Quantitative easing (il mondo alla rovescia)

Testo di Francesco Gesualdi


Può sembrare noiosa e incomprensibile, ma l’economia condiziona le nostre vite e l’integrità dell’ambiente. Anche su tematiche complesse come quelle monetarie noi cittadini dovremmo essere più attenti e preparati. Per non lasciare che vincano sempre il mercato e gli speculatori. Come sta accadendo.

Le questioni monetarie continuano a perseguitarci e sono piuttosto noiose perché non hanno come obiettivo la nostra felicità, ma la sopravvivenza del mercato. Tuttavia, siamo costretti ad occuparcene prima di tutto per una questione di democrazia. Il sistema vorrebbe tanto che considerassimo l’economia così noiosa e incomprensibile da gettare la spugna. Ma, se lo facessimo, finiremmo per diventare dei pupazzi totalmente  nelle mani dei mercanti, che a seconda dei loro calcoli di guadagno, ora ci metterebbero in scena, ora ci getterebbero nella pattumiera come stracci vecchi. È proprio il fatto che l’economia condiziona così tanto la nostra vita e l’integrità del Creato, la seconda ragione per cui dobbiamo non solo vigilare, ma pretendere di assumerne il comando.

Le banche centrali e la moneta in circolazione

Questa volta l’espressione da esaminare è quantitative easing, due parole così enigmatiche da indurre alla fuga ancor prima di qualsiasi tentativo di decriptazione. Per capire, invece di andare dritti sul coperchio della pentola per vedere cosa c’è dentro, partiamo dall’apparecchiatura. Di scena sono le banche centrali, le istituzioni che stanno al vertice delle monete in circolazione, eccezion fatta per le criptovalute che al momento conviene lasciare da parte. Nel caso del dollaro, la Banca centrale è la Fed, abbreviazione di Federal Reserve. Per l’euro è la Bce, la Banca centrale europea (già più volte protagonista di questa nostra rubrica). Quando avevamo la lira era la Banca d’Italia.

Una delle principali funzioni delle banche centrali è la gestione della massa monetaria, una questione piuttosto delicata perché la quantità di moneta in circolazione oltre ad avere ricadute sul livello dei prezzi, riduce o favorisce consumi e investimenti e quindi la crescita o il rallentamento dell’intero sistema produttivo. Per capire come la disponibilità di denaro freni o attivi consumi e investimenti, basta pensare a noi stessi: se inaspettatamente troviamo dei soldi lasciati nel cassetto da uno zio morto possiamo fare acquisti a cui non avevamo mai pensato. Se al contrario perdiamo il portafogli, siamo costretti a cancellare spese anche molto importanti. Con ripercussioni sulle aziende produttrici: positive se ci ritroviamo con più soldi in tasca, negativi se ne perdiamo. Di qui la regola generale: si espande la moneta quando si svuole stimolare l’economia, si restringe quando si vuole raffreddarla.

Va anche precisato che l’espansione o la restrizione della massa monetaria non passa necessariamente attraverso la creazione o la distruzione di moneta, ma più semplicemente attraverso operazioni di sequestro e di rilascio di moneta attraverso un polmone monetario costituito presso la  Banca centrale. Al bisogno, però, si può attivare l’espansione anche attraverso la creazione di nuova moneta.

Politiche monetarie: creditizie e fiscali

I canali a disposizione della Banca centrale per immettere o ritirare moneta dal circuito economico sono tre: il sistema bancario, la borsa valori, il governo della nazione. Le strategie utilizzate nei confronti del sistema bancario riguardano le riserve e il tasso di interesse. Le riserve si riferiscono all’obbligo imposto alle banche ordinarie di accantonare presso la Banca centrale una quota delle loro disponibilità. Il tasso di interesse si riferisce al prezzo richiesto per i rapporti di debito credito intercorrenti fra Banca centrale e banche ordinarie. Prezzo che poi si ripercuote a catena anche sui rapporti che le banche hanno con i propri clienti. L’innalzamento delle riserve riduce le disponibilità delle banche che quindi si traduce in una riduzione della massa monetaria. Al contrario, una riduzione delle riserve si traduce in una maggiore disponibilità delle banche e quindi in una crescita della massa monetaria. Anche l’aumento del tasso di interesse fa da freno alla massa monetaria in circolazione perché, se il credito costa di più, si riduce il numero di coloro che lo richiedono. L’operazione contraria ovviamente conduce all’effetto opposto.

