Nel nostro cammino di rilettura degli Atti degli Apostoli siamo giunti al colpo di scena che imprimerà agli Atti un percorso nuovo. Entra in scena Saulo di Tarso, incontrato solo di sfuggita in At 7,58; 8,1, prima della sua conversione.
Ci si potrebbe aspettare che con lui finalmente l’azione si allontani da Gerusalemme, si apra al mondo intorno. In effetti sarà così, ma con un percorso meno lineare di quanto potremmo immaginare. Da una parte, l’apertura al mondo non ebraico è già iniziata, sia pure in modo sfumato, con il battesimo di samaritani ed eunuchi (At 8), che non facevano parte del popolo ebraico e anzi erano spesso visti come persone da evitare a qualunque costo (i samaritani), ma che, agli occhi di un non ebreo, erano probabilmente difficili da distinguere. Dall’altra, il primo a battezzare un pagano sarà Pietro (At 10,48). Ma anche il racconto della conversione di Paolo non è un semplice colpo di scena: aggiunge ricchezza, profondità e raffinatezza al discorso.
Tre racconti
Per questo brano ci troviamo davanti a tre versioni del medesimo avvenimento. Sono dei «doppioni» secondo uno stile che talora si trova già nell’Antico Testamento e, più diffusamente, nei vangeli sinottici. È ben raro, però, che si trovino all’interno dello stesso libro, e quando succede è per ragioni ben precise. Saranno queste ragioni, quindi, che indagheremo, anche perché il procedere di Luca è tanto preciso e puntuale che fa sembrare strane queste ripetizioni.
Il primo racconto in cui si narra del cambiamento di Saulo è l’unico che è narrato dall’esterno, come da un osservatore, e che è posto al momento cronologico esatto in cui è accaduto (At 9). Saulo sta andando a Damasco per perseguitare i cristiani quando splende una luce, parrebbe soltanto per lui, e si sente una voce che però i compagni di viaggio di Saulo non riescono a comprendere. Diventato cieco, Paolo è accompagnato in città, dove incontra Anania, un cristiano affidabile la cui resistenza è vinta a fatica da Dio, che lo guida a guarire e lo battezza.
Il secondo racconto è al capitolo 22. Paolo (non più Saulo) è giunto a Gerusalemme per portare la colletta raccolta nelle chiese del Mediterraneo orientale, ma viene attaccato nel tempio e accusato di blasfemia, creando un tale subbuglio che la pattuglia romana interviene e lo porta via, probabilmente con l’intenzione di flagellarlo e interrogarlo. Paolo, a questo punto, si svela come personaggio cosmopolita e importante, che parla in greco al centurione e poi racconta la propria vicenda alla folla «in lingua ebraica» (At 21,40: in realtà doveva trattarsi di aramaico, ma la confusione tra le lingue era comunissima). In questa versione – narrata dallo stesso Paolo – coloro che camminano con lui vedono la luce ma non sentono la voce, e Anania sembra decisissimo nella propria missione, lo guarisce senza toccarlo e gli spiega nei dettagli ciò che compirà nella chiesa.
Il terzo racconto è al capitolo 26. Paolo, arrestato e in attesa di essere inviato a Roma, perché si è appellato alla possibilità di essere giudicato da un tribunale per cittadini romani, viene convocato quasi per svago dal procuratore Festo e parla anche davanti a Erode Agrippa II, esperto di questioni ebraiche. A lui Paolo presenta la propria vicenda con tanta passione da spingere il re alla battuta: «Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!» (At 26,28). In questo racconto pare che tutti vedano la luce, la voce che gli parla cita la scrittura (a differenza che negli altri due testi) e non c’è traccia di Anania, ma è la voce udita sulla strada per Damasco a spiegargli anche la sua missione futura.
Perché queste differenze?
Un brano ripetuto più volte serve normalmente a ribadirne l’importanza. Inoltre ripeterlo più volte può anche aiutare a suggerire al lettore quali dati siano davvero centrali. Se in un passo Paolo vede una luce e gli altri no e in un altro tutti la vedono, se in uno sentono la voce e nell’altro no, significa che questi particolari non sono decisivi. Se Anania compare in due versioni, se ne ricava che è importante ma non essenziale.
A tornare in tutti e tre i brani sono soltanto tre elementi (non sempre nella stessa forma): l’intenzione bellicosa di Paolo nell’andare verso Damasco, l’apparizione di Gesù e soprattutto la sua parola con la quale si identifica con la Chiesa, e la missione futura di Paolo.
Il primo di questi elementi può essere più immediatamente intuito anche da noi. Paolo rivendica il fatto di non essersi inventato tutto, perché, anzi, era tanto lontano dal diventare cristiano che piuttosto stava perseguitando i credenti.
Incontrare Gesù nella Chiesa
Sulla strada, però, gli accade qualcosa di straordinario. Un inciampo nel percorso, che lo costringe a fermarsi e a ripartire con un’altra consapevolezza. Al centro dell’inciampo uno sconosciuto che gli parla con voce severa: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4; 22,7; 26,14). La domanda sembra richiamare quella con cui Dio aveva chiamato un giovanissimo Samuele, ignorante di Dio ma destinato a essere un sacerdote e profeta importantissimo, che avrebbe unto re prima Saul e poi Davide (1 Sam 3,10). E il verbo «perseguitare», ripetuto anche al versetto dopo, con insistenza, potrebbe anche significare «inseguire, perseguire». Sembra quasi che Luca si diverta a dire che colui che sembrava voler cancellare dalla faccia della terra il nome cristiano, in realtà stesse faticosamente e insistentemente cercando l’incontro con Gesù.
L’antichità non indulge facilmente alle ricostruzioni psicologiche, ma pare veramente che qui Luca sia in piena sintonia con sant’Agostino che, tre secoli più tardi, scriverà la prima vera autobiografia spirituale di un cristiano spiegando in questo modo il suo tentativo di tenersi lontano da Dio: «Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha squarciato la mia sordità. Hai mandato un baleno, e il tuo splendore ha dissipato la mia cecità» (Confessioni, 10,27.38).
Per la prima volta insicuro e spiazzato, Paolo chiede alla voce di identificarsi: «Io sono Gesù, che tu perseguiti». Si potrebbe obiettare che Paolo non perseguitava Gesù: lo considerava anzi già morto. Ma il cuore dell’incontro è proprio lì: in qualche modo (in quale modo non ci importa, Luca ci invita a non fermarci sui particolari) Paolo intuisce, su quella strada, che Gesù si identifica appieno con i suoi fedeli, che è presente in mezzo a loro, in loro, e che perseguitare loro significa perseguitare lui. Ma se Gesù, dopo la morte, è presente in mezzo a loro, è dunque Signore della morte, l’ha vinta. E solo Dio può vincere la morte, non evitandola (come gli antichi immaginavano che facessero gli dèi greci) ma attraversandola.
E a questo punto il Signore che si è identificato con la sua Chiesa si ritira nuovamente, o per meglio dire, ritorna alla sua presenza più nascosta. È intervenuto in modo grandioso, «da Dio», per bloccare Saulo, ma non completa la sua opera. Dovrà essere un cristiano, vincendo anche la propria paura (At 9,13-15), ad andare da Saulo, a decidere di fidarsi di questa conversione, ad annunciargli ciò che dovrà patire e fare per Gesù, a guarirlo. E dovrà essere la comunità cristiana di Damasco, a sua volta, a dover decidere di fidarsi e poi a salvarlo facendolo scappare di nascosto dalla città e dalle insidie dei nemici che Saulo si è di nuovo suscitato (At 9,19-25). E dovrà poi essere la comunità cristiana di Gerusalemme a decidere di fidarsi di quello che un tempo la perseguitava, e un cristiano, Barnaba, a fare discernimento decidendo di introdurlo nelle riunioni dei fratelli (At 9,26-28).
Luca pare dirci che Gesù è presente nella sua comunità, si identifica con essa. E può persino decidere di assisterla in modo prodigioso, intervenendo con un miracolo stravolgente. Ma è un’eccezione, non la norma: subito dopo torna a «nascondersi», a offrirsi nella comunità, che a volte agisce in modo compatto e quasi anonimo, a volte tramite alcuni rappresentanti individuali (Anania, Barnaba), ma sempre porta avanti l’opera di Gesù, che può dire: «Io sono loro, loro sono me».
Debolezza e continuità
Forse c’è anche altro che Luca intende suggerirci con i tre, insistiti, racconti del cambiamento di mentalità di Paolo (è questo il significato più autenticamente biblico del vocabolo «conversione»).
Nel primo racconto, al cap. 9, freme strage, è incaricato dal sinedrio con lettere ufficiali ed è accompagnato da una scorta, è insomma un uomo nel pieno possesso delle proprie forze. Negli altri due, ai capitoli 22 e 26, Paolo è imprigionato ma si difende con sicurezza e orgoglio. Eppure l’incontro con Gesù lo svuota di ogni pretesa, lo lascia ammutolito e cieco, costretto a farsi prendere per mano per lasciarsi accompagnare alla meta. E poi, ancora, l’incontro con Gesù lo risanerà e gli darà la forza di riprendere a parlare e a predicare con grinta.
Ma la sua fragilità non è dimenticata per sempre: da Damasco deve scappare di nascosto, a Gerusalemme di nuovo la sua attività gli attira ostilità tali che i fratelli decidono di rispedirlo a Tarso (At 9,30). E siccome Luca ci ha già fatto intuire che la comunità cristiana non è immune da divisioni interne (At 6,1 e tutto ciò che segue), non sembra impossibile qui vedere un’attività paolina che suscita fastidio anche in alcuni cristiani, perché troppo lontana da quella politica di appianamento delle tensioni che sembra valere per i cristiani galilei che si sono fermati nella capitale, che stanno vicino al tempio, che lo frequentano ogni giorno (At 2,46; 3,3; 5,42).
Questa avversione che Paolo suscita la ritroveremo anche più avanti, quando diventerà il grande missionario delle genti. Perché Paolo è persona decisa, travolgente, che di solito non si ferma a mediare ma va diritto verso la meta che intuisce. E l’incontro con Gesù non lo cambia, semplicemente gli dà una nuova direzione.
Mentre parla della Chiesa, Luca sembra aggiungere informazioni riguardo alla vita cristiana, che è incontro personale con Gesù ma sempre comunque mediato e perfezionato dalla Chiesa, anche se le modalità sono diverse per ognuno. Un incontro nel quale la nostra identità non viene stravolta, ma semmai compiuta, perfezionata e orientata verso l’obiettivo che non rende i nostri sforzi vani. E in questo ri-orientamento siamo perfezionati e accolti come siamo veramente, nella nostra autenticità e fragilità, con le nostre doti e difetti. Fa parte di questa chiamata la capacità di sopportare anche tempi che umanamente dovremmo definire di fallimento. Saulo, ad esempio, partito per Gerusalemme a studiare per diventare un grande rabbino, dopo aver acquisito potere e autorevolezza davanti al sinedrio, era entrato nella comunità che perseguitava, ma non è riuscito a mantenere il proprio ruolo, e se ne è tornato, mortificato, nella propria patria. Sarà chiamato a grandi cose che già sono state promesse, perché Dio guarda lontano, ma nulla di tutto ciò si vede ancora. La promessa di Dio, però, non cade invano.
Angelo Fracchia
(10 – continua)
Missione a km0
Testo di Luca Lorusso
Una nuova forma di presenza della Chiesa
Abitare è annunciare
«Abitare in una parrocchia con i propri figli per un’esperienza di accoglienza, di annuncio del Vangelo, di corresponsabilità pastorale, per dare volto a una Chiesa fraterna e missionaria, per annunciare la gioia del Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona», è la frase che campeggia nella parte alta del blog delle Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano: https://famigliemissionariekm0.wordpress.com/
Sono famiglie che annunciano il Vangelo nella quotidianità e nella fraternità, abitando uno spazio ecclesiale, a volte con altre famiglie, con altri laici, a volte con sacerdoti, religiosi o religiose in una bella e feconda sinergia di vocazioni.
Il gruppo di Milano, che al momento è l’unico organizzato, conta già 27 esperienze, ma molte altre ne esistono e ne stanno nascendo in diverse diocesi della Chiesa italiana.
Quattro giovani famiglie vivono gli spazi altrimenti abbandonati della chiesa di San Grato facendo esperienza di fraternità e di servizio alla Chiesa e all’evangelizzazione. Nella semplicità della loro vita quotidiana.
L’appuntamento è per l’ultimo sabato mattina di settembre alla chiesa di San Grato, immersa nel bosco della collina torinese a Est del fiume Po. Lì, in zona Mongreno, vive una fraternità di quattro famiglie, due nella canonica e due in un’altra casa poco distante di proprietà della parrocchia. Sono otto adulti tra i 30 e i 40 anni e sette bimbi tra i 6 mesi e i 7 anni, più un altro in arrivo.
Sono tutti provenienti dal mondo dello scoutismo con un grande desiderio di mettersi a disposizione: della Chiesa e degli altri. Per questo le loro settimane sono scandite da diversi servizi pastorali e dagli appuntamenti di fraternità, oltre che dagli impegni famigliari e lavorativi comuni a chiunque.
Dopo diversi minuti di salita e di tornanti, parcheggiamo l’auto a un centinaio di metri dalla destinazione, di fronte a una piccola struttura che una volta ospitava la scuola elementare di zona, e percorriamo l’ultimo tratto a piedi. L’aria d’inizio autunno è fresca, e c’è un silenzio molto piacevole.
Arriviamo al sagrato della chiesa: un terrazzo stretto tra la facciata seicentesca dell’edificio e la vegetazione che cresce sul terreno scosceso della collina. Ci guardiamo intorno: oltre alle strutture della chiesa non si vede nient’altro che bosco. Le case dei parrocchiani che abitano qui attorno sono tutte sparse per la collina, e lungo la via ne abbiamo intuito la presenza solo dai passi carrai o dalle stradine laterali che s’infilano nel verde.
Fraternità casalinga
Alla canonica di San Grato si accede da un cancello che dà su un cortile, a lato della facciata della chiesetta. Suoniamo il campanello. Viene ad aprirci Massimiliano Grasso, Max per tutti, il più giovane tra gli adulti della fraternità: 30 anni, capelli neri, folti e ricci. Bolle di sapone sparate da una pistola verde e arancio campeggiano sulla sua maglietta nera. Ci accoglie con un sorriso e ci guida alla porta della canonica, una costruzione di due piani addossata al fianco della chiesa. Lui vive al piano terra con la moglie Sara Stilo, 31 anni, e con i loro bimbi Iago, di 2 anni, ed Elia, di 6 mesi.
Entriamo in cucina, dove Sara, capelli neri a caschetto attorno a un viso che pare giovanissimo, ci saluta mentre prepara la pappa per Elia che sorride allegro nel seggiolone. La piccola stanza, che fino a tre anni fa era una saletta parrocchiale, è semplice e accogliente: dentro ci stanno una cucina ad angolo, un divano a due posti, un tavolo per quattro. Le pareti sono organizzate con pensili e mensole carichi di tutto ciò che una giovane famiglia con bimbi piccoli deve avere a portata di mano.
«Lavoriamo tutti e otto – inizia a raccontare Sara -. Io e Serena, un membro della fraternità, lavoriamo insieme. Lei è la mia referente in una cooperativa di animatori. Facciamo attività di educazione al consumo consapevole nelle scuole. Mio marito, invece, è infermiere, ma in questo momento si sta occupando più di educazione che d’infermieristica, in una comunità di ragazzi psichiatrici. Da poco segue un bambino arrivato da un orfanotrofio russo. Avevano bisogno di una figura maschile e gli hanno chiesto se voleva occuparsene lui».
Quattro giovani famiglie
Max esce nel cortile al richiamo di due voci di bimbi, e al suo posto compare Giovanni Messina, 37 anni, che abita con la moglie Enrica Ruffa al piano di sopra. Sente che parliamo di lavoro e si presenta: «Io faccio lo sviluppatore di web e app per una cooperativa. Invece mia moglie è coordinatrice di una struttura di accoglienza della diocesi di Torino che si trova qua vicino, in strada Traforo del Pino. Segue una quarantina di rifugiati provenienti dal Moi (l’ex villaggio olimpico di Torino occupato da migranti e sgomberato a più riprese negli ultimi anni, ndr). Si occupa di tutto: dalla sistemazione ai documenti, all’italiano, alla condizione sanitaria, alle borse lavoro e alla vita ordinaria».
Mentre Giovanni parla, entra in cucina Iago, seguito da suo papà Max e dall’amichetta Cecilia, di due anni come lui. Iago porta con sé un vasino che posa a terra di fronte a noi: ha imparato da poco a usarlo ed è felice di mostrarlo a tutti.
Giovanni ci spiega che Cecilia ha un fratellino, Pietro, di sei anni, e che i suoi genitori, Stefano Picco e Chiara Gaschino, sono una delle due coppie che vivono nell’altra casa della fraternità a pochi passi da qui: Stefano ha 40 anni e fa il consulente sulla sicurezza in ambito forestale, Chiara ha 37 anni e fa la maestra. In questo momento Chiara è a casa, ma Cecilia è qui perché voleva giocare con Iago.
Nella casa dove abitano Stefano e Chiara c’è un secondo alloggio nel quale stanno Serena Andrà, 34 anni, con suo marito Claudio Aseglio, 35 anni, medico anestesista, e i loro bimbi: Agnese di 7 anni, Paolo di 5 e Francesco di 2 e mezzo. Un quarto piccolino nascerà all’inizio del prossimo anno.
Amici che si spalleggiano
Dopo averci presentato per sommi capi le famiglie della fraternità, Giovanni ci illustra anche i molti servizi che la fraternità offre per la comunità di San Grato e per l’unità pastorale nella quale San Grato è inserita: «Ci occupiamo di un’ex parrocchia di collina. Quando l’ultimo parroco è andato via, la parrocchia è stata fusa con quella di Sassi, dove don Stefano Audisio, che oggi ha quasi ottant’anni, fa i salti mortali. Il nostro incarico è essere qua, aprire e chiudere la chiesa, animare le messe domenicali: abbiamo il nostro nucleo di una decina di parrocchiani affezionati, e poi amici, altre famiglie con bambini, scout che vengono per il week end.
Ci siamo ritagliati una stanza nella casa di sotto dove vivono Chiara, Stefano, Serena e Claudio: la usiamo per i momenti di preghiera della nostra fraternità e per l’ospitalità nei fine settimana. Ospitiamo soprattutto scout per il semplice motivo che dormono per terra, oppure in tenda.
Oltre a questi servizi a San Grato, diamo una mano a don Stefano anche in altri ambiti della pastorale parrocchiale: il corso prematrimoniale, ad esempio, poi il corso per i battesimi, il catechismo, un percorso per i genitori dei bimbi del catechismo. Seguiamo anche un gruppo di giovani affiancando il don. Partecipiamo al consiglio pastorale.
I parrocchiani sono molto felici che ci siamo. Se non ci fossimo noi, probabilmente questa chiesa sarebbe chiusa e la struttura in decadenza. Il bosco si prenderebbe tutto se non ci fosse qualcuno qui.
Il punto di forza della nostra esperienza – conclude – è che siamo in quattro e ci spalleggiamo. Per le messe domenicali, ad esempio, ci alterniamo».
Storia della fraternità
Dal cortile sentiamo arrivare il suono gracchiante di un walkie talkie. È Serena che ci raggiunge con Francesco, di due anni come Iago e Cecilia. I bimbi più grandi, Agnese e Paolo, non volevano venire, e sono rimasti a casa insieme a Chiara, collegati con la mamma tramite la radiolina. La casa è appena al di là del piccolo sagrato della chiesa e di una rampa di scale in discesa tra gli alberi, forse una cinquantina di metri, ed è divertente rimanere in contatto così. Mentre Francesco si ferma in cortile con Iago, Cecilia e Max, Serena entra e ci saluta.
Serena e suo marito Claudio vivono a San Grato da sette anni, a differenza delle altre tre famiglie che sono arrivate tre anni fa. Chiediamo quindi a lei di raccontarci la storia della fraternità.
«I primi a venire a Mongreno nel 2006 sono stati Paolo e Nicoletta Leombruni. San Grato era ancora parrocchia, e don Sebastiano, che aveva ricevuto come lascito testamentario la casetta qui sotto, li ha invitati a viverci perché gli dessero una mano. Loro si occupavano di pastorale famigliare.
Quando don Sebastiano è andato in pensione e la canonica è rimasta vuota, Paolo e Nicoletta hanno chiesto a Luca e Arianna Tagliano di venire a viverci per fare un’esperienza di fraternità. Era il 2008. Entrambe le famiglie sono rimaste a Mongreno fino al 2016-17. I Leombruni avevano 4 figli più un affido. I Tagliano tre figli. Noi siamo arrivati nel 2012, dopo due anni di matrimonio, mentre aspettavo Agnese».
Quando Serena e Claudio sono arrivati, hanno introdotto alcune novità. Una di queste è stata l’apertura agli esterni del triduo pasquale fino ad allora vissuto in fraternità. Un triduo «ora et labora», lo chiama lei, cioè un’occasione di preghiera e lavoro per sistemare il verde che cresce rigoglioso attorno alla chiesa. «È stato proprio durante uno di questi tridui, nel 2016, che abbiamo conosciuto Max e Sara. Loro sono rimasti colpiti dall’esperienza, allora, dato che i Tagliano stavano per andare via, abbiamo proposto loro di venire a vivere qui. Ad agosto si sono sposati, e a gennaio 2017 si sono trasferiti».
Nel frattempo anche la famiglia Leombruni ha deciso di andare altrove, e Serena e Claudio hanno iniziato a cercare altre coppie.
«In quell’estate del 2016 – interviene Giovanni -, Serena e Claudio hanno incrociato noi e Chiara e Stefano e ci hanno fatto la proposta. Noi abbiamo iniziato a venire nei week end per vedere e, pian piano, abbiamo capito che la cosa ci interessava».
«C’è stato un attimo di défaillance – confessa Serena -, non pensavamo che tutti fossero interessati. Gli spazi erano per tre famiglie, non per quattro».
«Quindi abbiamo cercato di capire se ci saremmo stati – prosegue Giovanni -. Noi eravamo già sposati e anche Chiara e Stefano, che avevano già Pietro. Quando abbiamo deciso di venire, abbiamo iniziato i lavori qui nella canonica per ricavare un secondo alloggio e, alla fine, abbiamo traslocato durante l’estate 2017. Ovviamente, in tutto questo cammino, siamo stati sempre accompagnati da don Stefano».
