Trattori selvaggi


Quella che oggi prevale è l’agricoltura industriale: a monte le multinazionali dei fertilizzanti, a valle quelle commerciali. Con una dinamica dei prezzi che premia quelle stesse aziende mentre penalizza produttori e consumatori finali. Dopo le proteste e i successivi compromessi al ribasso, a perdere sono l’ambiente e i cittadini.

I trattori che, fra gennaio e febbraio 2024, si sono visti sfilare per le vie di varie città europee, non erano macchine vecchie e di piccola taglia, ma imponenti e di alto valore economico. Segno che, a scendere in piazza, non erano tanto i piccoli coltivatori, magari dediti all’agricoltura biologica, ma i produttori di medie e grandi dimensioni pienamente inseriti nella filiera agricola industriale. Quei produttori, cioè, che si pongono l’obiettivo di ottenere rese quanto più alte possibili tramite l’impiego di macchinari sofisticati e l’uso indiscriminato di ogni tipo di sostanza chimica. Rappresentanti di un’agricoltura che, oltre ad avere pessime ricadute sull’ambiente, è anche estremamente rischiosa per i produttori stessi, perché impone l’esborso di grandi quantità di denaro senza nessuna certezza rispetto ai ricavi. I raccolti, infatti, sono sempre un grande punto interrogativo, specie di questi tempi: con il sopraggiungere dei cambiamenti climatici, di raccolti che vanno male ce ne sono sempre di più. Ma il clima che cambia è solo una delle minacce che condizionano i ricavi degli operatori del settore. L’agricoltura industriale è dominata da pochi sciacalli posizionati sia a monte che a valle della filiera. A monte ci sono le multinazionali dei fertilizzanti, dei pesticidi e dei carburanti, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopolio per imporre prezzi di vendita più alti possibili sui propri prodotti. A valle ci sono le multinazionali commerciali, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopsonio, ossia di acquirente unico, per imporre prezzi di acquisto più bassi possibili. Così i produttori dell’agricoltura industriale lamentano di sentirsi in una morsa che li impoverisce sempre di più.

Costi, ricavi, prezzi finali

Negli ultimi anni vari elementi hanno influito negativamente sia sul fronte dei costi che dei ricavi, mettendo in difficoltà i produttori dell’agricoltura industriale che hanno cercato di rimediare producendo ancora di più, ossia costringendo la terra a dare rese sempre più alte. Sul piano dei costi, sappiamo tutti che, nel corso del 2022, la guerra fra Russia e Ucraina ha fatto impennare i prezzi del gas e più in generale dei carburanti. Una crescita che, se per le famiglie si è tradotta principalmente in aumento delle bollette elettriche e del gas, per i produttori agricoli ha significato aumento oltre che dei carburanti anche dei fertilizzanti azotati considerato che la materia prima da cui si ottengono questi ultimi è il metano. L’Istat certifica che nel corso del 2022, in Italia, i prezzi dei beni e servizi utilizzati in agricoltura sono cresciuti del 25,3 per cento con rincari guidati soprattutto dai prodotti energetici (+49,7%) e fertilizzanti (+63,4%). Gli aumenti hanno investito tutti i settori, seppur con diversa intensità, a seconda della combinazione dei fattori produttivi. I più colpiti sono stati i produttori di semi oleosi e cereali senza risparmiare la zootecnia. Gli esborsi degli allevatori sono aumentati di media del 16,6% e più precisamente del 9,8% per l’acquisto degli animali da allevamento, del 25% per i mangimi, del 61,5% per i prodotti energetici. Incrementi di costo che non sono stati compensati da uguali aumenti di prezzo alla vendita. L’Istat informa che, sempre nel 2022, in Italia il prezzo dei beni agricoli è aumentato mediamente del 17,7% con una differenza negativa, rispetto ai costi, di circa il 7%.

