Dunque, qui è stato un disastro. C’è stato un’alluvione come quello che ho vissuto a Vilanculos nel 2000.
All’inizio di marzo, è cominciato a piovere tantissimo sull’altopiano di Angonia (nella zona montuosa a Nord della città di Tete, verso il lago Niassa), dove ha piovuto per 5-6 giorni continui, con vento forte. Nella parrocchia di Mpenha circa 200 famiglie hanno perso casa e campi. E adesso si stanno aggiustando con capanne alla meglio
Angonia è una zona particolarmente agricola con colline e valli. Le nostre prealpi. Ben 7 cappelle hanno ceduto e sono andate distrutte
L’acqua scesa dall’altopiano di Angonia, si è riversata nei ruscelli. Questi, cresciuti sono sfociati nel Rowubwe, ingrossandolo all’inverosimile. Il Rowubwe è un’affluente dello Zambesi, al quale si unisce proprio qui vicino a Tete. Il Rowubwe di solito è mezzo secco, ma in quei giorni giorni era in piena e ha cercato di riversarsi nel fiume Zambesi, che pieno a sua volta non ha potuto accoglier quella quantità di acqua. Per cui, il Rowubwe è straripato, invadendo campi, isolotti e villaggi in riva la fiume. Il grande ponte, ne ha risentito, e tuttora e intransitabile.
Centinaia di famiglie, si dice 860 famiglie, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno appena salvato la vita. Casa, cose, utensili, tutto… alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina.
Le famiglie da allora accolte nella scuola industriale di Tete, alla belle-meglio.
Governo e privati hanno e stanno soccorrendo alla meglio. Noi pure per tre volte nel centro di accoglienza abbiamo dato viveri e vestiti, frutto di una generosa raccolta tra le parrocchie.
Adesso lo stato sta assegnano un pezzo di terra, in altra zona, per costruire case. Non so se daranno anche i mezzi… Dal centro di accoglienza li stanno mandando in questo quartiere nuovo. Con tende.
Io aspetto qualche giorno, per vedere come andrà a finire e quali saranno i bisogni, almeno che non manchi il mangiare.
Non so poi come sarà la zona di Doa e Mutarara, lontana 200 e 290 Km rispettivamente dalla città di Tete, dove lo Zambesi, ha invaso tutti i campi. Tuttora abbiamo una 15 di villaggi che non siamo riusciti a contattare, e il granoturco è a bagno nell’acqua. Il raccolto non ci sarà per questo anno.
Altra cosa è stato il ciclone che qualche giorno dopo ha colpito Beira e dintorni. Una tragedia, quella che si vede alla TV. Non so quando Beira potrà rialzarsi. Tutto distrutto. Grazie a Dio, anche la ONU sta intervenendo. I danni sono ingenti.
padre Sandro Faedi amministratore apostolico di Tete
Cari missionari
Ricordi indelebili dal Mozambico
Un anno dopo il mio rientro, voglio dire un grosso grazie ai missionari e missionarie della Consolata. Sono un sacerdote della diocesi di Vercelli e dal 2002 al 2018 ho vissuto con loro in Mozambico, dove ho trovato già formazione ed animazione cristiana. Quando parlo dei missionari della Consolata è come se parlassi della mia famiglia. Ho vissuto a lungo a Maimelane, una missione da voi fondata. Lì ho trovato ancora tre suore della Consolata che dopo la rivoluzione sono ritornate per continuare l’evangelizzazione. E con esse ho appreso ancora meglio il vostro carisma. Sì, perché le suore erano sempre assistite dai padri che vivevano a Villankulo o a Mambone o a Massinga.
Quello che mi ha lasciato sbalordito è l’enorme lavoro fatto per fondare quelle missioni, sia lavoro manuale e che lavoro di evangelizzazione. Nelle due missioni in cui ho vissuto mi ha impressionato l’enorme costruzione della stupenda chiesa. Poi la costruzione delle aule per scuola e catechesi e anche un ospedale che però, appena finito, è stato nazionalizzato dal governo e ora giace abbandonato e cadente.
La presenza delle suore ha dato continuità alla vita della missione. Dopo la guerra tre suore sono rientrate a Maimelane e sr. Elisabetta Possamai ha riaperto le cinquanta cappelle sparse nella foresta formando, in cinque anni, almeno 250 catechisti di cui dodici, i più validi, sono diventati formatori dei futuri nuovi catechisti. L’altra suora, sr. Clemenzia, infermiera, aveva avuto in dono una motocicletta con la quale andava a casa degli ammalati ed aveva fondato un centro nutrizionale (dove i bambini ricevevano cibo e cure mediche).
Poi c’era sr. Florentina, la quale seguiva le donne insegnando a cucire, rammendare e tenere il decoro della chiesa, della loro casa e l’igiene dei figli. Ed al sabato riusciva a dare catechesi in lingua locale alle mamme.