Questioni pratiche (ed economiche)
Dato che si parla di ristrutturazioni e di famiglie che abitano dei luoghi che non sono di loro proprietà, chiediamo qualche delucidazione sugli accordi con la parrocchia. «Il nostro alloggio, qui sopra, è fatto di due stanze, il bagno e la cucina – spiega Giovanni -. Questo di Sara e Max ha la cucina, due stanzette piccole, la camera da letto e il bagno. Le ristrutturazioni le abbiamo pagate noi dividendoci la spesa. Il contratto è un comodato d’uso gratuito per cinque anni. A nostro carico, oltre alle ristrutturazioni, abbiamo ovviamente le spese vive, le utenze di luce, acqua, gas. Poi, ogni anno, facciamo un’offerta volontaria che corrisponde all’Imu. È come se fossimo in affitto: la spesa per le ristrutturazioni è più o meno quello che avremmo speso per un affitto di cinque anni».
Coppia, famiglia, fraternità, impegno
Essendo arrivate le 12, Serena si congeda: aveva già da tempo in programma di andare con i bimbi al picnic ecologico «Un Po meno inquinato» organizzato al parco Colletta, ai piedi della collina, da diverse associazioni, tra cui Altri Modi Ets, l’impresa sociale per cui lavora Enrica.
Anche Sara e Max andranno al picnic tra poco.
La nostra attenzione è rapita dal gorgoglio che Elia emette, quasi come una ninna nanna, in braccio a Sara. Con tutta la fatica che qualsiasi coppia fa, tra le tante gioie, per costruire l’equilibrio sempre nuovo di una giovane famiglia con bimbi piccoli, domandiamo come facciano a tenere dietro anche a tutti gli impegni legati alla fraternità.
«Effettivamente è una delle fatiche – risponde Sara -. Siamo tutti molto impegnati e, tra l’altro, ci siamo resi conto che è importante coltivare anche le relazioni tra noi famiglie. L’anno scorso abbiamo iniziato una riflessione sull’equilibrio tra fraternità, famiglia e servizio. È emerso che alcuni di noi sono qua soprattutto per l’aspetto comunitario e che il servizio dovrebbe essere nel cerchio più esterno. Prima si deve essere alleati nella coppia. Poi si allarga il cerchio ai figli, poi alla fraternità, poi al servizio. Per avere delle fondamenta forti».
Il valore aggiunto
Per lasciare che Sara e Max si preparino anche loro per il pic nic ecologico, ci spostiamo fuori con Giovanni che oggi rimarrà l’unico della fraternità a San Grato. C’è un piacevole sole autunnale che ci illumina e scalda. Nel cortiletto c’è un tavolo da esterno con le sedie.
«Qual è il valore aggiunto di questa fraternità alla vostra vita di sposi?», chiediamo. «Una cosa bella che la fraternità ci offre è quella di poter fare servizio insieme, come coppia. E poi c’è una dimensione di sogno e di condivisione che ci piace. Di bisogno di camminare con altri, di poterci confrontare».
«E quali sono, invece, le difficoltà?».
«La difficoltà dell’esperienza di fraternità è che, come succede a tutti i fratelli che vivono sotto lo stesso tetto, quando ci si passa vicini, ci si può urtare. Ci sono i momenti nei quali uno si dice, chi me l’ha fatto fare? Il fatto di essere in quattro, però, a volte aiuta, perché se c’è un momento nel quale hai bisogno di chiuderti un po’ a guscio, puoi farlo senza scompensare troppo gli equilibri.
C’è poi la fatica della trasparenza continua. Qui non c’è l’anonimato condominiale, e tutto quello che fai è conosciuto dall’altro: i tuoi orari, come decidi di rimproverare i figli, come li fai giocare, cosa gli regali… Tutto è pubblico, anche le tue fatiche con il coniuge, i litigi di coppia. È un’esperienza molto sfidante.
Poi c’è anche il vantaggio di dire: “Mio figlio mi sta facendo impazzire, te lo lascio un attimo perché se no darei di matto”. Hai una rete solida vicina».
Una chiesa incarnata
Arriva il momento di andare anche per noi. Quando ci congediamo, partiamo pensando alla spontaneità dei bimbi e dei loro genitori, colti nel mezzo della loro vita quotidiana. Il clima famigliare, la semplicità dell’accoglienza e della casa, l’andirivieni di bimbi e adulti, la pappa, il caffè preparato con un piccolo in braccio, il pic nic ecologico, ci hanno dato il sentimento di trovarci in mezzo a fratelli che condividono le cose di ogni giorno senza ansie e con molta flessibilità.
È un’immagine di Chiesa in uscita che s’incarna in un tempo e in un luogo attraverso voci e vicende personali, famigliari e comunitarie precise.
Quando abbiamo domandato a Giovanni se crede che l’esperienza di fraternità che sta vivendo abbia un suo posto nella Chiesa di oggi, ha risposto: «Io penso che sia una cosa naturale. Non la vedo come una cosa strana, di rottura. È il frutto del Concilio Vaticano II. Il ruolo del laico. La ricchezza dell’essere coppia, e dell’essere fraternità. Siamo in un tempo di costruzione, di esplorazione. È una dinamica normale, sensata».
Luca Lorusso
Casa Santa Barbara, un condominio speciale ad Alba
Il bene comune si fa insieme
Siamo andati a conoscere dal vivo l’esperienza di Emanuela e Nicola Costa: una «Famiglia missionaria a km0» che vive la fraternità e l’accoglienza in uno spazio parrocchiale assieme a due giovani volontari e a tre donne africane in difficoltà.
A guardarla da fuori è un’anonima palazzina di tre piani come se ne vedono in qualsiasi città: uno scatolone intonacato di bianco con balconi e finestre disposti simmetricamente a sinistra e a destra della scala.
Dentro, però, l’anonimato non ha spazio, perché le persone che la abitano, tutte in modo temporaneo, vivono un’interessante esperienza di fraternità, accoglienza e solidarietà, sempre con le porte aperte.
Siamo ad Alba, seconda città della provincia di Cuneo per popolazione dopo il capoluogo.
La palazzina, chiamata casa Santa Barbara perché sorge nell’omonima via di un quartiere centrale piuttosto benestante della città, è una struttura di proprietà della parrocchia Cristo Re destinata all’accoglienza di donne sole in condizione di disagio.
Attualmente è abitata da tre donne africane con i loro figli che risiedono in tre alloggi distinti, da due giovani volontari, Paolo in un appartamento e Giulia in un altro (in attesa dell’arrivo anche di Miriam, altra giovane), e dalla famiglia Costa, di quattro persone, cui fa capo l’associazione «Il Campo» che gestisce l’accoglienza. Un’umanità variegata che, nella semplicità della vita quotidiana, fatta anche di documenti da tradurre, telefonate dei servizi sociali, tapparelle da aggiustare, nutre le relazioni con occasioni di gioco per i bambini, momenti condivisi di manutenzione, feste, pasti, preghiere, compiti di scuola fatti assieme.
Una parrocchia accogliente
Alla stazione di Alba viene ad accoglierci Emanuela Iacono: jeans blu, maglietta rossa, foulard variopinto di farfalle, occhiali viola e una parlantina invidiabile. Lei e il marito Nicola Costa, entrambi quarantenni, con i due figli Edoardo di undici anni e Giacomo di sette, sono arrivati ad Alba da Milano cinque anni fa per lavoro. Nicola è un esperto di sicurezza alimentare, Emanuela si occupa di comunicazione per il terzo settore.
Emanuela cammina spedita facendoci strada. Oggi è lunedì, giorno di lavoro, e avremo a disposizione poco più del tempo della pausa pranzo. Nonostante questo, prima di andare in via Santa Barbara, abbiamo in programma di conoscere don Claudio Carena, parroco di Cristo Re e vicario generale della diocesi di Alba, responsabile ultimo della casa.
Arriviamo in cinque minuti, e troviamo ad accoglierci nel suo ufficio don Claudio, 53 anni, affabile e sorridente. Nella sua parrocchia l’esperienza della casa Santa Barbara non è l’unica iniziativa sociale: «Qui in canonica, ad esempio, ospitiamo quattro famiglie e quattro persone singole – ci spiega -. È una struttura molto grande, e il mio predecessore ne ha tratto otto bilocali. Gli ospiti hanno tutti situazioni difficili. Innanzitutto economiche, ma anche di fragilità psicologica, sociale. Oggi abbiamo ospiti di tre etnie e tre religioni diverse. C’è un dialogo interreligioso di fatto in un bel clima di rispetto. Le famiglie fanno una convenzione per undici mesi rinnovabili, ma alcuni non riescono ad andarsene anche quando avrebbero la possibilità economica di farlo: c’è una coppia marocchina con due figli, ad esempio, che lavora e potrebbe pagare un affitto altrove, ma nessuno vuole dare loro il proprio appartamento…».
L’esperienza della casa Santa Barbara, dove ora vivono Emanuela e Nicola «è nata circa 20 anni fa – ci racconta don Claudio -. Una persona aveva donato una struttura alla parrocchia con l’impegno di attivare qualcosa per i poveri. Il parroco di allora, don Angelo Stella, ha costruito l’attuale condominio grazie all’istituto per il sostentamento del clero. Poi, il parroco successivo, don Valentino Vaccaneo, ne ha fatto una casa di accoglienza per donne sole, e una coppia di parrocchiani, Anna e Franco Foglino, è andata a viverci dedicando all’accoglienza 18 anni di vita con grande generosità e competenza. Quando sono arrivato io sette anni fa, mi hanno chiesto di trovare un’altra famiglia, e la provvidenza, nel 2016, ha mandato Emanuela e Nicola».
Uno spazio nel quale ricostruirsi
Salutiamo don Claudio e ci lasciamo guidare da Emanuela verso via Santa Barbara. «Accogliamo donne sole in difficoltà – ci spiega lungo la strada -. Sono donne spesso segnate da rapporti difficili con le famiglie di origine o con i compagni. L’obiettivo della casa è offrire un tempo di ripartenza verso una vita autonoma di massimo due anni. Le donne vengono segnalate dai servizi sociali o da associazioni. A ognuna chiediamo di partecipare alle spese della casa. Quando non possono ci aiutano gli enti che ce le mandano: i servizi sociali, Caritas o altri.
Noi diamo una mano a queste donne nelle cose di ogni giorno come buoni vicini di casa: stampare la pagella dei figli, scrivere il curriculum vitae, e cerchiamo di attivare reti di aiuto informali. La loro provenienza è varia. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto con noi donne dalla Romania, dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Bulgaria, dall’Italia».
Le attuali ospiti sono tre donne africane: «Una è madre di un ragazzo di 12 anni con disabilità. Insieme a loro c’è anche la nonna. Hanno da poco avuto l’assegnazione di una casa popolare». La seconda è di origine marocchina con un bimbo piccolo: «Sta affrontando una separazione difficile. Ha bisogno di un tempo in cui seguire le pratiche legali, trovare un lavoro, e riprogettare la sua vita». La terza è una mamma originaria della Nigeria, con una bimba di dieci mesi. «È stata battezzata in parrocchia a Cristo Re. Lì ha battezzato anche la sua bimba. Era in un Cas (Centro di accoglienza straordinaria, ndr) di Alba, poi è stata spostata in un Cas di un’altra città. Quando ha ottenuto la protezione internazionale, le abbiamo proposto di tornare qui come segno di cura da parte della comunità che l’ha accompagnata al battesimo. Lei è molto contenta di essere di nuovo ad Alba dove si è ben integrata anche grazie all’aiuto di associazioni del territorio. È molto motivata a ripartire».
Condividere tempi e luoghi
Arriviamo in via Santa Barbara 4. Dietro la palazzina s’intravede un cortile. Di fronte, dall’altra parte della strada, c’è un palazzo di cinque piani, di quelli i cui alloggi negli annunci immobiliari recano la scritta «finiture di pregio».
Entriamo nell’androne sul quale si affacciano tre porte: una è del centro di ascolto Caritas della parrocchia; un’altra è di uno degli alloggi per l’accoglienza, la terza dà su un monolocale a uso comune. I volontari l’hanno sistemato due mesi fa, e ora è attrezzato con una cucina, un tavolo e alcune sedie.
Qui tutti i giovedì vengono alcuni ragazzi scout e delle parrocchie vicine a far giocare i bambini della casa. «Un altro gruppetto di giovani viene il sabato mattina a fare dei lavori manuali – ci racconta Emanuela -. Tra questi c’è anche Babatunde, arrivato in Italia qualche anno fa. Ora ha una fidanzata albese e lavora in una cantina. Viene il sabato mattina a dare una mano perché vuole restituire l’accoglienza che ha ricevuto».
Nel monolocale c’è Nicola, arrivato dal lavoro pochi minuti fa per la pausa pranzo: sta preparando gli agnolotti del plin, tipici piemontesi, e un’insalata. C’è anche Paolo, un giovane di 27 anni – «capo scout», ci tiene a dire -, che vive al piano di sopra da maggio per fare un’esperienza di accoglienza e fraternità. Paolo è già in partenza per andare al lavoro, ma fa in tempo a raccontarci dell’altra sua bella esperienza conclusa appena prima di arrivare qua: ha abitato per due anni con un altro giovane nella canonica della sua parrocchia Santa Margherita, per sperimentare la vita fuori dalla casa paterna, la convivenza e soprattutto il servizio alla parrocchia.
Oltre a Paolo, come detto, nella palazzina abita da poco anche Giulia, e un’altra giovane, Miriam, si sta avvicinando: la famiglia Costa ha, tra le sue caratteristiche, quelle della condivisione e della fraternità, sia con le donne accolte che con i giovani.
Una famiglia missionaria a km0
Emanuela e Nicola sono una scheggia albese del gruppo di «Famiglie missionarie a km0» che loro stessi hanno contribuito a creare nel 2013 nella diocesi di Milano. Un gruppo nel quale si sono radunate famiglie che, in modo indipendente l’una dall’altra e con stili diversi, avevano iniziato ad abitare con spirito missionario in canoniche, oratori o altre strutture ecclesiali. Si definiscono «famiglie missionarie», perché molte di loro hanno vissuto esperienze all’estero, anche di diversi anni, o semplicemente perché sta loro a cuore l’evangelizzazione, far conoscere Gesù a chi ancora non l’ha incontrato; «…a km0» per sottolineare la vicinanza tra la loro vita e la missione: che sia ad Alba o a Quarto Oggiaro – il quartiere milanese della parrocchia Pentecoste nella quale i Costa hanno vissuto due anni, prima di trasferirsi -, poco importa.
Desiderio di fraternità
«In questa casa ci sono dieci alloggi. Uno è questa stanza comune per stare insieme – ci dice Nicola -. Poi c’è il centro di ascolto della Caritas, l’alloggio per Paolo, quello per Giulia, e quello per noi. Tutti gli altri sono dedicati all’accoglienza».
La descrizione della destinazione degli alloggi non vuole essere un semplice elenco, vuole piuttosto mettere in luce uno degli elementi fondamentali di questa esperienza di condominio solidale: la fraternità. La casa non è solo un «rifugio» per persone in difficoltà, ma è un luogo nel quale sperimentare una forma nuova di vicinato, una modalità aperta di relazioni paritarie tra persone diverse.
«La cosa è nata dalla nostra esperienza precedente in parrocchia a Milano – ci spiega Emanuela -. È significativo che ci sia una fraternità tra famiglia e sacerdote al centro della parrocchia. Ci sembrava significativo che ci fosse una forma di fraternità anche al centro dell’esperienza di accoglienza. Cercavamo un’altra famiglia e non l’abbiamo trovata. Allora abbiamo pensato ai giovani».
«Prima che arrivassero questi nuovi giovani – aggiunge Nicola -, è stata qui Elisabetta, che oggi ha 27 anni e si è appena sposata. Lei diceva che voleva vedere le cose con i suoi occhi: “Ho un lavoro, ho il fidanzato, ma non voglio andare a convivere. Esco di casa, faccio due anni con la porta aperta. Mi metto al servizio di chi ha bisogno”». «Alla fine – aggiunge Emanuela – ha detto che essere qua non è solo fare servizio, ma rendersi conto di cosa succede nel mondo, perché ognuna delle donne ospitate ti racconta come vanno le cose a casa sua e anche la fatica di stare in Italia. Paolo e Giulia staranno qua per un anno, Miriam farà un ingresso più graduale. L’idea è che passino per questa esperienza prima delle scelte definitive della vita: è anche un’esperienza di discernimento. Si mettono al servizio, e in più provano a immaginare la loro vita futura. Per vivere la fraternità in modo più completo con loro, facciamo almeno una cena alla settimana insieme. Poi in pratica diventano anche due o tre, perché spesso passano per un saluto e alla fine si fermano a mangiare. Oltre alla cena, stiamo costruendo il modo di pregare insieme».
La quotidianità fraterna, però, per i Costa non si realizza solo con i giovani. In senso più ampio è il vivere con la porta aperta e il cuore disponibile nei confronti degli ospiti: «Vivendo insieme è più facile che s’inneschino delle dinamiche di reciprocità – continua Emanuela -. Io sono qua per aiutarti, però, se questo spazio è unico e lo abitiamo insieme, anche tu che sei ospite partecipi. Il bene comune lo costruiamo insieme. Questo è difficile, soprattutto per quelle persone che sono tanti anni che vengono aiutate. Fare quel salto di qualità: pensare “però anche io posso darmi da fare per gli altri”, è provocatorio, ma vivendo insieme viene naturale».
Il cortile si riempie
Mentre mangiamo e chiacchieriamo, arriva da scuola Edoardo, il figlio maggiore di Nicola ed Emanuela. Saluta, posa lo zaino e si siede a tavola anche lui. Partecipa volentieri a questo pranzo con uno sconosciuto: è abituato a condividere gli spazi e i tempi di casa con altri. Chiediamo però ai suoi genitori come fanno a conciliare le esigenze di coppia e di famiglia con quelle di un condominio così.
Nicola, ormai alla fine della sua pausa pranzo, risponde: «La famiglia e il servizio non sono due cose distinte. Non è come il lavoro: esco, vado in un luogo dove gli altri non possono venire, faccio le mie cose e torno. È una parte integrante della nostra vita. È una forma della vita, anche se bisogna riuscire a tenere degli spazi riservati, soprattutto per i figli». «Il nostro è un vicinato aperto – Aggiunge Emanuela -. Poi è bello che io e Nicola facciamo le cose assieme. Invece per i nostri figli è bello avere molte relazioni. Per cui capita che ci sia l’invasione di chi non vuoi nei momenti che non vuoi, ma poi hai tanto di più attorno. Loro sono contenti. Lo erano anche di vivere in parrocchia. Apprezzano molto i giovani che abitano qua, i giochi al giovedì, il fatto che vengano gli amici dei bambini accolti, che il cortile si riempia».
La terza porta della chiesa
La famiglia Costa vive nella casa Santa Barbara da tre anni. Come i loro amici della diocesi di Milano, anche loro si sono dati un tempo di cinque anni, scaduti i quali verificheranno, insieme alla parrocchia, se la loro presenza nella casa ha portato buoni frutti e se proseguire con l’esperienza oppure andare altrove. «Tre anni sono pochi. Cinque anni permettono di entrare nel vivo. È un tempo sensato. Dopo di ché ci sentiamo sostituibili».
La casa Santa Barbara non è una realtà visibile. È un condominio in mezzo ad altri condomini. Non ha insegne o frecce luminose che ne indichino la presenza. Si fa vedere solo da chi la conosce, e da chi frequenta le persone che la vivono. Non è invadente. Ma è un pezzettino di Chiesa che abita il quartiere, che sta in mezzo alle case.
«Le Famiglie missionarie a km0 sono la terza porta della Chiesa – ci dice Emanuela mentre ci salutiamo -: c’è la porta istituzionale, poi c’è la porta piccola che è quella degli istituti religiosi o della sacrestia dove entrano solo gli addetti ai lavori, e poi c’è la terza porta che è fatta da quelli che desiderano vivere la fede e una vita piena pur facendo la vita di tutti. L’impegno è quello di essere una porta d’ingresso verso il popolo di Dio. Questo è il nostro impegno: riuscire a fare da tramite».
Luca Lorusso
Dieci storie in un libro
Le Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano, dal 2013 costituiscono un gruppo ormai consolidato e organizzato che oggi conta almeno 27 famiglie più altre in rete.
Le loro provenienze sono le più disparate: c’è chi viene dal mondo scout, chi da Azione cattolica, da Comunione e liberazione, dal laicato dei missionari della Consolata, dall’Operazione Mato Grosso, dalla rete delle famiglie ignaziane e da altre realtà.
Tutte si ritrovano attorno a una chiamata e a una prassi comune: essere missionari nella quotidianità, attraverso l’abitare in un quartiere, in una parrocchia, in uno spazio della Chiesa, qui in Italia. Senza bisogno di valicare frontiere. Essere missionari non a prescindere o nonostante la condizione di famiglia, maproprio perché famiglia.
Il gruppo di Milano è il più visibile, in questo momento, nella Chiesa italiana, ed è quello che ha maturato una riflessione più articolata, ma i suoi membri non sono i soli che vivono la missione a km0. Proprio il fatto di avere iniziato a darsi un nome, a comprendersi come un volto specifico della Chiesa del nostro tempo, sta facendo loro conoscere molte altre esperienze in giro per il nostro paese, famiglie che sentono la stessa chiamata in forme simili e che stanno avviando un dialogo con le loro diocesi di appartenenza.
Gerolamo Fazzini, nell’ottica di iniziare a tirare un po’ le fila di qualcosa che sta pian piano, con i tempi dello Spirito, prendendo forma, ha raccolto in un bel volume, ben scritto e gustoso nei contenuti, dieci esperienze: sette milanesi, due piemontesi e una veneta, con una prefazione di mons. Luca Bressan, una cronologia essenziale della storia del gruppo ambrosiano, una piccola panoramica delle esperienze fuori dalla diocesi di Milano e una postfazione con un’intervista a Johnny Dotti sull’«abitare generativo».
L.L.
A colloquio con monsignor Luca Bressan
Scrivere la presenza di Gesù nel quotidiano
L’esperienza milanese delle famiglie missionarie in canonica sono una freccia che indica nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. La quotidianità, la fraternità, la sobrietà, l’accoglienza, sono alcuni dei suoi strumenti principali per incarnare la fede nella Chiesa e nel mondo che cambiano.