Coldiretti, la principale associazione degli agricoltori italiani, è più pessimista. Basandosi sui dati Fao a livello globale, forniti nel gennaio 2024, l’associazione sostiene che a volare sono stati i prezzi del cibo al consumatore finale, mentre ai contadini i prodotti agricoli sono stati pagati il 10,4% in meno rispetto all’anno precedente. Più precisamente meno 18% per il latte alla stalla e meno 19% per i cereali nei campi. E pensare che, nel 2022, tutto il mondo era in apprensione per l’aumento del prezzo internazionale dei cereali cresciuto di oltre il 20% come conseguenza della mancata commercializzazione di quelli provenienti dall’Ucraina. Ma i guadagni sono stati intascati tutti dalle grandi multinazionali commerciali. In particolare, Archer Daniels, Bunge, Cargills, in sigla Abc, che dominano il mercato internazionale delle derrate agricole.

Il prezzo dei cereali e quello del pane. Foto Mp1746-Pixabay.

Pane e finocchi

Del resto, che esista un’ampia sfasatura fra prezzi pagati al produttore e quelli pagati al consumo finale, è cosa risaputa. Coldiretti cita il caso della filiera del pane, facendo notare che in Italia il prezzo finale di questo prodotto cresce anche di venti volte rispetto al grano. Un chilo di grano che viene pagato oggi agli agricoltori attorno a 24 centesimi di euro serve per fare un chilo di pane che viene venduto ai consumatori a prezzi che variano dai 3 ai 5 euro a seconda delle città.

Le anomalie – continua la Coldiretti – sono evidenti anche nei prodotti freschi come gli ortofrutticoli che dai campi agli scaffali dei supermercati vedono salire i prezzi di tre-cinque volte. Il tutto benché non debbano subire trasformazioni. Come esempio vengono citati i finocchi.

Secondo i calcoli di Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) del gennaio 2024, per produrre un chilo di finocchi il contadino deve spendere 18 centesimi di euro, ma riesce a venderli a 12 centesimi, mentre al supermercato sono venduti ai consumatori finali a 1,69 euro, il 1.308% in più. E pensare che i finocchi non necessitano neanche di imballaggio: sono venduti sfusi. Ulteriore conferma di come la filiera agricola sia dominata da posizioni di abuso al cui apice si trovano i signori della grande distribuzione che contribuiscono a ridurre i guadagni degli agricoltori. Signori evidentemente considerati troppo forti per essere presi di petto dalle istituzioni, per cui vengono lasciati in pace. E, infatti, è successo che gli agricoltori hanno diretto la propria protesta verso il soggetto pubblico ritenuto più malleabile. Con richieste sia nei confronti dei rispettivi governi che dell’Unione europea. Ai primi per ottenere abbattimenti fiscali e contributi ai carburanti; alla seconda per ottenere modifiche a certe sue scelte riguardanti sia il commercio internazionale che le condizioni imposte per avere accesso ai suoi contributi.

Il prezzo dei finocchi è basso per i produttori, alto per i consumatoeri finali. Foto Ylanite-Pixabay.

Accordi e concorrenza

Un fenomeno fortemente sostenuto dall’Unione europea (Ue), che alcuni agricoltori del continente considerano lesivo dei loro interessi, è rappresentato dagli accordi di libero scambio. Questi consistono in contratti fra due paesi per facilitare i reciproci scambi commerciali. Di norma le facilitazioni consistono nell’abbattimento reciproco delle barriere doganali e nell’accettare le caratteristiche produttive dei prodotti importati anche se non in linea con la legislazione del paese importatore.

Parlando di prodotti alimentari, un’eccezione ammessa di frequente dalla Ue è quella di importare prodotti ottenuti con metodiche proibite nell’Unione europea: ad esempio con l’impiego di particolari farmaci o sostanze chimiche. Pratica contestatissima dai nostri produttori che si sentono penalizzati rispetto a quelli esteri.

A gennaio 2024 l’Unione europea risultava avere ben dodici accordi di libero scambio in ambito agricolo. E non tanto con paesi che si affacciano sul Mediterraneo, quanto con paesi dell’Estremo Oriente e d’oltre oceano, come Canada, Messico, Cile, Giappone, Vietnam, addirittura la Nuova Zelanda. L’Unione europea sostiene di averli stipulati perché procurano un vantaggio ai consumatori europei e agli stessi agricoltori. Ai consumatori perché possono garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, magari a prezzi più bassi di quelli interni; agli agricoltori perché ampliano i loro sbocchi di mercato con le esportazioni.

