Vicinanza e concretezza


La vicinanza al popolo dell’Ucraina, aggredito e violentato dalle truppe di Putin, si può manifestare in vari modi. Uno di questi è portare aiuti alla popolazione rimasta senza nulla. Diario di un viaggio di duemila chilometri, da Trento a Chişinău.

Se è vero che il viaggio ha valore e trova il suo significato non nella meta da raggiungere, ma nel percorso che ci porta a essa, allora questa volta ho proprio viaggiato. E non solo da un punto di vista fisico, ma anche con il cuore e con la mente.

Verso fine marzo mi è stata offerta la possibilità di recarmi nella repubblica di Moldavia per portare degli aiuti, viveri, medicinali, prodotti per l’igiene, al Centrul social pastoral «Casa Providentei» che si trova a Chisinau (Chişinău, è la scrittura corretta), dove opera da vari anni suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina dell’istituto Suore della Provvidenza, assieme a due giovani consorelle rumene, suor Juliana e suor Michela.
Il Centro, dall’inizio della guerra in Ucraina, è stato adibito dalle suore all’accoglienza di tante persone, soprattutto donne e bambini, in fuga dal loro paese.

Gli aiuti erano stati raccolti dalla San Vincenzo di Mestre e dal Centro missionario diocesano di Trento, dove da molti anni lavoro. Quando l’amico Bruno**, da noi interpellato per intraprendere il viaggio assieme ai volontari della San Vincenzo, mi ha proposto di accompagnarlo, istintivamente ho detto subito sì. Appena chiusa la telefonata, sono stata assalita da dubbi e ripensamenti: la lunghezza del viaggio, il pensiero che forse non sarei stata di molta utilità, ma soprattutto la preoccupazione di essere d’impiccio una volta arrivati a destinazione.

Ripensandoci con calma e condividendo queste riflessioni con il direttore e i colleghi, ho realizzato che il mio andare avrebbe avuto il significato di portare a suor Rosetta (che, peraltro, aveva accolto la notizia della visita con grande entusiasmo) un piccolo segno di vicinanza e solidarietà della sua diocesi e della sua terra di origine.

Così, alla fine, i dubbi che albergavano nella mia mente si sono dissolti.

Nell’attesa della partenza, mentre si mettevano a punto l’itinerario, i contatti, gli aspetti tecnici, non ho potuto fare a meno di elaborare qualche proiezione su quello che avrei potuto incontrare e vedere. Senza peraltro farmi troppe aspettative, come sono solita ripetere a chiunque si appresti a vivere un’esperienza missionaria, e ciò per essere liberi di accogliere tutto quello che ci verrà offerto.

Una vecchia università convertita in centro per rifugiati a Chişinǎu: qui vengono ospitate varie minoranze provenienti dall’Ucraina (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Attraverso Slovenia, Ungheria, Romania

Siamo partiti in cinque il 21 marzo, a quasi un mese dallo scoppio della guerra in Ucraina. Abbiamo attraversato Slovenia e Ungheria, percorrendo un’autostrada che ci ha permesso di arrivare al confine con la Romania e attraversarlo fino al raggiungimento della prima tappa, in dodici ore, senza avere occasione di vedere un granché se non solo in lontananza il lago Balaton.

Una volta arrivati in Romania il paesaggio è subito cambiato. Pur giungendo di notte alla periferia di Oradea, capoluogo di uno dei distretti del paese, ci siamo resi conto di essere arrivati in un’Europa un po’ diversa da quella a cui siamo abituati. Piccole e basse casette, una attaccata all’altra, la maggior parte non molto ben messe, con pali della luce in legno, fili elettrici aerei, aggrovigliati, come solo forse negli anni Cinquanta e primi anni Sessanta, dalle nostre parti si potevano osservare nei centri più piccoli. Mano a mano che ci avvicinavamo al centro, le casette lasciavano il posto a grandi palazzi residenziali, alcuni davvero imponenti, che solo alla luce del giorno avrebbero rivelato una certa trascuratezza e una impressionante somiglianza tra loro. È pur vero che abbiamo attraversato parte della città senza poterci fermare se non per una notte, accolti in un seminario greco cattolico, da padri che parlavano perfettamente l’italiano e molto disponibili, che ci hanno raccontato le loro attività con seminaristi, bambini, giovani e universitari e dell’aiuto che portano ai confini con l’Ucraina, entrando nel paese con viveri, farmaci e beni di prima necessità. Però la sensazione di trovarci in un «altro» mondo, l’ho proprio percepita. Per di più, vittima dei soliti pregiudizi (che da una vita cerco di scardinare in me e negli altri), immaginavo di trovare un paese sporco, magari con immondizie ai lati delle strade, e invece non c’era un pezzo di carta per terra e la cura per la pulizia degli spazi comuni era davvero ammirevole.

Da Oradea in poi è iniziato il vero viaggio: circa 600 km, tutti su strade provinciali attraverso i monti Carpazi.