«Per me è stato un privilegio incontrare le Famiglie missionarie a km0. Io le leggo come un segno che lo Spirito ci dà per dire come incarniamo la fede oggi. Sono una realtà giovane che va aiutata a crescere e a scoprire il mistero che porta dentro. Allo stesso tempo sono un dono che interroga la Chiesa, e che mette in luce quanto essa sta cambiando».
Monsignor Luca Bressan è sacerdote della diocesi di Milano dal 1987, dal 2012 è vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, «ovvero – ci dice -, quella parte di azione pastorale che intercetta la cultura, il mondo, la società, e quindi ne legge i cambiamenti».
È coinvolto nell’accompagnare quelle famiglie che nella sua diocesi incarnano la condizione di «Chiesa in uscita» abitando una struttura ecclesiale, e ce ne offre una lettura di ampio respiro.
Don Luca, a proposito di Chiesa che cambia, in un tuo intervento di qualche mese fa a Padova, proprio riferendoti alla Chiesa, hai parlato di «tornante storico». Ci puoi spiegare?
«Tutti ci accorgiamo che la Chiesa cambia, non solo perché i presbiteri sono meno, ma perché sono meno anche i battesimi. La Chiesa ha un’incidenza minore nella storia.
Il Concilio ci insegna che dobbiamo abitare questo cambiamento senza stancarci. Il rischio, però, è di interpretare questo “non stancarci” in modo troppo attivo: “Siamo noi che agiamo sulla riforma della Chiesa, che la mettiamo al passo con i tempi”. Invece, più che disegnare a tavolino quale sarà la forma futura della Chiesa, è molto meglio fermarsi e vedere come lo Spirito suscita vocazioni diverse, modi differenti di dire la fede.
Veniamo da un passato in cui la fede era incarnata soprattutto dalla vita religiosa, dall’esercito di suore che, accanto ai malati, agli abbandonati, ai bambini, raccontavano alla gente la gratuità dell’amore di Dio. Ecco, adesso quell’esercito di religiosi, religiose, preti, sta venendo meno, e corriamo il rischio che la Chiesa diventi “un’agenzia di servizi” a cui ricorrere per una preghiera, una prestazione.
La presenza delle Famiglie missionarie a km0 ci ricorda che è ancora possibile vivere una logica di gratuità. Avere queste famiglie non significa avere manodopera in più, ma delle persone che scrivono la presenza di Gesù nel quotidiano».
Le Famiglie missionarie a km0 sono una nuova forma di presenza della Chiesa nella società?
«Sì, noi la leggiamo in questo modo. Per questo la vogliamo accompagnare. È una freccia che ci indica nuove forme di presenza. Non in alternativa, non in sostituzione alle forme organizzate, al ministero presbiterale ad esempio, ma proprio come forma di aggiunta.
Il valore profetico che c’è in quest’esperienza è l’idea della fraternità missionaria che fa vedere come insieme si viene trasfigurati dalla fede, dal Vangelo che si vive, e quindi lo annuncia».
La fraternità è una delle caratteristiche fondanti di quest’esperienza, come si esprime?
«Questo dipende dalle situazioni. Ci sono luoghi nei quali la fraternità s’incarna in una frequenza fisica e quotidiana, ci sono luoghi in cui la famiglia abita dove una volta c’era il prete e ora il prete non c’è più, per cui la fraternità è più vincolata a momenti e orari.
C’è una fraternità quotidiana vissuta localmente che si esplicita in modi diversi. Poi c’è una fraternità più ampia che riguarda l’intera esperienza delle Famiglie missionarie a km0, che vuole essere uno spazio nel quale, ad esempio, si confrontano i tanti carismi da cui le coppie provengono: il mondo della missione, quello francescano, gli scout, Cl, famiglie legate a spiritualità più tradizionali, il mondo dei gesuiti…
Il gruppo è come una piazza in cui le differenze s’incontrano e arricchiscono tutti. L’ultima cosa che desiderano è spegnere le differenze. Infine c’è una fraternità ecclesiale di fondo che lega queste famiglie con la Chiesa».
Oltre alla fraternità, anche la quotidianità è un elemento fondamentale per questa esperienza.
«L’incarnazione avviene nel quotidiano. Il Verbo si è fatto carne in un momento determinato della storia e in un luogo determinato. Per cui, esatto, il quotidiano è una parola chiave. Il Vangelo non si vive e non si testimonia in astratto».
Quali sono i punti di forza, le criticità e le prospettive delle Famiglie missionarie a km0?
«I punti di forza sono, da una parte, l’energia spirituale, la gioia, la voglia di creare nuovi percorsi. Poi lo stile di vita famigliare, la sobrietà, la voglia di far vedere che cosa dà sapore e senso alla vita.
C’è una differenza tra ricerca del piacere e ricerca della gioia. C’è chi cerca la gioia pur vivendo in un mondo che ricerca solo i piaceri.
Le sfide stanno nel capire come innestare tutti questi elementi di novità nella presenza della Chiesa tra la gente, e come dare loro forma. La criticità sarà poi superare man mano la fase di entusiasmo e vedere come far diventare questa esperienza la normalità della vita ecclesiale, come farla diventare una figura conosciuta, una figura ministeriale».
Com’è accolta questa esperienza dalla gente e dai sacerdoti della diocesi?
«La gente in qualche caso ha espresso diffidenza, ma poi si è accorta della capacità di contagio e di annuncio che ha quest’esperienza. I preti, in parecchi casi, hanno riconosciuto in questa presenza un nuovo modo di declinare la loro missione, e anche la loro scelta celibataria. Più di un prete mi ha detto che, grazie alla famiglia missionaria, ha imparato, ad esempio, a organizzare meglio la sua vita, gli spazi di silenzio, i luoghi d’incontro con la gente».
Lo scopo del gruppo delle famiglie qual è?
«A livello diocesano è quello di istituire uno spazio di crescita anzitutto spirituale e comunionale. Ci s’incontra per nutrirci a vicenda della profondità del mistero che abitiamo e per tornare poi a immergerci in un quotidiano che richiede tante energie».
C’è una commissione in diocesi che sta redigendo delle linee guida. Cosa sono?
«L’idea è, senza affrettare i tempi, quella di consolidare l’esperienza. Scopo delle linee guida è di mettere per iscritto alcuni suoi elementi costitutivi perché ne diventino l’ossatura e le permettano di essere trasmessa e condivisa. Permettere a noi e agli altri di capire quali sono i tratti essenziali delle Famiglie missionarie a km0, così che poi possano essere declinati nelle differenti situazioni e, man mano, possano istituire una figura riconoscibile dalla diocesi.
Della commissione fanno parte alcune famiglie e alcuni elementi della Chiesa diocesana.
Però non vogliamo accelerare i tempi. Vogliamo che il processo di stesura sia la trascrizione a livello verbale del processo di consolidamento dell’esperienza che si sta vivendo a livello di corpo».
Come viene gestita la presenza di una famiglia in spazi di proprietà della Chiesa?
«Essendo un’esperienza carismatica segnata dalla gratuità, le famiglie si mantengono con il loro lavoro, come fa qualsiasi famiglia normale. Dato però che abitano in un contesto di fraternità missionaria e di collaborazione pastorale, la chiesa le ospita in modo gratuito nelle sue strutture. Il tutto basato su un contratto di comodato di cinque anni, rinnovabile, che permette a tutti di essere liberi, soprattutto alla famiglia. Il primo compito della coppia è salvaguardare, approfondire, nutrire il suo sacramento, e quindi la famiglia: la durata quinquennale serve per dare un termine e per vedere se nella famiglia, ad esempio con la crescita dei figli, sono nate nel frattempo nuove esigenze. L’idea è di non mettere a nessuno degli obblighi».
Cosa dà a te quest’esperienza?
«Io sono contentissimo. Mi accorgo di esserne nutrito. Trovo dei fratelli e delle sorelle che mi aiutano a tenere incarnata la mia fede e, allo stesso tempo, danno gioia al mio cammino. Fa parte del famoso centuplo raccontato dal Vangelo. Ritrovo dei legami famigliari che non avrei mai immaginato potessero esserci. E questo è bellissimo».
Luca Lorusso
Marco, Maida e i loro cinque figli, dalle Ande peruviane a Milano
Con la porta sempre aperta
Marco e Maida Radaelli appartengono all’Operazione Mato Grosso (Omg), presente in Ecuador, Perù, Brasile e Bolivia, fin da giovani. Prima di conoscersi hanno fatto alcune esperienze all’estero: Marco in Ecuador e Maida in Perù, e quando si sono sposati, neanche trentenni, dopo due mesi sono partiti per 10 anni in Perù.
Oggi vivono nella parrocchia di Ponte Lambro, Linate, zona Sud Est di Milano, e sono una Famiglia missionaria a km0 con i loro cinque figli, di cui le prime tre nate sulle Ande: Martina di 14 anni, Margherita (11), Beatrice (9), Daniele (2) ed Elena (1).
«Nel tornare ci eravamo chiesti quale sarebbe potuto essere il modo per vivere la missione anche qua in Italia», ci dice Maida per telefono.
Maida, ci descrivi la vostra esperienza in Perù?
«Vivevamo in una casa dell’Omg a Yungay, a 2.800 metri, in zona rurale sulle Ande, proprio ai piedi del Huascarán, la montagna più alta del Perù. Niente a che vedere con Ponte Lambro a Milano.
Avevamo una scuola di falegnameria con un internato dove c’erano 20 ragazzi scelti tra i più poveri dei villaggi vicini: vivevano insieme a noi e quindi passavamo tutta la giornata con loro.
Dopo due anni abbiamo costruito una scuola: asilo, elementari e medie. Dalle 8 alle 16 avevamo con noi 300 bambini, ai quali davamo anche da mangiare. Tutto con l’aiuto dei volontari italiani.
I professori erano peruviani, e poi c’erano volontari italiani che venivano anche solo per un mese, e davano una mano a insegnare».
Quindi il vostro lavoro in Perù era quello educativo. Non avevate un’altra fonte di reddito?
«No. Non avevamo stipendio. Vivevamo anche noi con quello che veniva mandato dall’Italia. Poi avevamo delle donazioni private di parenti o amici che utilizzavamo per cose nostre».
Che formazione avete?
«Siamo infermieri tutti e due. Ci siamo conosciuti all’università. Abbiamo lavorato come infermieri cinque anni prima di partire».
Cosa vi ha lasciato l’esperienza di condivisione continua con i ragazzi peruviani?
«Una ricchezza molto grande. Le nostre figlie hanno respirato da sempre che la nostra famiglia non è chiusa. La porta di casa era sempre aperta. È sempre stata una famiglia molto allargata. Vuoi o non vuoi, i tuoi problemi, le cose che ti sembra di non riuscire a superare, passano in secondo piano. Condividere la giornata con altre persone ti fa capire che non sei tu il centro del mondo. Le nostre figlie hanno visto con i propri occhi la povertà, materiale e non. Quando oggi diciamo: “Stai attenta a non pensare solo a te stessa”, ci capiamo. In Perù eravamo molto facilitati in tutto, perché non avevamo un lavoro che ci portava via durante il giorno, e quindi eravamo lì 24 ore su 24. Potevamo dedicarci agli altri sempre. In Italia la vita è più frenetica e ti impedisce di fare quello che vorresti: ci sono gli impegni fissi come la scuola, il lavoro, e quindi poi devi gestire il tempo che ti rimane».
Ogni tanto sentivate il bisogno di avere uno spazio solo vostro, di famiglia?
«Ce lo chiedono sempre. Certo: avevamo il nostro spazio con una piccola cucina e le nostre stanze. A volte venivano a bussare, però era sottinteso che se eravamo nel nostro spazietto, dovessero trattenersi. Poi in realtà passavamo in casa pochissimo tempo. Eravamo sempre insieme ai ragazzi».
Collaboravate con la parrocchia?
«C’erano due sacerdoti locali. Con loro avevamo anche dei momenti insieme, e una volta alla settimana uno veniva a celebrare la messa con noi e i ragazzi. C’era una strettissima collaborazione».
Com’è stato il rientro per le vostre figlie?
«Per loro l’Italia era un mondo sconosciuto e si sentono ancora peruviane. Rimpiangono spesso la vita semplice del Perù. Però quando abbiamo spiegato loro che avremmo mantenuto alcune caratteristiche della vita peruviana, che saremmo venuti a vivere in una parrocchia, hanno accettato bene».
Avevate già un posto dove andare?
«Sì, avevamo sentito l’ufficio missionario della diocesi di Milano. Inizialmente avevamo chiesto di andare in un paese e non in città, perché le nostre figlie in Perù avevano vissuto una vita molto semplice e volevamo conservare questo aspetto. Ci è stato proposto Bulciago, in Brianza, e quando siamo tornati nel 2014 siamo andati direttamente lì, in canonica, per tre anni. Nel frattempo è tornato dal Perù don Alberto Bruzzolo che ha sempre chiesto, sia in Italia che in Perù, la collaborazione di una famiglia vivendoci insieme. In diocesi è stato il primo a provare questa esperienza fin dal 2001 a Pentecoste. Quando è arrivato, conoscendoci già, ci ha chiesto di fare fraternità con lui. Allora nel 2017 ci siamo spostati qui a Ponte Lambro, in un contesto di periferia urbana totalmente diverso. Noi diciamo sempre alle nostre figlie che non importa dove si vive, importa come uno vuole spendere la sua vita: che sia con i ragazzi peruviani, in Brianza, o in città. Ne abbiamo parlato molto, e alla fine loro hanno detto che sì, l’importante è aiutare gli altri.
Qui c’è un centro d’ascolto della san Vincenzo che segue 150 famiglie. Vengono distribuiti vestiti, medicine… Anche qui i miei figli vedono la povertà».
Com’è la vita di fraternità?
«Viviamo in fraternità missionaria con don Alberto, che è parroco, e con don Emanuele Merlo, che segue la pastorale dei Rom. Siamo in una casa di due piani dentro l’oratorio: al piano terra ci siamo noi, e al piano superiore i due don. In un’altra struttura ci sono tre suore Marcelline. Anche loro hanno chiesto di lavorare nella periferia.
Abitando nella stessa casa, diciamo le lodi al mattino insieme, poi facciamo colazione per raccontarci un po’ di cose. E poi la domenica sera facciamo la compieta e un commento di un brano biblico.
Nella vita quotidiana, poi, ci sono pranzi, cene. Così come vengono. Avendo la porta sempre aperta è facile che succeda».
Lavorate?
«Mio marito sì. Io no. È stata una scelta per coltivare l’accoglienza. La mia presenza in casa è importante. Infatti, per il fatto di essere un’infermiera, a volte le persone vengono a chiedermi medicine o iniezioni… e questa cosa ci apre un mondo, perché le persone vengono e poi ti raccontano tutto di loro. Come dice una mia amica che vive anche lei in una canonica: “Noi facciamo la pastorale del caffè”.
A volte la figura del sacerdote può dare un po’ di soggezione. Invece vedere una famiglia, che è una famiglia normale, perché ha i figli, fa casino, i bambini gridano, la mamma pure, fa sentire più a casa. Don Alberto dice che conosciamo le stesse famiglie, ma da punti di vista diversi: i nostri figli vanno alle feste di compleanno, vanno a scuola… in tutte quelle parti della vita dove il don non può arrivare, noi possiamo».
Tuo marito che lavoro fa?
«Con degli amici, anche loro tornati dalla missione, ha fondato una cooperativa sociale di imbianchini e giardinieri, e gestiscono cinque isole ecologiche qua nei dintorni e in Brianza. Poi fanno un lavoro sociale con il reintegro nel lavoro di ex alcolizzati, ex drogati, persone bisognose.
Lui dice sempre che non vuole fare un lavoro che lo separi dalla vita normale».
In parrocchia che ruolo avete?
«Non abbiamo cose precise. Facciamo incontri con genitori che chiedono il battesimo. Ognuno di noi ha un gruppo di lettura del Vangelo una volta ogni 15 giorni: cioè andiamo nelle case delle persone che si rendono disponibili. Io sono anche catechista e gestiamo l’oratorio feriale e le attività dei bambini, sempre con i due don e con le suore».
Difficoltà e soddisfazioni?
«La difficoltà è quella di avere pochi momenti di intimità famigliare. A volte dici: “Ma basta! Questo campanello che suona in continuazione”. I bambini che avrebbero bisogno di attenzione, però devi dire loro di aspettare un attimo. A volte è una fatica. Usi energia togliendola alla famiglia. Ma alla fine ti dici: non è quella la cosa che mi rende più felice, pensare solo a me e alla mia famiglia. Alla fine, vivere così è una ricchezza».
L.L.
Per una parrocchia a misura di pannolino
Contagiati dalla gioia
Suor Enrica Bonino, 53 anni, accompagna il cammino delle Famiglie missionarie a km0 fin dal 2001, quando ha partecipato alla nascita della prima esperienza nella parrocchia di Pentecoste, nel quartiere di Quarto Oggiaro a Milano.
È una suora energica. Torinese di nascita e ignaziana di spiritualità. È un’ausiliatrice delle anime del purgatorio con la vocazione di accompagnare le persone attraverso i loro «purgatori», le fasi di crisi che la vita offre a tutti, verso la gioia.
Suor Enrica non esita a definire «profetica» la realtà delle famiglie missionarie che a Milano e altrove offrono un volto nuovo di Chiesa alla gente.
Suor Enrica, tu sei legata all’esperienza delle
Famiglie missionarie a km0 fin dagli inizi.
«L’esperienza è nata nel 2001 nella parrocchia Pentecoste a Quarto Oggiaro, dove vivevo. È partita dal parroco don Alberto Bruzzolo, da Marco e Marta Ragaini, una coppia con tre figli arrivata dal Chad dopo 6 anni di missione, e da me. Loro vivevano in parrocchia, io nella mia comunità e il parroco in un appartamento nel quartiere.
L’ho vissuta fino al 2006, quando sono partita per un anno in Colombia. Al mio rientro nel 2007, sono andata a Torino, e ho ripreso l’attività con le famiglie, anche se più legata alla spiritualità ignaziana. Insieme ad alcune coppie, ci siamo resi conto che è necessaria una certa cura del cammino a due, allora ho sviluppato un po’ questo aspetto: affiancare le famiglie e sostenerle in un percorso di spiritualità coniugale. Credo molto in quello che dice l’Amoris Laetitia (31): “Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa”.
Infine, nel 2012, sono tornata a Quarto Oggiaro».
Che ruolo hai nel gruppo delle Famiglie a km0?
«Sono stata coinvolta per la mia esperienza con le famiglie e perché la spiritualità ignaziana offre degli strumenti concreti: gli esercizi spirituali, una disciplina e un metodo di preghiera, un metodo per il discernimento e per le scelte.
Io non ho un ruolo specifico. Quando il gruppo ha iniziato a organizzarsi, mi sono stati chiesti degli incontri di formazione spirituale. Dopo di che ho iniziato a visitare alcune famiglie a fare telefonate, visite, confronti, in una modalità molto relazionale. L’idea è di prendersi cura l’uno dell’altro e di sensibilizzarsi reciprocamente su questa cura».
E che ruolo hanno, invece, le Famiglie missionarie a km0 nella Chiesa?
«Secondo me hanno un ruolo profetico. Entrare in una canonica e non trovarti la classica segretaria o il parroco, ma un bambino che ti chiede se giochi con lui, rivoluziona l’idea della parrocchia: offre un’immagine di semplicità, di vita quotidiana, di una chiesa a misura di pannolino, direi.
Oggi la parrocchia rischia di essere un luogo in cui si fanno delle cose, mentre è importante che sia vissuta come luogo di fraternità dove si sperimentano delle relazioni, poi si fanno anche delle cose, ma in funzione di una relazione che sia la più ampia, accogliente, aperta possibile».
La fraternità con sacerdoti o religiosi è un punto centrale per tutte le Famiglie missionarie a km0?
«Sì, però le modalità dipendono dalle situazioni: dai lavori della coppia, dalla disponibilità di tempo, dall’età dei figli, dal tipo di sacerdote. Non c’è un cliché. Un momento di preghiera insieme e uno di scambio su come va, c’è sempre. Per chi è implicato nella pastorale, lo scambio avviene anche su dove stiamo andando, cosa stiamo facendo, cosa aiuta di più la parrocchia. Ma non è detto che tutte le famiglie siano coinvolte nella pastorale allo stesso modo».
Quali sono i punti di forza di quest’esperienza per la famiglia, la parrocchia, il quartiere?
«Il punto di forza per la famiglia è la possibilità di non chiudersi in sé, nei propri problemi, nella gestione faticosa della quotidianità, di aprirsi ad altri e di coltivare un orizzonte spirituale più ampio. Perché quando sei continuamente sollecitato dagli altri, ti devi rinnovare nella motivazione che ti abita. Questo è anche il punto di fragilità, perché, a volte, essere troppo sollecitati può creare disguidi. È necessario cercare un equilibrio sempre nuovo.
Anche la comunità parrocchiale e il territorio ne hanno un beneficio, perché iniziano a vedere un volto diverso di Chiesa, la possibilità di confrontarsi con una fede più semplice, vissuta. Non è tanto una fede parlata, è una presenza accogliente.
L’altra cosa bella, per me, è che alcune Famiglie missionarie a km0 prendono contatti con altre diocesi, altre regioni, altri paesi, ad esempio la Francia, dove ci sono realtà simili: è come stare dentro un laboratorio continuo. Tutto questo crea una grande circolazione d’idee ed esperienze. Per esempio, alcuni da Milano sono andati qualche tempo fa a Padova a conoscere una comunità di famiglie ignaziane. Conoscere altri territori e stili è arricchente, dà molto entusiasmo ed è un modo per sostenersi a vivere una vita evangelica».
Il gruppo di famiglie della diocesi di Milano può aiutare altre esperienze a emergere?
«Ci sono diverse esperienze di famiglie che sperimentano fraternità differenti ma non si conoscevano tra di loro e non provengono da organizzazioni già costituite nelle diocesi. Adesso che con i convegni tenuti ogni due anni a Milano, con le trasmissioni televisive, i giornali, si inizia a vedere che c’è una realtà lombarda consistente, allora le altre realtà più isolate incominciano a venire fuori e a chiedere un confronto. Ne ho conosciute in Puglia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria, Toscana, in Sicilia… Alcune realtà iniziano a confrontarsi con le proprie diocesi. Alcune diocesi non hanno le realtà ma i vescovi vorrebbero.