E può darsi anche che sia così. Ma solo per i grandi produttori che possono permetterselo, metre quelli piccoli, più orientati al mercato interno, si lamentano perché subiscono la concorrenza sleale di prodotti provenienti dai paesi agevolati dagli accordi di libero scambio. Un esempio è rappresentato dall’accordo recentemente stipulato con la Nuova Zelanda: gli allevatori europei dediti al latte e agli ovini temono di essere danneggiati dai prodotti lattieri e animali provenienti da questo paese che, in virtù degli abbattimenti tariffari, potrebbero entrare a prezzi più bassi di quelli esistenti internamente. Lo stesso vale per alcuni prodotti provenienti dall’Ucraina. In particolare, gli agricoltori di Polonia e Francia, grandi produttori di cereali, hanno chiesto che venisse rivisto l’accordo di libero scambio stipulato con l’Ucraina già nel 2016, perché la guerra ha alterato tutti i flussi commerciali creando una situazione di concorrenza sleale in seno all’Unione europea. Richiesta accolta dalla Commissione europea che, nel marzo 2024, ha introdotto restrizioni alle importazioni agricole provenienti da questo paese.

Le regole della Ue

I produttori si lamentano anche delle regole ambientali imposte dall’Unione europea per poter godere dei contributi agricoli. Il sistema di sostegno all’agricoltura oggi previsto in ambito europeo prevede sia forme di agevolazione finanziaria per specifici investimenti, sia contributi a fondo perduto in rapporto alla quantità di terra posseduta.

In ogni caso i meccanismi di godibilità sono tutti organizzati affinché i beneficiari principali siano le grandi aziende. Ciò nonostante, sono soprattutto i piccoli produttori a lamentarsi delle condizioni da rispettate per potere accedere ai contributi e alle agevolazioni. In particolare, sono messe sotto accusa alcune regole che l’Unione europea ha imposto a tutela della biodiversità e della salvaguardia dei suoli.

Le più odiate sono quelle che limitano l’uso di pesticidi e che prevedono l’obbligo di tenere a riposo il 4% dei propri terreni.

I piccoli produttori sostengono che si tratta di condizioni capestro che riducono la loro capacità produttiva e quindi i loro già magri guadagni. Richieste di nuovo accolte dalla Commissione europea che, nel febbraio 2024, ha reso più blanda la regola di messa a riposo delle terre e ha ritirato la proposta di regolamento tesa a ridurre del 50% l’uso di pesticidi entro il 2030.

Nelle campagne i braccianti agricoli sono spesso sottopagati. Foto Tim Mossholder-Unsplash.

Ambiente e cittadini

Gli agricoltori industriali tireranno un respiro di sollievo: nell’immediato i loro guadagni sono salvaguardati. Ma per la collettività nel suo insieme si tratta di una disfatta perché continuerà ad aggravarsi il degrado ambientale di cui l’agricoltura industriale è una forte responsabile.

Quello che servirebbe è una profonda revisione del modello economico che seguiamo, un radicale ripensamento del modo di produrre e consumare per fare finalmente pace con la natura. Non per amore disinteressato verso il pianeta, ma per amore di noi stessi, per garantirci un futuro meno problematico.

La grande sfida è avviare questo processo di cambiamento senza lasciare indietro nessuno. Ma, per riuscirci, bisogna cominciare a prendere consapevolezza che cambiare è necessario e che occorre farlo con spirito di solidarietà. Ossia sapendo soccorrere coloro che maggiormente sono investiti dai mutamenti, ma al tempo stesso sono troppo deboli per affrontarli da soli.

Fra essi ci sono sicuramente anche gli agricoltori, specie quelli di piccola taglia, che vanno aiutati a passare a pratiche di tipo biologico senza subire contraccolpi eccessivi.

Francesco Gesualdi




I profitti del Covid, tanti e per pochi


A oltre due anni dall’inizio della pandemia che ha sconvolto l’esistenza dell’umanità, ci sono pochissimi vincitori. In prima fila, le multinazionali del web e quelle farmaceutiche. Con tanti soldi pubblici e le consuete ingiustizie.