Carretti e auto di lusso

Mi era stato detto che, in Romania, il percorso non si calcola in chilometri, ma in ore. Infatti, per arrivare a Iași, posta al confine con la Repubblica Moldava, la nostra piccola carovana ha impiegato dieci ore. Abbiamo attraversato città storiche come Cluj Napoca, con un bellissimo centro storico, che richiama l’epoca imperiale, molto caotica e con un traffico che non ha nulla da invidiare a quello di Milano; città più piccole dove si possono ammirare le caratteristiche case dei Rom, con rifiniture in metallo che sembrano merletti e comignoli davvero originali (che spesso però sono vuote); altre con grandi palazzi un po’ decadenti. Abbiamo passato villaggi di montagna in mezzo alla neve, simili a piccole stazioni turistiche con alti monti innevati sullo sfondo; villaggi sul fondo valle, dove il tempo sembra essersi fermato a un centinaio di anni fa, con le casette, qualche animale, donne, probabilmente anziane, infagottate e con il capo coperto da un foulard legato sotto il mento. In ogni dove, anche nelle zone più remote, abbiamo notato imponenti chiese ortodosse e monasteri. E poi chilometri e chilometri di campagna, terra, che – ci è stato spiegato – è coltivata a grano, granoturco e patate. Un mezzo di trasporto ancora molto utilizzato è un carretto trainato da un cavallo dalla corporatura massiccia, che serve per portare di tutto, dalle persone agli attrezzi da lavoro, masserizie, cibo. A far da contraltare a questo mezzo antico, automobili di grossa cilindrata (Bmw, Mercedes, Volkswagen) che, soprattutto in alcune aree agricole e modeste, sono di grande contrasto.

Tutto questo abbiamo visto attraversando la Romania da Ovest a Est, nel territorio della Transilvania. Difficile dire quale sia veramente la realtà non avendo potuto fermarsi e stare un poco con le persone. L’idea che mi sono fatta, attraverso quanto ho registrato con il solo senso della vista, è che si tratti di un paese che porta ancora in sé i segni di un passato legato all’ex Unione Sovietica ma con uno sguardo rivolto al mondo occidentale, all’Europa di cui fa parte e di cui forse vorrebbe tenere il passo.

Arrivati a Iași, ad attenderci abbiamo trovato suor Betty della congregazione delle Suore della Provvidenza di Adjudeni (Romania) che ci avrebbe accompagnati nella Repubblica di Moldavia e aiutato nell’attraversamento delle dogane rumene e moldave.

Al mattino, con i pulmini carichi, ci siamo avviati per percorrere l’ultimo tratto di strada verso la Casa della Provvidenza di Chisinau, il centro pastorale della diocesi dove trovano ospitalità molti profughi ucraini, spesso di passaggio per raggiungere altre mete europee dove si trovano parenti e amici.

Donne e bambini protestano contro la Russia davanti al Teatro nazionale dell’Opera e del balletto di Chişinǎu, tenendo in mano cartelli e giocattoli insanguinati (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Burocrazia e panico da dogana

Alla dogana rumena non abbiamo avuto nessuna difficoltà. La cosa non è stata altrettanto facile alla dogana moldava. Nonostante tutti i nostri documenti preparati in Italia e in repubblica di Moldavia dalle suore, i quali riportavano la proprietà dei pulmini, l’elenco delle merci, la destinazione, la motivazione (aiuti umanitari), siamo stati bloccati per un modulo sul quale mancava la firma di una funzionaria moldava.

Abbiamo atteso qualche ora perché le suore potessero recarsi all’ufficio, raccogliere la firma, inviare il documento alla dogana e a suor Betty che ha dovuto trovare il modo di stamparlo e consegnarlo.

Abbiamo vissuto altri momenti di panico quando ci hanno informati che avrebbero apposto i sigilli a uno dei pulmini. Poi, fortunatamente, ci hanno ripensato (chissà – ho pensato – forse grazie alla Provvidenza) e siamo potuti ripartire. Poco dopo il nostro arrivo, alla dogana moldava è arrivato un pullman francese carico di aiuti e con una decina di accompagnatori. Anche loro si sono trovati ad affrontare la burocrazia della frontiera, ma hanno avuto meno fortuna visto che li abbiamo incontrati la sera tardi che uscivano dalla dogana moldava mentre noi eravamo già sulla strada del ritorno verso Iași.

Suor Betty ci ha spiegato che alla frontiera sono diventati molto pignoli da quando c’è un grande passaggio di profughi ucraini. Sappiamo infatti di altri che sono stati trattenuti ore ed ore con controlli accuratissimi. Senza voler giudicare o criticare le leggi e le procedure degli altri paesi, mi chiedo se – in una situazione di simile emergenza e nel momento in cui si è in possesso di documenti idonei – non si possano snellire gli iter burocratici per evitare di intasare le dogane con file interminabili e tempi infiniti di attesa, anche da parte di persone che provengono da situazioni di guerra e che, quindi, hanno già sulle spalle grandi preoccupazioni e ansie.

L’8 marzo, giorno della festa della mamma, madri e nonne ucraine ricevono un fiore dalle suore del centro. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Finalmente alla meta

Dopo più di due giorni di viaggio, abbiamo raggiunto la nostra meta. Ultimo scoglio: gli uffici doganali in città che dovevano dare il nullaosta per scaricare la merce. Ancora tempi di attesa, toccati a suor Betty e Sandro.

L’accoglienza di suor Rosetta e delle altre suore è stata davvero speciale, come sempre mi è capitato di sperimentare nelle mie visite ai missionari trentini.

Siamo arrivati quando i bambini dell’asilo, una delle due attività normali del centro, stavano giocando in cortile, come pure alcuni dei bambini ucraini ospiti.

Suor Rosetta ci ha raccontato che erano presenti una novantina di profughi. Dieci erano di etnia Rom, arrivati la sera prima con una bambina di 15 giorni. Sono per la maggior parte nonne e mamme con bambini. Arrivano accompagnati dalla polizia o in auto, in autonomia, a seguito del passaparola di coloro che ci sono già passati e che consigliano a parenti e amici di recarsi dalle suore, dove si può trovare un’accoglienza attenta e cordiale.