C’è un grande movimento e una grande curiosità. È un’esperienza portatrice di grande fermento.
Dove porterà non lo so. Don Luca Bressan dice, e io condivido, che dobbiamo lasciare che la cosa cresca, sostenerla con delicatezza, lasciando che le persone trovino il proprio spazio, senza codificare troppo, perché altrimenti si spegne lo spirito.
È necessaria una grande attenzione. Ed è per questo che ci sono molte telefonate: come stai? Come sta quella coppia? La vai a trovare tu, o vado io?».
È bella questa sinergia tra vocazioni differenti.
«Io credo molto nel sostegno tra vocazioni diverse. Indirettamente queste famiglie sostengono me nella scelta che ho fatto e, per quel che sono capace, a mia volta offro un sostegno, una presenza.
Io credo che la Chiesa possa essere solo così. Non può esserci una Chiesa di separati, in cui i religiosi sono da una parte, le famiglie sono dall’altra e ognuno sta chiuso nella propria casa o convento.
Mi piace la possibilità di mostrare un volto di chiesa diverso, il cui la suora, ad esempio, lavora come tutti, dà una mano in cucina se serve, può accompagnare i bambini al bagno e guardare i cartoni animati con loro. È considerata una persona come le altre. Questo è uno stile che vivo anche con la rete delle famiglie ignaziane da anni.
Lavorare per questo ideale e per questa mescolanza a me dà una grande gioia. Poi non so come andrà e chi tirerà le fila di tutto, ma anche questo a me dà una grande gioia e libertà: provo a lavorare, e poi tutto è nelle mani di Qualcun altro».
Questa esperienza è uno dei frutti che il Vaticano II continua ancora oggi a far nascere?
«Per me è un’esperienza a contagio. Sono arrivati dei missionari che hanno fatto esperienza di missione, e hanno iniziato a contagiare. È l’esperienza della semplicità che tu sperimenti solo in missione, con i più poveri, che a un certo punto trasforma la tua vita e non riesci più a vivere diversamente.
Io la vivo così, non tanto pensando ai documenti della Chiesa. Certamente è uno sviluppo del Vaticano II, certamente è in linea con il pontificato di papa Francesco e con tutti i documenti che lui ha scritto, perché uno dei punti cardine di questa esperienza è diffondere la gioia del Vangelo. Cioè far vedere che a essere cristiani si è felici, si è contenti, pur essendo incasinati. Perché i casini non li risparmia a nessuno la vita. Ma li vivi in un altro tipo di serenità, perché sai di chi sei, a chi appartieni e chi vuoi passare, chi vuoi trasmettere».
Luca Lorusso
Dal Sinodo per l’Amazzonia una nuova sfida per la missione
«Non indurite il vostro cuore»
testo della Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana |
«Vi vedo un po’ inquieti, forse non capite di che cosa ha bisogno l’Amazzonia… Noi abbiamo una nostra visione, questo ci avvicina a Dio, la natura ci avvicina a poter contemplare di più il volto di Dio, a contemplare l’armonia con tutti gli esseri viventi. Mi sembra che non vi tornino i conti, vi vedo preoccupati, dubbiosi di fronte a questa realtà che noi cerchiamo. Non indurite il vostro cuore».
Tra le tante parole ascoltate in queste settimane intorno all’Amazzonia è l’appello pronunciato da Delio Siticonatzi Camaiteri – indio cattolico peruviano, membro del popolo Ashaninca, una delle 390 etnie indigene della grande foresta che il Papa ha voluto a Roma nel cuore della Chiesa universale – il riassunto più efficace che come riviste missionarie ci portiamo a casa da questo Sinodo: «Non indurite il vostro cuore».
Conferenza stampa del 7/10/2019 (foto Guilherme Cavalli_Cimi)
Fin dal suo cammino di preparazione, il Sinodo ha proposto uno sguardo unitario su una regione del mondo parcellizzata dagli interessi di un’economia assetata di materie prime e ridotta a riserva da sfruttare, senza rispetto per niente e per nessuno.
Questo Sinodo ha avuto il coraggio di mettersi in ascolto di popoli e culture che il mondo globalizzato vorrebbe ridurre a semplici reperti da museo. Persone e comunità che invece hanno un messaggio forte da portare alla società e alla Chiesa del XXI secolo e desiderano, allo stesso tempo, ascoltare la parola di Gesù.
Questo Sinodo chiede alla Chiesa di essere autenticamente missionaria, e a noi riviste missionarie (associate nella Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana) lascia in eredità alcuni compiti.
1) Continueremo a parlare dell’Amazzonia. Abbiamo visto in queste settimane quanto anche in certe frange del mondo cattolico i pregiudizi sui suoi popoli siano radicati. Quanta ignoranza, quanta superficialità, quanto disprezzo per coloro che vivono una cultura diversa dalla nostra. ; quanti occhi chiusi sui tanti cristiani che anche in Amazzonia sono perseguitati e muoiono nell’indifferenza di un mondo che non accetta mai di porsi domande sull’unico vero idolo del nostro tempo: il proprio carrello da riempire al supermercato. Per questo moltiplicheremo i nostri racconti. Aiuteremo a scoprire che uno sviluppo amico della biodiversità fisica e culturale dell’Amazzonia è possibile ed è già realtà là dove non regna solo la legge del profitto massimo e immediato. Andremo avanti a ripetere il messaggio che Papa Francesco ha messo al cuore dell’enciclica Laudato Sì: tutto è connesso.
2) Racconteremo il cammino della Chiesa dal volto amazzonico, di comunità che alla luce del Vangelo vogliono rileggere la propria storia, la propria cultura, i propri miti. È quanto la prima evangelizzazione realizzò in Europa, dando vita a sintesi e devozioni straordinarie; perché dovrebbe creare scandalo se a compiere questa stessa inculturazione della fede oggi sono i cristiani di altri continenti?
3) Riveleremo i volti delle comunità cristiane dell’Amazzonia, con ministeri che hanno qualcosa di importante da suggerire alle nostre comunità; i volti delle donne, che in tanti luoghi sono già punto di riferimento e leader di comunità, e i volti dei martiri/testimoni che stanno pagando con la vita per un mondo nuovo.
Ma proveremo anche a far capire a chi si scandalizza che no, in Amazzonia nessun cristiano guarda alla statuetta della Pachamama come a un idolo da adorare. In quelle viscere ritrova un’immagine della misericordia di Dio che troppi cristiani in Occidente oggi fanno fatica a contemplare.
«Non indurite il vostro cuore». Alla fine, il punto è proprio questo. Perché la dove il cuore è duro non c’è posto per la missione.
In Amazzonia come nelle nostre città.
Fesmi
Foto di gruppo del 17/10/2019 – Vatican Media
Firma del Patto delle Catacombe (foto Guilherme Cavalli-Cimi)
Kirghizistan e Kazakistan: Una Chiesa «in germoglio»
Testo di suor Dalmazia Colombo – foto Missionarie della Consolata |
Il 2020 sarà un anno di grazia per le missionarie della Consolata perché si apriranno per loro gli immensi orizzonti dell’Asia centrale. Ben otto missionarie dall’Africa, dall’America e dall’Europa andranno a testimoniare il Vangelo in due paesi a maggioranza musulmana, il Kazakistan e il Kirghizistan, dove gli Ortodossi sono circa il 20% della popolazione e i Cattolici un’esigua minoranza.
Per quanto sembri scontato, il punto sta qui: noi siamo «per i non cristiani». Questo è il nostro carisma, il nostro dono specifico a tutta la Chiesa.
Quando il nostro Istituto fu fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1910, fu ai non cristiani africani che egli inviò le sue prime missionarie. Il gruppo, formato da tredici sorelle, partì per il Kenya nel 1913.
Al Kenya, nel corso degli anni si aggiunsero Tanzania, Etiopia, Somalia, Mozambico, Togo, Liberia, Guinea Bissau, Libia e Gibuti (dove siamo ancora oggi, eccetto Somalia e Togo).
Dopo la Seconda guerra mondiale l’Istituto si aprì all’America inviando missionarie in Brasile, Colombia, Argentina, Usa, Venezuela, Bolivia, paesi dove si continua a mantenere viva l’attenzione verso i non cristiani, presenti specialmente nelle periferie e fra le minoranze etniche, in zone povere e isolate.
In tutti questi paesi, le missionarie della Consolata, con le loro molteplici attività, hanno contribuito alla fondazione e/o al consolidamento delle Chiese locali, fino a sentire, in alcuni casi, esaurita la loro opera di prima evangelizzazione. Allora, è diventata prassi lasciare le parrocchie e le opere ben avviate ad altre forze apostoliche e spingersi verso nuovi orizzonti, finché, negli anni ‘90 lo sguardo ha cominciato a posarsi sull’Asia, il continente con la minore percentuale cristiana di tutto il mondo. Tale sguardo si è fermato allora sulla Mongolia.
La Mongolia
Il progetto di vita missionaria nella piccola porzione di Chiesa già presente in Mongolia (114 battezzati nel 2002, ndr) è stato elaborato in sintonia con gli elementi che i due istituti, i missionari e le missionarie della Consolata, hanno al centro del loro carisma: essere testimoni della presenza di Dio in mezzo ai poveri, divenire pellegrini che camminano con la gente, apprezzandone i valori, e dialogare con gli appartenenti alle grandi religioni.
I missionari e le missionarie della Consolata hanno raggiunto la Mongolia il 27 luglio 2003, stabilendosi nella capitale Ulaanbaatar, per imparare la lingua e penetrare nel tessuto sociale culturale e religioso del popolo, per conoscere la realtà e i bisogni della gente mediante la vicinanza, il dialogo e l’amicizia.
Il 19 settembre 2006 è stata aperta una nuova missione ad Arvaiheer, distante 420 chilometri dalla capitale. «Qui i missionari – racconta con emozione suor Gertrudes Vitorino, mozambicana, che faceva parte del gruppo – provarono l’emozione e la gioia di pronunciare il nome di Gesù e di annunciarlo in mezzo a un popolo, di religione buddista, che non aveva mai sentito parlare di Lui».
Oggi in Mongolia i cristiani sono quasi un migliaio e ad Arvaiheer si è formata una piccola comunità con 30 battezzati.
Se dai frutti si conosce la bontà dell’albero, viene spontaneo comparare lo stile di missione scelto in Mongolia a un albero buono, che ha dato frutti buoni: semplicità di vita e accoglienza, intensa preghiera, realizzazione di piccoli, ma significativi, progetti, come le docce calde pubbliche, la scuola materna informale, il doposcuola e il cammino di cura per alcolisti.
Nuove presenze in Asia
Nel 2011 la decima assemblea capitolare delle missionarie della Consolata – suprema autorità collegiale dell’Istituto -, che aveva come motto «Sospinte dallo Spirito consolatore», invitò tutte le missionarie a «lasciarsi sfidare da nuovi orizzonti missionari con lo zelo e la disponibilità delle prime sorelle». Dopo riflessioni e approfondimenti si arrivò alla decisione di studiare la possibilità di aprire nuove presenze in Asia tenendo conto di alcuni criteri:
L’Asia è il futuro della missione (Redemptoris Missio, N. 91).
Noi siamo per i non cristiani (Costituzioni MdC, art. 3).
La necessità di sostenere e rafforzare le poche presenze religiose in Asia.
Perché in Kirghizistan e in Kazakistan?
In fedeltà alla metodologia del fondatore, che inviò i suoi in Kenya dopo una lunga e accurata ricerca sulla possibilità di realizzare il fine dell’Istituto di «annunciare il Vangelo ai non cristiani», iniziò il cammino di raccolta di informazioni per capire dove si sarebbe potuta avviare una nostra nuova presenza in Asia.
Nelle ricerche vennero coinvolti mons. Savio Hon Thai Fai, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, e membri di altri istituti missionari già presenti in Asia.
Su consiglio di questi esperti, furono fatte ricerche in Cina, Indonesia, Bangladesh, Thailandia, Kazakistan, Kirghizistan. Nel corso del cammino, alla luce dei criteri che erano stati posti alla base della ricerca, la rosa dei paesi candidati andò assottigliandosi lasciando sul campo il Kazakistan e il Kirghizistan.
I viaggi di esplorazione
Due consigliere generali, suor Cecilia Pedroza e suor Lucia Bortolomasi, quest’ultima già missionaria in Mongolia, visitarono diverse volte le due ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Lì presero contatti con le autorità religiose e con alcuni gruppi di persone vicine alla piccola realtà di cattolici presenti in quei paesi, e valutarono che sarebbe stato possibile avviare nuove presenze secondo i criteri proposti dal Capitolo generale del 2011 e confermati nel Capitolo generale del 2017.
Filmati, power point, foto, relazioni sulle ricerche fatte furono presentati più volte a tutto l’Istituto rafforzando e confermando, da parte di tutte le missionarie, la bontà della scelta di avviare, entro il 2020, nuove presenze consolatine in Asia centrale.
Dove andremo?
Il 2 febbraio 2019 la direzione generale ha comunicato i nomi delle sorelle che partiranno nel 2020: quattro per il Kazakistan e quattro per il Kirghizistan. Sono le veterane Adriana Medina e Claudia Graciela dalla Colombia, Ivana Cavallo da Boves, Cuneo, Judith Kitoti dal Tanzania, Luisa Felipe Munguambe dal Mozambico, e le «esordienti» Adanech Mitiku Shawo dall’Etiopia, Hellen Njoki Waithera e Zippoorah Wanjiku Mwaniki dal Kenya.
L’11 marzo 2019, pochi giorni dopo l’incontro a Roma con mons. Josè Luis Mumbiela Sierra, vescovo di Almaty (Kazakistan), e padre Anthony Corcoran, gesuita e amministratore apostolico del Kirghizistan, in visita ad limina dal papa insieme ad altri otto vescovi e amministratori apostolici dell’Asia centrale, la direzione generale ha comunicato i luoghi nei quali si avvieranno le due comunità.
In Kazakistan, nella diocesi di Almaty, a Janashar, un paese a circa 40 chilometri dalla città più popolosa del paese, dove esiste una piccola comunità cristiana e la diocesi ha costruito la casa dove le missionarie potranno abitare, con l’aggiunta di alcuni locali per attività ancora da definire.
In Kirghizistan, nell’unica amministrazione apostolica, la comunità sarà a Dzalal Abad, una cittadina nella zona Sudoccidentale del paese, a 600 chilometri dalla capitale Biškek, ma relativamente vicina a Janashar.
Il 1° ottobre 2019, due delle sorelle partenti, Adriana Medina e Judith Kitoti, hanno ricevuto il mandato missionario da papa Francesco nella semplice cerimonia che ha segnato l’inizio del mese missionario speciale.
Si parte presto
Le nuove aperture sono ormai alle porte. La direzione generale, nella lettera che comunicava le ultime decisioni riguardo le aperture in Asia centrale, così concludeva: «Grazie a tutte voi sorelle, per le molteplici espressioni di appoggio e di condivisione per le nuove aperture.
Sappiamo che la costituzione delle due nuove comunità ha significato dei sacrifici e dei tagli nei paesi da cui le sorelle scelte provengono, ma sappiamo anche quanta vitalità e benedizione questa scelta verso “i non cristiani” dona al corpo dell’istituto nel cammino di rinascita.
Continuiamo ad accompagnare il processo con la preghiera, l’interesse, l’appoggio e l’affetto, perché veramente è un evento di famiglia che ci coinvolge tutte. La Consolata ci precede là e attende il nostro arrivo.
Senza il coinvolgimento di tutte e la solidarietà di tanti amici e sostenitori delle nostre missioni, le nuove aperture in Asia rimarrebbero per le missionarie della Consolata solo un sogno!
Insieme, in cordata, cercheremo di aiutare la crescita di questa chiesa che papa Francesco, nel discorso ai vescovi dell’Asia centrale ha definito “una Chiesa in germoglio”».
Suor Dalmazia Colombo
Repubblica del Kazakistan
Il Kazakistan si trova nell’Asia centrale. Per estensione è il 9° paese del mondo. Gran parte del suo territorio è pianeggiante e collinare desertico o semidesertico. Una vasta area attorno al Mar Caspio è sotto il livello del mare (-132 m). Ai confini con Kirghizistan e Cina, nel punto di incontro delle tre nazioni si innalza la maggior vetta kazaka, il Khan Tengri (6.995 m) nella catena del Tian Shan che significa Montagne Celesti.
Popolazione
Prima dell’indipendenza, nel periodo dell’Unione sovietica, la componente di popolazione kazaka era inferiore al 50% per l’entrata nel paese di molti russi, ucraini, polacchi e di altre nazionalità. In seguito al ritorno ai paesi di origine degli immigrati, la situazione è decisamente cambiata con i Kazaki che costituiscono ora il 63% della popolazione. La città più popolosa è Almaty, con 1.801.713 abitanti, capitale dello stato fino al 1997.
Tradizioni
La cultura affonda le sue radici nella natura nomade della gente e nell’Islam, che è la religione maggioritaria. Le steppe semiaride e gelide d’inverno, in primavera si trasformano in prati sconfinati ideali per la pastorizia, risorsa essenziale per il popolo kazako che ha sviluppato un’antichissima tradizione di tolleranza e di accoglienza.
La vita nomade del popolo ha sempre avuto come alleati e simbolo i cavalli, attorno ai quali si sono sviluppati usi e costumi, compresa l’abilità a cavalcare. Si dice che i kazaki siano stati gli inventori delle staffe. Sono abilissimi a scagliare le frecce mentre il cavallo galoppa. Famose le esibizioni di tali abilità nelle feste e manifestazioni anche oggi.
Chiesa cattolica
La Chiesa cattolica in Kazakistan, si è formata a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso ad opera di alcuni sacerdoti deportati dal regime sovietico che si rivolgevano soprattutto ai non kazaki. Per decenni visse nella clandestinità affidata alla trasmissione della fede a livello familiare, specialmente da nonni ai nipoti. Nel settembre del 2001, papa Giovanni Paolo II visitò la piccola comunità cattolica che con l’indipendenza aveva acquisito nuovo vigore. L’attuale organizzazione territoriale comprende tre diocesi, e una amministrazione apostolica: arcidiocesi di Astana, diocesi di Almaty e di Karaganda, amministrazione apostolica di Atyau. A queste si aggiunge l’amministrazione apostolica per i fedeli cattolici di rito bizantino in Kazakistan e nell’Asia centrale.
Grazie alla presenza missionaria nel paese, vi è una crescita di kazaki che si convertono al cattolicesimo, soprattutto nella capitale Nur-Sultan (che fino a marzo 2019 si chiamava Astana).
Da.Co.
Lingue ufficiali Kazako, Russo (entrambe ufficiali)
Capitale Nur-Sultan (già Astana – 1 milione di ab.)
Forma di governo Repubblica semipresidenziale
Indipendenza da Urrs 21 dicembre 1991
Superficie 2.724.900 km² (9 volte l’Italia)
Popolazione 17.572.000 ab. (stime 2019)
Nome abitanti Kazaki
Religione Musulmani 70%, Cristiani ortodossi 26%, Cattolici 1,14%, altre religioni o senza 3%
Confini Cina, Russia, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan
Valuta Tenge kazako
Repubblica del Kirghizistan
Il Kirghizistan è un aspro paese dell’Asia centrale che sorge lungo la Via della Seta, l’antica carovaniera tra la Cina e il Mediterraneo a metà strada tra Medio ed Estremo Oriente. È un paese che vanta la presenza di una popolazione molto cordiale, ospitale e disponibile.
Il nome Kirghizistan deriva da una parola che significa «siamo 40». Si tratta di un riferimento ai 40 clan che in origine formavano la nazione e che si riflette sulla bandiera composta da un sole giallo con 40 raggi distanziati in modo uniforme dal centro. Oggi la popolazione è formata in gran parte da Kirghisi (65%) e Uzbeki (13%). Il resto sono Russi, Polacchi, Tedeschi e altre nazionalità, nella maggior parte figli e nipoti delle deportazioni sovietiche.
Geografia
Il territorio aspro e difficile del Kirghizistan, nel cuore dell’Asia, è un groviglio di fiumi e montagne che superano i 7.000 metri e offre una delle più belle architetture naturali del mondo con la catena montuosa del Tien Shan e l’altopiano del Pamir: il primo lo separano da Cina e Kazakistan, il secondo lo uniscono al Tagikistan. La maggior parte della popolazione vive nelle zone di pianura che occupano appena un settimo della superficie totale.
Poche sono le città, pochi i comfort, pochi i servizi sociali. I trasporti si contano su una mano. Chi sceglie di vivere in questo paese, vive esperienze fuori del tempo ed è colpito dalle usanze della vita nomade, tipica del popolo kirghiso, gente temprata per sopravvivere alla natura e per questo molto ospitale con il prossimo.
La tradizione
La popolazione dei villaggi, dedita alla pastorizia, vive nelle bellissime iurte, le classiche tende dei pastori che hanno la caratteristica di essere fresche d’estate e calde d’inverno. Sono il simbolo più antico dei villaggi e della popolazione itinerante. Il viaggiatore viene accolto nelle iurte al suono del komuzy, il tradizionale strumento a corde. Sempre nelle tende, le famiglie si riuniscono per prendere le decisioni più importanti e condividere i pasti. Pasti semplici e gustosi nei quali le pietanze principali sono il plot, composto di un misto di riso e carne, e lo shorpo, una zuppa di carne e verdure.
Chiesa cattolica in Kirghizistan
La Chiesa cattolica ha una storia recente in quanto solo nel 1997, dopo l’indipendenza, Giovanni Paolo II vi fondò una missio sui iuris. Nel 2006, Benedetto XVI elevò la circoscrizione al rango di amministrazione apostolica che comprende l’intero territorio. Dalla fondazione a oggi i cattolici sono passati da 200 a circa 500: lo 0,01% della popolazione. In Kirghizistan vi sono tre parrocchie con cinque religiosi e cinque religiose che diverranno nove con l’arrivo a Dzalal Abad delle missionarie della Consolata.
Da.Co.