Ho cercato in questi anni di conservare la vostra missione perché in essa vedevo un enorme lavoro fatto con competenza e fatica. I padri a Maimelane avevano pure fatto una piantagione di arance, mandarini e pompelmi. Una scelta fatta con oculatezza, perché non maturavano tutti allo stesso tempo ma a tempi alternati. Siamo riusciti a conservarne solo un centinaio di piante, perché il resto fu distrutto da anni di incuria e abbandono. Abbiamo anche rimesso in ordine un’enorme cisterna che serviva per recuperare acqua piovana per tutta la missione.
Dopo vari anni sono passato alla missione di Mangonha prima sede della missione Massinga. Anche lì era tutto nazionalizzato ed abbandonato. In quel periodo mi ha aiutato molto padre Arturo Marques con i suoi insegnamenti, orientamenti e memorie del passato, essendo stato uno dei tanti ad avervi servito. Lì ho riordinato la chiesa che era alquanto abbandonata, anche se i cristiani continuavano ad andarci per pregare. Ma era proprio ridotta male, diventata la casa dei pipistrelli, senza banchi o arredamento liturgico. Nel ristrutturarla abbiamo constatato che l’intelaiatura del tetto era fatta con enormi travi di palissandro. Parlando con padre Arturo mi disse che furono ricavate dalla foresta di Fughaloro (una delle prime missioni della Consolata in Mozambico). Le travi venivano portate sulle spalle da un centinaio di operai da oltre 120 km di distanza. Avevano costruito anche tre case: una per i missionari e due per le suore. Poi un dispensario e otto casette per la formazione dei catechisti che studiavano a Mangonha per due anni e dopo passavano a Guiúa, alla scuola per catechisti, per altri tre anni. Insomma, hanno dato un’impronta solida e meravigliosa dove essi sono passati. A Mangonha hanno pure fatto una enorme piantagione di palme da cocco, e aranci, limoni e pompelmi, tutto per alimentare se stessi e la popolazione, specie per i bambini. Poi avevano canalizzato l’acqua del fiume. Avevano fatto anche una vasca (che ho trovato ancora funzionante) per disinfettare le mucche, essendo quella una zona di pastori.
L’impronta dell’Allamano io sono riuscito a coglierla nel profondo. Certo erano tutti sacerdoti giovanissimi così pure le suore, per cui le fatiche non le misuravano. Nella gente ho trovato ancora forte la devozione all’Eucarestia e alla SS. Consolata. Tutto questo che vi ho descritto è la minimissima parte delle missioni che la Consolata ha aperto e della grande formazione e devozione che ancora ho trovato. Ringrazio il Signore di aver sperimentato un carisma così meraviglioso e travolgente. Poi non per ultimo lo stile di famiglia che ho scoperto in alcuni padri, come padre Tavares che mi ha seguito paternamente, e i padri Alceu (Agarez), Carlo (Biella), Gabriele (Casadei), Sandro (Faedi) e fratel Pietro (Bertoni) che non passavano mai da queste parti senza entrare nella missione per un saluto.
A me questi esempi umani, cristiani e sacerdotali mi hanno lasciato un grande desiderio di imitazione e di stima. Prometto che porterò sempre in me questi esempi così luminosi e caritatevoli ed umani per il mio apostolato in Italia. Ma devo dire che il cuore è nelle missioni e con i missionari e missionarie della Consolata.
Don Carlo Donisotti
16/02/2019
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La formula padre Lerda
Rev. padre Gigi,
ho raggiunto una età, dove sono maggiori i ricordi, che le nuove aspettative. Nel cuore sono rimasti nove splendidi anni vissuti nell’Istituto Missioni Consolata, prima a Bevera (Co), poi a Varallo Sesia (Vc). Credo di ricordare quasi tutti i volti di padri, suore, assistenti e compagni. Usando le parole di papa Francesco, dette il 1° novembre, posso dire di aver avuto al fianco molti veri «santi poveri», di quelli che non si arrampicheranno mai sulle colonne del Bernini.
Non ebbi il loro coraggio e la loro fede. Sono uscito, ho lavorato, ho formato una bellissima famiglia e, ora, mi trovo nonno a tempo pieno, con una nipotina di tre anni e mezzo e due gemellini di 15 mesi. Ho un nodo di riconoscenza, che vorrei alleggerire.
Per mitigare la lacuna, ho provato a dedicare a padre Attilio Lerda (1929-2011), mio professore di matematica (e con lui, a tutti coloro che hanno cercato di insegnarmi, non solo a usare penna e calamaio, ma anche un modo di vita) la formula principale, almeno così la ritengo, di una ricerca matematica, sia pure modesta, che ho completato dopo otto duri anni di lavoro da pensionato e dopo 45 anni di abbandono dei libri.
Sono tre formule. La prima, che dovrebbe individuare se un numero è numero primo, l’ho dedicata alla mia nipotina Matilde. La seconda, che costruisce e dà ordine logico a tutti i numeri primi, l’ho chiamata «formula padre Lerda» ed è ovviamente dedicata a lui. La terza, che individua i fattori primi di tutti i numeri, l’ho chiamata «procedura Gemelli», dedicandola ai miei nipotini di 15 mesi, gemelli appunto.
