Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Omaggio al «nonno vigile»

Un salone della scuola materna della missione della Consolata di Modjo, in Etiopia, è stata intitolata l’11 febbraio 2020 al trentino Giovanni De Marchi (nella foto qui sotto tra padre Angheben e il vescovo di Meki).

Dopo aver lasciato la divisa di maresciallo dei carabinieri, ha indossato quella di «nonno vigile», per oltre 20 anni, per i bambini delle scuole medie ed elementari di Borgo Valsugana; ma i suoi impegni non gli hanno impedito di dedicarsi alla raccolta di fondi pro Etiopia con la collaborazione di amici, associazioni ed istituzioni locali.

Grande amico del missionario padre Paolo Angheben di Vallarsa, che si trova in Etiopia da circa 45 anni, De Marchi si è recato nel paese africano più di 10 volte a partire dal 2006, per portare i contributi raccolti, i quali sono serviti per realizzare diverse opere importanti:
– nel paese di Daka Bora per costruire una scuola per 300 bambini e per pagare le condutture necessarie per collegare il paese all’acquedotto comunale;
– a Weragu per promuovere la costruzione del ponte sul fiume Minne, fiume che divide la vallata in due e, durante la stagione delle piogge, isola la popolazione dal resto del mondo;
– per contribuire alla costruzione della biblioteca del centro giovanile a Debre Selam;
– per costruire il reparto maternità nella clinica di Modjo;
– per aiutare diversi giovani nel loro corso di studi;
– per costruire il salone della scuola materna di Modjo che ospita attualmente 350 bambini.

Nell’attesa che il buon De Marchi, nonostante l’età che avanza, torni in Etiopia, a lui è stato intitolato il salone della scuola, per ringraziarlo di tutto il lavoro di sostegno a lungo effettuato affinché i giovani possano costruire il loro futuro e la gente etiope possa vivere con dignità nella propria terra.

In Etiopia si dice: «God bless him» (Dio lo benedica) e tutti coloro che lo hanno aiutato.

da Eleonora Arlati
06/03/2020

 

Ricordando un caro amico

Signor Direttore,
ho letto con piacevole sorpresa, nel numero del mese di aprile 2020, sotto il titolo «Ricordando padre Silvano Cacciari» la lettera di un’insegnante, la dr. Brigida Pastorello, che elogia e ringrazia per l’opera di assistenza spirituale ricevuta e il servizio sanitario specie ai più bisognosi, in terra di missione in vari continenti, e singolarmente a Torino e provincia, del padre Silvano Cacciari, improvvisamente  mancato il 18 gennaio scorso all’affetto dei suoi cari, una solida e unita famiglia dell’interland bolognese.

Conobbi padre Cacciari a metà degli anni ‘60: un brillante missionario, docente e giurista, molto noto in città, alla cui intraprendenza imprenditoriale furono legate per alcuni decenni le sorti lusinghiere dell’ospedale Koelliker di Torino, fiore all’occhiello della sanità piemontese. Ebbi modo di apprezzarne le spiccate virtù umane oltre che di religioso e missionario esemplare, quando nel 2015 ho accettato di assisterlo, come avvocato, nella vicenda giudiziaria, resa pubblica dalla stampa nazionale, ormai acqua passata dopo il suo decesso.

Ma non è di questa che intendo parlare, […] ma della grande amicizia, sorta nei miei confronti da parte sua e cordialmente ricambiata, dalla quale mi sento sinceramente gratificato, per l’impareggiabile esempio di onestà intellettuale e professionale, per la profonda sensibilità umana, per l’umile accettazione del ritiro in Casa Madre come custode del santuario del beato Allamano.

Padre Cacciari non fu lapidato alla maniera giudaica, come scrive la dr. Pastorello, né può essere paragonato al Cristo crocifisso, non oserei arrivare a tanto! Tuttavia, ricordandolo nella preghiera di fraterno suffragio mi auguro sinceramente che il Padre Celeste, accogliendo
padre Cacciari nel suo regno di luce e di pace, gli abbia reso giustizia, cosa cui non sono arrivati in tempo o non hanno potuto perfezionare i tribunali di questo mondo.

Sac. prof. Valerio Andriano,
03/05/2020, Torino

A Giulietto

Lo scorso 26 aprile è morto Giulietto Chiesa, giornalista, scrittore e parlamentare europeo. Aveva 79 anni. Grande esperto del mondo sovietico, aveva lavorato per quotidiani e televisioni. La sua collaborazione con MC era iniziata nel dicembre 2002 con un articolo nel dossier dedicato all’Iraq di Saddam Hussein, ma era durata soltanto lo spazio di qualche numero. Troppe le polemiche con i lettori. La sua rubrica – dal titolo emblematico di «Luoghi comuni» – era sempre un pugno allo stomaco. Aveva anche contribuito con un capitolo al fortunato saggio «La guerra, le guerre. Viaggio in un mondo di conflitti e di menzogne» (Emi, 2004), lavoro curato da Benedetto Bellesi, compianto ex direttore di MC, e dal sottoscritto.