Il rapporto con la Borsa consiste in operazioni di acquisto e vendita di titoli da parte della Banca Centrale. Se acquista titoli immette moneta nel sistema, se vende titoli rastrella denaro. Il terzo canale è il rapporto col governo e funziona praticamente in una sola direzione, che è quello di immettere denaro nel sistema economico. Lo fa finanziando spese a deficit, ossia non coperte dal gettito fiscale.

Per riassumere, dunque, le vie classiche di gestione della massa monetaria comprendono il canale privato e il canale pubblico. Il canale privato basato sul costo del denaro e su meccanismi di sequestro e rilascio del denaro circolante. Il canale pubblico basato sull’immissione di nuova moneta. E, da un punto di vista lessicale, gli interventi tramite il canale privato sono definiti «politiche monetarie creditizie», articolate in regolazione delle riserve, regolazione del tasso di interesse, operazioni di mercato aperto (operazioni di Borsa). Gli interventi tramite il canale pubblico sono definite «politiche monetarie fiscali» e consistono essenzialmente nel finanziamento di spese tramite emissione di nuova moneta.

Dal pubblico al privato

Questa era l’impostazione classica in vigore nel secolo scorso. Ma gradatamente, già sul finire del secolo, si è assistito ad un ridimensionamento del canale pubblico e un potenziamento di quello privato. Spostamento non casuale, ma figlio del cambio ideologico in atto in tutto il mondo, a sua volta figlio del cambio dei rapporti di potere avvenuto fra sfera pubblica e sfera privata. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, le imprese si sono fatte sempre più agguerrite fino ad imporre il trionfo assoluto del mercato. Quanto alla sfera pubblica è stata relegata al ruolo di garzone, il giovane di bottega che deve limitarsi a fare le leggi gradite al mercato e a gestire i servizi indivisibili come l’ordine pubblico, la giustizia (rapida per permettere ai mercanti di risolvere rapidamente i loro contenziosi), la difesa dei confini, facendo ben attenzione a non occuparsi mai di servizi che il mercato vuole per sé come sanità, scuola, acqua, strade. Un disegno che ha avuto la sua massima espressione nell’Unione europea, allorché ha affidato la gestione della moneta unica a una Banca centrale autorizzata ad interagire unicamente col settore privato. Il divieto imposto alla Banca centrale europea di prestare ai governi anche un solo centesimo, è stata la mazzata finale data ai governi per svuotarli di qualsiasi possibilità di intervento in campo economico e ridurli alla stregua di gelidi amministratori di condominio che, se si azzardano a prevedere una pur minima spesa straordinaria, non hanno altra possibilità di finanziarla se non indebitandosi con le banche private in cambio di lauti tassi di interesse.

Altrove non si è osato altrettanto. In Giappone, Stati Uniti, Gran Bretagna, le banche centrali continuano ad avere fra i propri scopi il sostegno ai governi per il raggiungimento della piena occupazione e dello sviluppo sociale. Ma, nella pratica quotidiana, anche in questi paesi si sono affievoliti gli interventi tramite i governi mentre si son potenziati quelli tramite il canale privato. Addirittura, si è consentito al canale privato di godere di prerogative che, in passato, erano riservate all’ambito pubblico. Stiamo parlando di interventi realizzati con moneta creata ex-novo. Ed è proprio questo il «quantitative easing» che alla lettera significa «allentamento quantitativo»: l’acquisto di titoli presso le banche e la borsa valori con moneta coniata di fresco con lo scopo di aumentare la base monetaria circolante nel sistema.