Fuggire in pigiama

Il centro pastorale, che ha anche un seminario, sorge in una zona nuova della città di Chisinau. Quando è stato costruito era in campagna, ora è attorniato da negozi e supermercati, palazzi di nuova costruzione dove risiedono giovani coppie che hanno anche delle possibilità economiche, spesso anche grazie alle rimesse di nonne che si trovano in Europa ad assistere gli anziani come badanti. Le attività ordinarie delle suore sono la gestione di un asilo con 120 bambini e una mensa per persone anziane indigenti, attività che continuano anche in questo momento. Ci hanno parlato della solidarietà dimostrata dai genitori dei bambini che si sono attivati per raccogliere cibo e indumenti per gli ospiti ucraini.

Le due strutture che compongono il centro sono state trasformate per poter dare ospitalità a un massimo di 120 persone. Ogni stanza, salone, corridoio, è stato attrezzato con letti, che sono stati sistemati anche nella cappella. I seminaristi presenti sono stati trasferiti in un’altra struttura della diocesi per far posto ai profughi. Le suore con i loro collaboratori hanno spostato mobili, montato letti, preparato biancheria. Ogni volta che arriva un gruppo di persone si mettono in moto per sistemarlo nel miglior modo possibile. Ci sono giorni in cui si registrano arrivi fino a tarda ora. Chiunque bussi alla porta trova suor Rosetta, suor Juliana, suor Michela con un sorriso e un gesto di affetto nei suoi confronti. Alcuni sono arrivati in auto, in pigiama, perché fuggiti in fretta e furia, lasciando tutto. Molte delle donne con i figli sono state accompagnate al confine dai mariti e dai padri che poi sono tornati indietro per cercare di difendere le loro città e il loro paese.

Piccoli, grandi gesti

Suor Juliana, Luisa Legari e Tatiana Brusco, autrice di questo diario, scaricano gli aiuti da un furgoncino. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Una signora, sentendoci parlare italiano, si è avvicinata mentre stavamo scaricando i pulmini e ci ha ringraziati per l’aiuto portato alla sua gente. In quel momento come ora, mentre ne sto scrivendo, mi salgono le lacrime agli occhi, perché il nostro sembrava davvero un piccolo gesto davanti all’enormità della tragedia che tutti loro stanno vivendo.

Ci ha raccontato che era in attesa del permesso per recarsi con il figlio in Germania per raggiungere la madre che si trovava là per cure e che chissà quando sarebbe potuta tornare a casa. Questo breve incontro mi ha fatto comprendere come sia importante l’esserci, il poter dare anche un piccolo segno di solidarietà con la presenza, come e anche più dei molti aiuti che si possono portare. Questo è quanto le suore e le persone che operano al centro stanno dimostrando in questo momento, non risparmiandosi e non contando le ore di lavoro e trovando sempre un gesto di attenzione speciale per ognuno. Come è accaduto l’8 marzo, giorno della Festa della Mamma nella repubblica di Moldavia: le suore hanno donato a tutte le mamme e nonne un tulipano giallo e un piccolo dolce. Forse non era la cosa più importante festeggiare le mamme in quel momento, ma ha fatto sentire tutte loro amate e considerate e non solo persone da aiutare.

Questo è quanto abbiamo sperimentato anche noi: malgrado la stanchezza, i pensieri e le preoccupazioni che vivono ogni giorno, le suore sono state davvero contente di vederci e di passare assieme alcune ore, offrendoci un pranzo tradizionale moldavo, con un immancabile tocco trentino rappresentato da un’ottima torta di mele.

Con la valigia pronta

Anche il popolo moldavo sta dimostrando una grande solidarietà accogliendo nelle proprie case i profughi e attivandosi per dar loro aiuto. Una parte dei moldavi vive nella paura che possa succedere qualcosa anche al loro paese. In molti hanno una valigia pronta e qualche risparmio da parte per essere pronti a partire in qualsiasi momento.

Tatiana Brusco

Una mappa della Moldavia con evidenziate le regioni contese con la Russia: la Transnistria e la Gaugazia. Illustrazione di Stratfor (2014).

Moldavia, incubo Transnistria

  • Superficie: 34mila Km2;
  • Popolazione: 3,9 milioni;
  • Capitale: Chişinău, con circa 800mila abitanti;
  • Sistema politico: repubblica parlamentare;
  • Presidente: Maia Sandu, in carica dal 20 dicembre 2020; prima donna moldava alla presidenza, la Sandu è una filo europea, al contrario del suo predecessore Igor Dodon, filo russo;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; aprile 2022, alcuni attentati in Transnistria, «stato» legato alla Russia, avvertono che la guerra può toccare anche questa regione;
  • Principali gruppi demografici: moldavi 70%, ucraini 11%, russi 9%;
  • Religioni principali: ortodossi 93%; gli ortodossi fanno capo alla Chiesa ortodossa moldava legata al patriarcato di Mosca guidata da Kirill, mentre una parte più piccola di essi fanno riferimento alla Chiesa ortodossa rumena;
  • Economia: principalmente rurale e agricola, la Moldavia è considerata il più povero tra i paesi europei; lo scorso 4 marzo, la presidente Maia Sandu ha presentato domanda di adesione
    all’Unione europea;
  • Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
  • Regioni contese: la regione moldava della Transnistria è uno stato indipendente de facto, sotto tutela di Mosca; anche la regione autonoma della Gagauzia chiede l’indipendenza dalla Moldavia; si tratta di una situazione simile a quella del Donbass e della Crimea in Ucraina, tanto che un progetto di Mosca prevederebbe la formazione di un corridoio dai territori ucraini conquistati fino alla Transnistria;
  • Profughi ucraini: 453.848 persone entrate nel paese dallo scoppio della guerra (dati Unhcr al 6 maggio 2022);
  • Moldavi in Italia: 122.667 pari al 2,4% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti moldavi in Italia la maggior parte è occupata nei servizi alla persona (colf e badanti).