A Giulietto Chiesa vada il mio personale grazie. Che riposi in pace.

Paolo Moiola
01/05/2020

Un incontro indimenticabile

Incontrai dom Aldo Mongiano la prima volta a Rio de Janeiro. Era la primavera del 1992. Lui era in transito da Boa Vista per un rientro in Italia, io ero in viaggio per il Sud America con un amico, ed eravamo in quei giorni ospiti alla parrocchia Nossa Senhora Consolata, che i missionari della Consolata gestivano nei pressi delle favelas Mangueira, Morro do telegrafo, Tuiutí, Arará. Padre Claudio Fattor ne era il parroco.

Mongiano aveva un giorno libero e ci propose di fare una visita con lui ai padiglioni in costruzione di Rio92, la conferenza sul clima che sarebbe diventata famosa.

E così andammo. Mi ricordo quel vescovo così semplice e allo stesso tempo così profondo e diretto. Ci parlò di Roraima, della problematica indigena. Per noi, giovani alla scoperta del mondo, fu non solo interessante, ma entusiasmante.

A un certo punto ci disse: «Ricordatevi sempre che bisogna essere in pace con quattro cose: con se stessi, con gli altri, con la natura e, infine, ma non per ultimo, con Dio». Questa semplice regola, che può dar adito a profonde meditazioni e a verifiche personali, me la porto dietro da allora. Chiese poi, a noi giovinastri in cerca di avventura se, nel nostro futuro, pensavamo di dare priorità alla formazione di una famiglia. La domanda ci stupì e ci colse impreparati.

Mentre visitavamo lo spazio dove si sarebbe svolto Rio92, nel quale operai montavano i diversi padiglioni, il vescovo ci lanciò una sfida: «Perché non venite qualche tempo a lavorare con noi a Roraima, per la causa indigena?».

Mesi dopo, rientrato a Torino, scrissi a dom Mongiano una lettera (non c’erano mail, né tanto meno programmi di messaggistica e chiamate con internet): ero disponibile a passare un periodo di volontariato con lui. Alcune settimane dopo arrivò l’attesa busta con le insegne vescovili: «Mi dispiace la situazione è notevolmente peggiorata, non possiamo prenderci al responsabilità di inserire delle persone nuove». Purtroppo la tensione a Boa Vista era molto alta, i fazendeiros avevano minacciato di morte il vescovo. La difesa dei popoli indigenti e della loro terra da parte della chiesa aveva dato fastidio. Ne fui deluso. Ma la causa indigena mi restò dentro. Anni dopo sarei andato a Roraima e ci sarei pure tornato. Caro dom Aldo, grazie e buon viaggio.

Marco Bello
24/04/2020

PREGHIERA (a modo mio)

Signore Dio,
Liberaci dal coronavirus, da chi specula su di esso e sulle normative anti contagio.
Liberaci dal tormento dei vigili urbani avidi e arroganti.
Liberaci dall’oppressione dei carabinieri infedeli e dai poliziotti corrotti.

Sgombera i tribunali dai giudici adoratori di se stessi e collusi con la mafia.
Liberaci dalla tirannia del petrolio, di chi ne fomenta le guerre e di chi distrugge le foreste naturali per le piantagioni di palma da olio.

Liberaci dalla piaga dell’evasione fiscale ma anche dal rigorismo criminale, dalle manovre di chi per risanare, si arroga il diritto di perseguitare e depredare.
Liberaci, o Signore, dalla piaga del neoliberalismo rampante, dall’egemonia di coloro per i quali, «con il denaro» è complemento di compagnia e non di mezzo; da quelli che onorano la moneta come se questa fosse la loro madre, la loro sposa, la loro prole.
Liberaci da tutti quelli che pensano di poter trattare le persone per cui il denaro è solo uno strumento di sussistenza e non un fine, come merce di infima qualità.

Liberaci dall’ossessione antropocentrica di quanti sopravvalutano la scienza umana e la sua ricerca tecnologica e in nome di corona-management, corona-economy, corona-bond, pensano di poter umiliare e perseguire amministrativamente, se non addirittura penalmente, la preghiera di riparazione, la corona del rosario, l’adorazione eucaristica, la cena eucaristica, e il sacramento della riconciliazione.

Yury Skarfenko
Fano, 30/04/2020

Condivido il fatto che viviamo tempi difficili e che probabilmente noi li rendiamo ancora più difficili con i nostri comportamenti sbagliati, la nostra arroganza e la nostra idolatria del potere, del successo, del denaro e della sicurezza. Ma ho qualche riserva su questa preghiera. Sa tanto di «lista della spesa» o di promemoria di cose che Lui deve fare. Forse ci siamo dimenticati che Lui, in Gesù, ci ha già offerto un modello di vita e dei criteri di relazione umana che contestano tutti gli atteggiamenti elencati. Forse, invece di dire a Dio di fare le cose al posto nostro, dovremmo ascoltare di più quello che Lui ci ha già detto e piuttosto chiedergli la forza di mettere in pratica quello che preghiamo nel «Padre nostro».