Era il minimo che potessi fare.
Non mancherò di inviarle una mia povera preghiera, ma non si dimentichi di ricordare i miei tre piccolini alla Madonna Consolata.
Ferruccio Vitali
Alzano Lombardo (Bg), 20/02/2019
Penetrare il mistero di Cristo
Caro padre Gigi, ho letto il primo intervento del nuovo biblista, Angelo Fracchia, padre di famiglia e docente. Sono rimasto ammirato dalla sua capacità di rendere semplici anche le cose più complicate come è la Scrittura, almeno nella sua parte letteraria e quindi anche gli Atti degli Apostoli. Un plauso e una bellissima occasione per i lettori di MC che meritano particolare attenzione. Angelo Fracchia può aprire infinite porte e aiutare tanti a penetrare sempre di più il «mistero di Cristo» che è la Parola/il Lògos.
Leggerò mensilmente con atteggiamento spirituale quanto il servo della Parola «Angelo-Messaggero» e quindi «evangelizzatore» ci proporrà per ispirazione dello Spirito.
In un tempo come il nostro in cui l’Africa, depredata da secoli dall’Occidente, è ripudiata come il Lazzaro del Vangelo (Lc 16,19.31), la rivista MC è la migliore informatrice dell’Africa sull’Africa e del mondo. Essa è in se stessa la forma più vera di evangelizzazione dell’occidente che ha dimenticato il proprio passato e da dove derivano le proprie ricchezze che inesorabilmente perderà perché incapace di condividerle con i figli e le figlie di Dio.
Come lettore attento e fedele, vi sono grato, vi sono vicino e prego con voi e per voi come anche invoco lo Spirito sul nuovo biblista Angelo e sui Lettori e Lettrici ai quali va il mio abbraccio e il mio augurio di una vita nel Signore.
Paolo Farinella, prete
01/02/2019
Padre Giordano Rigamonti
Tre parole per
Tre parole descrivono la vita di padre Giordano Rigamonti: missione, sogno, laici. Parole divenute subito ideali, scelte, fatti.
Missione: sentirsi inviati dalla Provvidenza ad annunciare a tutti un messaggio di speranza, di audacia, di misericordia.
Sogno: «sognare in grande», sapendo che tu sei fatto ad immagine di Dio, da Lui coronato di «onore e gloria».
Laici. No, non si escludono i preti e i frati, né i conventi né gli episcopi. Ma i laici hanno una marcia: la concretezza, l’aderenza alla storia.
Missione, sogno, laici: realtà che si arricchiscono a vicenda, che hanno arricchito padre Giordano e quanti lo hanno avvicinato.
Abbiamo iniziato con i «Convegni Missionari Nazionali», con circa 400 giovani provenienti dall’intero stivale italiano. Poi i «Viaggi di Conoscenza in Missione», le «Mostre Missionarie», le «Campagne» per la «mucca per l’indio», contro la Coca, l’Alcool. Poi, poi… E tu ti trovavi accanto a professori, magistrati, primari, politici. E tanti missionari.
Ti sentivi accanto soprattutto lui, Giordano, missionario della Consolata esigente… perché sapeva che tu potevi dare molto per la missione. Tu, ti sei tirato indietro?
Padre Francesco Bernardi
per gli 80 anni di padre Giordano, 30/04/2018
Carissimo p. Giordano
Mentre mi accingo a scriverti mi vengono alla mente tantissimi ricordi legati a te, d’altra parte per anni abbiamo passato dalle otto ore in su a lavorare fianco a fianco!
Al primo incontro mi eri stato subito «antipatico» … Ero arrivata da te con cinque amici per andare a fare un campo di lavoro in Congo, allora Zaire. Noi (che non sapevamo neanche dell’esistenza dei missionari della Consolata) pieni di energia, grinta ed entusiasmo… tu che subito ci avevi smontato dicendo che le cose andavano fatte bene, con una preparazione lunga e precisa sia a livello individuale che di gruppo con sensibilizzazione missionaria nelle parrocchie, nella città dove vivevo… e di lì è iniziato il tutto.
Campo di lavoro in Congo forte e stupendo, e mille agganci con persone che si appassionarono alla missione e la tua richiesta, a me, di lavorare per il Centro di Animazione Missionaria di Torino (Cam) appena iniziato e che tu dirigevi!
Quante iniziative hai promosso e portato avanti… I mitici Convegni missionari giovanili per tutta Italia, primi nel loro genere, che portavano a Torino 400 e più giovani appassionati alla missione; i campi di lavoro e di formazione in Italia e all’estero nei quali i partecipanti vivevano realmente «il mettersi a servizio».
I viaggi di conoscenza in missione per gruppi di persone che volevano vedere il Kenya, il Tanzania in un modo non turistico. Ricordi il primo che facemmo in Kenya? Avevamo 45 persone da portare di missione in missione e tu con tutti riuscivi a essere disponibile e attento.
I corsi di formazione missionaria, le mostre missionarie, le campagne missionarie, eri un vulcano di idee.