(a cura di Paolo Moiola)

Guerra russa e Chiesa ortodossa

La croce e il Cremlino

Le immagini di Vladimir Putin alla messa della Pasqua ortodossa – lo scorso 24 aprile – sono subito state diffuse da Sputnik, l’agenzia di stampa del Cremlino operante in tutto il mondo. Il presidente e novello zar russo è stato immortalato con una candela in mano e mentre si fa il segno della croce. Il tutto si è svolto a Mosca, nella cattedrale di Cristo Salvatore, a poca distanza dal Cremlino.

A officiare la cerimonia pasquale non poteva che essere il patriarca Kirill, dal 2009 primate della Chiesa ortodossa russa. Dopo le sue scandalose omelie in favore della «operazione militare speciale» in Ucraina, in quella occasione il patriarca si è limitato a parole di circostanza.

Nelle sue invettive contro l’Occidente e i suoi vizi, il fustigatore Kirill evita sempre ogni possibile riferimento alla propria persona. Come il sodale Putin, il patriarca ha infatti un passato da agente del Kgb a Ginevra, quando lavorava per il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Come Putin (anche se non ai suoi irraggiungibili livelli), il patriarca ha accumulato ingenti ricchezze personali (famosa la foto del 2009 con un orologio Breguet da trentamila dollari al polso). Proprio come avvenuto con il presidente, in Russia, pochi hanno osato opporsi al bellicismo del patriarca, anche per non incorrere nelle pesanti «attenzioni» della polizia. Come dimostrano le vicende di padre Ioann Burdin (50 anni) e padre Georgy Edelshtein (89), perseguiti per aver parlato contro la guerra in Ucraina.

È proprio in quel paese che il patriarca Kirill ha subito lo smacco più importante: lo scisma del 2018. Nel suo libro La croce e il Cremlino, il professor Thomas Bremer spiega che la storia della Chiesa russa inizia a Kiev nel X secolo. «Le tensioni politiche che emergono talvolta (il libro è del 2007, ndr) tra Russia e Ucraina si comprendono a partire da questa radice storica: per alcuni russi è difficile accettare che Kiev, la “madre delle città russe” e la culla dell’Ortodossia russa, oggi sia terra straniera».

Secondo un altro professore, il francese Antoine Nivière, autore de Gli ortodossi russi (2018), da quando ha raggiunto il più alto grado della gerarchia, Kirill si è radicalizzato, adottando come Putin la teoria dello «scontro di civiltà».

Proprio in questo mese di giugno, papa Francesco avrebbe dovuto incontrare il patriarca Kirill a Gerusalemme. Appuntamento poi sospeso a causa del conflitto. Nel febbraio del 2016, Francesco e Kirill si erano visti a L’Avana, primo ed unico incontro tra leader della Chiesa cattolica e di quella ortodossa russa.

Paolo Moiola

8174121 24.04.2022 Russian President Vladimir Putin attends the Easter service at the Christ The Saviour Cathedral in Moscow, Russia. Sergey Fadeichev / POOL (Photo by Sergey Fadeichev / POOL / Sputnik via AFP)

Archivio MC

 

 




Moldavia: Il riscatto passa per il ballo

Testo e foto di LUCA SALVATORE PISTONE |


La Moldavia, ex repubblica dell’Unione Sovietica, è considerata il paese più povero d’Europa. Con 3,5 milioni di abitanti su una superficie pari a quella di due regioni italiane, si sta svuotando: molti sono coloro che migrano all’estero e il paese vive di rimesse. Qui la danza è un’eccellenza, e molti giovani cercano di diventare ballerini e ballerine professionisti.

Il Collegio nazionale di coreografia di Chişinău, la capitale, è uno dei grandi motivi di orgoglio della Moldavia, il paese più povero d’Europa. Da questo istituto sono usciti ballerini che hanno calcato i più prestigiosi palcoscenici mondiali.
Le famiglie degli studenti fanno enormi sacrifici per coprire parte delle spese dei corsi. Puntano molto sui propri ragazzi, nella speranza che questi abbiano successo all’estero e che possano contribuire economicamente al loro sostentamento.

«La nostra scuola – spiega Eugen Gîrnet, da oltre vent’anni il direttore artistico del Collegio – ha un’antica tradizione, simile a quella delle altre ex repubbliche sovietiche. Siamo nati nel 1952 e da allora abbiamo formato più di 300 ballerini professionisti di danza classica e danza tradizionale moldava. Molti di loro, oltre ad aver partecipato ad autorevoli concorsi internazionali, sono stati primi ballerini in famose compagnie. Vienna, Berlino, Praga, Mosca e San Pietroburgo, solo per fare qualche esempio».

Un ballerino in casa

Il Collegio nazionale di coreografia si trova nella trafficata via Mihai Eminescu, nel pieno centro della capitale Chişinău. Un edificio spartano, in perfetto stile sovietico, in buone condizioni. L’istituto dipende direttamente dal ministero della Cultura, che provvede al pagamento delle rette degli allievi. Il percorso di studi ha di norma una durata di otto anni e copre la fascia di età dieci-diciotto anni. Una decina di studenti, tra ragazzi e ragazze, vengono ammessi annualmente al Collegio tramite audizione.