Nel vivo desiderio che possiamo passare presto da una fase in cui la priorità è «non morire» a quella in cui «vivere» (non per pochi privilegiati, ma per tutta l’umanità e il creato) diventi il centro di tutto.

Riflessione su questo tempo

Si lamentano quasi tutti tranne i giovani cui è chiesto il sacrificio più grande, pur essendo, statisticamente, i meno coinvolti in questa epidemia.

Si lamentano gli anziani, i più a rischio, che pensano di essere immuni per averne affrontate tante, comprese guerre e fame. Si lamentano i cattolici che vorrebbero tornare alla normalità senza riflettere sull’opportunità che questa quaresima prolungata ci offre con il digiuno. Si lamentano gli pseudo sportivi manco dovessero allenarsi per le olimpiadi e li vedi correre senza fiato, pur di uscire di casa.

Invece i giovani hanno accettato di veder sospesa la loro vita e lo hanno fatto con responsabilità e altruismo; per molti dovrebbe essere l’anno della maturità, della prima vacanza con i compagni, dei primi amori, della patente, dei sabati sera, degli abbracci, delle risate per qualunque cosa.

E invece è l’anno della scuola online. È l’anno in cui le risate si fanno nelle chat di gruppo. È l’anno in cui la maturità si fa online, non si fa, si fa con uno scritto o due, … E per molti è anche l’anno della solidarietà, essendosi messi a disposizione, numerosi, come volontari, per portare viveri agli anziani.

Si sono adattati a questa nuova realtà meglio di tutti quanti noi che abbiamo trovato da lamentarci davvero su qualunque cosa. A nostra discolpa, il fatto che non abbiamo più molti treni da prendere e la sensazione che perso uno, persi tutti. Ma credo che dovremmo davvero imparare da loro più di quanto non avremmo pensato.

Rita Ruotolo
Torino, 28/04/2020

Grazie padre Pavese

La domenica del Buon Pastore (3 maggio 2020), è deceduto padre Francesco Pavese, Imc. Abbiamo appreso con dolore la notizia della sua dipartita, che lascia un vuoto denso di gratitudine e di nostalgia. Padre Pavese era un fratello di cui abbiamo potuto apprezzare la ricchissima eppur semplice personalità, il suo amore profondissimo alla Consolata e la sua passione per la conoscenza e l’approfondimento della figura del nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano […].

Grazie, padre Pavese! La Consolata, che hai amato con vero amore di figlio, ti accolga tra le sue braccia!

suor Simona Brambilla, MC
03/05/2020

 

Padre Francesco Pavese e diversi altri confratelli sono stati vittime del virus. Torneremo a parlare di loro nei prossimi numeri. Pregate con noi. Grazie.

 




Brasile. Fratello indigeno, Sorella Amazzonia

testi di Roque Paloschi e Silvia Zaccaria |


Nato a Moncalvo (Asti) più di 100 anni fa (era il 1919), monsignor Aldo Mongiano ci ha lasciati lo scorso 15 aprile. Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, ricorda l’incontro con lui e le sue battaglie nel cuore dell’Amazzonia brasiliana.

Arrivai a Boa Vista, capitale di Roraima, il 13 luglio 2005, per essere ordinato vescovo della diocesi dello stato amazzonico.

Il 15 luglio, al mattino, in una celebrazione eucaristica nella Casa regionale delle suore della Consolata, feci la mia professione di fede alla presenza di dom Servilio Conti e dom Aldo Mongiano, entrambi vescovi emeriti di Roraima.

Il 17, dopo l’ordinazione episcopale, i due vescovi mi condussero in mezzo al popolo che aveva partecipato alla celebrazione. Dom Aldo rimase a Roraima per alcuni mesi, fino a metà ottobre. Di solito ci incontravamo tre volte alla settimana per parlare e condividere le grandi sfide che la diocesi aveva. Conversazioni che mi aiutarono a capire la vita e la missione in quella terra. Ho visto lì, chiaramente, che il cuore e la vita di dom Aldo avevano il marchio delle popolazioni indigene.

Il 7 settembre, pur avendo già 85 anni, insistette per camminare con i gruppi di pastorale sociale e i movimenti popolari nell’ambito delle manifestazioni per il Grido degli esclusi (Grito dos excluídos). All’inizio della camminata, il vescovo emerito mi disse: «Dom Roque, è importante sostenere la lotta dei gruppi pastorali e dei movimenti popolari».

Il 17 settembre di quello stesso 2005 fu bruciata e distrutta la missione di Surumu, sede delle grandi assemblee dei tuxawa (capi indigeni) e della scuola di formazione di insegnati e leader indigeni. Tutto, in poche ore, fu trasformato in ceneri da un gruppo di persone potenti e contrarie al diritto alla terra e all’autonomia dei Macuxi, Wapixana, Ingaricó e degli altri popoi indigeni di Roraima. Potevo vedere la sofferenza, il dolore che provava dom Aldo. La settimana seguente andammo a Surumu e, in mezzo alle ceneri e alle macerie, disse: «È dalle ceneri che costruiremo il futuro dei popoli indigeni con la forza e il coraggio che Dio ci darà».