La conta definitiva dei danni provocati dal Covid si potrà fare solo a pandemia superata. Per ora i numeri raccontano che, a fine 2021, si contavano più di cinque milioni di morti a livello mondiale e una perdita economica stimata in 3mila miliardi di dollari dovuta agli arresti produttivi, i famosi lockdown decretati in molti paesi industrializzati nel corso del 2020. Con inevitabili contraccolpi anche per i paesi più poveri che, nel 2020, hanno registrato un crollo delle loro esportazioni fino al 40%.

Detto questo, il Covid non è stata una sciagura per tutti. Al contrario, per qualcuno è stata una vera manna. Ad esempio, la riduzione della vita sociale ha provocato un boom delle attività online che hanno permesso ai giganti del web di ottenere profitti da nababbi. Tipico il caso di Amazon che, nel 2020, ha realizzato un fatturato pari a 386 miliardi di dollari, il 38% in più dell’anno precedente, mentre i suoi profitti sono aumentati dell’84% passando da 11,5 a 21,3 miliardi di dollari.

Nei primi mesi di pandemia non ci sono state altre imprese vincenti quanto quelle informatiche, ma di lì a poco anche per le imprese farmaceutiche il Covid si sarebbe dimostrato una gallina dalle uova d’oro. In particolare, per quelle dedite alla produzione di vaccini. Con i virus il problema è che ancora non si sono scoperti farmaci antivirali ad ampio spettro come invece è successo per gli antibatterici. Per cui, quando si presenta un nuovo ceppo (il virus originale modificato per alcune piccole varianti), siamo praticamente disarmati. Per questo assumono

particolare importanza i vaccini, perché la sola cosa che funziona sono gli anticorpi, siano essi prodotti a seguito di contagio o di vaccino.

I produttori di vaccini

Il termine «vaccino» deve la sua origine a «vacca» perché le prime forme di stimolazione intenzionale di anticorpi si sono realizzate a fine 1700 nei confronti del vaiolo mediante l’inoculazione in soggetti sani di siero proveniente dalle pustole presenti sulle mammelle delle vacche malate. Col tempo la vaccinazione è diventata una pratica abituale nei confronti di numerose malattie, per cui sono tantissime le industrie che si dedicano a questo genere di attività, non solo nel vecchio mondo industrializzato, ma anche in Cina, India, Brasile, Thailandia e molti altri paesi del Sud del mondo, anche se l’Africa si presenta come il continente meno attrezzato. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel 2019 il mercato globale dei vaccini valeva 33 miliardi di dollari, ma rappresentava solo il 2% del mercato farmaceutico complessivo. Inoltre, benché in termini di volumi produttivi i più grandi fossero le società indiane Baharat biotech e Serum institute of India, che assieme contribuivano al 37% dell’intera produzione, in termini di valore la situazione era dominata dalle multinazionali occidentali. In particolare, quattro – Gsk, Merck, Pfizer e Sanofi -, che da sole esprimevano il 90% del valore globale dei vaccini, realizzato per il 68% nelle nazioni più ricche. Ma oggi la situazione sta cambiando perché il Covid ha rimescolato tutte le carte.

Fiala di vaccino mRna di Moderna. Foto Mufid Majnun – Pixabay.

Il sostegno pubblico

Per cominciare si è assistito a un massiccio sostegno finanziario delle imprese farmaceutiche da parte dei governi, anche se va detto che il settore farmaceutico è sempre stato assistito dalla mano pubblica. Ma, in tempi normali, l’aiuto viene dato in forma mascherata. La formula utilizzata, infatti, è quella della collaborazione con le università che passano alle imprese i risultati delle loro ricerche. In altre parole, le università spendono per studiare e ricercare, mentre le imprese godono gratuitamente del loro lavoro con notevole risparmio di spese. Questa formula è così collaudata che è stata la prima soluzione a cui  AstraZeneca ha pensato, quando ha deciso di dedicarsi a un vaccino anti Covid (del tipo a vettore virale). Essendo di nazionalità britannica, ha stretto un accordo di collaborazione con l’Università di Oxford che, da oltre un decennio, stava studiando un vaccino contro gli adenovirus presenti negli scimpanzé. L’ipotesi era che, a partire da quegli studi, si potesse ottenere un vaccino contro il Covid, come poi è avvenuto. Il costo sostenuto dall’Università di Oxford per le proprie ricerche non è stato rivelato, ma secondo una ricostruzione effettuata da alcuni accademici, fra cui Samuel Cross e Sarai Keestra, l’esborso complessivo ha superato i 250 milioni di euro, finanziati in gran parte dal governo britannico, dall’Unione europea e da alcune fondazioni private.