Se i benefici sono ipotetici

Un cambio di strategia apparentemente innocuo, in realtà gravido di conseguenze sia in termini politici che pratici. Sul piano politico è la proclamazione del mercato a gestore principe dell’economia. Sul piano pratico è l’anteposizione dell’interesse degli speculatori su quello dei cittadini. Quando la creazione di nuova moneta era al servizio dello stato per permettergli di finanziare nuovi servizi e creare posti di lavoro, i beneficiari diretti erano i cittadini e i disoccupati. Oggi che è al servizio di banche e Borsa, i beneficiari diretti sono gli speculatori. Certo della maggior disponibilità di denaro possono approfittare anche gli imprenditori per effettuare nuovi investimenti e quindi creare posti di lavoro. Però la disponibilità di credito è condizione necessaria ma non sufficiente per nuovi investimenti. Parallelamente servono sbocchi di mercato che il quantitative easing non garantisce. Diverso è per lo stato che producendo gratuitamente per i propri cittadini, non ha mai il problema di doversi procacciare i clienti. Per questo l’uso dello stato come canale di immissione di nuova moneta procura alla cittadinanza benefici certi, mentre il quantitative easing ne procura solo di ipotetici.

Il primo paese a sperimentare il quantitative easing fu il Giappone nel 2001: l’economia ristagnava e, avendo portato i tassi di interessi già a zero, senza ottenere risultati, si illuse di poter spingere gli imprenditori a nuovi investimenti inondando il canale finanziario di denaro. Ma, nonostante una crescita del 60% della base monetaria, le cose non andarono molto meglio. Nel 2008 fu la volta degli Stati Uniti che, nel 2018, registravano una base monetaria 5 volte più alta rispetto a dieci anni prima (4mila miliardi di dollari contro 800). Nel 2015 anche la Banca centrale europea si lancia nell’acquisto di titoli con nuova moneta al ritmo di 60-80 miliardi di euro al mese. Ha continuato fino ai nostri giorni per un totale di oltre 2.500 miliardi di euro.

Un sistema prigioniero del mercato

Concludiamo parlando dei risultati concreti. Che sono discutibili sul piano del rilancio economico, vista la situazione di recessione all’orizzonte a livello mondiale. Di sicuro, è stato sostenuto il sistema bancario che, dopo la crisi del 2007, traballava sulle due sponde dell’Atlantico.

Così come è stato sostenuto il valore di molti titoli di borsa visti gli acquisti massicci delle banche centrali. Una mossa che oltre ad avere favorito i detentori di titoli, ha favorito anche i governi perché li ha messi al riparo da attacchi speculativi al ribasso che avrebbero fatto aumentare i loro tassi di interesse. Un risultato senz’altro positivo per la collettività, ma la collettività ci avrebbe guadagnato molto di più se quella stessa massa monetaria fosse stata utilizzata per liberare i governi dai loro debiti nei confronti delle banche.

In più c’è da dire che l’inondazione del sistema con denaro fresco ha reso il mondo più insicuro da un punto di vista finanziario. Infatti, l’alta disponibilità di credito a buon mercato ha indotto molti fondi d’investimento a procurarsi in Occidente denaro a basso costo per prestarlo a interesse molto più alto a entità africane, asiatiche, latino americane. Tanto che, se nel 1995 il debito dei paesi emergenti rappresentava il 10% del debito complessivo mondiale, oggi è al 28%. Una situazione pericolosa che potrebbe rappresentare la prossima miccia d’innesco di una nuova crisi mondiale perché può bastare un brusco aumento dei tassi di interessi per mettere le realtà del Sud del mondo nella condizione di non poter pagare.

E si sa, quando i debitori non pagano i problemi non sono loro, ma dei creditori che rimangono col cerino in mano. Triste orizzonte per un sistema che avendo perso totalmente di vista le persone è diventato ostaggio delle follie del mercato.

Francesco Gesualdi




Il dilemma della moneta

Testo di Francesco Gesualdi |


Alla fine degli anni Ottanta l’Europa ha virato verso un’impostazione economica neoliberista che riconosce il mercato come la sola legge e le imprese come gli unici attori. Questa impostazione ha permeato anche l’architettura della moneta unica: l’euro è nato non come strumento di servizio pubblico, ma come strumento di lucro.

Nel dopo guerra le imprese europee fecero la scelta della Comunità economica europea (Cee) come strategia per allargare il proprio mercato e dotarsi, nel contempo, di una politica comune nei confronti del resto del mondo. Inevitabilmente, a un certo punto del processo di integrazione, si pose il problema della moneta, perché monete diversificate rappresentano un freno per il commercio. La moneta, però, è un tema molto delicato che a seconda di come è gestito può favorire i forti contro i deboli, la finanza contro l’economia reale, il mondo degli affari contro lo stato sociale, o tutto il contrario. In altre parole, la moneta è come un mezzo di trasporto che, a seconda di come è strutturato, può diventare un carro armato per fare la guerra o un autobus per andare in vacanza. Per cui non si può capire la moneta se prima non si chiarisce da quali principi è animato il potere che ci sta dietro e quali fini persegue.