A quei tempi la compagnia e la presenza di dom Aldo furono molto importanti per me, giovane vescovo, e per gli indigeni, generando in noi sicurezza e coraggio.

Accanto alle vittime

Alcuni anni dopo, era il 2011, avemmo un’altra piacevole sorpresa: senza alcuna comunicazione, a febbraio dom Aldo tornò a Boa Vista a visitarci. Stavo facendo una visita pastorale di 45 giorni nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, visitando centri e comunità. Quando queste vennero a sapere dell’arrivo di dom Aldo, lo pregarono di far loro visita. Pertanto, organizzammo il suo viaggio in coincidenza con la fine della visita pastorale.

Il suo arrivo alla missione Maturuca si trasformò in una vera festa, con balli e tanta gioia. Nella settimana che trascorsi lì, io ebbi modo di sentire la grande gratitudine delle comunità per la missione, per i missionari e in un modo molto speciale per lui.

Alla celebrazione dell’addio, arrivò una donna anziana per regalargli un ricordino, una piccola pentola di terracotta fatta dalle donne macuxi di Maturuca. Nella sua lingua l’indigena disse: «Dom Aldo, sappiamo che non puoi portare molte cose nel tuo viaggio in aereo, ma accetta e prendi questa piccola pentola. È stata creata con questa terra che tu e la missione ci avete aiutato a preservare e riconquistare, è piena del sangue dei nostri capi che sono stati assassinati, del nostro sacrificio e della dedizione dei missionari. Ecco il nostro riconoscimento per il tuo coraggio nel lottare per i diritti delle popolazioni indigene». Le lacrime scorrevano nel silenzio di una notte che i libri di storia non racconteranno.

Papa Paolo VI, oggi santo, coniò questa espressione resa nota dalla sua Evangelii Nuntiandi: «L’uomo contemporaneo ascolta i testimoni meglio dei maestri». A Roraima, ho compreso quanto dom Aldo fosse stato testimonianza vivente di un uomo innamorato della missione. Era consapevole che essa si coniuga con l’incarnazione e la croce. Ecco perché, insieme ai missionari della Consolata, prese la croce assieme ai popoli indigeni di Roraima.

Possiamo assicurarvi che dom Aldo è stato un vescovo conciliare, cioè ha sempre cercato di camminare con la coscienza della Chiesa del Popolo di Dio.

Dio gli ha concesso la grazia di essere un missionario in Africa per i popoli del Mozambico e qui in Brasile, a Roraima, con i popoli indigeni, schiavi e vittime del mondo coloniale. Quindi, egli ha incarnato la Costituzione pastorale Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, la tristezza e l’angoscia delle persone di oggi, specialmente dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, la tristezza e le ansie dei discepoli di Cristo».

Gli attacchi delle élite

Nel 1967 papa Paolo VI scrisse l’enciclica Populorum Progressio, in cui affermava che la Chiesa ha l’obbligo di mettersi al servizio di tutti gli uomini e di tutta l’umanità, per aiutarli a passare da condizioni meno umane a più umane. Nel 1968 ebbe luogo la Conferenza di Medellín dell’episcopato latinoamericano e, nel 1972, la Chiesa amazzonica brasiliana tradusse il documento di Medellín con l’incontro di Santarém. Nello stesso anno, la Chiesa aveva creato il Consiglio missionario indigenista (Cimi)1. Con tutto questo movimento e i segnali dello Spirito, dom Aldo bevve il Vangelo della liberazione e della libertà umana.

Quando arrivò a Roraima, nel 1975, egli trovò un clima che contagiava la vita e la missione.

Dom Aldo, con i missionari della Chiesa di Roraima, divenne il migliore alleato dei popoli indigeni. Ecco perché venivano additati con disprezzo dall’élite locale che affermava che la Chiesa cattolica era «dannosa» per la società di Roraima. Ricordo le risposte di un vecchio indigeno catechista, quando fu intervistato da un giornalista su una stazione radio governativa. Il giornalista chiese: «Perché ci sono così tanti attacchi contro la Chiesa, contro i missionari? Ti hanno addestrato per i guerriglieri? Ti hanno distribuito armi?». Il vecchio catechista indigeno rispose con l’eleganza di un diplomatico: «Guarda, i missionari non hanno fatto quasi nulla per noi. Ci hanno aiutato a capire che siamo anche figli e figlie di Dio; che non dovremmo vergognarci della nostra lingua, perché quella è la lingua che Dio ci ha dato e dobbiamo coltivarla; che questa terra ci appartiene, perché i nostri antenati hanno vissuto qui per oltre tremila anni».

Il primo passo che dom Aldo fece fu di continuare il percorso che i missionari stavano seguendo: unire i popoli indigeni animando e sostenendo le assemblee dei tuxawa e l’organizzazione del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).

Aveva un modo semplice e pratico per aiutare le comunità a capire l’importanza di unire le malocas di tutte le etnie indigene. Ne è un esempio quella che viene chiamata l’omelia delle bacchette: «Un ramo da solo è molto facile da spezzare, ma se metti insieme un fascio, questo non accadrà».