«Svetlana! Alza di più quella gamba. Quante volte te lo devo ripetere? Allora non hai imparato proprio nulla?». L’insegnante Veronika è severissima. Nessuna delle aspiranti ballerine professioniste osa fiatare durante la lezione. Sono tutte molto attente alle sue parole e sfuggono le sue occhiatacce. Si guardano al grande specchio di fronte a loro per vedere se stanno facendo i giusti movimenti alla sbarra.

In un angolo della palestra c’è un vecchio pianoforte con il quale un’anziana musicista russa, elegantissima col suo chignon alto, accompagna ogni passo di danza. Oggi il repertorio prevede Vivaldi, Mozart e Beethoven. Anna, questo il suo nome, sbuffa sommessamente quando Veronika le fa cenno di interrompere la musica per rimproverare le sue allieve. E, ancora di più, quando l’insegnante fa provare dei passi di danza moderna inserendo nello stereo un cd della cantante Beyoncé.

Eugen, il direttore, non distoglie mai lo sguardo dalla sbarra. Con una mano davanti alla bocca, parla a bassissima voce per non disturbare la lezione: «I moldavi amano molto il balletto. Anche se lo stato continua a tagliarci i fondi, lavoriamo sempre duramente e con dedizione perché svolgiamo la professione più nobile che c’è. Una volta avere in famiglia una ballerina o un ballerino era un grande onore, oltre che un modo per uscire dalla miseria. Per alcuni genitori è ancora così, ma per molti altri no. Per i propri figli preferiscono carriere più sicure come quella del medico, dell’ingegnere o dell’avvocato. Professioni che è meglio esercitare all’estero».

Fanalino di coda

Con un Pil pro capite nominale inferiore ai 2mila euro all’anno, la Moldavia si afferma come il paese più povero d’Europa. Ancora lontana dall’ingresso nell’Unione europea, questa ex repubblica dell’Unione Sovietica di appena 3,5 milioni di abitanti si sta svuotando: poco meno della metà della sua popolazione risiede infatti all’estero. In Europa occidentale, professioni umili come muratore, bracciante agricolo e, in particolar modo, badante, rendono molto di più di professioni qualificate in patria.

Sono l’Italia, la Spagna e il Portogallo le principali mete dei migranti moldavi. Tutti paesi che fino a dieci anni fa si potevano raggiungere solo se muniti di visto. Poi, con l’ingresso della Romania nell’Ue, i numerosi moldavi con origini rumene hanno cominciato a chiedere la doppia cittadinanza per usufruire dei vantaggi di un passaporto comunitario.

I mezzi di trasporto, invece, rimangono sempre gli stessi: pullmini malconci da dodici posti, spesso senza finestrini, che in due o tre di giorni no stop arrivano a destinazione. Molto contenuto il prezzo del biglietto: intorno ai 40 euro la sola andata per Milano; 55 euro per Madrid; 80 euro per Lisbona.

Un’economia di rimesse

«È del tutto comprensibile che la gente se ne vada dalla Moldavia», aggiunge Eugen. «Qui lo stipendio mensile di un funzionario pubblico con la laurea è di circa 150 euro. Un pensionato, quando gli va bene, riceve mediamente poco più di 50 euro.

Il problema grosso è che il costo della vita è quasi pari a quello dell’Europa dell’Ovest. Gli elettrodomestici, gli affitti, fare la spesa, la benzina. Tutto è carissimo. Fuori dalla Moldavia se lavori in nero o in regola puoi guadagnare dagli 800 ai 1.500 euro al mese. Buona parte di quello che intaschi lo mandi a casa per mantenere la tua famiglia. Senza le rimesse degli emigrati la Moldavia morirebbe di fame. Più di quanto già non accada».

Ricerca di nuovi talenti

Eugen, ex ballerino che in gioventù si è esibito in mezza Europa (anche in Italia, a Catania e Firenze), si vanta di avere un grande fiuto nello scovare talenti. Ogni estate, prima che le audizioni per accedere al Collegio nazionale di coreografia abbiano inizio, gira per tutto il paese a caccia di nuove promesse. Sei anni fa, nel villaggio di Trusheni, a 20 chilometri da Chişinău, incontrò Mihaela Buruiana, che all’epoca aveva dieci anni. Slanciata, gambe lunghe e caviglie fini. Il fisico di una ballerina. Le lasciò l’indirizzo della scuola. Perché non tentare un’audizione?

«Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Un signore gentile, dalla faccia buona, lasciò dei volantini all’ingresso della mia scuola. Era il direttore Eugen». Mihaela si esprime con un’eleganza pari a quella mostrata alla sbarra. «Non avevo mai mosso un passo di danza prima né la cosa mi aveva mai interessato più di tanto. Però poi mi immaginai con ai piedi le scarpette da ballerina e la sola idea mi rese felice. Tornai a casa e ne parlai con mia madre. Mi vide molto entusiasta e accettò di portarmi qui al Collegio per un provino. L’insegnante testò la mia muscolatura e disse che avevo le giuste caratteristiche per studiare danza classica e, chissà, diventare un giorno una ballerina professionista. All’inizio fu molto dura perché ero indietro rispetto alle mie compagne di corso, ma in breve tempo riuscii a recuperare e a mettermi al loro livello».

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La famiglia di Mihaela

Un’ora per andare e una per tornare. È quanto impiega Mihaela per raggiungere il Collegio dal suo villaggio e per ritornare a bordo di un autobus sempre affollato. A Trusheni, poche vie male asfaltate, la ragazza vive con la madre Elena e con il padre Anatoly in una modesta villetta su un solo piano. Anatoly è da poco tornato in patria dopo aver fatto per ventidue anni l’operaio in una fabbrica di ferro in Russia. Elena, casalinga, coltiva nell’orticello di casa poche verdure che tenta di vendere ogni mattina nella piazzetta di Trusheni. Il fratello maggiore di Mihaela fa il muratore in Portogallo e, quando può, manda qualche soldo ai genitori.