Avevo il terrore quando mi chiedevi «che impegni hai per stasera?», perché già sapevo che non si sarebbero contate le ore che sarebbero passate per organizzare, preparare, pensare a iniziative a favore della missione. Tu con le tue segreterie allargate…
Eppure, in tutto questo bailamme riuscivi ad essere vicino alle persone nella quotidianità e negli eventi della vita, come molte volte hai fatto con me e la mia famiglia nei momenti belli e nei momenti tristi.
Quando al mattino arrivavo in ufficio, da come mi stavano i capelli mi dicevi di che umore ero… Avevi la capacità di entrare in sintonia!
Ricordi? I giovedì comunitari con i giovani, le messe, le cene condivise.
E quando si facevano le macchinate e si partiva all’alba per le giornate missionarie per sensibilizzare la gente e si tornava a sera inoltrata? Noi giovani distrutti e tu che ancora sfornavi idee! Tutto entusiasmante e anche sfinente… non c’era tregua… ma almeno c’era vitalità, vitalità per il sogno in cui credevi di una missione qui e là con un ponte infinito fatto di persone. Non ti fermava nulla. Nessun rifiuto, nessuna problematica, in qualche modo riuscivi a catalizzare le persone attorno a te e farti dire sì nelle attività che volevi portare avanti. Non ti fermava neanche la salute che già all’epoca non era proprio delle migliori. In tutto mettevi la passione per la missione e la Madonna Consolata che sempre hai tenuto presente in ciò che facevi.
Poi sei andato a Roma. Non eri più il mio capo, mentre io ho continuato a lavorare al Cam (e ora Missioni Consolata Onlus) e poi a Rivoli dove hai portato avanti altri mille progetti con l’Associazione Impegnarsi Serve.
Non ho più potuto condividere personalmente le varie iniziative, ma sapevo che nulla era cambiato. Il padre Giordano che conobbi 37 anni fa era uguale: pieno di grinta, carica e passione missionaria.
Ora smetto con i ricordi per non stufarti, ne sto dimenticando tanti e soprattutto mi sta venendo un po’ il magone. Ti ho scritto, caro p. Giordano, per ringraziarti. Sì, per dirti un grazie davvero grande per ciò che sei stato nella mia vita, perché mi hai fatto appassionare alla Missione, mi hai fatto conoscere realtà che mai mi sarei sognata di vedere, perché mi hai aperto gli occhi e il cuore a un mondo senza confini.
Sicuramente ora starai programmando qualche incontro in cielo e qualche riunione… e mi raccomando non dimenticarti di noi!
Ciao p. Giordano
Antonella Vianzone
Torino, 11/02/2019
In Madagascar perché siamo missionari ad gentes
È proprio nel dies natalis dell’Istituto che la Consolata ufficialmente è arrivata in Madagascar, isola rossa, la quarta isola più grande del mondo. Alle ore 13:40, (ora locale) del giorno 29 gennaio 2019, all’aeroporto di Nosy Be, l’aereo è atterrato. E così è iniziata ufficialmente l’avventura dei missionari della Consolata in questa terra.
Ad attendere l’arrivo di padre Godfrey Msumange, consigliere generale della Consolata per il continente dell’Africa, a nome dell’istituto, c’erano rappresentanti di tutta la chiesa locale: il vescovo, il vicario, i sacerdoti, i religiosi ed i laici. Nella santa messa celebrata la sera dello stesso giorno nell’isola di Nosy Be, padre Godfrey ha annunciato ufficialmente l’apertura dell’istituto in Madagascar. «È significativo che questo accada proprio il 29 gennaio. Infatti, esattamente 118 anni fa nasceva l’istituto dei missionari della Consolata. È lo stesso fondatore che oggi vuole che nasca questa avventura missionaria qui nell’isola rossa, Madagascar», ha sottolineato.
La nostra presenza per il momento sarà nella diocesi di Ambanja. Per circa un anno, i tre missionari incaricati di questa apertura impareranno la cultura ed in modo speciale la lingua malgascia, ospiti del vescovo mons. Rosario Vella, salesiano. E lungo l’anno si sceglierà una delle missioni tra le due individuate: Beandrarezina e la periferia della città di Antsohihy. I protagonisti, che per questioni burocratiche non hanno ancora potuto partire per il Madagascar, ma che partiranno a breve, sono di tre nazionalità diverse. Si tratta di padre Kizito Mukalazi, dalla diocesi di Masaka in Uganda, che prima lavorava in Kenya, padre Jean Tuluba, dalla diocesi di Wamba, in RD Congo, che prima lavorava nell’Amazzonia in Brasile, e padre Jared Makori, dalla diocesi di Kisii in Kenya, alla sua prima destinazione.
I tre iniziano questa missione dopo un anno di preparazione, che ha avuto il suo culmine il 27 gennaio presso la parrocchia di Kahawa West, dove hanno ricevuto il loro mandato missionario.
Perché iniziare l’avventura missionaria in Madagascar? È una delle domande che tanti si fanno. Semplicemente perché siamo cristiani, consacrati alla missione, ed alla missione ad gentes secondo lo stile consolatino. La nostra vocazione come cristiani, e ancora di più, come consacrati alla missione, è quella dell’annuncio.