La missione aiutò le comunità a superare la maledizione del bestiame che invadeva e distruggeva i campi, con l’idea che «il veleno del serpente è anche l’antidoto». Dom Aldo, i missionari e gli indigeni trovarono nello stesso bestiame la cura: il famoso progetto «Una mucca per gli indios», con il sostegno del compianto cardinale Ersilio Tonini e poi di papa Giovanni Paolo II, oggi santo.

Dom Aldo cercò sempre di investire molto nella formazione dei leader indigeni. Tutte le comunità crebbero con una grande ricchezza di ministeri e servizi, i laici furono aiutati a scoprire la loro vocazione missionaria, le assemblee diocesane si susseguirono e la formazione dei laici decollò.

Dom Aldo era un uomo aperto oltre il suo tempo. Un uomo che accolse con favore l’esperienza di comunione che la Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani (Cnbb) aveva promosso a difesa della vita. Un uomo che segnò la regione amazzonica e la Chiesa in Brasile per la sua opzione in favore delle popolazioni indigene e l’impegno a prendersi cura dell’Amazzonia. Negli anni ‘90, lui e in gruppo di vescovi ad Assisi, terra di San Francesco, lanciarono la grande campagna: «Un grido per la vita in Amazzonia».

Precursore del Sinodo

Vorrei ricordare ciò che dom Aldo scrisse nella sua lettera pastorale quando divenne vescovo emerito: «Sono stato spiato, ho subito minacce, insulti, false testimonianze. Di fronte a queste accuse, ho quasi sempre risposto con silenzio e perdono […]. Per vent’anni politici, giornali e stazioni radio locali hanno attaccato la Chiesa di Roraima, lanciando contro di me e sui missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più infami […]. Quando partii per Roraima nel 1975, avevo solo il passaporto, il biglietto e il documento del papa, con cui ero stato nominato vescovo. Quando ho lasciato Roraima, non avevo più nemmeno quelli».

Con tutta tranquillità posso affermare che la sua lotta non fu vana: dom Aldo è stato un grande profeta, un fedele difensore delle popolazioni indigene e dei loro territori. Aveva già previsto ciò che il Sinodo per l’Amazzonia avrebbe affrontato nel 2019: difendere la terra significa difendere la vita. Posso affermare che il ministero episcopale di dom Aldo a capo della Chiesa di Roraima si è svolto in tempi difficili, di persecuzione aperta della Chiesa, di missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e coraggio evangelico.

Era un pastore, un profeta, un vero padre e fratello per i più deboli. Animatore delle comunità, protettore e difensore dei missionari che erano lì con loro.

Credo di poter sostenere, senza paura di sbagliare, che tutti i temi discussi dopo la convocazione, la preparazione e l’esecuzione del Sinodo dell’Amazzonia, dom Aldo li aveva già nel cuore e aveva sempre lavorato molto duramente per creare una Chiesa modellata sul volto dei popoli indigeni.

Egli aiutò a preservare i percorsi che Dio ha stabilito per l’umanità, sia a livello culturale che religioso; la sua pratica ci ha aiutato a salvare le strade che Dio ha stabilito per gli «ultimi». L’incontro con le popolazioni indigene ha aiutato la Chiesa di Roraima e del Brasile, a sentirsi più al servizio e samaritana.

Il percorso segnato da dom Aldo ha portato a percepire la bellezza di vivere in una pluralità culturale e a comprendere il modus vivendi degli altri, che è la grande ricchezza della Chiesa dell’Amazzonia. La sua azione ha aperto percorsi attraverso il dialogo, la riconciliazione, la cura dei più deboli, l’opzione per i fragili, il coraggio di denunciare i draghi della morte che divorano la vita, il rispetto e la comunione con le vite e i sogni degli ultimi.

Che dom Aldo ci aiuti a superare le tentazioni di discriminazione, xenofobia, omologazione e l’incapacità di avvicinarci alle popolazioni indigene!

Roque Paloschi

(1) Lo scorso 4 maggio il Cimi di dom Roque Paloschi è stato attaccato in maniera durissima (e vergognosa) in un comunicato ufficiale della Funai, l’organo indigenista oggi in mano a Bolsonaro e ai latifondisti, ovvero ai primi nemici dei popoli indigeni. La Funai ha anche restituito all’autore una serie di foto di Sebastião Salgado in risposta alla sua campagna internazionale in favore dei popoli indigeni e contro la dirigenza brasiliana. (P.M.)


Dal fiume Po al rio Branco

Dom Aldo, combattente «suo malgrado»

Lo ricordo così. Mite e pacato. La voce bassa, le parole quasi sussurrate. Il volto come scolpito nella pietra e lo sguardo austero, serioso, che all’improvviso si apriva in un sorriso appena accennato.

Dieci anni orsono ebbi il privilegio di raccogliere le sue memorie poi pubblicate nel libro «Roraima tra profezia e martirio: testimonianza di una Chiesa tra gli indios» (2010)1.