L’intervento del governo britannico si è concretizzato in particolare nel 2020, in linea con l’azione di molti altri governi. Non appena hanno capito che la soluzione della pandemia stava nel vaccino, questi hanno cercato di garantirsene l’approvvigionamento tramite contributi alla ricerca e contratti di preacquisto con le case farmaceutiche per una spesa complessiva che la fondazione Kenup ha stimato in 88 miliardi di dollari. Il solo governo degli Stati Uniti ha stanziato 18 miliardi di dollari e ancora non si sa quanti siano stati concessi a fondo perduto e quanti come pagamento anticipato di dosi concordate. L’iniziativa, battezzata Operation warp speed (operazione a tutta velocità), è stata strutturata in modo da poter evitare la trasparenza, ad esempio delegando l’esercito a stipulare i contratti con le case farmaceutiche come se si trattasse di operazioni militari. Tuttavia, nel marzo 2021 il Congresso ha prodotto un documento che rivela le somme elargite alle singole imprese e il corrispondente numero di dosi da consegnare a produzione avviata.

Una rapida realizzazione

I finanziamenti pubblici hanno avuto il loro effetto: nel marzo 2021 erano già disponibili 12 diversi vaccini prodotti non solo in Europa e Stati Uniti, ma anche in Cina, Russia, India, e ora anche a Cuba. Alcuni ottenuti secondo metodiche più tradizionali, altri con tecnologie all’avanguardia, ma tutti accomunati dalla rapidità di realizzazione. Basti dire che, prima del Covid, i tempi medi per la messa a punto di un vaccino variavano da 10 a 15 anni. Il record era stato battuto negli anni Sessanta dal vaccino contro la parotite che aveva richiesto soltanto quattro anni.

Stante la situazione, la rapidità   va salutata con favore, anche se qualcuno l’ha pagata e la mente va ai morti per trombosi provocata dal vaccino AstraZeneca. Incidenti che hanno nuociuto gravemente alla reputazione di questo vaccino fino a farlo accantonare definitivamente nei paesi più ricchi. Perfino, il governo della Gran Bretagna, suo paese natio, gli ha girato le spalle preferendo i vaccini di Pfizer e Moderna, tecnologicamente più avanzati, i cosiddetti vaccini mRna.

Lo scandalo profitti

Pur essendo molto diverse fra loro, le due aziende sono i veri vincitori della partita vaccinale, almeno in Occidente.

Pfizer è una grande multinazionale statunitense che, nel 2020, si posizionava all’ottavo posto mondiale, per fatturato, fra le imprese farmaceutiche. Fino al 2020, più che i vaccini, la sua specialità erano i farmaci per malattie rare e oncologiche, ma quando è comparso il Covid, ha incassato quasi 6 miliardi di dollari di contributi pubblici e si è buttato nella ricerca di un vaccino mRna. Mossa vincente.

Nel 2021, Pfizer ha quasi raddoppiato il proprio fatturato rispetto all’anno precedente, un balzo dovuto interamente alla vendita dei vaccini anti Covid la cui quota sul fatturato è passata dal 15% nel 2020 al 50% nel 2021. E i profitti di Pfizer sono più che raddoppiati giungendo a 20 miliardi di dollari. Del resto, a fronte di una ricerca interamente finanziata dalla mano pubblica, i suoi vaccini sono venduti a 19,50 dollari a dose benché Oxfam abbia calcolato che il costo di produzione si fermi a 1,2 dollari a dose. Moderna, anch’essa superfinanziata dalla mano pubblica, fa ancora peggio vendendo lo stesso tipo di vaccino per 25,50 dollari a dose.