Se la notizia è buona, perché trattenerla per noi stessi? È fondamentale condividerla. È nel nostro Dna condividere, annunciare la buona novella soprattutto in quegli ambienti dove non è ancora arrivata, dove la vita vale meno, dove il donatore della vita Gesù Cristo è sconosciuto. E per noi missionari della Consolata, consacrati alla missione, questo è un dovere assoluto. Guai a noi se non annunciamo il Vangelo (1 Cor 9:16).
La zona dove lavoreremo è un territorio ad gentes. Su 100 persone solo otto sono cristiani. E di più come fanno vedere le statistiche, il Madagascar è uno dei paesi più poveri del mondo.
I missionari della Consolata in Madagascar hanno come loro patrona, la beata Sr. Leonella Sgorbati, suora missionaria della Consolata, martire che nella sua vita ha saputo amare senza misura. È stata beatificata l’anno scorso a Piacenza in Italia.
Baba Godfrey Msumange
da Nairobi, 21/02/2019
Mozambico:
Bwana Cilimba, l’uomo dal cuore forte
I missionari della Consolata arrivano in Mozambico nel 1925 nella provincia del Niassa. Uno dei primi è padre Pietro Calandri, detto «Bwana Cilimba», un cuneese forte, determinato, innamorato della gente e con il cuore pieno di Cristo. Fonda una grande missione, ma soprattutto costruisce una solida comunità cristiana che vive con fedeltà la propria fede in un ambiente musulmano e attraverso le prove di una lunga guerra.
I cattolici e i musulmani del Niassa hanno celebrato a Massangulo con grande affetto e solennità il 50° anniversario della morte di padre Pietro Calandri, il primo missionario della Consolata in Mozambico e il pioniere dell’evangelizzazione della zona. È morto il 12 agosto 1967 a 74 anni dopo una lunga vita missionaria dedicata quasi interamente al servizio dell’evangelizzazione del popolo Ayao e all’educazione dei giovani.
Il suo funerale, partecipato da una moltitudine riconoscente, e la sepoltura in Massangulo, la missione da lui fondata nel 1928, sono stati l’espressione eloquente di quanto fosse considerato e amato da tutti.
Tra i musulmani Ayao del Niassa, si era guadagnato un nome: «Bwana Cilimba», che significa «uomo dal cuore forte e che può gestire tutto». È questo senza dubbio il titolo più adeguato per questo grande missionario della Consolata.
Missionario della Consolata
Nato il 5 luglio 1893 a Moretta, Cuneo, fin da piccolo mostra curiosità e un temperamento disciplinato e determinato. Intelligente, sviluppa presto quel notevole senso di osservazione che plasmerà l’artista che più tardi si rivelerà in lui. Il sogno di una vita di dedizione e di avventura portano il giovane Calandri verso la vocazione missionaria, che abbraccia nel 1911, quando entra nell’Istituto Missioni Consolata. Conclusa la sua formazione, è ordinato il 3 febbraio 1917. A causa della guerra non può realizzare il suo desiderio di partire subito verso terre lontane. Il sogno diventa realtà solo tre anni più tardi, quando, nel 1920, viene inviato in Africa. Il Kenya è la sua prima missione e vi rimane cinque anni maturando esperienza, rafforzando la sua formazione e forgiando quel senso pratico che gli sarà molto utile in futuro.
Pioniere in Mozambico
Nel 1925 il giovane missionario riceve una nuova destinazione. Un altro paese africano sta emergendo all’orizzonte: il Mozambico. Sbarca nel porto di Beira il 30 ottobre 1925, ma quasi subito deve tornare in Kenya per accompagnare un padre che si è ammalato e ha bisogno di cure. Rientra nel giugno 1926 accompagnato da padre Giuseppe Amiotti. Hanno il compito difficile di sondare la possibilità di stabilirsi nella vasta regione del Niassa, dove non è ancora entrato alcun missionario cattolico.
Calandri e Amiotti iniziano, così, una grande avventura attraverso terre sconosciute, in un’epoca in cui le comunicazioni sono quasi inesistenti e la mancanza di strade e mezzi di trasporto rende tutto più isolato, lontano e difficile. I due giovani missionari sono i primi cattolici a entrare nel Niassa e si stabiliscono a Mandimba il 5 luglio 1926. Per circa due anni la prima preoccupazione è l’inserimento nel contesto sociale della regione.
Per raggiungere al meglio questo obiettivo si dedicano all’apprendimento della lingua Ciyao, cercando di conoscere gli usi e i costumi del popolo Ayao, compito in cui mettono sempre maggior impegno nella misura in cui cresce in loro l’amore per la gente e la sua terra. Mentre sono a Mandimba dedicano il loro tempo allo studio e all’individuazione e preparazione delle strategie future.
Uno stratega della missione
Dopo essersi dedicato all’osservazione e allo studio, padre Calandri sceglie, ai piedi del Monte Massangulo, il terreno adatto alla sede della missione. E lì, in pieno Niassa, nel mese di maggio del 1928, fonda «Nostra Signora della Consolata di Massangulo».