Una storia incredibile quella di Aldo Mongiano, nato nella seconda decade del Novecento in una valle piemontese da cui, per raggiungere la città della Fabbrica italiana automobili, il viaggiatore doveva utilizzare un calesse trainato da cavalli che lo conduceva alla stazione ferroviaria più vicina.

Nelle epoche precedenti, ricorda Mongiano nell’introduzione al libro, il viaggio era ancora più disagevole: «Era comune prendere un barcone e affidarsi a uomini robusti che spingessero il carico. Uno trascinava la barca facendo forza sul fondo sassoso del fiume con il remo, ed un altro, camminando sulla spiaggia, lo tirava con una corda legata alle spalle. Questa pratica, che avevo appreso da giovane osservando scene sul fiume che bagna il mio paese, sarebbe stata la metafora di tutta la mia vita». In Brasile, dom Aldo, come da lì in avanti sarebbe stato chiamato, arrivò dopo una lunga esperienza in Mozambico che aveva da poco conquistato l’indipendenza: «Non sapevo che, più tardi, mi sarei trovato coinvolto, mio malgrado, nel processo di emancipazione di un piccolo popolo oppresso dalle pratiche neocoloniali della società dominante». Mongiano confessa nelle sue memorie, di aver sempre agito – nelle particolari circostanze in cui si sarebbe trovato coinvolto – «suo malgrado». Malgrado la consapevolezza dei propri limiti e il senso di inadeguatezza che lo accompagnava.

Anche il ruolo di vescovo lo aveva accettato solo per non portarsi dietro per tutta la vita il peso «di non aver ascoltato la voce di Dio»: «Quando seppi che papa Paolo VI voleva affidarmi la guida della diocesi dell’allora Territorio federale di Roraima pensai alle mie limitate capacità, alla mia debole preparazione teologica». E all’America, così lontana culturalmente, così «moderna».

Sulla pista di atterraggio della capitale Boa Vista, lo accolse una bambina con in mano un mazzo di fiori e altre persone accorse a vedere il nuovo vescovo. La natura tropicale e l’indolenza della popolazione, la città vuota con l’unico semaforo sempre spento, gli diedero l’impressione di essere giunto in un luogo tranquillo.

L’illusione di serenità durò poco. Durante la prima visita in area indigena, dom Aldo scoprì che gli indios, che pure costituivano la maggioranza della popolazione erano schiavi dei fazendeiros che avevano invaso le loro terre e dipendenti dall’alcol. Nel 1977, nel corso di un’assemblea cui partecipò anche dom Tomás Balduíno della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile, i tuxawa (capi indigeni), fecero un’esposizione toccante della loro situazione: costretti a lavorare senza essere retribuiti; accusati di reati che non avevano commesso; forzati a lasciare le loro terre dopo aver visto le case e le piantagioni bruciate, si stavano convincendo del fatto che non restava loro che cessare di essere indios e diventare «Bianchi» oppure rassegnarsi a una vita da emarginati. Le autorità si mostravano indifferenti se non apertamente ostili. L’incontro con Tomás Balduíno e poi con Bartolomè Melià, gesuita sostenitore del popolo guaraní, furono decisivi: il vescovo si convinse che la Chiesa di Roraima doveva levare la propria voce in favore degli ultimi, gli indigeni, «i più poveri tra i poveri». Una scelta che comportò la nascita di tensioni con i vertici della Fondazione nazionale per gli indigeni (Funai) e con le autorità. Queste proibirono ai missionari di entrare in area indigena, mentre alcuni deputati furono autori di proposte di legge che, incentivando lo sfruttamento minerario, erano di natura genocida.

Nella memoria di dom Aldo, gli anni ‘80 furono i più burrascosi, ma anche i più belli. Furono gli anni della liberazione dalla dittatura militare, dell’instancabile lavoro di coscientizzazione degli indios, della rivendicazione delle terre e dell’identità indigena anche grazie al progetto visionario Uma Vaca para o Indio. Negli anni ‘90, l’impegno dei missionari della Consolata guidati dal loro vescovo a fianco degli indios del lavrado (savana) e degli Yanomami, determinò la reazione di vari settori del potere locale, le cui accuse trovavano ampio spazio anche sui media nazionali. Il vescovo Mongiano era additato un nemico del popolo di Roraima.

Nel 1996, anno in cui la terra Raposa Serra Sol («della Volpe e della Montagna del sole») venne riconosciuta come area indigena, dom Aldo lasciò la guida della diocesi per raggiunti limiti di età2.

Il senso della sua missione lo traccia lui stesso nell’epilogo del libro, citando la storia di quel marinaio che salva un bambino caduto in mare durante una tempesta: «Il comandante, alla sera, organizza una festa in suo onore. Ma il marinaio, pur grato per il riconoscimento, ammette: “Non l’avrei salvato se qualcun altro non mi avesse spinto”».

Silvia Zaccaria
(antropologa)

(1) Il pdf del libro è scaricabile dal sito della rivista.

(2) Gli successe Apparecido José Dias (1996-2004). Dom Apparecido era a quel tempo anche presidente del Cimi. Fondò Radio Roraima e il movimento Nós existimos. Strenuo difensore dei popoli indigeni fu oggetto come dom Aldo di attacchi personali.