L’ospitalità della famiglia Buruiana è a dir poco squisita. Anatoly fa diverse capatine in cantina dalla quale rispunta con ogni genere di alimento sotto aceto preparato con le sue mani. Dai classici cetrioli, alle acciughe, passando per le pesche e l’anguria. E vino e brandy, sempre di sua produzione. Mostra pure un paio di cincillà, di cui ha un piccolo allevamento nel retro della casa. «Con queste bestiole ci ha confezionato una bella e calda pelliccia per me. La prossima è per Mihaela», interviene la moglie.

«A Mosca – racconta Anatoly – avevo un buon lavoro. Ma per i gravi problemi di salute di mia suocera ho dovuto fare ritorno in Moldavia. Ora lavoro in una piccola fabbrica di mattoni: faccio un turno di 24 ore consecutive e poi riposo per tre giorni. La paga è bassissima ma non ho trovato di meglio. Approfitto del tempo libero per prendermi cura delle altre bestie. Sapete, ho anche diversi polli ruspanti… Almeno un giorno a settimana vado a Chişinău a vedere la mia bambina che si allena. La osservo da una finestra perché non voglio che si distragga e ogni volta mi commuovo. È bravissima».

I fondi che non ci sono

Anatoly ed Elena sono molto orgogliosi della loro figlia. La ragazza ha già vinto un’importante competizione in Romania ed è stata la sola moldava a partecipare a un rinomato concorso a San Pietroburgo alcuni mesi fa. «Il Collegio – chiarisce Elena – è gratuito ma se uno studente vuole prendere parte a questi appuntamenti deve pagarseli da solo. Quasi tutti i nostri risparmi sono destinati ai viaggi di Mihaela, crediamo molto in lei. Purtroppo recentemente mia madre è mancata e abbiamo dovuto anche chiedere un prestito in banca per il funerale. Adesso non abbiamo soldi a sufficienza per coprire le spese di un’altra gara che si terrà tra non molto in Spagna».

Dalla sua stanza da letto, mentre fa i compiti, Mihaela sente tutto ciò che dicono Elena e Anatoly. Confida di essere molto grata ai genitori per i sacrifici che ogni giorno fanno per lei e che non perderà mai la speranza di diventare una ballerina di fama mondiale. «Per me il balletto è un’opportunità per vivere una vita migliore. Grazie al duro lavoro ho imparato ad avere molta più fiducia in me stessa. Col balletto sono cresciuta, ora capisco che la vita è piena di sfide da affrontare. Arriverà il mio momento, ne sono certa. E potrò ricambiare quanto la mia famiglia fa per me».

Luca Salvatore Pistone


ARCHIVIO MC

MC ha pubblicato un servizio approfondito sulla Moldavia nell’ottobre 2014: Danilo Elia, I sogni europei di Chişinău,
e un altro sulla Transnistria, la regione separatista, nel luglio 2014: Danilo Elia, Lenin abita a Tiraspol.




i sogni europei di Chişinău



Ai confini dell’Europa (2): la Moldavia


Indipendente dal 1991, la Moldavia è il paese più povero d’Europa. Un terzo della sua popolazione vive all’estero. In Italia i moldavi sono 150 mila. Lo scorso giugno il paese ha salutato con entusiasmo l’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Ma la strada per uscire dalla condizione attuale è ancora lunga e complessa.

Alle spalle del bulvardul Ştefan cel Mare, il viale principale della capitale, c’è il mercato. Tutto il groviglio di strade qui intorno è un bazar all’aperto. Ma, rispetto ai bazar orientali, non ha nulla di caratteristico. Polvere e confusione, marciapiedi rotti e fustini di detersivi colorati, merce scadente proveniente dalla Cina e quarti di bue poggiati sui grossi banchi di cemento. E in mezzo la gente, i moldavi, che brulicano attorno alle masserizie tutti i giorni dell’anno, tanto ai 40 gradi d’agosto quanto ai meno 20 di febbraio, pur di risparmiare qualche leu. Perché qui la roba arriva dalle campagne, o dai furgoni che di notte passano la frontiera con l’Ucraina, e costa meno che nei negozi.
Sorina viene al bazar a comprare i suoi vestiti, ma non le piace che si sappia: non è chic. «Ogni tanto vado a fare una passeggiata nel Mall Dova, ma lì di fare shopping non se ne parla con uno stipendio normale». Il centro commerciale Mall Dova gioca con le parole. È l’unico vero mall di tipo occidentale in tutta la Moldavia, ma senza le code alle casse e la ressa per i saldi. L’edificio in vetro e cemento si staglia tra le strade fangose. Le insegne dei marchi globali pendono silenziose sul marmo lucido della galleria e i commessi non si ammazzano certo dal lavoro. Sorina ha studiato in Italia, e un giorno vorrebbe tornarci per viverci. «Allora, quando avrò i soldi, mi comprerò un sacco di vestiti italiani». Come molti moldavi della classe media, vuole scrollarsi di dosso quell’alone di miseria che circonda il suo paese, e lo fa con un paio di jeans di marca o una borsetta. Non fa niente se vengono dal mercato.
Chişinău è la vetrina della Moldavia, in tutti i sensi. Qui vedi parcheggiare i grossi Hammer extralusso davanti alle boutique di Gucci e Prada, ma anche la povera gente delle periferie e delle campagne con una busta lisa in una mano mentre cerca di mettere insieme il pranzo con la cena.