Uomo metodico, padre Calandri non rallenta il ritmo. Intraprendente, inizia a disegnare una mappa precisa della regione di Massangulo dove svilupperà la sua attività. Rapidamente si impegna nella programmazione dei compiti da intraprendere al fine di creare le strutture di base della missione: la bonifica del terreno; la piantagione dei primi alberi; l’apertura di strade; la costruzione delle strutture necessarie. Visionario, progetta e fabbrica gli edifici per l’abitazione e i servizi essenziali a uno sviluppo strutturato e integrato: internati, scuole, laboratori, mulino, dispensario e maternità.
Usa le risorse locali per gli edifici impiegando l’argilla per la produzione di mattoni e tegole. Attraverso un ingegnoso sistema di canali capta l’acqua da una sorgente nel monte Massangulo per la missione, ottenendo così una risorsa essenziale per tutte le iniziative. Investe nell’agricoltura e nell’allevamento di bovini, nei laboratori di falegnameria, carpenteria e di calzature, per l’auto-mantenimento e il commercio, e anche nella stampa e rilegatura di libri.
Coinvolge la gente in tutte le attività. Integra gli alunni della missione nel lavoro e li forma in modo da poter essere autonomi e capaci di sognare e osare una vita diversa e migliore.
Lavora sempre in collaborazione con altri missionari: i padri Angelo Lunati e Luigi Wegher e i fratelli Giuseppe Benedetto, Lorenzo Baroffio e Ugo Versino, e con il sostegno delle suore missionarie della Consolata e dei catechisti locali.
Il dialogo e la cooperazione con i musulmani
Nei primi tempi non tutto è facile. Dopo la fondazione di Massangulo, padre Calandri e i suoi compagni sperimentano l’ostilità di due capi Ayao musulmani, che non vogliono un’altra religione nella loro terra.
Sopporta pazientemente in quei primi anni l’atteggiamento ostile della popolazione verso la missione e i missionari. Le relazioni di buon vicinato e il lavoro paziente poco a poco danno frutti e l’ostilità lascia il posto a un buon rapporto di collaborazione e rispetto.
Padre Calandri ha un grande merito nello stabilire questo clima di reciproca comprensione e rispetto che dura ancora oggi. Sono numerosi i gesti di aiuto reciproco vissuti negli anni: la difesa della popolazione contro l’espropriazione delle terre per la coltivazione forzata del cotone; l’accoglienza nella missione di gente ricercata (perseguitata) dai militari portoghesi durante la guerra per la liberazione del Mozambico dal dominio coloniale; le visite alle moschee; la partecipazione alle feste comuni. Padre Calandri rispetta la religione della gente senza imporre a nessuno la conversione al cattolicesimo.
Una vita missionaria feconda
Le opportunità per evangelizzare la popolazione Ayao sono rare, ma padre Calandri non si lascia scoraggiare e con pazienza pone le basi per un servizio pastorale duraturo. Alcuni giovani musulmani Ayao accettano, dopo l’approvazione delle loro famiglie, di ricevere il battesimo, e non c’è dubbio che a questo ha contribuito anche la sua indiscussa autorità morale, oltre all’eccellente educazione data nelle scuole della missione.
Con pazienza la comunità cristiana cresce. Si formano le prime famiglie cristiane a cominciare dagli alunni educati negli internati (i «collegi» nei quali gli studenti vivevano durante il periodo della scuola, ndr).
Uomo d’azione, pur con pochi mezzi, dota la missione di Massangulo di un insieme di edifici imponenti non solo per rispondere ai bisogni immediati ma anche per preparare il futuro sviluppo. Uomo di scienze e di lettere, dopo alcuni anni di permanenza nel Niassa, senza tralasciare il lavoro che gli era stato affidato, compila un dizionario e una grammatica della lingua Ciyao.
Lo studio, il dialogo e la predicazione in lingua locale avvicinano alla popolazione e rafforzano l’empatia. Questo radicamento nella cultura della gente porta come frutto positivo l’adozione del missionario tra gli Ayao.
Uomo di elevata sensibilità e senso estetico, progetta e dirige i lavori dell’imponente e bellissima chiesa dedicata alla Madonna Consolata, oggi Santuario diocesano di Massangulo. Ci volgliono 10 anni per costruirla. Il cantiere diventa anche centro di formazione di carpentieri, falegami e muratori esperti perché impiega maestranze e operai locali e utilizza i laboratori di arti e mestieri della missione. Questa straordinaria chiesa ancora oggi è motivo di meraviglia per chi la visita. È stata benedetta il 3 gennaio 1964 dal primo vescovo della diocesi, Dom Eurico Dias Nogueira, nel suo primo atto pubblico.
In una delle cappelle laterali dell’imponente santuario è sepolto padre Calandri in attesa della gloria della risurrezione.