Monsignor Aldo Mongiano, una voce a difesa dei popoli indigeni amazzonici

Testo di Luis Miguel Modino del Repam – foto Gigi Anataloni / AfMC


La vita delle persone è spesso profondamente identificata con le cause che difendono. Nella storia della Chiesa del Brasile ci sono stati molti missionari che hanno dato la vita in difesa delle popolazioni indigene. Uno di loro è stato monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Roraima dal 1975 al 1996, morto il 15 aprile 2020 a Pontestura, Monferrato, Italia, dove è nato il 1° novembre 1919 e dove risiedeva con la sorella.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Con 80 anni di professione religiosa, 76 anni di vita sacerdotale e 44 anni come vescovo, monsignor Aldo viene ricordato nella diocesi di Roraima come qualcuno che ha seminato molto. Secondo l’attuale vescovo della diocesi, monsignor Mario Antonio da Silva, che afferma: “Io e tutti gli altri missionari, fratelli e sorelle, e le nostre comunità , con i nostri cristiani laici, abbiamo raccolto (da lui) frutti abbondanti”. L’attuale vescovo definisce i 21 anni dell’episcopato di monsignor Aldo come un tempo “di testimonianza del Vangelo, della vita missionaria profetica a favore dei popoli dell’Amazzonia, in particolare dei popoli indigeni”.

Monsignor Aldo Mongiano si distingueva nel suo lavoro profetico con le popolazioni indigene, ma, secondo Dom Mario Antonio, “ha anche combattuto per i giovani, per il ruolo dei laici, monsignor Aldo era un vescovo che, a Roraima, accoglieva vocazioni locali, e allo stesso tempo missionari provenienti da tanti luoghi del Brasile e del mondo per aiutare nella missione in questa particolare Chiesa di Romarai”. Ecco perché l’attuale vescovo di Roraima dice che “siamo grati a Dio per il dono della vita e la vocazione di monsignor Aldo, e che i frutti continuano ad essere abbondanti nel suo pastore dedicato nella vita della nostra Chiesa”.

Uno di questi missionari è stato padre Alex José Klopenburg della diocesi di Bagé – RS, che ha lavorato a Roraima dal 1988 al 1992. Arrivò nella diocesi al “momento della costituente e dell’invasione dell’area indigena Yanomani da parte dei cercatori d’oro”. Di fronte a questa situazione, il missionario ricorda che “monsignor Aldo era un grande profeta, convinto difensore dei popoli originari, con la campagna Una mucca per gli Indios, nella zona di Raposa Terra do Sol, alla ricerca di un sostentamento per il popolo Macuxi e Wapichana”. Egli definisce questo momento come “tempi difficili, di persecuzione aperti alla Chiesa, ai missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e di coraggio evangelico”.

In questo frangente, “Monsignor Aldo era un pastore, profeta, vero padre e fratello dei più piccoli. Animatore comunitario, protettore e sostenitore dei missionari che erano lì. Senza paura, con la certezza che stava facendo ciò che il Signore crocifisso gli ha chiesto di fare”, ricorda il sacerdote della diocesi di Bagé. Nella sua preghiera, chiede “ora con Dio in cielo, di continuare a intervenire per l’Amazzonia, per i popoli indigeni, che ha amato, difeso e aiutato”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho, ha iniziato la sua missione episcopale a Roraima nel 2005. Arrivò lì il 13 luglio e ricorda che il 15, prima di essere ordinato vescovo il 17 luglio, fece la sua professione di fede nella casa delle suore della Consolata, all’altare, alla presenza di monsignor Servilio Conti e monsignor Aldo, i due vescovi emeriti di Roraima. Monsignor Roque aveva già sentito parlare di monsignor Aldo, ma i tre mesi che ha vissuto con lui dopo la sua ordinazione episcopale, quando due o tre volte alla settimana si sono incontrati per parlare, è stato un tempo in cui “ho imparato a rispettarlo e ad amarlo per la sua storia e per la sua dedizione come missionario”.

Il presidente del Consiglio Missionario Indigenista – CIMI -, parla di monsignor Aldo come de “l’uomo che ha affrontato le accuse e le persecuzioni più assurde, ha dovuto passare molto tempo con la protezione della polizia contro gli attacchi, ma non ha mai perso la sua serenità, mai ripagato il male con il male, al contrario”. Anche monsignor Roque ricorda che monsignor Aldo, in una piccola città, come lo era Boa Vista all’epoca, quando “incontrò i più feroci oppositori e aggressori (lo fece) con la serenità di un uomo di Dio, salutò e chiese alla famiglia, perché come buon pastore conosceva praticamente tutte le famiglie, ed era sempre libero di dire, la pensiamo in modo diverso, ma io ti amo, ti rispetto.”

l’arcivescovo di Porto Velho vede monsignor Aldo come qualcuno che “ha sempre avuto questa gioia e disponibilità a costruire ponti di speranza, di riconciliazione, ma anche di molta chiarezza nella missione”, essendo qualcuno che, insieme ai missionari della Consolata e alla diocesi di Roraima, ha dato un grande contributo al cammino della Chiesa dal punto di vista delle popolazioni indigene, soprattutto per quanto riguarda la difesa dei territori e dei leader. Monsignor Roque ricorda che “l’investimento che ha fatto assumendo avvocati per liberare le gli indigeni che erano stati arrestati senza accuse specifiche, semplicemente per piacere”.