Lingue ufficiali Kirghisa, Russo (entrambe ufficiali)
Capitale Bishkek
Forma di governo Repubblica parlamentare
Indipendenza da Urrs 31 agosto 1991
Superficie 199.957 km²
Popolazione 5.959.121 (stima 2019)
Nome abitanti Kirghisi
Religione Musulmani 75%, Cristiani ortodossi 20%, Cattolici 0,01%, altre religioni o senza 5%
Confini Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan
Valuta Som kirghiso
La Chiesa sul divano
Testi di Giacomo Mazzotti e Francesco Pavese, a cura di Sergio Frassetto |
È stata una fortuna (oltre che una grande gioia) per i missionari e missionarie di fondazione italiana, poter iniziare il mese di ottobre incoraggiati da papa Francesco che ha voluto incontrarli e parlare loro a cuore aperto, alla vigilia del «mese missionario straordinario». Con la schiettezza e la sobrietà di stile che lo caratterizzano, ha lasciato loro alcune «perle» che vogliamo condividere con chi ha in cuore passione e «fuoco» missionario (come diceva l’Allamano).
Ci ha colpito non poco la sua descrizione del missionario come di uno che «vive il coraggio del Vangelo senza troppi calcoli, andando anche oltre il buon senso comune, perché spinto dalla fiducia riposta esclusivamente in Gesù». Ma anche il papa è stato colpito nel sentire i missionari, nel loro saluto, ribadire senza tentennamenti: «Siamo missionari ad gentes… ad extra… ad vitam!». «Questo – ha commentato il pontefice – non lo dite come uno slogan, […] ma nella consapevolezza della crisi attuale, accolta come opportunità di discernimento, di conversione, di rinnovamento».
«La gioia del Vangelo» è una delle espressioni più care al papa, che è riuscito a infilarla in una sua «pillola» di metodologia missionaria: «Con la vostra partenza, voi continuate a dire: con Cristo non esistono noia, stanchezza e tristezza, perché Lui è la novità continua del nostro vivere. Al missionario serve la gioia del Vangelo: senza questa non si fa missione, si annuncia un vangelo che non attrae… Anche la Chiesa italiana ha bisogno di voi, della vostra testimonianza, del vostro entusiasmo e del vostro coraggio nel percorrere strade nuove per annunciare il Vangelo – ci sentiamo un po’ imbarazzati nel riportare queste parole, ma… le ha dette proprio il papa – perché la Chiesa esiste in cammino; sul divano non c’è, la Chiesa».
Last, but not least, nel suo discorso, papa Francesco ha dato spazio anche alla gratitudine verso chi ha dato vita agli istituti missionari italiani: «Prima di tutto sento il bisogno di esprimere riconoscenza ai vostri fondatori. In un’epoca storica travagliata, la fondazione delle vostre famiglie religiose, con la loro generosa apertura al mondo, è stata un segno di coraggio e di fiducia nel Signore. Quando tutto sembrava portare a conservare l’esistente, i vostri fondatori, al contrario, sono stati protagonisti di un nuovo slancio verso l’altro e il lontano; dalla conservazione, allo slancio».
E mentre queste parole risuonavano nella splendida sala Clementina, in Vaticano, beh, un fremito di commozione ha attraversato il cuore dei missionari e missionarie della Consolata presenti, facendo affiorare sulle loro labbra il nome del loro beato padre fondatore…
P. Giacomo Mazzotti
Al tramonto
Durante l’ultima malattia l’Allamano era assistito dalle suore missionarie infermiere. Il suo più grande desiderio era di celebrare ogni giorno la santa messa. Un giorno, alla suora di turno disse con tono implorante: «Prega perché possa celebrare la santa messa fino all’ultimo». E al dott. Battistini che gli aveva proibito di alzarsi: «Professore si ricordi che lei ha già sulla coscienza tre messe da me non celebrate». Ed alla suora che gli faceva notare che però aveva fatto la comunione: «Sì, è vero; ma tu non sai che cos’è celebrare una messa!».
Sul fatto di non potere celebrare la messa ritornò più volte: «Sono sacrifici questi tanto grandi, che non ho mai compiuti in vita mia». «Se comprendeste che cosa significa una santa messa in più!». «Ah! La comunione è una gran cosa, ma quale sacrificio per me, non poter celebrare la messa!».
La volontà di Dio prima di tutto
Un giorno la suora che lo assisteva si era assentata per il pranzo. Appena tornata ebbe l’impressione che l’Allamano si fosse aggravato ed esclamò allarmata: «Padre, lei mi muore». Con tranquillità egli rispose: «E tu prega perché si compia la volontà di Dio».
Negli ultimi tempi, avendogli il professore proibito il vino, intervenne tranquillamente con il dott. Battistini che cercava di rimediare: «Lasciamo, signor dottore, che la scienza applichi i suoi ritrovati; io avrò occasione di fare una piccola mortificazione, applicandoci alla sorella acqua, come la chiamava San Francesco d’Assisi, e a un poco di latte annacquato, e così ne sarà glorificato il Signore che ce ne ripagherà largamente nell’ultima cena».
Pochi giorni prima di morire, fece notare ai sacerdoti della Consolata: «Nell’altra malattia [quella del 1900] vi siete preoccupati di farmi ricevere i santi sacramenti, mentre io mi sentivo perfettamente tranquillo; in questa invece, sono io che mi preoccupo di ricevere i conforti religiosi, perché mi sento che mi avvio al termine». Fu subito accontentato con una solenne celebrazione.
L’Allamano fu ardente apostolo fino alla fine. Poche ore prima di entrare in agonia, a suor Paola Rossi che lo assisteva negli ultimi giorni e che era stata da lui incaricata a preparare al battesimo una giovane di 18 anni, con un fil di voce disse: «Mi raccomando quella ragazza!».
Diario degli ultimi giorni
Questa suora infermiera ebbe un’idea intelligente e molto utile: redasse un diario essenziale, datato 20 febbraio 1926, che inizia il 31 gennaio e termina il 16 febbraio. In questo diario descrisse in breve lo stato di salute dell’Allamano: i miglioramenti, i peggioramenti, le visite dei dottori e di tante altre persone. Riferì anche alcune parole che l’Allamano pronunciò nelle diverse situazioni. Ne riporto alcune qui di seguito, con le rispettive date, ma senza fare commenti.
Notte tra 8-9 febbraio, alla suora che gli porgeva da bere: «Non ho mai fatto sacrifici così grossi: non celebrare la messa e fare la comunione non digiuno… ma, tra poco diremo la messa eterna».
11 febbraio, alla suora che gli domandava che cosa facesse: «Prego per te e per tutti voi, non posso far altro; e questa è la mia occupazione continua».
Notte tra l’11-12 febbraio, alla suora che voleva chiamare l’infermiera per porgergli qualche calmante: «No, aspetta fino alla sveglia delle 5, chissà quanti soffrono questi dolori… non solo io!».
Alla suora che gli fece notare come il triduo di preghiere nel Santuario otteneva un effetto positivo sulla sua salute, ripeté per tre volte: «Non questo dovete chiedere, non questo voglio, ma solo il compimento della volontà di Dio».
Alla superiora che gli disse che, incominciando il mese di San Giuseppe, avrebbero pregato per la sua guarigione, allargando le braccia: «La volontà di Dio, la volontà di Dio».
Esclamava: «Paradiso, Paradiso, Paradiso: ricordati, tre volte Paradiso». Quando gli si raccontava qualcosa di poco piacevole egli ripeteva: «Oh, in Paradiso non ci saranno più queste miserie».
15 febbraio: il mattino fu visitato dal canonico Francesco Paleari della Piccola Casa del Cottolengo, che gli assicurava che faceva pregare le sue suore. Rispose: «Sì, per le cose di lassù». Insistendo il Paleari nel dire che ci sono delle catene che tirano in su, ma ce ne sono tante che tirano in giù, con la speranza di vincere: «No, no, che si faccia la volontà di Dio, non come quella gente lì (alludendo alle suore missionarie) che prega solo per le cose materiali (con ciò voleva dire che pregavamo solo per la sua guarigione)».
Più tardi visitato da un signore suo conoscente, il quale gli disse che pregava perché il Signore ce lo conservasse ancora molti anni: «Oh… che si faccia la volontà di Dio»; alla sorella che pure insisteva sulla stessa cosa: «Ma per l’amor del Padre, dovete desiderare che vada in Paradiso. Farò più di là che di qua».
Al nipote che, dopo avergli fatto indossare la nuova biancheria, gli disse che sembrava uno sposo: «Oh, sì, fra poco vado alle nozze…».
I più vicini al suo capezzale poterono cogliere ancora dalle sue labbra qualche monosillabo; poi si udì con chiarezza un «Amen» e dal movimento delle labbra si poté cogliere: «Ave Maria». Fu l’ultima parola dell’Allamano su questa terra.
P. Francesco Pavese
L’Allamano: «Mission influencer»
Si è svolto a Roma, dal 25 marzo al 7 aprile scorso, un corso per i nostri formatori Imc, organizzato dalla Direzione Generale. Sono arrivati, quindi, 25 missionari (maestri di noviziato, direttori di seminari teologi, formatori dei Caf, testimoni di situazioni missionarie particolari) provenienti da Brasile, Colombia, Venezuela, Argentina, Kenya, Tanzania, Angola, Portogallo, Italia, Corea. Le due settimane sono state un tempo prezioso di comunione, per conoscersi, condividere le varie esperienze e sentirsi «famiglia della Consolata» nel non facile compito della formazione di coloro che, in un domani non lontano, saranno i futuri missionari della Consolata, figli di Giuseppe Allamano, che potrebbe essere definito, oggi, in un linguaggio comprensibile ai giovani: «Mission influencer».
La presenza del fondatore, visibile già nel logo del corso, è stato come il filo conduttore che ha guidato e unificato temi e contenuti che, essendo la nostra Famiglia missionaria ormai multietnica e internazionale, non potevano che essere variegati e molteplici.
È stato padre Piero Trabucco, ex superiore generale ed esperto in spiritualità a presentare ai formatori la figura del beato Allamano come formatore. Da questa angolatura, padre Piero, supportato da documenti storici, è riuscito a tratteggiare i le caratteristiche di uno stile fatto di atteggiamenti e strumenti formativi, capaci di trasmettere ai missionari la sua vicinanza paterna e «il suo spirito» (come lui lo chiamava). Tutta la sua persona è stata strumento per formare all’amor di Dio e alla passione per «le anime», per fare, cioè, innamorare i missionari di Gesù e della gente: santi, per la missione.
Gli spunti della ricca e corposa relazione di padre Piero sono diventati così il punto di partenza per riflettere su chi è il fondatore per i nostri formatori e come la sua figura, il suo esempio, la sua presenza entrano nei cammini formativi della varie comunità dei giovani aspiranti alla vita missionaria. Ecco alcuni… tweets:
– L’Allamano è importante perché, se non ci fosse lui, non ci saremmo nemmeno noi; rimaniamo senza identità, perché è lui che ha ricevuto l’ispirazione di fondare l’Istituto; è quindi fonte della nostra spiritualità e del nostro carisma.
– La sua umanità (paternità) si vedeva nei rapporti personali, nell’ascolto, nell’accoglienza (aveva tempo per tutti e per ciascuno); la sua pedagogia era fatta di bontà, vedeva sempre il positivo negli altri, anche se non taceva sugli aspetti negativi e da correggere (senza troppi rimproveri).
– Alcuni suoi aspetti ci colpiscono ancora: l’attenzione che aveva per le famiglie degli alunni; l’accogliere le sfide del suo tempo e con coraggio trovare la strada per andare avanti; il suo amore appassionato per l’eucarestia e la Consolata, l’impegno e la generosità nel «fare bene il bene»…
– Lui entra concretamente nel nostro lavoro di formatori quando cerchiamo di vivere la sua spiritualità, trasmettiamo i suoi insegnamenti ai giovani, dedichiamo tempo per leggere di lui e conoscerlo sempre di più, conduciamo uno stile di missione, secondo i suoi insegnamenti…
Al termine di questi giorni, intensi e preziosi, nella messa conclusiva del 7 aprile, è stato consegnato a tutti un messaggio, nel quale tra l’altro si leggeva:
«L’ascolto della parola di Dio ci ha aiutato a rileggere e rimotivare il nostro ministero di formatori, riconoscendo come essenziale e fondamentale l’esperienza di Dio, che siamo chiamati a suscitare anche nella vita dei giovani che accompagniamo.
L’aver riscoperto il nostro fondatore Giuseppe Allamano come modello di formatore, paterno e attento con tutti, ci ha stimolato a guardare alla formazione anzitutto come capacità di accogliere, di stare vicini, di far sentire ai giovani che ci sono cari e di incoraggiarli a vivere con autenticità e generosità l’identità di missionari della Consolata.
L’esortazione di papa Francesco ai giovani, pubblicata proprio in questi giorni, offre un messaggio di speranza e un’indicazione anche a noi formatori di giovani missionari: “Lo sguardo attento di chi è stato chiamato ad essere padre, pastore e guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta. È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli. Così è lo sguardo di Dio Padre, capace di valorizzare e alimentare i germi di bene seminati nel cuore dei giovani” (Christus vivit, 67).
Ringraziamo tutti coloro che ci hanno accompagnato con la loro preghiera e chiediamo al Signore, per intercessione di Maria Consolata e del beato Giuseppe Allamano, di benedire i nostri cammini di formazione per la missione, facendo germogliare i semi di bene seminati in questo corso».
Insomma: riscoprire la «pedagogia allamaniana» per formare dei veri missionari della Consolata, orgogliosi della loro vocazione e felici di poter servire il Signore con gioia e santità di vita, in questo nostro mondo così complicato, differenziato e, spesso, pieno di tanta sofferenza… e secondo le parole del logo del corso (scritte… in latino, per ovvi motivi di internazionalità): «Andando, annunciate il Vangelo a tutti i popoli», ma in perfetto… Allamano’s style!
p. Giacomo Mazzotti
Libri: Superare i Confini
Testp di Chiara Brivio |
Tre volumi scritti con tre stili, metodi, culture di provenienza differenti. Da una giornalista cattolica, un antropologo e un eclettico intellettuale. Tre testi che parlano di confini: quelli attraversabili dei missionari, quelli sempre in fase di assestamento delle comunità in cerca di identità, quelli che vengono di volta in volta aperti e poi ricostruiti dal tiremmolla tra il potere e la libertà.
Ci sono diversi modi di descrivere i «confini»: possono essere fisici, psicologici, emotivi, immaginari o reali. Abitualmente si tracciano per separare un fuori da un dentro, un di là da un di qua, per fermare dall’altra parte quello che non vogliamo con noi, ad esempio quelle persone che preferiamo non avere nella nostra comunità, nel nostro paese.
I tre libri di questo mese affrontano il tema dei «confini» da punti di vista diversi: da quello di una chiesa, quella missionaria, che aspira all’universalità, e per questo i confini li valica; da quello delle nuove «comunità», altrimenti dette community, che sembrano ignorare completamente i confini in un’epoca nella quale stanno rifiorendo le comunità chiuse; infine da quello di chi vede nei confini creati dal potere un ostacolo alla libertà umana e creativa.
Dove solo l’anima arriva
La giornalista Monica Mondo, conduttrice della fortunata trasmissione Soul su Tv2000, ha raccolto 15 interviste a missionari e missionarie che negli anni sono stati ospiti del suo programma. Le testimonianze sembrano convergere su una domanda chiave: «Che cosa vuol dire fare missione oggi, soprattutto in territori dove la chiesa va completamente rifondata?».
Tra essi c’è chi costruisce interi villaggi, come Pedro Paolo Opeka – vincenziano «carpentiere» che è stato visto a fianco di papa Francesco nella sua recente visita ad Antananarivo, capitale del Madagascar -; chi porta avanti una «intifada dei rosari» tra Israele e Cisgiordania, come suor Donatella Lessio; e c’è chi, come il missionario Fabio Mella, ha portato il cantautore Enzo Jannacci a visitare i boat people, persone senza diritti che vivono su imbarcazioni di fortuna nella baia infestata dai liquami di Hong Kong.
Ma ci sono anche intellettuali e teologi – dal domenicano inglese Timothy Radcliffe al neo cardinale e poeta portoghese José Tolentino Mendonça -, a testimonianza del fatto che la missione si può fare sia «stando là», anche a rischio della propria vita, sia stando «qua», cercando di instaurare un dialogo con laici, non credenti e coloro che si sono allontanati dalla chiesa.
Forse la cosa più curiosa che emerge da questi racconti, a tratti coloriti e divertenti, spesso tragici e commoventi, preceduti dalla prefazione di Paolo Ruffini, prefetto del dicastero vaticano per la Comunicazione, è il ruolo del film di Franco Zeffirelli sulla figura di Francesco d’Assisi, simbolo di povertà radicale. Molti degli intervistati hanno, infatti, dichiarato che fu proprio quella pellicola a confermare e rafforzare la loro vocazione.
Quelli raccontati da Monica Mondo sono uomini e donne che costruiscono ponti, superando ogni confine, come dice uno dei protagonisti: «Dobbiamo essere ponti e non muri. Ponti fra popoli, ponti fra chiese, ponti fra culture».
Comunità
Marco Aime è uno degli antropologi più famosi in Italia, nonché uno dei più prolifici. Questo suo breve e agile saggio, pubblicato dalla casa editrice bolognese Il Mulino, esplora il concetto di comunità dal punto di vista sociologico, antropologico e storico, spiegando come si sia passati dalle «antiche» comunità alle community online del nostro tempo.
Se la caduta del muro di Berlino nel 1989, era forse stato l’emblema della dissoluzione dei confini, oggi, con l’avvento dell’epoca dei Trump e dei Salvini con i loro «prima noi» (americani o italiani che siano), c’è stato un pericoloso ritorno alla paura del diverso, dell’altro, all’ansia generata dall’apparente disgregazione di antiche comunità, spesso puramente immaginarie (à la Benedict Anderson).
Aime fa notare che il paradosso odierno risiede proprio nel rafforzamento di quell’idea di «comunità chiuse» nell’era della globalizzazione e della rete, dove i confini sono stati virtualmente cancellati. L’antropologo ne rintraccia le cause nel passaggio dalla società contadina a quella industriale, con l’avvento del capitalismo che ha monetizzato e commodificato il tempo, fino all’arrivo delle società liquide della rete dove la tecnologia ha annullato questo concetto, rendendoci sempre reperibili e contattabili, nonché sempre più soli.
Il problema fondamentale è che non esiste più il luogo «fisico» dell’incontro, anima dell’essere umano come animale sociale, ma spesso solo quello virtuale. Quanto ha influito questo sulle relazioni sociali? Molto, secondo l’antropologo. Il quale teorizza una fine alquanto funesta per le comunità di oggi, se non saranno in grado di rimettere al centro le relazioni umane, a partire dalle famiglie stesse. «Forse sarà proprio dal nostro spirito di sopravvivenza che nasceranno nuove forme di convivenza, capaci di abbattere e superare certi confini», chiosa l’autore. Non abbiamo quindi che da sperare.
Smurare la libertà
Wole Soyinka è un intellettuale nigeriano, drammaturgo, scrittore, poeta e saggista premio Nobel per la letteratura nel 1986. Il suo volume L’uomo è morto? Smurare la libertà, edito da Jaca Book, raccoglie tre dei suoi testi scritti in diversi momenti sul tema della libertà. I primi due sono il discorso dello scrittore al Nobel del 1986 e un saggio del 1988 sul teatro nelle culture tradizionali africane. Entrambi già pubblicati negli anni ’80. Il terzo, invece, è un inedito intitolato Smurare la libertà, inizialmente scritto del 2004 e successivamente rimaneggiato.
Il filo rosso che lega le parti del libro è quello della libertà:
la libertà dal razzismo e dall’apartheid nel discorso di Stoccolma, dedicato a Nelson Mandela;
la libertà di espressione artistica scevra da ogni «colonizzazione della mente» nel secondo testo sul teatro;
la libertà contro il potere nel terzo testo che contiene una forte critica anche alle religioni cristiana e islamica.
In Smurare la libertà, fulcro della riflessione di Soyinka è il rapporto tra Potere e Libertà (entrambi maiuscoli nel testo): «Il Potere ama i confini. Il Potere si manifesta all’interno di confini, viene esercitato nell’ambito di territori in qualche modo delimitati». Un potere che lotta per la conquista di tutti i territori, spirituali, fisici e corporei, secondo una logica di assoggettamento e asservimento, in un chiaro richiamo all’epoca coloniale. Per il drammaturgo nigeriano ci sono state due cadute negli ultimi decenni che simboleggiano la lotta tra potere e libertà: quella del muro di Berlino nel 1989, che ha visto trionfare la libertà, e quella delle torri gemelle nel 2001, che ha visto prevalere il potere facendo ripiombare il mondo nella paura, dividendolo tra «credenti infedeli» e tra «alleati o terroristi», tra i Bin Laden e i Bush dell’epoca.
Come uscire dalla paura? Come liberarsi dal dominio del potere, esercitato con terrore e violenza? Soyinka non ha una risposta, se non quella di continuare a lottare contro il sistema che vuole «riabilitare questa mentalità fanatica […] dell’Altro violento, dell’Altro suprematista, intollerante, fascista, apocalittico».
Cari Missionari
Battezzati e inviati
La Chiesa di Cristo in missione nel mondo
Preghiera ispirata dal messaggio del santo padre Francesco per la 93ª giornata missionaria mondiale che si celebra domenica 20 ottobre 2019.
O Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo, dalla comunione con te nasce una vita nuova che viviamo come fraternità battesimale, ricchezza da donare, da comunicare, da annunciare gratuitamente, senza escludere nessuno.
O Dio Padre tenerissimo,
tu vuoi che tutti gli uomini siano salvi arrivando alla conoscenza della verità e all’esperienza della tua misericordia grazie alla Chiesa. Tu non ti sottrai mai al dono della vita, destinando ogni tuo figlio, da sempre, alla tua vita divina ed eterna, che ci viene comunicata nel battesimo. Questo sacramento della nostra salvezza ci dona la fede nel tuo figlio Gesù Cristo vincitore del peccato e della morte, ci rigenera a tua immagine e somiglianza, ci inserisce nel corpo di Cristo che è la Chiesa, ci fa tuoi figli e figlie adottivi nel tuo figlio unigenito.
O Signore nostro Gesù Cristo,
con la tua passione, morte e risurrezione ci salvi dal peccato e dalla morte, rompendo gli angusti limiti di mondi, religioni e culture. Tu ci chiami a crescere nel rispetto per la dignità dell’uomo e della donna, e a conversione sempre più piena a te, verità che dona la vita a tutti. Come il Padre ha mandato te, anche tu, con il dono dello Spirito Santo, hai mandato la tua Chiesa per la riconciliazione e la salvezza del mondo.