In fuga da Mosca

La Moldavia è il paese più povero d’Europa, ma è anche quello tra i paesi del partenariato orientale ad aver fatto i progressi più rapidi per arrivare alla firma dell’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Partita in forte svantaggio rispetto ad altri paesi come l’Ucraina, la Moldavia è riuscita ad arrivare alla fatidica firma lo scorso giugno. Non è certo come essere entrata nell’Ue, obiettivo quanto mai lontano, ma la firma è stata salutata a Chişinău con uno sventolio di bandiere blu, a sottolineare la voglia di Europa dei suoi abitanti. Non è una cosa scontata. La Moldavia è un paese giovane, indipendente dal 1991, fortemente condizionato da un pesante passato di repubblica socialista sovietica e da una cospicua componente etnica russa e ucraina. Durante la travagliata conquista dell’indipendenza, nel momento in cui l’Urss si scioglieva in 15 nuovi stati, la Moldavia perdeva una fetta del proprio territorio – la Transnistria (MC luglio 2014, ndr) – abitata in prevalenza da russi e ucraini, mentre ancora oggi nella meridionale Găgăuzia – regione autonoma abitata dai găgăuzi, una popolazione di origine turca – si fanno sentire spinte secessioniste, accentuate proprio dal recente avvicinamento all’Europa. Ucraini e bessarabi, ebrei e lipovani (ortodossi russi scismatici, ndr), russi e romeni, turchi e tatari, găgăuzi e mongoli hanno calpestato questa terra: la Moldavia è un gilgul (ciclo, groviglio) di anime che vortica nella steppa.
Parte della storica Bessarabia, che condivide con le vicine Romania e Ucraina attorno al delta del Danubio, fu abitata dai Daci sin dall’antichità, prima di entrare sotto il controllo romano e poi dell’Impero bizantino. La Moldavia è sempre stata un crocevia delle rotte verso l’Asia e il suo territorio è stato attraversato dalle ondate dell’espansione delle tribù orientali – mongoli, tatari di Crimea, turchi – per tutto il Medioevo. Conobbe il suo periodo di massima espansione nel XVI secolo sotto il regno di Ştefan cel Mare, Stefano il Grande, l’eroe nazionale a cui sono intitolate strade e piazze in tutto il paese. La Moldavia ha avuto una storia recente travagliata con ripetute unioni e separazioni dalla Romania, cui l’accomunano le tradizioni e la lingua neolatina, fino a divenire una repubblica dell’Urss e infine l’attuale stato indipendente dopo la dissoluzione sovietica. È stato allora che le province a maggioranza russa e ucraina al di là del fiume Nistru hanno dichiarato l’autonomia della Transnistria. Ne è seguito un conflitto tuttora congelato e che ha lasciato la situazione immutata dal 1992.
Con la firma dell’Accordo di associazione, la Moldavia ha compiuto una scelta di campo. Chişinău ha voltato le spalle alla Russia e alla sua Unione economica eurasiatica, chiudendo definitivamente il capitolo del proprio passato sovietico, e ha intrapreso un lungo percorso di avvicinamento economico e politico all’Europa. L’entusiasmo con cui la Moldavia ha compiuto questo passo è stato testimoniato dalla stupefacente rapidità con cui il parlamento ha ratificato l’accordo: soltanto tre giorni. Gli effetti si possono già vedere. I cittadini moldavi possono finalmente viaggiare all’interno dell’area Schengen senza bisogno di alcun visto (per massimo 90 giorni e non per motivi di lavoro, ndr). È un risultato importante per chi ha un parente che lavora in Europa, vale a dire per almeno un terzo dei moldavi, ma anche una grande prova del soft power europeo sui paesi del Partenariato orientale.

Emigrazione e rimesse

Il sabato sera a Chişinău c’è lo struscio. Il bulvardul è affollato di giovani che ciondolano tra il McDonald’s e il parco della cattedrale. Sull’immensa piazza Marii Adunări Naţionale l’enorme palazzo del Governo è un transatlantico bianco che solca un mare d’asfalto. Nei tempi sovietici era usata per le magniloquenti parate militari. Oggi ci pensano i ragazzi in skateboard a renderla più vivace e colorata. Cezar beve da una bottiglia di birra vicino a un chiosco e aspetta che si faccia l’ora di andare in discoteca. Si presenta come Cesare, in italiano. Ha vissuto alcuni anni in provincia di Verona, dove c’è una grossa comunità moldava. «Sono dovuto venire via perché non c’era più lavoro. Qui, però, è ancora peggio. La gente scappa, il lavoro è poco e pagato una miseria. Forse tornerò in Italia» (dove i moldavi sono 150 mila, ndr). Si calcola che quasi due milioni di moldavi abbiano lasciato il paese in cerca di un vita migliore. Su una popolazione residente di quasi quattro milioni di abitanti significa che un terzo dei moldavi vive all’estero. È una percentuale enorme, che lecitamente fa parlare di tragedia dell’emigrazione, un’emorragia che prosciuga il paese delle sue risorse migliori. D’altro canto però, le rimesse dei migranti sono la prima fonte di ricchezza nazionale, contando per circa il 40% del Pil.
Anche se Chişinău non è una città facile, è il posto migliore del paese per chi ha le carte giuste da giocare. Nella vicina boulange Crème de la crème non c’è da sgomitare per trovare un tavolo libero, ma non si può dire che manchino i clienti. C’è una sorta di selezione naturale, ed è la colonna di destra del menù a farla. Il tipo che gli si adatta parcheggia il Suv sul marciapiede proprio davanti all’entrata, indossa vestiti italiani e ha una serie completa di gadget elettronici con una mela luminosa sul dorso. Il locale non poteva avere un nome più appropriato.
Al calare del sole, ragazze su tacchi vertiginosi scendono lungo il viale come trampolieri aggraziati, mentre una limousine lunga e bianca come un panfilo passa con una musica tanto alto che i bassi fanno tremare i vetri. Cesare guarda di sottecchi e tira un altro sorso di birra. «Ai moldavi piace apparire. Siamo un po’ tutti squattrinati, ma se guardi quelle ragazze sono tutte firmate dalla testa ai piedi. Qui a Chişinău sembra che la gente se la passi bene, ma basta andare fuori città per rendersi conto di com’è messa la Moldavia». La distanza tra la capitale e il resto del paese è siderale. La vita notturna di Chişinău può competere con quella di qualsiasi capitale europea, ma la vita della maggior parte dei moldavi è ben lontana dai fumi e dai laser delle piste da ballo.