La perdita di centralità dello stato

Di moneta unica in Europa si cominciò a discutere seriamente negli anni Ottanta, quando in tutta l’area stava cambiando il vento politico. Da un’impostazione socialdemocratica che riconosce allo stato il compito di pilotare l’economia con l’obiettivo di raggiungere la piena occupazione, di superare le disuguaglianze e di garantire a tutti il godimento dei servizi essenziali, si stava passando a un’impostazione neoliberista che riconosce il mercato come unica legge e le imprese come soli attori economici. Come dire che tutto deve essere regolato dalla concorrenza e dalla legge della domanda e dell’offerta, mentre lo stato va ridotto a mero gestore di tribunali, polizia ed esercito, senza alcuna funzione economica. Questo cambio di vento influenzò profondamente l’architettura dell’euro.

Nel 1988, Jacques Delors, politico francese ex-presidente della Commissione europea, venne incaricato di elaborare una proposta di moneta unica. Delors sapeva che ci sono due modi per governare la moneta: uno come servizio pubblico, l’altro come affare su cui lucrare. Il primo vede come gestore lo stato che si ispira a criteri di gratuità e promozione sociale. Il secondo vede invece come gestore il sistema bancario che si muove secondo il principio del profitto.

La gestione pubblica

La logica della gestione pubblica, di tipo gratuito e socialmente orientata, si contraddistingue sia per la quantità di denaro messo in circolazione, sia per i canali utilizzati per iniettare nel sistema economico la liquidità aggiuntiva.

Per quanto riguarda la quantità, non viene valutato solo il denaro che serve per soddisfare il livello di scambi esistenti. Si fa anche un’analisi della situazione socio-economica per capire se ci sono problemi da risolvere e – nel caso si giunga alla conclusione che c’è un’alta disoccupazione, molti bisogni collettivi da soddisfare, un livello produttivo insoddisfacente – si può decidere di dare una sferzata al sistema con l’emissione di nuova moneta da utilizzare per pagare nuovi salari in ambito pubblico, o per finanziare investimenti pubblici e privati. Questo genere di operazione, che si concretizza attraverso l’apertura di debito pubblico di tipo virtuale, può esporre al rischio di inflazione, ma – se condotta con equilibrio, in associazione con altre misure – non produce effetti mostruosi e quelli che produce sono comunque più accettabili dei problemi sociali irrisolti.

Parlando di quantità, va tenuto presente che il sistema economico può crescere anche per meccanismi propri e quando succede ha bisogno di nuovo denaro per non rimanere frenato. Lo stato che ha sovranità monetaria ed è al servizio dei cittadini amplia l’emissione di moneta e la immette nel sistema economico tramite il pagamento dei salari dei propri dipendenti, delle pensioni, degli acquisti di beni e servizi. In questo modo la massa monetaria si adegua alle accresciute esigenze del sistema in maniera silente e senza aggravio per nessuno, anche se apparentemente lo stato ha aperto un debito. Ma è con se stesso, quindi è nullo.

La gestione privatizzata

La logica della gestione privata concepisce il denaro come una merce da vendere per trarre profitto. Per cui la produzione di moneta è gestita dal sistema bancario con criteri opposti a quelli dello stato. Primo: ha interesse a mantenere la penuria di moneta, piuttosto che l’abbondanza, perché è nella scarsità che si possono imporre tassi di interesse più alti. Secondo: immette nuova liquidità a pagamento perché il principale canale che usa per aggiungere denaro al sistema è quello del credito su cui pretende un tasso di interesse. E poiché il sistema bancario è capace di emettere moneta dal niente, le banche godono del privilegio (assurdo) di poter incamerare ricchezza reale in cambio di un servizio virtuale di cui non hanno alcun merito. Una forma di arricchimento che non si può definire latrocinio solo perché è parassitismo legalizzato.