O Spirito Santo, vero protagonista dell’evangelizzazione,
tu ci conduci a Gesù verità, ci rendi Chiesa in uscita fino ai confini della terra e ci rendi capaci di essere dono gli uni per gli altri. Tu fai di noi la Chiesa che annuncia, celebra e testimonia il vangelo della salvezza nel rispetto della libertà personale di ognuno, in dialogo con le culture e le religioni dei popoli a cui Gesù ci invia. Fa’ che non manchino mai uomini e donne che, in virtù del loro battesimo, rispondano generosamente alla chiamata a uscire dalla propria casa, dalla famiglia, dalla patria, dalla propria Chiesa locale per essere missionari delle genti.
O beata vergine Maria, nostra madre,
ti affidiamo la missione della Chiesa. Unita al tuo figlio, fin dall’incarnazione ti sei messa in movimento, ti sei lasciata totalmente coinvolgere nella sua missione, che ai piedi della croce divenne anche la tua: cooperare come madre della Chiesa a generare nello Spirito e nella fede nuovi figli e figlie di Dio.
Amen. Alleluia!
Don Francesco dell’Orco Università Cattolica – Gemelli, 22/06/2019
Grazie e addio
Carissimi missionari della Consolata,
il mio nome è Bruno Bersani e molti anni fa ero uno di voi e ho passato dieci anni in Kenya, Meru, come fratello.
Là ho conosciuto una missionaria laica canadese, e fatto sta che dopo tanto pensare ho lasciato l’istituto e sono venuto in Canada.
Sono sempre stato molto attaccato all’istituto, alla Consolata e al beato fondatore Giuseppe Allamano.
Ho sempre ammirato i missionari della Consolata, padri, fratelli e suore. Credo di aver fatto di più per l’istituto da fuori che quando ne ero membro e ne sono orgoglioso.
Ero in contatto con uno di voi e fu lui ad abbonarmi a MC.
Ora ho novant’anni e siccome non ho nessuno in famiglia che conosce l’italiano, ho pensato di sistemare le cose prima che sia troppo tardi.
Decido di fermare la spedizione ora, piuttosto che continuare a riceverlo e nessuno lo leggerà e penserà a farvelo sapere quando non ci sarò più.
Tutti i giorni prego per voi missionari e missionarie della Consolata.
Mi sento orgoglioso di aver appartenuto all’istituto che ho amato e continuo ad amare. Ad un istituto che per me è il migliore.
Vi saluto tutti, con promessa di continuare a pregare per tutti i missionari e missionarie della Consolata e per il beato fondatore che presto sarà venerato come santo. Con affetto
Bruno Bersani New Westminster, Canada, 10/07/2019
Ricercando nei nostri archivi abbiamo trovato la foto del giovanissimo Bruno Bersani (sopra) insieme agli altri fratelli missionari a Meru negli anni ‘60: (da sinistra) Comaron Giovanni, Bersani Bruno, Bottaro Dino, Argese Giuseppe e Costardi Francesco.
Falsità sul debito estero
Egregio Direttore,
con riferimento all’articolo di Francesco Gesualdi di MC 5/2019 pag. 27, non sono riuscito a capire quali «falsità si sono raccontate rispetto al nostro enorme debito pubblico». Non è forse vero che abbiamo una cronica e sempre più sorprendente evasione fiscale, che i costi della nostra politica sono i più alti del mondo, che abbiamo le pensioni d’oro, abbiamo più auto blu degli Stati Uniti? Io apprezzo questa rivista, ma mi sembra che la responsabilità del nostro debito sia tutta nostra, frutto bacato di tanti governi mediocri che abbiamo eletto noi. Altro che azzerare il nostro debito «buttandolo sulle spalle della Bce».
Cordiali saluti,
Angelo Guzzon Cernusco Lombardone, 22/06/2019
Abbiamo naturalmente girato la questione a Francesco Gesualdi. Ecco la sua risposta.
Gli anni Ottanta furono catastrofici per lo stato
italiano perché si continuò a espandere la spesa sociale a debito, con soldi ottenuti esclusivamente dalle banche a tassi di interesse esorbitanti. I numeri confermano: il debito complessivo che nel 1980 ammontava a 114 miliardi di euro, 58% del Pil (Prodotto interno lordo), a fine 1991 lo troviamo a 755 miliardi, 95% del Pil. È abitudine misurare il debito anche in rapporto al Pil per avere un’idea più chiara della sua grandezza. Eppure il nuovo debito contratto per garantire maggiori servizi ai cittadini era stato solo di 140 miliardi. Gli altri 596 miliardi furono debito contratto per pagare gli interessi.
Il 1991 rappresenta uno spartiacque nella storia del debito pubblico italiano, perché fu l’ultimo anno in cui venne fatto nuovo debito per servizi a vantaggio dei cittadini. Nel 1992 si insedia il governo Amato e annuncia al popolo italiano che per aderire al progetto di moneta unica programmato dall’Unione Europea bisognava entrare nell’ordine di idee di ridurre il debito. Detto fatto, innalzò le tasse e ridusse le spese ottenendo un avanzo, fra quanto incassato e quanto speso al netto degli interessi, di 15 miliardi di euro. Eppure il debito crebbe anche quell’anno, per la semplice ragione che il risparmio realizzato non fu sufficiente a coprire la spesa per interessi che obbligò ad accendere altro debito. Anno dopo anno, quello stesso meccanismo si è protratto fino ai giorni nostri (ad eccezione del 2009) portandoci all’assurdo che nonostante 825 miliardi di risparmio realizzati nel periodo 1992-2018, il debito pubblico ha continuato a crescere per l’incapacità di tenere la corsa con gli interessi che nello stesso arco temporale sono ammontati a 2.160 miliardi, di cui 1.320 coperti con nuovo debito.
Tutto questo dimostra quanto sia falso affermare che lo stato italiano è indebitato perché abbiamo voluto vivere al di sopra delle nostre possibilità. L’Italia si trova nell’attuale livello di indebitamento perché è stata consegnata mani e piedi alle banche.
Francesco Gesualdi 06/08/2019
A questo punto la domanda più logica è: sono banche o strozzini e usurai? Si è preso un prestito di 254 miliardi in tutto e ora il debito è di 2.160 miliardi perché si sono fatti altri debiti per pagare quel debito? Di questo passo questo debito non sarà mai estinto. Quanto ci vogliono guadagnare gli usurai che hanno prestato i soldi?
Passaggio al Messico
[Cari amici che mi avete accompagnato in questi anni di vita africana],
la data [della mia partenza dalla Costa d’Avorio verso la mia nuova missione in Messico] si avvicina e voglio cogliere l’occasione per ringraziare Dio per il tempo vissuto in Costa d’Avorio. Sono arrivato qui il 16 gennaio 2001. Ho avuto l’opportunità di vedere bambini e bambine crescere; vedere i giovani sposarsi e accompagnarne alcuni al riposo eterno. È stata una vera grazia.
Mi scuso se ti ho fatto del male o a volte ti ho deluso. Sono consapevole di aver vissuto situazioni in cui non sono stato in grado di essere all’altezza di ciò che ci si aspetterebbe da un uomo di Dio.
Il Signore sa anche che ho vissuto questo tempo con passione.
Ho vissuto con passione l’incontro con Dio e la celebrazione dell’Eucaristia.
Ho vissuto con passione l’accompagnamento dei missionari, la costruzione della fraternità, della comunità e di uno stile di stare con persone di diverse religioni del quartiere.
Infine, ho vissuto con passione la visita alle famiglie e ai villaggi, l’inserimento tra la gente senufo, la presenza tra giovani e bambini, la promozione delle donne e la consolazione nell’istruzione, nella salute e nell’igiene.
Ho sperimentato con voi la gioia del Risorto.
Gli anni bui della guerra (civile – dal 2002 al 2011, ndr) hanno approfondito la mia fede. È diventata più matura, più forte, più teologale. E dal 2012, la speranza e la gioia sono stati i tratti fondamentali della mia presenza in questa terra.
Il 2 settembre andrò ad Abidjan e la notte tra martedì e mercoledì ho l’aereo per tornare in Spagna. Voglio andare a rivedere i miei genitori ormai invecchiati, con quasi 80 anni a testa. Vi chiedo di pregare per loro. Hanno appena accettato la mia missione in Messico, ma sanno anche che questa è la vocazione missionaria e la vivono con un misto di tristezza e orgoglio. Pregate per loro, per favore. Farò diversi mesi in Spagna con loro e in gennaio e febbraio farò un corso di rinnovamento in Italia per prepararmi a inserirmi in Messico, dove arriverò solo a marzo. Grazie per tutto quello che abbiamo passato insieme.
Tutto è stato un dono di Dio e per lui continuo ad offrire la mia vita per il bene della missione tra tutti i popoli. Alla prossima, wàa pye cangàa fáala.
Ramon Lazaro Esnaola, da San Pedro, Costa D’Avorio, 27/08/2019
Oltre il sovranismo
Cari missionari,
la decisa presa di posizione del papa sul tema del sovranismo – vedi «La Stampa» del 9 agosto – mi sembra una cosa molto importante.
L’amore per la patria, per la lingua, la musica, l’arte, la religione, il territorio nazionale, non può portare al respingimento di chi viene soccorso in mare e alla criminalizzazione di chi presta soccorso. A dircelo non sono solo le sacre scritture, ce lo dice anche lo scioglimento dei ghiacciai, ce lo dice il cambiamento climatico, ce lo dice la logica naturale, prima ancora che trascendentale.
Quello di patrimonio dell’umanità, prima ancora che un concetto biofisico, biologico o storico-archeologico, è un concetto filosofico e dovrebbe riguardare anche quei luoghi che ancora non sono riconosciuti come depositari di un particolare pregio artistico, architettonico o paesaggistico.
Il no netto alle ideologie sovraniste e la difesa della proprietà privata come diritto naturale non sono in contraddizione: se è contro natura negare il diritto alla casa – con gli stipendi da fame, con la speculazione immobiliare, con la sperequazione impositiva, con un sistema fiscale criminale – lo è anche rifiutare il soccorso alle donne gravide e ai bambini di pochi mesi in nome della difesa del nostro suolo, del nostro mare, della nostra casa, delle nostre risorse.
Lo è anche rifilare o minacciare multe pazzesche alle navi delle Ong che hanno accolto dei naufraghi a bordo.
L’Italia non è solo degli italiani ma del mondo intero, l’Adriatico non è solo di Venezia, il Mediterraneo non è solo degli italiani, dei francesi, della Spagna, della Libia o del Marocco.
La Russia non è solo dei russi, il Brasile – checché ne dica Bolsonaro – non è solo dei brasiliani, le foreste, i fiumi e i ghiacciai del Sud America non sono solo dei sudamericani esattamente come le foreste (per esempio quelle di sequoie o quelle degli alberi arcobaleno delle Hawaii),
i fiumi, i laghi (piccoli e grandi) e i ghiacciai del Nord America, non appartengono solo ai nordamericani, ma al mondo intero.
Il lago Aral non è solo dei kazachi e degli uzbeki, e se la parte kazaka recupera e quella uzbeka continua a ridursi, il problema è politico, ma politico vuol dire che, oltre ad Alma Ata e Taskent, anche le altre grandi città dell’Asia e del mondo hanno voce in capitolo, perché la rigenerazione di questo bacino sarà una vittoria per tutta l’umanità, mentre la sua scomparsa sarà una sconfitta per tutti.
Quello che si scioglie o si ricompatta sul Kilimanjaro, sugli Aberdare o in Groenlandia, riguarda anche Londra, Parigi, Roma, Washington, Berlino, Copenaghen, non solo Nairobi, i Masai e gli Inuit.
La Cina, intendendo anche Hong Kong, Macao, Taiwan, e quella inserita nel Progetto riserve della biosfera dell’Unesco, non è solo dei Cinesi, non è solo del Partito comunista cinese, ma patrimonio della comunità mondiale.
Non dico di non diffidare dell’ecologismo facile, del terzomondismo da salotto e dell’ipercatastrofismo, ma non dimentichiamo che l’atto virtuoso del singolo individuo, del singolo comune, e del singolo stato sovrano (per esempio la piantumazione di un albero, una buona raccolta differenziata, la lotta al caporalato) ha ricadute positive sul mondo intero, mentre i comportamenti viziosi (la dipendenza da alcol, tabacco e droga, il disprezzo del cibo, lo spreco di acqua…) ha ricadute che possono essere devastanti.
Incontro fratel Francesco Bruno, detto Cico, classe 1946 di Pinerolo (Torino), a Boa Vista, in Roraima, Brasile. Arrivato là nel ‘76, è un uomo d’altri tempi, con un umorismo contagioso e una manualità in grado di passare dalla riparazione di un carburatore alla realizzazione di chilometri di acquedotti. Lo definisco un eroe, capace di amore, dedizione, passione, tenacia e coraggio. Trascorro con lui pochi giorni alla scoperta delle missioni tra i popoli indigeni e dei progetti realizzati.
A bordo del suo camioncino Chevrolet raggiungiamo le missioni di Maturuca e Camarà. Le lunghe ore trascorse insieme mi aiutano a comprendere, attraverso i suoi racconti, le questioni che lo preoccupano maggiormente e che affliggono i territori indigeni minacciati da fazendeiros e garimpeiros (allevatori di bestiame e cercatori d’oro).
Questi ultimi stanno sfruttato da tempo le terre ancestrali occupandole abusivamente e attentando con ogni mezzo alla stessa esistenza delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingarikó e Patamona.
Per i popoli indigeni la terra è tutto, è la vita stessa. Soddisfa tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Fornisce cibo e riparo ed è il fondamento della loro identità e del loro senso di appartenenza.
Le invasioni e la situazione dei territori indigeni
L’invasione dei territori indigeni si protrae da oltre 500 anni ed è stata da sempre attuata attraverso la violenza sulle popolazioni, la distruzione degli ecosistemi, il furto delle conoscenze e la schiavitù fisica e spirituale. Una guerra che sembra non avere fine.
Il decennio che volge al termine rivela quanto il colonialismo rimanga vivo e operativo. Un’offensiva orchestrata da potenti interessi finanziari, corporazioni neo-estrattive e megaprogetti di sviluppo, continua a minacciare vite, culture e territori.
L’avanzare dei governi di destra e autoritari in Brasile rafforza la strategia di colonizzazione che va contro i diritti delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol, attraverso meccanismi istituzionali che favoriscono quelli che alcuni definiscono etnocidio ed ecocidio.
Nonostante le violenze subite, le popolazioni indigene resistono e vogliono essere soggetti del proprio destino. La causa indigena appartiene a tutti, indigeni e non. I processi come la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico rappresentano, infatti, una minaccia crescente per il mondo intero.
L’intervista
Dopo il nostro primo incontro a Raposa Serra do Sol, ho occasione di incontrare Puat Subyz, questo il nome indigeno di fratel Cico (sarebbe Chico, pronunciato scico in brasiliano, ndr), varie volte. Puat Subyz significa scimmia urlatrice, ma, come precisa lui stesso, l’origine del soprannome deriva dalla barba che all’inizio portava bella folta e fluente.
Mi racconti l’origine della tua vita da missionario in Roraima?
«Tutto è nato quando ho saputo che i missionari in Brasile avevano bisogno di un meccanico riparatore.
Quando sono arrivato a Boa Vista, nel 1976 e, più precisamente, a Calungà, dopo soli tre giorni, un missionario mi ha invitato ad andare con lui in moto in un villaggio indigeno. Un viaggio sotto la pioggia e segnato da numerose cadute nei profondi banchi di sabbia fine. Arrivati nella chiesetta del villaggio, il missionario, in abito talare bianco, durante la sua predica ha puntato il dito verso l’esterno della chiesa dicendo ai fedeli, cinque donne e sei bambini: “Voi non dovete fare questo”. Indicava gli uomini del villaggio che dormivano tra le alte erbacce dove erano caduti durante la sbornia della sera precedente.
Da quel giorno, iniziai a chiedermi come fare per evangelizzare e riparare le persone in panne (e non più solo gli automezzi)».
Quali sono state le tappe della tua lunga esperienza?
«Da quel lontano 1976, ho vissuto 14 anni a Calungà nel Centro Educativo della Consolata, insegnando e lavorando a riparare macchinari e automezzi della diocesi e della popolazione locale. Il fine settimana, partivo alla volta dei villaggi di lingua indigena Wapixana nella regione di Serra da Lua, per il lavoro di evangelizzazione e assistenza religiosa.
Dal 1991 al 1996, sono stato animatore missionario nelle scuole e nelle parrocchie di Erexim, nel Rio Grande do Sul. Ho poi trascorso 18 mesi nella missione di Catrimani nella terra yanomami, un anno alla missione parrocchiale di Alto Alegre, tre anni alla missione della Barata nella regione Taiano, sei anni all’area missionaria di Caranà a Boa Vista, un anno a Maturuca, sei anni nella missione di Camará nella regione Baixo Cotingo. Dal 2016 sono tornato a Maturuca».
Quali le maggiori difficoltà che hai incontrato in questi anni?
«In primo luogo, la malaria. I numerosi incidenti e le cadute con la mia motocicletta, i viaggi lunghi su strade e sentieri sconnessi e disseminati di pietre, crateri, pantani, torrenti da guadare; imboscate da parte di garimpeiros e fazendeiros evitate solo grazie alla protezione degli stessi indigeni; le incomprensioni e, in ultima istanza, i miei limiti personali e la poca preparazione per lavorare con popoli e culture molto differenti da me».
Quali e quante sono le etnie che hai incontrato in questi anni nella Serra do Sol?
«Nella Regione Baixo Cotingo, ho lavorato con i Macuxi e con gli Irian, due etnie con lingua simile che oggi convivono ma che in passato erano sempre in lotta tra loro. In misura minore ho anche interagito con individui di lingua Wapixana. Nella regione Serras invece, ho lavorato solo con Macuxi e poche persone di altre etnie presenti nelle nostre assemblee periodiche. In generale, i Macuxi, costituiscono la maggioranza insieme a minoranze di Ingarikó, Taurepang, Patamona, Maiongong e qualche Wapixana. Gli Irian, nella Regione Baixo Cotingo, sono al secondo posto come numerosità. Da notare che i Wapixana sono del gruppo linguistico Aruak. Tutti gli altri del gruppo linguistico Carib».
Quali sono le tue maggiori preoccupazioni legate ai problemi che da sempre affliggono le terre indigene?
«Al momento nella Regione Serras, ci sono invasioni di turisti con vari tipi di distrazioni. C’è una forte presenza di venditori ambulanti, che offrono mercanzie di ogni sorta, tra cui bevande alcoliche e droga, senza nessun controllo da parte del governo. Al contrario, il paradosso è che gli indigeni non possono portare i loro prodotti in città a causa della “mosca della Carambola” e il controllo del governo da questo punto di vista è molto severo.
Fortissime le incursioni dei politicanti che offrono di tutto, soprattutto la realizzazione di fantomatici progetti che non sono in sintonia con l’ecosistema della regione e la stessa cultura indigena. Molte le promesse mai mantenute, per fortuna degli indigeni, i quali spesso si lasciano ingannare da questi uomini in malafede e senza scrupoli.
Nella Regione Serras c’è poca vegetazione, tipica dei climi semi aridi. Gli indigeni hanno iniziato da qualche tempo a organizzare fiere di sementi e piante con relativo scambio di prodotti del territorio; stanno così crescendo gli scambi e il commercio di beni che generano lentamente un aumento della produzione alimentare locale.
La televisione è purtroppo il mezzo più distruttivo nelle comunità indigene: è comune vedere nelle capanne di legno e foglie, televisori con grandi schermi alimentati da piccoli generatori o dallo stesso generatore del villaggio, quando questo funziona.
Nella terra yanomani, sono presenti oltre ventimila invasori garimpeiros e questo comporta malattie, morte e annientamento sociale e culturale per gli indigeni.
Il furto delle conoscenze e la distruzione dell’ecosistema sono piaghe secolari.
Purtroppo sono pochi gli indigeni che si preoccupano di queste tematiche che affliggono la loro società e il loro ambiente naturale».
Esistono ancora le condizioni per il pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione delle popolazioni indigene?
«Ci sono molti indigeni e giovani impegnati che partecipano a incontri su questi temi, ma la lotta è durissima. Sono drammatici gli eventi recenti che vedono precipitare la situazione delle terre indigene e peggiorare le condizioni di vita dei popoli nativi a seguito dell’insediamento del nuovo governo di Jair Bolsonaro. Il nuovo presidente ha promesso, durante la campagna elettorale, di permettere l’estrazione dei minerali nelle riserve degli indigeni. Questo ha incoraggiato i cercatori d’oro a continuare le devastazioni per l’estrazione del prezioso metallo violando deliberatamente la legge e inquinando i fiumi.
Dal punto di vista dei diritti umani la situazione peggiora di giorno in giorno. Gli indigeni denunciano gli invasori finanziati dall’agrobusiness di violenza, terrorismo e guerriglia allo scopo di raggirare la legge, calpestando quanto affermato nella stessa Costituzione».
Credi sia possibile arrivare a una fine della violenza, della criminalizzazione e della discriminazione nei confronti delle popolazioni indigene e dei loro territori, garantendo la punizione dei responsabili?
«È il grande sogno indigeno ma anche di moltissimi brasiliani. Purtroppo, la realtà delle cose in Brasile peggiora di giorno in giorno. Impunità totale dei colpevoli ricchi e potenti, punizioni severe per gli indigeni e la povera gente».
Dan Romeo
Missione è Gioia
Testimonianze di missionari e missionarie della Consolata
A cura di Gigi Anataloni – foto Archivio fotografico MC
La semplice gioia dei cristiani di Luacano, in Angola, che vedono il ritorno dei missionari dopo troppi anni di guerra e abbandono.
Nel mese missionario straordinario
La gioia della Missione
«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (EG).
Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 (EG), la scelta di papa Bergoglio appare chiarissima: l’insistenza sulla gioia. Il termine ricorre 59 volte, ha il carattere del «lieto annuncio» che dà vita alla Chiesa, e costituisce il contenuto di ogni azione evangelizzatrice (vecchia o nuova). Intende cioè riconnettere la Chiesa con l’esperienza fondamentale da cui ha origine, quella della Pasqua.