Diamantino Guapo Antunes
i loro nomi sono scritti in cielo
1. Ivone Faustino – Aveva 5 anni, ma era già una bambina molto vivace e giudiziosa: aiutava la madre nei piccoli lavori di casa, come attingere acqua, raccogliere legna, tenere pulita la casa. Tre fratelli maggiori furono rapiti dagli assalitori: due riuscirono a fuggire; l’altro fu costretto a seguire i rapitori alla loro base e non toò più. Fu trafitta da una baionetta, in braccio alla mamma. 2. Cecilia Jamisse – Aveva 41 anni e quattro figli. A 18 anni fu battezzata e lo stesso giorno sposò il catechista Faustino Cuamba. Moglie esemplare, accompagnò il marito
nell’attività apostolica della comunità fino alla morte.
Il giorno prima di arrivare al Centro, era ancora all’ospedale.
Giunsero a Guiúa la sera del 22 marzo; poche
ore dopo, fu uccisa da un colpo di baionetta,
mentre cercava di difendere la figlia Ivone. 3. Faustino Cuamba – Marito di Cecilia Jamisse, aveva
44 anni. Era catechista e cornordinatore zonale nella
parrocchia di Inhambane:
educato dai genitori alla
vita tenace del pescatore
per diventare anche, mediante
il servizio alla comunità,
«pescatore di
uomini». Fu il primo a
morire nell’attacco al
Centro catechetico. Mentre usciva di
casa, venne falciato da una raffica di mitraglia. Fu
trovato agonizzante, accasciato ai piedi di un albero
di cajú, con le mani sul ventre, squarciato dalle
pallottole. 4. Albino Tepo – Era nato nel 1948 a Mocumbi, cugino
di suor Lurdes, delle Francescane missionarie
di Maria. Grande lavoratore, nei giorni di permanenza
alla missione occupò il tempo intessendo cesti,
che poi vendeva. Stava per ritornare a Mocumbi,
quando fu sorpreso dall’attacco dei guerriglieri.
Ucciso a colpi di baionetta. 5. Catarina Sambula – Nata il 2 marzo 1965 a Machukele,
Mapinhane (Vilankulo), da genitori metodisti.
Nel 1987 sposò Armando Duzenta, responsabile
parrocchiale della commissione dei laici e famiglie.
Donna molto attiva in famiglia e nella
comunità, era insegnante di cucito, responsabile dei
giovani e assistente dei gruppi per la promozione
della donna. Aveva due figli: Azarias (5 anni) e Candida
(6 mesi). Gli assalitori la obbligarono a seguirli
ed abbandonare a terra la figlia più piccola, che fu
trovata ancora viva dalle suore e si salvò. Azarias fu
salvato dal padre, che riuscì a sfuggire agli assalitori.
Catarina, invece, fu trovata nel bosco martoriata
in tutto il corpo. 6. Isabel Foloco – Aveva 45 anni. Proveniva da Morrumbene.
Sposata con il catechista Benedito Penicela,
aveva cinque figli. Generosa nel collaborare ad ogni
iniziativa comunitaria, i poveri e bisognosi trovavano in lei
un aiuto sicuro e discreto. Fu accoltellata, sotto gli occhi
dei figli. 7. Benedito Penicela – Marito di Isabel e catechista di Morrumbene,
era nato nel 1944. Uomo alto e forte, si distingueva
per zelo e dinamismo nell’animare la sua comunità.
Insegnava xitshuaa suor Teresa. Anche lui, come la
sposa, fu ucciso a coltellate alla gola e al ventre.
8. Joaquim Marumula – Era nato a Massinga nel 1939.
Fu battezzato a 17 anni; sposò Palmira Kezane
Mapuiane, che gli diede 10 figli. Per sostenere
la famiglia, emigrò in cerca di lavoro. Aveva
iniziato l’attività di catechista nel 1967, facendosi
apprezzare per la generosità e la bella
voce, con cui guidava i canti della liturgia. Fu
ucciso a colpi di baionetta. Tre dei suoi figli furono
rapiti, ma tornarono a casa dopo sei mesi.
La moglie riuscì a salvarsi con la fuga. 9. Veronica Sambula – Era nata a Mavume
(Massinga) nel 1960. A 13
anni andò a lavorare a
Maxixe, dove conobbe
il futuro marito, Paolo
Saieta Kuniane, che lavorava
a Inhambane.
Ad entrambi furono affidati
compiti di responsabilità:
Veronica fu eletta anziana della comunità
e il marito fu scelto come catechista e anziano
della zona di Murure. Nel 1987 fu affidato loro
il compito della formazione dei giovani della
stessa zona pastorale. Morì accoltellata in varie
parti del corpo. 10. Madalena Beme – Originaria di Guiúa, aveva
una cinquantina d’anni. Donna semplice e
laboriosa, viveva in un villaggio vicino a Guiúa.
Frequentava il secondo anno di catecumenato.
Al momento del massacro si era rifugiata nel
Centro. Fu uccisa a colpi di baionetta. 11. Deolinda Gungave Sevene – Aveva 50 anni.
