli africani raccomandava: «Fateli prima uomini e poi cristiani».
SOGNI SENZA Tramonto
A 75 anni, Mukiri è consapevole che non può essere attivo come ai vecchi tempi, ma va avanti, riposando un po’ di più e spronando altri ad assumere le responsabilità. Nel luglio scorso si è realizzato un altro sogno: dopo 7 anni di duro lavoro, ha visto riempirsi la seconda diga sul fiume Ura, che ha una capacità di 55 mila metri cubi. Ad agosto l’ha vista tracimare, così pure all’inizio di ottobre: ormai l’acquedotto di Tuuru può affrontare le siccità più spaventose.
E Mukiri può dedicare più tempo alla costruzione del santuario, alla vigna piantata a Liliaba, dove una volta c’era un campo di prigionia mau-mau. Gli amici lo aiutano a piantare nuovi vitigni e migliorare la qualità del vino. I vescovi lo incoraggiano a produrre vino da messa di qualità. Ma la sua più grande soddisfazione è vedere che circa 200 famiglie hanno piantato le viti nelle proprie shambas e sono in grado di vendere 20-50-100 kg di uva. Non è molto, ma aiuta i magri introiti familiari.
Eppure, di fronte alla crescente domanda d’acqua in altre aree del Nyambene, Mukiri ha un ultimo grande sogno: una terza diga nella foresta, capace di quasi 1 milione di metri cubi! Un’impresa ciclopica, che solo un uomo di fede come lui è in grado di sognare. Costerà milioni di ore di lavoro e miliardi di scellini… La gente lo vuole e ha bisogno di lavorare; di tempo ce n’è in abbondanza; il progetto è quasi pronto e i donatori sono interessati; presto sarà contattato il governo per le necessarie autorizzazioni. Riuscirà a vedere anche questa diga tracimare? Mukiri non lo sa e non gli importa di saperlo. Se deve essere fatta (cioè, se Dio lo vuole), sarà fatta, perché Dio provvederà!
Luigi Anataloni
Il sogno di Mukiri
I bambini poliomielitici di Tuuru necessitano di acqua. E lui si accorge che, nella foresta-montagna del Nyambene, ogni mattina avviene quasi un miracolo: la nebbia nottua si condensa sulla chioma degli alberi e, con il sole, si disperde in mille rivoli sul terreno. Allora ha un’intuizione geniale: scava nel ventre della montagna e, attraverso gallerie, recupera l’acqua in bacini di raccolta. Nasce un acquedotto. Un’opera che, grazie a 270 chilometri di tubazioni, offre acqua a 250 mila persone. Ma il sogno non si esaurisce qui.
28 dicembre 2004.
Le chiese cattoliche risuonano, ancora una volta, del lamento altissimo delle mamme dei bimbi massacrati dal re Erode poco dopo la nascita di Gesù a Betlemme. Lacrime desolate. «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt 2, 18). Ma, il 28 dicembre 2004, la disperazione riempie anche tanti templi del mondo. L’urlo è straziante specialmente in Sri Lanka, Indonesia, India, Thailandia, Myanmar; raggiunge le coste della Somalia e del Tanzania. Persino i luoghi di culto islamici, indù, buddisti e cristiani sono stati squassati e violentati, due giorni prima, dallo tsunami, l’onda titanica e furiosa del maremoto. Le vittime appaiono subito molte: 10, 20, 30 mila. Addirittura 100, 200, 250 mila. Poi non si contano più. Sono troppe! Un anziano annaspa fra onde putride e vorticose: tiene anche stretto a sé un bimbo di pochi anni. Accortosi della telecamera che lo inquadra, ha ancora la forza di mormorare: «Water, please!» (acqua, per favore). Vecchio e bambino stanno soccombendo di terrore, di fatica. E di sete.
A prescindere dalle calamità
naturali, oggi si muore veramente per mancanza d’acqua. O la si soffre acutamente, con conseguenze letali. Nel celebratissimo anno 2000 la comunità internazionale siglò la Millennium Declaration di New York, impegnandosi a dimezzare entro il 2025 il numero di persone senza una fonte sicura d’acqua. Però, tre anni dopo, al Forum Mondiale dell’acqua di Tokyo (marzo 2003), si prese atto che il traguardo restava irraggiungibile. Fino al 2020, dai 34 ai 76 milioni di individui rischieranno di morire per malattie legate all’acqua malsana. La piaga è endemica in Africa: qui, secondo l’Oxfam (Federazione di Organizzazioni non governative inglesi impegnate contro il sottosviluppo), nel 2015 le persone prive di acqua potabile saranno aumentate di quasi 100 milioni.
«Acqua, per favore!».
Lo dicono pure i turisti al termine di un assolato safari nella savana africana. Tre loro Land Rover, di ritorno al lodge, impolverano pesantemente alcune bambine ai margini della strada sterrata: bambine scalze, un po’ lacere, che recano sul capo o sulla schiena un pesante recipiente d’acqua attinta sul fondovalle, dopo due chilometri di discesa ed altrettanti di lenta e faticosa salita. Domani e dopo domani rifaranno il tragitto: due, tre volte, come oggi. È la loro vita. Giuseppe Argese lo sa (*). Giuseppe è un missionario della Consolata «fratello», in Kenya da quasi 50 anni. Esattamente dal 1957 osserva le polverose e ossessive camminate quotidiane di tante bambine, come quelle delle loro mamme e nonne: fratel Giuseppe guarda con attenzione, ma non proferisce parola. Ecco perché i bameru (la popolazione locale) l’hanno ribattezzato Mukiri, il silenzioso. Intanto, con altri missionari, erige l’artistica cattedrale della diocesi di Meru. Nei pomeriggi domenicali Mukiri passeggia. Lungo i sentirneri rivede le bambine con il loro fardello d’acqua sulla testa crespa. E medita. Non distante da Meru, sorge Tuuru, la missione di padre Franco Soldati, che ospita anche bambini poliomielitici. Un giorno Franco avvicina Giuseppe e lo scuote: «Mukiri, i bambini, colpiti da polio, hanno bisogno d’acqua, e non possono andare a cercarsela come gli altri. Inventa qualcosa. In fretta!». Mukiri, il silenzioso, tace; ma, fissando il torrente Mwamba, pensa di utilizzae le acque. La domenica continua le sue passeggiate. È attratto dalle sorgenti del Mwamba, che lo porta nel cuore di una foresta-montagna-vulcano: è il Nyambene, che dà il nome anche alla regione. Inoltrandosi nella selva di felci, nota come la vegetazione sia intrisa d’acqua nella sua interezza, tanto da essere pavimentata da uno strato di muschio gocciolante.