Ortodossi contro ebrei

Il sabato non è solo il giorno dello struscio e delle discoteche. Nella sinagoga di strada Habad Liubavici ci si prepara a festeggiare la fine dello Shabbat. Agli inizi del Novecento si contavano una settantina di sinagoghe e una dozzina di scuole ebraiche. Ed erano sempre piene. All’incirca metà degli abitanti di Chişinău erano ebrei, il calendario delle festività ebraiche cadenzava la vita della città e l’yiddish era la seconda lingua dopo il rumeno. Non poteva durare. L’onda d’urto dell’antisemitismo moderno stava accumulando la sua tensione in tutta la Russia zarista, alimentata dalla pubblicazione dei falsi «Protocolli dei savi di Sion» (in cui si parlava di una cospirazione ebraica, ndr). Lo tsunami d’odio si abbatté, con una veemenza mai vista prima, su Chişinău nel 1903, con il primo grande pogrom del Novecento, e poi di nuovo nel 1905. La macchina del male assoluto s’era messa in moto, e non si sarebbe più fermata. È qui che ha avuto inizio il secolo della Shoah.
Rabbi Avrhom è un omone largo e robusto come una credenza in noce. Indossa un pesante pastrano nero di foggia ottocentesca e lo shtreimel, il tradizionale colbacco degli ebrei ashkenaziti. Sembra che porti un pastore tedesco acciambellato sulla testa. «La vita qui non è facile per nessuno, nemmeno per noi. La gente deve trovare il modo di vivere, alla giornata. La povertà a volte è un terreno fertile per l’intolleranza». Qualche anno fa l’amministrazione cittadina aveva acconsentito a erigere un grosso hanukkiah – un candelabro (menorah) a nove braccia usato nei riti Chabad – in pieno centro città. Ma per i fedeli ortodossi si trattò di un affronto alla Moldavia cristiana. Un corteo sfilò per le vie del centro cantando inni sacri e sventolavano striscioni che inneggiavano a Cristo. Il prete che lo guidava tirò giù l’hanukkiah a colpi di martello e al suo posto piantò una croce. I pezzi furono poi posati ai piedi della vicina statua di Stefano il Grande che, disse il prete, aveva «difeso la patria da tutti i tipi di giudei». Il fatto è che la coesistenza di religioni diverse è ancora oggi tutt’altro che scontata. E, benché le autorità si siano affrettate a rimettere a posto l’hanukkiah, gli episodi di antisemitismo non si contano e non passa giorno che dalla facciata della sinagoga si debbano cancellare svastiche e simboli delle SS.

La vita fuori da Chişinău

La R1 è disseminata di buche. Eppure è una delle strade principali che portano dalla capitale al confine con la Romania. Uscire da Chişinău e dai suoi grandi viali ortogonali è come fare un salto in un’Europa che non c’è più. Un’Europa rurale di carri trainati dai cavalli e contadini a piedi con la vanga in spalla, e dove i covoni di paglia non sono ancora stati sostituiti dalle rotoballe. Vasile è seduto coi piedi ben puntati al pavimento e si regge alla maniglia del furgoncino stipato di persone. Su queste strade si balla. Suo fratello è in Italia, fa il badante. «Adesso che si può, voglio andare anche io a Milano per dargli una mano, e magari trovare anch’io qualcuno che ha bisogno di me». Intanto oggi va in pellegrinaggio al monastero di Căpriana per chiedere una grazia per la sua anziana madre. Non ci si pensa mai abbastanza, ma ogni badante che viene ad accudire i nostri vecchi lascia qualcuno qui di cui nessuno si prende cura. Per Vasile e suo fratello è una mamma malata.
Il monastero è a un’ora da Chişinău. È un luogo sacro dal XV secolo, ma oggi è anche la meta preferita per le gite domenicali degli abitanti della capitale. Qui le giovani coppie amano venire a sposarsi nella bella stagione. Le funzioni sono finite da poco, silenzio e penombra riempiono di nuovo la navata. Vasile accende un cero, il volto della Madonna si dipana alla luce tremula. «Bisognerà che prima o poi qualcuno si prenda cura di questa nostra terra, magari saranno i nostri figli che torneranno ad abitarla», dice lasciando cadere qualche leu nella cassetta delle offerte. Il rumore risveglia per un attimo un monaco che sembrava addormentato in un angolo. Emergere nel sole accecante è come venire alla luce una seconda volta. Le spose frusciano leggere sulle scale, gli sposi si muovono impacciati negli abiti nuovi di zecca e le mamme piangono a dirotto. Insieme a loro tutto il paese guarda al futuro con occhi di speranza.

Danilo Elia

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