Fu battezzata nel dicembre 1962. Sposa di
Feando Sevene, catechista di Mocodoene,
era una madre esemplare e laboriosa. Nella comunità
era stimata per la profonda vita di preghiera
e la generosità nell’aiutare gli altri. Uccisa
a colpi di baionetta. 12. Gina Feando – Figlia di Deolinda, aveva
13 anni. Era ancora catecumena. Nutriva grande
amore per i genitori, che aiutava nei lavori
di casa e dei campi. Non si separava mai dalla
madre, alla quale confidava i suoi problemi
e dalla quale attingeva forza e coraggio. Fu trovata accanto
a lei, sul luogo del martirio, trafitta da baionetta.
13. Manuel Peres – Quarant’ anni. Originario di Beira. Fu
ucciso nell’assalto al Centro il 13 settembre 1987. Cadde
vittima di pallottole sparate a bruciapelo mentre difendeva
la moglie e i figli. 14. Maria Titosse – Era nata nel territorio di Guiúa nel
1960 ed era stata battezzata nella chiesa metodista. Piccola,
magra e timida, aveva sposato Leonardo Joel Maniane,
da cui ebbe tre figli. Volendo entrare nella chiesa
cattolica, frequentava il secondo anno di catecumenato.
Fu uccisa a colpi di baionetta, insieme al marito e i figli
Rita e Arlindo. 15. Arlindo Leonardo Maniane – Figlio di Maria Titosse e
Leonardo Joel, aveva solo un anno di età. Fu trovato sul
luogo del massacro con due ferite all’addome: morì durante
il trasporto all’ospedale di Inhambane. 16. Rita Leonardo Maniane – Figlia di Maria Titosse e Leonardo
Joel, aveva 8 anni. Frequentava la scuola elementare
di Guiúa. Allegra e laboriosa, aiutava i genitori nei lavori
di casa e dei campi. Trafitta da colpi di baionetta, morì
insieme ai genitori. 17. Leonardo Joel Maniane – Nato nel territorio di Guiúa,
aveva 47 anni. Grande lavoratore, era stato per molti anni
cuoco della missione. Sposato con Maria Titosse, aveva
tre figli. Era entrato solennemente nel catecumenato nel
1987 e stava per essere battezzato. Fu trovato morto, insieme
alla sposa e ai figli Rita e Arlindo. 18. Aaldo Adolfo Nombora – Nato a Massinga nel 1976
da Adolfo Nombora e Luisa Mabalane, genitori profondamente
cristiani, fu battezzato a un anno
di età. Frequentava la settima classe
elementare e faceva parte del gruppo
giovanile. Scomparso il padre nel
trambusto causato dall’attacco, rimase
con la madre e insieme a lei fu
ucciso. 19. Zito Adolfo Nombora – Fu tra i più
giovani martiri: aveva 4 anni. Era figlio
di Vitoria Adolfo. Al momento del
massacro era insieme ai nonni,
Adolfo Nombora e Luisa Mabalane. 20. Luisa Mafo – Nata nel 1943 a
Moduça, missione di Massinga, venne
battezzata a 14 anni. A 17 sposò
Adolfo Raul Nomera: ebbero 10 figli. Nel 1977 frequentò
con il marito il primo corso per catechisti nel Centro catechetico
di Mangonha (Massinga); entrambi esercitarono
il loro apostolato nella comunità di Kofi. Uccisa a colpi di
baionetta, insieme al figlio Aaldo e al nipote Zito. 21. Juvencio Carlos Mukwanane – È il più piccolo dei martiri:
era nato a Funhalouro il 2 marzo 1991. Figlio di Carlos
Mukwanane e Fatima Valente, fu trovato agonizzante
con ferite all’addome e al petto, mentre succhiava dal seno
della mamma morta. 22. Fatima Valente – Nacque a Makwene (Funhalouro)
nel 1970. Si sposò con Carlos Mukwanane nel 1989, dal
quale ebbe il figlio Juvencio. Donna molto sensibile e di
debole costituzione, era tuttavia molto impegnata come
madre e catechista, aiutando il marito nell’attività apostolica.
Morì con il piccolo Juvencio tre le braccia. 23. Carlos Mukwanane – Nato nel 1960 a Mukamba (Fugnaloro),
aveva frequentato la sesta classe elementare. Alto
e magro, era un bravo agricoltore. Nel 1991 aveva frequentato
con la moglie un corso di formazione nella missione
di Massinga, per diventare entrambi responsabili
della missione di Fugnaloro, rimasta senza missionari a
causa della guerra. La comunità li aveva scelti e mandati
a Guiúa per completare la loro formazione. Fu uno dei primi
martiri di Guiúa: gli assalitori gli spararono, appena lo
videro uscire dalla sua casa. 24. Susanna Carlos Mukwanane – Figlia di Carlos e della
sua precedente moglie, era nata a Mukamba (Fugnaloro)
nel 1979. A 13 anni si comportava come una «donna di
casa», aiutando i genitori in tutti i lavori domestici e accudendo
gli altri fratellini. Fu uccisa nel luogo del martirio,insieme
alla seconda madre, a colpi di coltello.