Su pressione delle forze liberiste che ormai dominavano la scena politica in tutta Europa, Jacques Delors non prese neanche in considerazione l’ipotesi della gestione pubblica dell’euro ed elaborò una proposta di gestione da parte del sistema bancario privato che poi diventò la base per la trattativa finale. In capo a qualche mese venne raggiunto un accordo definitivo, subito inserito nel trattato di riforma dell’Unione europea che venne firmato a Maastricht, Olanda, il 7 febbraio 1992.

Con i suoi 252 articoli, 17 protocolli e 31 dichiarazioni, il Trattato definisce il nuovo assetto organizzativo dell’Unione europea e le condizioni che gli stati debbono rispettare per esservi ammessi. Varie parti sono dedicate all’impianto organizzativo della moneta unica e fin dai primi passaggi si percepisce la volontà di tenerla completamente fuori dalla sfera d’influenza del potere politico. Per cominciare la moneta nascente è affidata alle cure di un’istituzione nuova di zecca, la Banca centrale europea (Bce), di fatto una società per azioni, i cui azionisti sono le banche centrali di tutti i paesi aderenti all’Unione europea (scheda). Ma non si capisce la vera natura della Banca centrale europea, se non si precisa che le banche centrali nazionali altro non sono che strutture possedute dalle banche private. La Banca d’Italia, ad esempio, è posseduta da 124 azionisti, quasi tutti istituti bancari e fondazioni bancarie, su cui spicca Intesa Sanpaolo e UniCredit (scheda).

Mario Draghi – European central Bank

Diversità tra Bce e Fed

Il carattere neoliberista dell’Unione europea, emerge non solo dalla decisione di affidare il governo dell’euro al sistema bancario privato, ma anche dai compiti assegnati alla Bce. Se esaminiamo i compiti assegnati alla Federal Reserv (Fed), la Banca centrale statunitense, notiamo che al primo posto c’è il perseguimento della piena occupazione («to promote maximum employment»). In Europa, invece, l’unico compito assegnato alla Banca centrale è la stabilità dei prezzi, ossia il mantenimento del valore dell’euro. Nella prossima puntata di questa rubrica, vedremo come tale scelta abbia avuto effetti profondi sulla gestione del debito pubblico e quindi sulle condizioni sociali dei paesi europei. Ma intanto conviene riflettere su un’altra scelta effettuata dall’Unione europea: quella di «agire in conformità con il principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza».

Accettare che il rapporto fra le imprese sia regolato solo dalla concorrenza, è come decretare la morte di quelle più deboli. E quando si adotta la stessa moneta senza alcun tipo di salvaguardia, le imprese dei paesi più deboli rischiano grosso perché adottare una moneta unica è come aprire le gabbie dello zoo: le bestie più grosse possono entrare con maggiore facilità nelle gabbie delle bestie più deboli e prendersi il loro cibo. Fuori di metafora, con una moneta unica, le imprese più solide possono sottrarre mercato alle imprese più deboli con maggiore facilità, perché possono fare prezzi più bassi. Esattamente come è successo in Europa dove le imprese del Nord Europa, tecnologicamente più avanzate, hanno potuto penetrare con più facilità in tutto il mercato europeo, mettendo in seria difficoltà le imprese meno efficienti del Sud Europa comprese quelle italiane. Un disagio che si è fatto ancora più acuto con la crisi scoppiata nel 2008, fino a suscitare una vera e propria avversione verso l’euro.

Avversione raccolta dal partito della Lega, che in nome della difesa di tutto ciò che è italiano ha riscosso molti consensi alle elezioni politiche del 4 marzo 2018.

Uscire dall’euro?

In nome delle difficoltà create alle imprese nazionali, molti propongono addirittura di uscire dall’euro, in modo da recuperare la possibilità di svalutare e riuscire, per quella via, a colmare lo svantaggio competitivo esistente sul piano tecnologico.

Questa tuttavia è solo una parte del dibattito possibile sull’euro. La discussione va inevitabilmente integrata con tutta la partita legata al tema del debito pubblico. Un aspetto che sicuramente introduce altri elementi di complicazione, ma che forse può permetterci di trovare soluzioni che ci facciano evitare il rischio di voler cambiare tutto affinché niente cambi.

Francesco Gesualdi