Questo atteggiamento è sempre stato riconosciuto dalle popolazioni indigene di Roraima. Come ricorda monsignor Roque Paloschi, nel 2011, quando monsignor Aldo visitò Roraima, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, un’anziana donna del popolo Macuxi, gli diede un piccolo vaso di argilla, dicendo: “Monsignor Aldo, non possiamo ringraziarlo per tutto quello che hai fatto, non solo per noi, ma per la gente di Roraima. Se oggi abbiamo la terra, questo è dovuto alla mano di Dio, ma anche alla sua mano, la mano della missione. Non può portare molte cose sull’aereo, ma vogliamo darle questo come segno di gratitudine, perché questa terra ha molto sangue, molte persone sono morte, ma ha anche la passione dei missionari della Consolata e di altri, e la sua passione per difendere la causa indigena”.

Un altro ricordo che mostra il carattere di monsignor Aldo, secondo monsignor Roque Paloschi, si è verificato il 17 settembre 2005, quando hanno dato fuoco alla prima missione che i monaci benedettini hanno costruito tra le popolazioni indigene, che era un luogo di accoglienza e un centro di formazione per le popolazioni indigene. Monsignor Aldo accompagnò il vescovo lì, e di fronte a questa situazione devastante, disse alle popolazioni indigene che soffrivano, lì umiliate, ferite: “da queste ceneri Dio eleverà nuovi semi per la speranza delle comunità indigene”. Come ha scritto lo stesso monsignor Aldo nel libro “Roraima, tra martirio e speranza”, appassionato della sua esperienza di vescovo, “la missione si fa così, con passione, ma anche con grande sacrificio, con le ginocchia, ma anche con la certezza che è Dio a guidare”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Aldo ha celebrato i 100 anni di vita il 1° novembre 2019, pochi giorni dopo la chiusura dell’Assemblea sinodale del Sinodo per l’Amazzonia, che ha ricordato molti dei sogni che aveva nella sua missione in Amazzonia, tra i popoli indigeni. Egli disse nell’omelia: “Ho ricevuto solo favori e ringraziamenti da Dio. Ho un sacco di regali. Mi rattrista il fatto di non essere stato più generoso nel rispondere al Signore. Avrei potuto essere più devoto, più disposto a sacrificarmi, più amorevole. Chiedo perdono per i miei limiti, i miei peccati, e vi ringrazio per tanta gentilezza”. Chi è stato missionario in molti luoghi ha sempre compreso la sua missione come un tempo “in cui devo proclamare il Signore, parlare di un Buon Dio, di un Dio misericordioso, che ha inviato suo Figlio a salvarci, che è venuto a insegnarci come guidare i nostri passi sulla via della vita. Non avrei mai pensato di ricevere tanti onori, tanto grazie, tanta misericordia, tanta gentilezza”.

In quella celebrazione, insieme ai missionari di Consolata, c’erano monsignor Mario Antonio da Silva, presente vescovo di Roraima, e monsignor José Albuquerque, vescovo ausiliario di Manaus. Secondo lui, “parlare di monsignor Aldo Mongiano, significa parlare della Chiesa che è nell’Amazzonia, della Chiesa che affonda le sue radici nel territorio di Roraima. Ricordiamo con grande gratitudine tutto ciò che monsignor Aldo ha rappresentato per la nostra regione, una parola gentile e dolce, con parole sempre incoraggianti, uno sguardo tenero e un sorriso”.

Il vescovo ausiliario di Manaus, afferma che “è impressionante come monsignor Aldo, allo stesso tempo, fosse una persona ferma e convinta, che difendeva i diritti di tutti, ma soprattutto dei popoli indigeni, di diversi gruppi etnici, non solo da Roraima, ma dal Brasile. Era anche un sostenitore della causa dei poveri e un convinto sostenitore dei capi laici e laiche. Con tutta questa fermezza, monsignor Aldo è sempre stata una persona molto fraterna, molto accogliente, la sua presenza è stata impressionante”. Qualcuno che ricorda la celebrazione dei 100 anni di vita di monsignor Aldo come un momento che sarà per sempre inciso nella sua memoria, vive questo momento della sua partenza, come “ringraziamento per quello che è stato monsignor Aldo e rimarrà per noi, un riferimento di una voce profetica che è stata accanto alla più sofferta”.

Luis Miguel Modino

Nostra traduzione da Repam – 16 aprile 2020
https://redamazonica.org/2020/04/fallece-monsenor-aldo-mongiano-una-voz-profetica/

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Il testamento spirituale di Mons Mongiano su consolata.org

Scarica il pdf della sua autobiografia:

Aldo Mongiano, Roraima tra profezia e martirio, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2010