Al pari di Pfizer, anche Moderna è statunitense, ma le sue dimensioni sono di gran lunga inferiori. La prima è un gigante, la seconda un nanerottolo. Per giunta più che farmacologica, Moderna è un’industria di tipo biotecnologico. Durante il primo semestre 2020 ha dichiarato introiti uguali a zero, mentre nello stesso periodo del 2021 ha dichiarato un fatturato di 6,2 miliardi di dollari. Praticamente da azienda moribonda è diventata miliardaria, con profitti dichiarati pari a 4,3 miliardi di dollari, un’incidenza del 70%. E quando ha aperto il suo mercato in Europa, ha pensato bene di domiciliarsi in Svizzera in modo da convogliare in un paradiso fiscale tutti gli introiti incassati dalle sue vendite ai governi europei. Così siamo all’assurdo che la collettività spende per la ricerca, le imprese si arricchiscono, poi quelle stesse imprese gabellano la collettività evitando le tasse. Ed hanno pure il permesso di mettere il brevetto sulle scoperte realizzate con i soldi pubblici, arrecando così un danno alla salute pubblica mondiale, perché sono loro a decidere a chi concedere le licenze di produzione e a che prezzo.

I brevetti dei ricchi

Fin dal sorgere della pandemia i paesi del Sud del mondo hanno invocato lo stato di emergenza per chiedere la sospensione dei trattati internazionali a protezione dei brevetti o, per dirla con l’eufemismo usato dai potenti, a tutela dei diritti di proprietà intellettuale. Invano. La lobby delle multinazionali farmaceutiche è così potente da aver ottenuto un «no» compatto da parte di tutti i paesi del Nord, prima fra tutte l’Unione europea. Il risultato è un mondo diviso in tre: i paesi ricchi dotati di vaccini e farmaci all’avanguardia, quelli a ricchezza media con vaccini di qualità più bassa e nessun farmaco antivirale, infine quelli poveri sprovvisti di tutto. Situazione confermata dai tassi di vaccinazione.

Secondo One world data, al 1° dicembre 2021, la percentuale di popolazione che ha avuto almeno una dose di vaccino era del 75% nei paesi a ricchezza elevata, del 44% nei paesi a ricchezza media, del 6% nei paesi a ricchezza bassa.

Eppure, tutti sanno che in un mondo globalizzato come è quello di oggi, non esiste più la possibilità di proteggersi da soli: o ci si salva tutti o non si salva nessuno. Le nuove varianti che continuano a imperversare ne sono una chiara dimostrazione.  Ma di fare qualcosa che una volta tanto sia per le persone, anziché per le imprese, questo sistema non vuole proprio saperne. Il massimo che sa fare sono promesse non mantenute.

Invio di vaccini nell’ambito del programma Covax.

La delusione Covax

Nell’aprile 2020 sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale della sanità venne istituito il
Covax (Covid-19 vaccines
global access
), un organismo che aveva il compito di coordinare gli acquisti dei vaccini a livello mondiale in modo da evitare che i più ricchi facessero la parte del leone lasciando i più poveri a bocca asciutta.
L’organismo doveva anche raccogliere fondi per permettere ai paesi più poveri di poter comprare le dosi necessarie ai loro bisogni.

Sappiamo com’è finita: i paesi ricchi hanno acquistato i loro vaccini tramite contratti diretti  con le case farmaceutiche fino ad assorbire il 49% dei quali prodotti dalle imprese occidentali. Più precisamente, nel 2021 Moderna ha venduto ai paesi ricchi il 93,5% delle sue dosi, Pfizer (con BioNTech) il 67%, Johnson & Johnson l’87%, AstraZeneca il 32,5%. Eppure i paesi ricchi ospitano appena il 16% della popolazione mondiale.

In conclusione, all’agosto 2021 le dosi transitate per il Covax, a beneficio di 140 paesi, erano appena 205 milioni su un totale auspicato di due miliardi. Quanto ai fondi per assistere i paesi più poveri, il fabbisogno era stato stimato in 34 miliardi di dollari, ma la cifra realmente raccolta al dicembre 2021 si era fermata a 18 miliardi. Un’altra occasione mancata per avere giustizia e solidarietà.

Francesco Gesualdi