La fredda umidità dell’ambiente fa rabbrividire Mukiri. Ma rabbrividisce, soprattutto, allorché intuisce che, sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene, quotidianamente accade qualcosa di straordinario. Ossia: la grande escursione termica tra giorno e notte (dovuta ai pochi gradi di latitudine dall’equatore, e agli oltre 2 mila metri di altitudine del luogo) fa sì che, con il calare delle tenebre, il cielo sul Nyambene si ammanti di spesse nubi, che il torrido sole equatoriale dissolve al mattino. La nebbia, ristagnando per ore, si condensa sulla chioma della foresta e cola al suolo lungo le pareti della montagna, dove proliferano tappeti di muschio imbevuti di rugiada; essa, gocciolando, alimenta piccoli ruscelli (cfr. Valeria Bianchi, Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004, p. 9-11). Quell’acqua dove va a parare? Mukiri ha quasi una folgorazione: l’acqua può essere risucchiata dal terreno poroso del vulcano spento, come una spugna; se si scavasse nelle sue viscere, forse si recupererebbe l’acqua infiltrata. Così avviene.
Con scarsi fondi
ed attrezzature rudimentali, Mukiri scava nel cuore del vulcano gallerie lunghe centinaia di metri, al cui interno le pareti trasudano una quantità d’acqua potabile purissima. Incomincia a sognare in grande. D’ora in poi le donne non saranno più schiave della diutua fatica del trasporto d’acqua sulla schiena o sulla testa. Il sogno di Mukiri diventa realtà con l’acquedotto di Tuuru. Un’opera imponente e geniale: una rete di 270 chilometri di tubazioni reca acqua potabile alle oltre 250 mila persone della circostante area, siccitosa a memoria d’uomo. L’acqua ha radicalmente mutato la vita sociopolitica nel Nyambene. Attoo al primo rubinetto d’acqua nella savana si sono stretti adulti e bambini, prima dando vita ad un mercato e poi ad un villaggio. Oggi ogni fontana è presidiata da un custode, che richiede un piccolo contributo in denaro ai beneficiari dell’acquedotto: non solo per scongiurare la passività della popolazione, ma anche per alimentare la modesta economia locale. A Mukululu, sede storica del laboratorio-officina di fratel Giuseppe, grazie all’acqua, sono fiorite anche piantagioni di tè. Il missionario continua ad occuparsi della direzione tecnica dell’acquedotto, mentre la gestione ordinaria è in mano delle comunità locali. Però il sogno di Mukiri perdura: oltre ad ampliare la chiesa di Mukululu, incastonata nei campi di tè, sta gettando alcune dighe imponenti, onde accumulare la maggior quantità d’acqua possibile. Questi invasi rispondono alle incessanti richieste d’acqua e servono, soprattutto, a fronteggiare le ricorrenti siccità.
Giuseppe Argese, missionario della Consolata, abita tutto solo in una casetta di legno, sulla cui entrata spicca la scritta «lo chalet dell’orso». Ve n’è pure un’altra in latino: «ursus in silvis». Forse Giuseppe, assai poco loquace, sa di essere un po’ orso nella foresta del Nyambene. Ma per i bameru è solo Mukiri… Il sole è tramontato. Mukiri, ursus in silvis, si rintana nel suo angusto chalet. Prima di cena, sosta in preghiera e meditazione. Si sofferma sul vangelo di Matteo: «Venite, benedetti dal Padre mio, entrate nel regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo… perché ho avuto sete e voi mi avete dato da bere» (Mt 25,18). È notte. Sulla foresta-montagna-vulcano del Nyambene ristagnano le nubi. La «missione acqua» continua.
Giuseppe Argese
(*) Giuseppe Argese nasce a Martina Franca (TA) il 10 novembre 1932. A 15 anni è apprendista muratore. Presso la parrocchia «San Francesco di Assisi» conosce i missionari della Consolata. Nel 1953 diventa uno di loro come «fratello». È in Kenya dal 1957. L’acquedotto di Tuuru, realizzato da fratel Argese, acquista notevole risonanza: – Il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, titola: «Il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»; – nel 1999 Daniele Giolitti si laurea in ingegneria idraulica, al Politecnico di Torino, presentando l’acquedotto ed evidenziandone il rispetto dell’ambiente; – Geo & Geo, di Rai 3, trasmette quest’anno il documentario «Missione acqua», realizzato dalla Società Generale dell’Immagine (SGI) di Torino; – Valeria Bianchi cura Il nostro Kenya, SGI, Torino 2004 (volume cartonato, formato 28 x 28, che raccoglie 97 splendide foto); esiste pure un CD. Altri riconoscimenti al missionario: la nomina di «Cavaliere al merito della Repubblica Italiana» e il conferimento della onorificenza «Servitor Pacis» delle Nazioni Unite.