Difficile immaginare una comunità in uno smarrimento più profondo di quella dei discepoli due giorni dopo la morte di Gesù in croce. Impossibile immaginare una gioia più grande di quella provata scoprendolo risorto. Una gioia che fa persino paura, ma che mette le ali ai piedi perché venga annunciata. Se non si riprende oggi contatto con questa esperienza sorgiva e non se ne apre l’accesso a coloro ai quali ci si rivolge, qualunque iniziativa di evangelizzazione rimarrà nell’ambito delle tecniche di comunicazione pastorale, senza incidere davvero nella vita delle persone. Per questo la scelta della gioia come filo conduttore è pertinente al tema del Sinodo per l’Amazzonia.
Certo, la Chiesa tutta intera si fonda sull’esperienza pasquale, ma un conto è saperlo, un conto è metterlo in pratica. È quindi particolarmente efficace il suggerimento di Francesco che indica la gioia del Vangelo come criterio di verifica di quanto si vive. Questo vale a livello individuale, ma anche per la Chiesa nel suo insieme: il papa ce lo ricorda, con espressioni tanto sorprendenti quanto inusuali, nei paragrafi di EG dedicati a «Il piacere spirituale di essere popolo» (nn. 268-274).
Bisogna chiarire subito, a scanso di facili equivoci, lo spessore della gioia di cui egli parla: non un sentimento superficiale ed effimero di euforia o piacevolezza, è piuttosto l’atteggiamento di chi sa che la sofferenza e la morte esistono, ma li ha attraversati sperimentando che la vita è più forte. Il papa fa alcuni esempi presi dalla sua esperienza: «Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice». Qui ognuno è invitato a introdurre le proprie esperienze personali: stupisce sempre vedere persone che nelle situazioni più difficili e impensabili riescono ad accogliere, affrontare e vivere in profondità quello che sono.
Il contrario di questa gioia non è il dolore, ma «una cronica scontentezza», «un’accidia che inaridisce l’anima», un «cuore stanco di lottare» che «non ha più grinta» (n. 277 passim). Questa tristezza avvelena la vita di molte persone e soprattutto è agli antipodi di quello che Dio desidera per ogni uomo. Aver gustato la vera gioia, che è il contenuto più profondo dell’esperienza di fede, permette di smascherare l’insoddisfazione profonda di ogni chiusura in se stessi, per quanto sembri a prima vista confortevole.
Da questo punto di vista, il messaggio dell’esortazione riposa su una verità fondamentale della fede cristiana, spesso ripetuta, ma ancor più spesso incompresa o presa poco sul serio, quando non addirittura temuta per il suo carattere insopprimibilmente rivoluzionario: Dio vuole la gioia e la felicità dell’uomo, e la vuole per tutti. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore» (n. 3). Ciò richiede effettivamente un atto di fede che sfida tante consuetudini e convinzioni profonde, per lo più implicite, in particolare nel nostro disincantato mondo postmoderno.
Ma senza questa fede, qualunque annuncio evangelizzatore suonerà falso e mancherà di attrattiva. Per questo Francesco non teme di ricordare che proprio coloro che hanno la missione di evangelizzare sono i primi a rischiare di non vivere l’Evangelii gaudium. Il capitolo sulle «Tentazioni degli operatori pastorali» (nn. 76-109) è molto concreto nel dare indicazioni in questa direzione, sempre nel registro del sostegno e dell’accompagnamento spirituale.
Stefano Camerlengo, superiore generale dei missionari della Consolata
Condividiamo in queste pagine la gioia della missione attraverso alcune testimonianze di missionari e missionarie che abbiamo un po’ obbligato a uscire dal loro riserbo.
Il missionario non è un supereroe, ma una persona normale che per amore «si mette in movimento, è spinto fuori da se stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita». (dal messaggio di papa Francesco per la GMM 2019)
Stefania Raspo: Bolivia – Per sempre con la mia gente
Accanto ai «rifugiati climatici»
Suor Stefania Raspo, piemontese, classe 1977. È entrata tra le missionarie della Consolata nel 2001. Ha fatto la sua prima professione nel 2008. Dopo gli studi teologici a Roma, è stata destinata alla missione della Bolivia, dove vive dal 2013 con il popolo quechua.
Basilio è un personaggio un po’ speciale in Vilacaya. Quando ci trova per strada esprime sempre tutta la stima che nutre per le hermanitas (sorelline). Ma è interessante come questo uomo semplice ha interpretato la mia professione perpetua, che si è tenuta nel paesino andino il giorno della Consolata del 2016.
«Tu, hermanita Stefania», mi dice spesso, «hai voluto essere hermanita per sempre in Vilacaya». Se da una parte mi fa sorridere che Basilio abbia unito l’aggettivo «perpetua» con la mia presenza in Vilacaya, dall’altra è il più bell’augurio che mi si possa fare: poter vivere tutta la mia vita missionaria con la mia gente contadina di lingua quechua.
Sì, perché nella vocazione missionaria si mette l’accento sull’andare, ma il restare è una parte fondamentale. È vero che ho viaggiato molto e ho vissuto in vari paesi (dapprima il Brasile per il noviziato, quindi l’Argentina e poi la Bolivia). È vero che c’è tutto lo sforzo del mettere radici in una realtà, entrare in una nuova cultura e società, così come c’è l’altra faccia della moneta: il dolore dello sradicarsi per andare altrove. Il restare è la cosa più bella ed arricchente. E non è scontato. Alle volte, in quanto missionari e missionarie, non disdegniamo un certo nomadismo che non ci lascia affondare le radici in un luogo, qualunque esso sia.
Sono ormai 7 anni che vivo in Vilacaya (Bolivia), un piccolo villaggio contadino che ha mantenuto molte tradizioni millenarie del popolo andino. La gente parla quechua ed io, purtroppo, non lo domino ancora, anche se lo capisco abbastanza. Ci hanno accolte a braccia aperte, quando abbiamo aperto la comunità nel 2013, e continuano ad accoglierci e a volerci bene.
Il popolo nativo quechua di Vilacaya mi ha permesso di recuperare valori che un po’ avevo messo da parte: l’accoglienza e il saper condividere (se arriva un ospite inatteso, c’è sempre un piatto di cibo per lui), il saper chiedere permesso, perdono e il dire grazie alla Madre Terra, con cui si vive una relazione vitale. Una spiritualità semplice però profondissima. Il sapermi «sprogrammare» e accogliere il giorno così come viene, senza chiudermi in orari e tabelle di marcia.
La gente di Vilacaya (e in generale della regione di Potosì) è una vittima del cambio climatico: la desertificazione avanza, l’imprevedibilità del clima rende quasi impossibile l’agricoltura. La conseguenza è la migrazione e lo spopolamento. Ormai ci sono poche famiglie giovani, la maggior parte sono anziani o ragazzi fino ai 18 anni. Questi, finite le superiori, si mettono in marcia anche loro per cercare un’altra possibilità di vita nelle città, o all’estero. Ci ritroviamo accanto ai poveri, ai «rifugiati climatici» come dice la Laudato Si’. Quelli che pagano più degli altri le follie di un clima impazzito, alla mercé delle grandinate devastatrici, delle gelate fuori stagione, che ormai da 4 anni non danno un raccolto soddisfacente. I peccati contro la natura hanno ripercussioni forti sui poveri.
Ma se c’è una cosa che ho sperimentato in Vilacaya, è dove sta Dio: al fianco del povero. L’ho visto, l’ho sentito: lui è lì, perché i poveri sono i suoi preferiti. Allora lo stare qui è anche una profonda esperienza di Dio.
Rimane l’impegno di saperlo annunciare, con la vita e con le parole. Un Dio Amore, che non è responsabile delle pazzie del clima, come forse la visione indigena tende a credere. Un Dio che piange per i colpi inferti alla Pachamama (la Madre Terra) e si china a consolare i suoi figli. Anche attraverso di me.
Suor Stefania Raspo, mc
Nicholas Muthoka: Italia – missione in barriera a Torino
Padre Nicholas Muthoka alla Professione perpetua di Fumo Célio Joao.
Camminare in mezzo alle «due città»
Padre Nicholas Muthoka Nyamasyo, nato in Kenya nel 1981, ordinato sacerdote nel 2011, è stato responsabile del Centro di animazione missionaria in Torino e dal 2013 è nella parrocchia Maria Speranza Nostra in Barriera di Milano, quartiere multietnico di Torino, dove ora è parroco.
Al calar del sole, le strade di «barriera», quartiere Nord di Torino, si riempiono di giovani e giovani adulti in cerca di svago e anche di un po’ di soldi: chi beve sulla strada, chi chiacchiera, chi spaccia, chi si prostituisce. È un mix di gente «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione», stavolta non radunati sul monte Sion per il banchetto di «grasse vivande, cibi succulenti e di vini raffinati» (Isaia 25,6), ma per sopravvivere. Ognuno risponde alle domande della vita a modo suo. Spesso sono storie di vita e situazioni molto difficili e depravate, tra droga, microcriminalità e miseria. E il missionario cammina in mezzo a loro salutando e facendo due chiacchiere. Anche lì c’è bisogno di salvezza, della parola buona e salvatrice di Gesù. In fondo «quei ragazzi all’angolo della strada» hanno la stessa umanità, le stesse domande, gli stessi sogni di tutti.
La percentuale dei migranti residenti nel quartiere tocca il 35%, tra disagio, povertà e disoccupazione. Tra di essi, c’è un alto numero di non cristiani: gente di altra fede, quelli che si sono allontanati dalla fede, gli agnostici e gli atei.
C’è un’altra umanità però, quella che cammina sulle strade di barriera durante il giorno. Per andare a scuola, al lavoro, al bar, a far la spesa, a messa, ecc. Un’umanità, anche questa, angosciata, affannata e distratta per le faccende della vita. Anche qui, c’è un po’ di tutto: precarietà lavorativa, solitudini, soprattutto quelle dei giovani e degli anziani, rapporti difficili nelle famiglie tra divorzi, separazioni e violenza… insomma, «due città», come le chiama l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, ambedue bisognose di salvezza.
In mezzo a tutta questa umanità, c’è lo svettante campanile di rame che troneggia: ogni ora batte come per ricordare di guardare in alto. È la chiesa, la parrocchia, con tante attività e proposte, rivolte a tutti indistintamente. Un cortile d’oratorio di medie dimensioni che spesso si presenta colorato di bambini, ragazzi, adulti e anziani, e anche questa volta «di ogni lingua, tribù, popolo e nazione». Un’altra città in mezzo alle altre due? Una mediazione tra le due?
Cosa significa la missione in quest’angolo della città di Torino, dove in 2 km2 vivono/convivono quasi 19mila abitanti?
Quasi il 30% della gente è coinvolta, in un modo o nell’altro nella vita della parrocchia, tra catechesi, carità, liturgia, giovani, il sociale.
Cos’è la missione per me in questo contesto dinamico, bello e complesso? Me lo chiedo spesso.
È camminare in mezzo agli uomini e alle donne, raccogliere le lacrime di gioia e di dolore, e depositarle sull’altare di Cristo. È ascoltare le intime speranze dei giovani e la realtà spesso dura degli adulti e cercare di illuminarle con la Parola di Cristo. È accompagnare le ginocchia vacillanti degli anziani, cercando di individuare insieme a loro il senso delle fatiche dei loro giorni e rallegrare la loro solitudine.
La missione è aprire la porta a chi bussa in cerca di un «porto sicuro»: il viandante senza casa, il povero senza riscaldamento nei duri inverni, il disperato in cerca di una buona parola.
La missione è anche la fatica di tenere insieme un tessuto sociale che rischia di strapparsi, cercando di creare un clima umano in un contesto difficile di contrapposizioni e pregiudizi tra etnie e individui attraverso iniziative che facciano risplendere la bellezza di ogni persona e di ogni popolo.
Tutto questo è annuncio della potenza della grazia di Cristo e della sua opera redentrice. Far apprezzare ai non cristiani e ai «lontani» l’amore di Cristo e la bellezza della sua famiglia, la Chiesa. Naturalmente, sostenere il cammino dei fedeli cattolici nella ricerca del volto di Dio attraverso i sacramenti, le celebrazioni liturgiche e l’ascolto della Parola, fa parte dell’impegno di ogni buon parroco e viceparroco. Infatti, è propedeutico alla missione la formazione e accompagnamento di una comunità cristiana bella e forte, un laicato che assuma anch’esso la missione dell’annuncio, per far brillare il volto bello di Cristo in mezzo agli uomini e alle donne di questo pezzettino di mondo.
Padre Nicholas Muthoka
Mary Agnes Njeri Mwangi: dal Kenya a Roraima
Respiri di cuore missionario
Suor Mary Agnes Njeri Mwangi, è missionaria della Consolata nata in Kenya. È in Roraima dal 2000, da allora presta il suo servizio nella missione del Catrimani. Vedi l’intervista «Attorno al fuoco nella casa comune» in MC 3/2019.
Arrivai a Boa Vista, in Roraima, all’estremo Nord del Brasile, nell’anno 2000, anno del giubileo. Mi sentivo una missionaria del terzo millennio, disposta a tutto per esserela ad gentes (tra le genti) e tra la gente.
Finalmente tutto quello che sognavo quando in Kenya mi ero sentita chiamata a essere missionaria della Consolata, diventava vero.
Essere missionaria nel contesto della chiesa locale di Roraima, era una grande sfida.
La lotta per i diritti e la vita dei popoli indigeni, per l’omologazione della terra indigena della Raposa Serra do Sol (ottenuta finalmente nel 2005), e l’impegno per migliorare i servizi per la salute («perché abbiano la vita, e la vita in abbondanza») specialmente per gli Yanomami, richiedevano tanto lavoro, tenacia e creatività da parte delle suore, per lanciarsi verso orizzonti di missione più ampi. E per me, le sfide che vivevo si trasformavano in domande, tante domande, aggiunte a quella più significativa che il nostro padre fondatore ci esortava a farci sempre: «Ad quid venisti?» (per quale motivo sei venuta qui?).
Con gratitudine ricordo suor Aquilina Fumagalli, arrivata a Boa Vista nel 1950, e suor Leonilde Dal Pos, nel 1953. Le due sorelle, nel tentativo di rispondere alle mie domande, mi hanno trasmesso il respiro del loro cuore missionario maturato insieme al popolo amazzonico. Le loro condivisioni animavano e sviluppavano in me la speranza.
Così, quando, appena arrivata, condividevo con loro qualche problema di relazione con la gente, suor Aquilina mi rispondeva sorridendo che non c’era niente di nuovo. Anche lei e le altre suore, all’inizio, dopo che erano appena andati via sia i benedettini che le benedettine, avevano sperimentato accoglienza e rifiuto. «L’unico mezzo che avevamo a disposizione (per vincere i cuori) era la carità».
E suor Leonilde, una suora di età avanzata e fragile, ma molto serena e gioiosa, mi spiegava come era riuscita a incarnarsi in questa realtà così difficile e complessa. Ricordava che i primi tempi aveva sofferto molto, soprattutto a causa della scarsità e della qualità del cibo, ma «davanti alle difficoltà non ho mai pensato di ritornare in Italia, perché il mio obiettivo era morire in terra di missione. Ho preferito rimanere qui, visto che c’erano tutte le opportunità per formarmi alla santità, che è lo scopo finale della vita di ogni missionaria della Consolata».
Grazie a loro mi sono inserita nella realtà dei popoli dell’Amazzonia brasiliana. Certo che quando le cose vanno bene e si vivono momenti di allegria e di consolazione è più facile essere una missionaria che annuncia la gloria di Dio incarnata, ma è il modo nel quale si vivono i momenti di scoraggiamento, dolore e fatica, che è determinante nella vita e nella missione.
Suor Leonilde mi insegnava a cercare parole di forza e ripeteva molte frasi significative. «Dio non si ripete mai nelle sue opere. Si comunica per mezzo di persone, e ogni persona ha qualcosa da seminare. Dobbiamo essere vigilanti per cogliere la grazia di Dio. Essere umili. Al tempo opportuno Dio si rivela. Per chi non sta attento invece il tempo fugge».
I 19 anni che ho trascorso finora in Amazzonia, sono di vita donata. Condividendo, ho imparato – e lo credo fortemente – che il cammino più lungo comincia sempre con un primo passo, e alle volte il primo passo è fare una domanda.
Suor Mary Agnes
Giorgio Marengo: Mongolia – sotto i cieli infiniti
Sussurrare il Vangelo
Padre Giorgio Marengo. Nato a Cuneo nel 1974, dopo il liceo classico a Torino è entrato nei missionari della Consolata. A Roma per la formazione teologica, è stato ordinato sacerdote nel 2001. Assegnato al primo gruppo diretto in Mongolia, nel 2003 ha raggiunto la sua destinazione insieme a un confratello e a tre consorelle.
Dal 2006 vive in una zona rurale a 430 km dalla capitale (Ulaanbaatar), dove in questi anni è nata una piccola comunità cristiana di cui è parroco, condividendone la responsabilità con gli altri missionari e missionarie con i quali vive. Nel 2016 ha conseguito il dottorato in missiologia alla Pontificia università urbaniana con una ricerca sull’evangelizzazione in Mongolia. Segue i primi passi di un piccolo centro per il dialogo interreligioso e la ricerca culturale che i missionari e le missionarie della Consolata hanno avviato a Kharkhorin, l’antica capitale dell’impero mongolo.
Per me essere missionario è aiutare le persone a incontrare Cristo, in particolare quelle persone che vivono in situazioni nelle quali tale incontro è obiettivamente difficile, a motivo dell’assenza della Chiesa o di una sua presenza limitata e parziale. Questo è ciò che la Chiesa chiama missione ad gentes ed è la nostra vocazione di missionari della Consolata, quella di offrire la vita a Cristo per la prima evangelizzazione laddove non ci sono altri cristiani a poterlo fare.
La Mongolia è una delle situazioni esistenziali dove – per vari motivi storico culturali – Cristo è ancora poco conosciuto. Essere al servizio di questo incontro è per me il dono più grande e ringrazio tanto il Signore di poter vivere in prima persona questa vocazione. Certamente questo è un mistero che ci supera e ci avvolge, ma è anche molto concreto, perché se Dio per raggiungerci ha scelto di farsi uomo, l’incontro con lui passa ancor oggi attraverso la nostra umanità. Questo secondo me è il cuore della missione. Tutto il resto è subordinato e finalizzato a questo cuore. Anche la promozione umana, che da sempre accompagna l’azione evangelizzatrice della Chiesa, si comprende alla luce di questo amore più grande e di questo desiderio che le persone incontrino concretamente la misericordia di Dio in Cristo.
Il nostro specifico, come missionari, è proprio offrire la possibilità di instaurare un rapporto personale ed ecclesiale con il Risorto. Non in forza di una qualche strategia di espansione o attraverso un’azione di convincimento simil-pubblicitario, ma come puro dono, in continuità con quanto i cristiani hanno sempre fatto: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo dò», diceva san Pietro (Cfr. At 3,6). E quel dono da lui offerto era precisamente il nome di Gesù Cristo, cioè la fede in Lui.
Questa è la nostra chiamata. Mi pare evidente che noi missionari dovremmo essere trasfigurati in prima persona dall’incontro con Cristo: non si può favorire l’incontro con una persona che noi stessi non frequentiamo. La fede non si comunica come un oggetto qualunque, si può solo contribuire a generarla, mettendo in conto anche il rifiuto. Per questo la missione non è la diffusione di un’idea, ma ha a che fare con la gestazione di una vita. Essa richiede una profonda conversione innanzitutto in noi missionari. Se il Vangelo non ci attraversa profondamente è difficile che riusciamo a condividerlo. Essere missionari è innanzitutto lasciarsi raggiungere personalmente dal Vangelo stesso, facendoci plasmare da esso; allora sì, questa luce si effonderà intorno a noi. E lo farà attraverso quella moltitudine di coinvolgimenti che da sempre caratterizza la vita del missionario: la carità, il dialogo interreligioso, la ricerca culturale, lo studio, l’accompagnamento nel cammino di fede. Proprio come succede qui in Mongolia, dove tentiamo di «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia».
Padre Giorgio Marengo
José Luis Ponce de Leon: Eswatini – Missionario e vescovo
Arrivare senza farsi annunciare
Mons. José Luis Gerardo Ponce de León. È nato in Argentina, a Buenos Aires, nel 1961, dove ha conosciuto i missionari della Consolata. Dopo la formazione di base nel suo paese e in Colombia, è stato ordinato sacerdote nel 1986. Tornato in Argentina per alcuni anni di animazione missionaria, nel 1994 è stato mandato in Sud Africa, dove, nel 2009, è diventato vescovo di Ingwuavuma (ai confini con il Mozambico) e poi vescovo di Manzini in quello che un tempo era lo Swaziland e oggi è lo Eswatini.
Vescovo da 10 anni. In due nazioni diverse: Sud Africa prima e, da cinque anni, nel Regno di Eswatini, ex Swaziland. In tutti e due i posti sono partito allo stesso modo. Non conoscevo la zona che mi era stata affidata e così ho deciso di visitare ogni singola comunità, piccola (piccolissima) o grande. Qui, in Eswatini, ce ne sono 120. Arrivavo senza farmi annunciare. Non volevo che la gente fosse lì «per il vescovo» ma per il giorno del Signore (la domenica).
Non è stato semplice che loro accettassero questo «mio» modo di farmi presente, perché avrebbero voluto potermi accogliere diversamente, ma… non hanno avuto scelta. L’impatto è stato forte perché in diversi posti era la prima volta che vedevano il vescovo fra di loro. «Oggi noi siamo la cattedrale», dicevano con un grande sorriso.
C’è stato qualche posto dove sono stati contenti di vedere un volto nuovo ma non avevano idea che fosse proprio il loro vescovo a essere fra di loro.
La missione è sempre un andare all’incontro dell’altro e, in modo particolare, all’incontro di colui/colei che non si sente degno di tale visita. Infatti, il mio motto episcopale (diventato «saluto» nella diocesi) è: «La Parola si è fatta carne» (Gv 1:14), espressione di quel Dio venuto al nostro incontro nella nostra fragilità.
Di questo incontro nella fragilità la diocesi è testimone con delle iniziative che sono uniche in questa nazione.
Eswatini è la nazione con la percentuale più alta al mondo di malati di Aids. Da quasi 20 anni, la diocesi porta avanti una casa di cura per adulti e bambini. Nata nei tempi nei quali l’Aids era una sentenza di morte, ha accompagnato tanti all’incontro con il Padre. Oggi, invece, è il posto dove ritrovano la loro dignità per poter tornare a casa. La sfida è farli tornare in case nelle quali non si sono mai trovati bene come da noi. La cura dei disabili (bambini, giovani e adulti) è un’altra espressione di questo amore che innalza. Qualche settimana fa è stato consegnato un riconoscimento a un missionario Servo di Maria che 50 anni fa aveva introdotto il braille per l’educazione di coloro che hanno difficoltà con la vista (visullay challenged). Lui, morto qualche anno fa, mi diceva sempre: «Sono riuscito a fare tanto per i disabili ma non sono riuscito a cambiare il modo nel quale le loro famiglie e la società li guarda». Per questo i nostri centri sono diventati espressione dell’amore del Padre.
Ma anche la realtà dei rifugiati è una chiamata a guardare al di là del nostro piccolo mondo nel quale abbiamo la tentazione di rimanere chiusi. Da tanti anni la Caritas Swaziland guida, come soggetto che attualizza gli accordi tra il governo e l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), il centro di rifugiati nato al tempo della guerra civile in Mozambico. Oggi sono famiglie (marito, moglie e diversi figli) che arrivano dalla regione dei grandi laghi (Rwanda, Burundi, Congo). Attraversano tutto il continente con il sogno di un futuro diverso. In risposta all’appello di papa Francesco, e per iniziativa dei laici della diocesi, tutte le parrocchie convergono una volta all’anno nella cattedrale per la celebrazione della messa e per portare i loro doni.
La missione è tutto questo… cultura dell’incontro, aprire gli occhi, imparare a vedere, amore gratuito e sempre la buona notizia di Gesù che ci dà vita in abbondanza.
Luis Ponce de Léon, vescovo
Ramón Lázaro Esnaola: Costa d’Avorio – missionario oggi è
Essere itinerante per il Vangelo
Padre Ramón Lázaro Esnaola. Nato nel 1967 in Spagna, nel 1997 è stato ordinato prete a Zaragoza. Nei primi tre anni di ministero è stato destinato in Spagna all’animazione missionaria e vocazionale, alla formazione di base e alla pastorale con le persone migranti. Nel 2001 ha cominciato la sua Odissea nello spazio – come la chiama lui – ed è arrivato in Costa d’Avorio. Dal 2008 al 2012 è stato incaricato della formazione di base nella RD Congo. Poi è tornato in Costa d’Avorio fino a oggi. Quando leggerete queste righe avrà appena cominciato una nuova tappa di vita in Messico (vedi lettera).
Il missionario d’oggi ha una forte esperienza personale di Dio. Conosce Dio ed è conosciuto da Lui. Ha un rapporto quotidiano con Lui secondo il momento che sta vivendo. A volte questa relazione sarà più profonda, a volte più superficiale, a volte più biblica, a volte secondo il vissuto. La cosa più importante è la perseveranza in questa relazione. Non abbandonare Dio ma abbandonarsi a Lui per vivere la vera gioia. Sono convinto che questa relazione ha mantenuto la mia passione per la missione ad gentes, per la costruzione della fraternità, la mia passione per i poveri e la mia voglia d’ascoltare le persone ed essere vicino a loro.
Il missionario d’oggi ama il popolo al quale è inviato. S’informa, studia la storia, ascolta la musica, guarda il cinema. In definitiva, cerca d’impregnarsi della cultura che l’accoglie. Tutta questa scoperta oggi è molto più facile grazie a internet perché tutto è alla portata d’un click. L’amore nasce dalla conoscenza, dal capire, dal comprendere. L’amore è anche critico e scopre le rotture che provoca il Vangelo. Il missionario oggi cerca di cogliere il momento culturale che vive il paese dal quale è accolto per riuscire davvero a diventare parte di quel mondo senza essere perpetuo forestiero.
Il missionario d’oggi è un esperto comunicatore e accompagnatore. Deve imparare a comunicare la Parola di Dio non solo nelle omelie ma anche attraverso le relazioni sociali e i media. Deve avere la pedagogia per comunicare la Buona Novella, non la Buona Vecchiaia. È una persona creativa.
Le persone che hanno sete di Dio, hanno anche sete di una parola che sia davvero come quella di Gesù. Una parola che dà speranza, che apre orizzonti, che propone, che invita, che accompagna. Accanto a questo, il missionario d’oggi è un buon accompagnatore nella vita. È una persona facile all’empatia, accetta senza condizioni l’altro ed è una persona autentica, cerca di vivere onestamente la propria vocazione.
Il missionario d’oggi è un artista della fraternità. Un artigiano della comunione. Un appassionato della vita comunitaria e delle relazioni interpersonali. La comunità è il microcosmo del Regno di Dio. Un’utopia. Un luogo liberato dove il perdono, la festa, la gioia e il discernimento sono costanti.
Abbiamo bisogno di referenti e di una comunità unita nella diversità: è un segno contro culturale nel nostro mondo che tende verso l’uniformità.
Il missionario d’oggi agisce con fermezza. Appassionato della riconciliazione, della pace, della giustizia, dell’ecologia e della diversità, cerca di costruire un mondo degno per i più poveri e un mondo migliore per tutti. Quello che si chiamava «la pastorale» non è più un tempo dedicato agli altri, perché, come dice papa Francesco, «siamo missione, non facciamo la missione».
Padre Ramón Lázaro Esnaola
Rinaldo Do: Dalla Valle Camonica al cuore della RD Congo
A servizio della pace in realtà di guerra
Padre Rinaldo Do. Nato a Darfo (Bs) nel 1956, dopo il seminario minore ecco le sue tappe principali: 1975-78 filosofia prima a Torino e poi a Sassuolo (Re), lavorando anche quattro ore al giorno in una fabbrica di piastrelle; 1978-79 noviziato in Certosa Pesio (Cn); 1979-80 anno di servizio nel seminario di Rovereto (Tn); 1980-82 teologia a Madrid (Spagna) e 1982-84 licenza in Missionologia. Ordinato nel 1984 a Boario, è stato animatore in Spagna fino al 1990 e dal 1991 al 2005 è stato missionario nell’Alto Zaire (RD Congo). Nel 2006-08 è rientrato in Italia per l’animazione missionaria e poi è tornato in RD Congo, prima a Kinshasa e dal 2014 a Neisu.
«No, Rinaldo no! È troppo birichino!». Queste le parole del mio parroco, don Ilario, a p. Antonio Lasaponara quando lo saluto e gli dico che voglio essere missionario, entrando nel seminario di Bevera (Lecco, allora Como).
Eravamo nel 1965 quando i missionari passavano facilmente nelle scuole della Valle Camonica per animare ragazzi e giovani alla missione.
Fin da piccolo mi piaceva ascoltare suore e preti missionari che ci entusiasmavano ad avere un cuore grande e generoso.
Sono cresciuto in una famiglia normale e operaia, un po’ troppo birbantello (aveva ragione don Ilario) ma, penso, con cuore buono.
Diventato prete nel 1984, non per le mie capacità, ma per bontà di Dio, ho vissuto 6 anni a Malaga e poi dal 1991 in Congo.
Gli anni in Congo sono stati belli anche se preoccupanti; difficili, ma ricchi di amore, di fede, di preghiera e di tanti esempi ricevuti dalla mia gente.
Dalle periferie immense di Kinshasa alla savana di Doruma e alle foreste di Neisu, gli anni sono passati velocemente e mi hanno fatto maturare.
Essere missionario oggi in Congo non è facile. Voglio continuare a essere segno di consolazione infondendo coraggio, togliendo paure, evidenziando nel discernimento i valori della cultura ngbetu (del popolo Mangbetu), annunciando così che Dio che abbiamo conosciuto in Gesù ha un progetto di amore e di fraternità per tutta l’umanità.
Purtroppo, siamo ancora lontani da questo progetto di amore, sono troppe le guerre, lo sfruttamento, le ingiustizie, le divisioni tra i popoli e le culture… per questo vale la pena di donare la vita per essere missionario.
Viva la Consolata, viva il Congo, viva tanta gente dal cuore buono che, con me e con tanti altri missionari, è missionaria!
Padre Rinaldo Do
Angelo Casadei: Caquetà – nel posto più bello del mondo
La missione ti cambia e ti fa camminare
Padre Angelo Casadei. È di Gambettola (Fc), classe 1963. La sua famiglia da sempre profondamente cristiana ha trasmesso ai figli i valori della solidarietà verso i poveri vicini e lontani. Sono quattro fratelli. Il maggiore è Tarcisio, con il quale ha conosciuto, quando aveva 11 anni, i missionari della Consolata che hanno una casa nel suo paese. Tarcisio in seguito si è sposato e ha una bella famiglia con quattro figli e una brava moglie. C’è poi suo fratello minore, Gabriele, anche lui missionario della Consolata ora in Mozambico, e Giovanna che con molto amore accudisce i loro anziani genitori.
Quando facevo la 5ª elementare, un missionario che operava nella selva amazzonica ci ha raccontato episodi della sua vita in quei luoghi, ne sono rimasto affascinato e immaginavo che la missione fosse una grande avventura.
Sono entrato quindi nel seminario minore di Gambettola dove, sperimentando la vita comunitaria e leggendo la Parola di Dio, ho scoperto come la missione sia l’annuncio di Gesù Cristo.
Proseguendo, per terminare gli studi di teologia sono stato inviato in Colombia e ho scoperto che la missione non è solo «un dare» ma anche cercare di scoprire i valori evangelici presenti nelle culture dei popoli dove Cristo è arrivato prima di noi.
In America Latina ho capito che la missione non è solo dei consacrati, ma di tutta la Chiesa, di ogni battezzato. Ho imparato a lavorare con i laici missionari, che hanno collaborato in tutti gli impegni di servizio che l’Istituto mi proponeva. Credo nella comunione e partecipazione dei laici nella missione della Chiesa.
Oggi la missione la vivo nel posto più bello del mondo: nella selva amazzonica colombiana, un tempo considerata «la periferia del mondo», oggi «piazza centrale». Molti occhi sono puntati su questo giardino stupendo: chi per proteggerlo, chi per sfruttarne l’abbondante acqua e le immense ricchezze del suolo e sottosuolo.
Noi missionari della Consolata siamo arrivati nella selva amazzonica colombiana nel 1951 accompagnando la colonizzazione e le comunità indigene sfruttate e spesso maltrattate, mentre oggi la nostra presenza consiste nell’ascoltare il grido di una selva in agonia, imparare dagli stessi popoli originari che per millenni hanno saputo convivere in un perfetto equilibrio con la creazione, chiedendo «permesso» alla Madre Terra quando per alimentarsi, vestirsi, costruire la maloca (la casa comunitaria) la «feriscono».
La missione è come un corpo vivo in continua evoluzione, che ti pone delle domande, ti cambia e ti fa camminare.
Spetta a ciascuno di noi lasciarsi guidare. La strada è lunga, a volte faticosa, sembra di non vedere l’orizzonte ma fino adesso ne è valsa la pena.
Chiedo al Signore che mi doni la salute e la forza di continuare. Nel mio cuore sono contento. Dopo 45 anni da quando ho conosciuto il primo missionario della Consolata che veniva dall’Amazzonia brasiliana, oggi mi trovo nell’Amazzonia colombiana.
A volte ho paura di essere svegliato da questo bellissimo sogno: la missione in mezzo a persone semplici, con le loro difficoltà, però con tanti valori evangelici che mi animano nel continuare in questo cammino missionario, che non è mio ma è la strada (qui dove le strade sono rare) che ho ricevuto dal Signore fin dal seno di mia madre.
Grazie Dio Padre per questa grande vocazione che è la stessa che hai dato a tuo Figlio Gesù: annunciare al mondo il tuo Regno di giustizia, pace, solidarietà e rispetto della creazione.
Padre Angelo Casadei
Sandra Garay: dall’Argentina alla Mongolia
Dio è al cuore della missione
Suor Sandra Garay, nata a Mendoza in Argentina. Dopo la sua formazione religiosa in Italia per diventare missionaria della Consolata, ha studiato negli Stati Uniti e poi lavorato con i migranti ispanici nel Michigan. Nel 2004 è partita per la Mongolia. Attualmente lavora nella nuova missione di Chingiltei alla periferia della capitale Ulaanbaatar.
Definitivamente posso dire che missione è condividere la vita con fratelli e sorelle del mondo. Dio mi ha regalato pure la possibilità di vivere in posti e culture affascinanti in America, Europa e Asia. Come non sentirmi benedetta da così grandi doni? Mi sono arricchita tanto e porto nel cuore i volti di tanti amici e gli spazi di tante terre. Ma tutta questa bellezza è solo la copertina di un cammino segnato da ricerche a volte tanto lunghe, da incontri non sempre lunghi abbastanza, da desideri parzialmente soddisfatti.
La bellezza, scoperta a volte così facilmente in persone e luoghi, non si sostituisce mai a quella ricerca, a quel desiderio profondo di Qualcuno. Ed è per questo che per me la missione vera è il cammino del cuore alla ricerca di Dio.
Sì, la vera missione è su Dio, sul come trovarlo e poi imparare a vivere con Lui. È un passare dalla ricerca di me alla ricerca di Lui, dal cercare di capire me al cercare di capire Lui, dall’accogliere la mia complessità all’accogliere la Sua semplicità. E così, negli anni, la mia preghiera è passata dall’aiutami all’usami, dal perché al grazie, dal vorrei al sì. La cosa più bella in assoluto della missione è che pian piano ci si addentra nel mistero di Dio. Ed è tanto affascinante. Mi piacerebbe condividere tre piccole scoperte.
Prima: Dio è come un Gps
Al centro della tecnologia del Gps (Sistema di posizionamento globale) sta la capacità di rilevare attraverso gli orologi atomici dei satelliti, l’esatta posizione di un oggetto. Di conseguenza il Gps può guidare perché può localizzare con precisione. Il Gps trova, e guida partendo dal quel che trova. Non potremo seguire un Gps se non fosse il Gps stesso a trovarci per primo. Analogamente, nel nostro cammino di fede, ci rendiamo conto che non siamo noi a cercare Dio ma è Lui per primo a cercare noi. Con cuore sollevato scopriamo che Dio, quasi come un Gps, sa sempre in quale punto della nostra vita ci incontriamo e le circostanze in cui camminiamo. Poi Lui parte da lì, offrendoci buone alternative per arrivare alla destinazione scelta. E se per qualsiasi ragione ci allontaniamo dai percorsi proposti, assume la nostra nuova strada e ci offre ancora altri percorsi. Dio è un Padre che non vuole perderci e ci lascia provare le nostre strade nell’attesa che un giorno ci renderemo conto che le sue strade sono le migliori per noi. Vuole essere parte della nostra vita e fa suoi i nostri cammini, le nostre scelte, per rimanere sempre con noi. Perché sa come siamo fatti e sa che un giorno impareremo a seguire Lui, avremo perso la voglia di resistergli. Nel frattempo avremo imparato che l’amore vero perdona, spera e non si arrende mai.
Seconda: l’agire di Dio è multiscopo
Sì, quando Dio interviene tocca la vita di tante persone, fa in modo che il bene realizzato sia il miglior bene per tutti quelli coinvolti in una stessa situazione. Quando Dio agisce non si limita a fare del bene a una singola persona lasciando gli altri a mani vuote, e non agisce mai a favore degli uni contro gli altri. Il bene, la grazia data a una persona implica sempre che anche altri ricevano dei doni. Anche nel nostro mondo relazionale a volte così complesso e con spruzzi di inimicizia, Dio fa il bene che è il meglio per tutti. Forse questo può spiegare perché la maggioranza delle nostre richieste sono esaudite in modo diverso dallo sperato. È il mistero dell’amore di Dio per noi, del suo cuore di Padre che si prende cura di tutti e sa dare a tutti quello di cui hanno bisogno anche quando i nostri bisogni sembrano di essere così diversi.
E l’ultima: Dio non fa miracoli
Dio interviene sempre, o, per dirlo in un altro modo, i miracoli, intesi come interventi soprannaturali, sono un’eccezione pure per Dio. Lui agisce soprattutto attraverso la nostra umanità, con le nostre complessità, i nostri limiti, le nostre resistenze, i nostri rifiuti. Fa miracoli con quello che noi siamo, perché ci accoglie, ci fa crescere, ci fa suoi. Lui che ci ha creati, sa quanta capacità di bene c’è in noi e vuole che venga alla luce. Qui bisogna fare attenzione perché molte volte, per mancanza di attenzione, ci può sembrare che siamo noi a fare un certo bene. Persino potremmo pensare che Dio non c’è. Invece è opera sua.
A capire questo mi ha aiutato tanto la missione in Mongolia. Sono così certa che in diverse situazioni non sarei mai riuscita da sola. Sono sicura che tanto del bene fatto è venuto da Dio. Sono i miracoli con la natura. Dio interviene sempre.
Con la missione Dio mi ha dato il privilegio di presenziare ai suoi miracoli, ai suoi interventi, in prima fila. Il vedere come Dio cambia la vita degli altri e soprattutto la mia, mi ha riempito sempre di grande gioia. Ma il più bel regalo che ho ricevuto dalla missione è Dio stesso, il poterlo sentire tanto vicino, il sapere che cammina accanto a me, l’imparare a lasciarmi guidare da Lui. Sì, la missione è prima di tutto contare su Dio.
Suor Sandra Garay
Hanno firmato questo Dossier
Missionari e missionarie della Consolata:
Angelo padre Casadei dal Caquetà, Colombia
Giorgio padre Marengo dalla Mongolia
José Luis Ponce de Léon, vescovo, da Eswatini
Mary Agnes suor Mwangi Njeri da Roraima, Brasile
Nicholas padre Muthoka dall’Italia
Ramon Lázaro padre Esnaola dalla Costa d’Avorio
Rinaldo padre Do dalla RD Congo
Sandra suor Garay dalla Mongolia
Stefania suor Raspo dalla Bolivia
Stefano padre Camerlengo (superiore generale)
Cooperazione e missione, gemelle diverse
testo di Chiara Giovetti
Nel mese missionario proponiamo una riflessione sulle differenze fra cooperazione e missione, ma anche sullo stimolo reciproco che hanno rappresentato l’una per l’altra nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tentiamo di fare il punto sulla situazione attuale.
Tanta parte del mio lavoro come responsabile dell’Ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus è lavoro di traduzione. Non solo e non tanto da una lingua a un’altra, ma soprattutto da un linguaggio a un altro. Si tratta cioè di tradurre nel linguaggio della cooperazione allo sviluppo concetti missionari e, in quanto missionari, profondamente e autenticamente cristiani.
Con una battuta che suscita sorrisi nei missionari più spiritosi e alzate di sopracciglia in quelli più austeri, mi trovo spesso a dire che il mio incarico più delicato è tradurre in «sviluppese» concetti espressi in «pretesco», cercando di far emergere nel modo più chiaro possibile che i nostri missionari fanno cooperazione già da molto prima della fondazione della Onlus (2001) o del riconoscimento come Ong (2007). Solo che, mentre alcuni la fanno conoscendo il «ciclo di progetto» e il suo linguaggio, altri la fanno chiamando le cose con un altro nome.
Così, progetti che arrivano sulla mia scrivania con un titolo come «Promozione della donna», vengono reindirizzati ai donatori con il titolo «Empowerment femminile». «Pace, perdono e riconciliazione» diventa «Gestione e risoluzione del conflitto», «aiuto alle mamme incinte e ai loro bambini», si riformula in «miglioramento della salute materna e infantile».
Le attività sono le stesse, ma le parole rimandano a valori non completamente sovrapponibili.
Fra il linguaggio dello sviluppo e quello della missione c’è, sì, un’ampia intersezione di concetti simili, se non identici benché detti con parole diverse, ma anche un confine di intraducibilità che non può – e nemmeno deve – essere forzato.
Cooperazione: una parola, due significati
Nella maggioranza dei casi, all’orecchio di un missionario cattolico la parola «cooperazione» arriva come l’abbreviazione dell’espressione «cooperazione missionaria fra le Chiese».
Per un operatore della cooperazione fuori dal mondo ecclesiale, viceversa, la stessa parola sottintende l’espressione «cooperazione allo sviluppo» o «cooperazione internazionale».
Il fatto che per un religioso la cooperazione sia prima di tutto missionaria, significa che la vede come un modo per realizzare la missione della Chiesa, che – si legge nel decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II del 1965@ -, a sua volta, è la crescita «nella storia della missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri».
L’annuncio della buona novella è l’evangelizzazione, e la cooperazione missionaria ne è uno degli strumenti, non il fine.
Già nel 1990, in una Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione fra i popoli@, emergeva una preoccupazione: «Spesso», recita la nota, «l’attenzione è assorbita dalle esigenze tecniche dei progetti a scapito dell’ispirazione cristiana che deve essere sostenuta in modo costante». Detto in modo più rozzo ma immediato, la Cei raccomanda ai laici cristiani che vanno in missione di ricordare sempre che scavare un pozzo non è il fine ultimo del loro mandato. Il pozzo è solo lo strumento. Sono stati mandati a scavare un pozzo perché la povertà dei fratelli privi di acqua grida vendetta al cospetto di Dio, e contraddice il messaggio di salvezza e liberazione che suo Figlio ha portato agli uomini a costo della sua stessa vita, un messaggio di cui è nostro dovere di cristiani farci portatori, anche – ma non solo – attraverso le opere concrete.
La stessa nota sottolinea, richiamando l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, che «gli insuccessi degli ultimi decenni negli sforzi di accrescere il benessere dei popoli mostrano che lo sviluppo non si può basare su una semplice accumulazione di beni e di servizi». Lo sviluppo autentico, per la Chiesa, è lo sviluppo integrale, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum progressio), anche della sua sfera spirituale e morale.
Se per i cristiani la cooperazione è uno degli strumenti per continuare la missione del Cristo che parte da Dio e si irradia nella relazione fra le Chiese locali; per il mondo non ecclesiale è, invece, una relazione che parte dalle comunità umane definite a partire dalla loro organizzazione statale, e che ha come obiettivo lo sviluppo, pur con tutte le declinazioni e riformulazioni che il concetto ha attraversato nell’ultimo cinquantennio.
Non potrebbe essere più chiara la direzione divergente delle spinte che muovono queste due idee di cooperazione.
Dalla teoria alla pratica: la cooperazione come punto di incontro
Queste due visioni della cooperazione sono posizioni irriducibili l’una all’altra, dal punto di vista filosofico. Ma questa irriducibilità non ha impedito che si sia trovato un punto di mediazione nel campo del fare, del trovare soluzioni a problemi condivisi.
Per realizzare il raccordo, è stato fondamentale l’incontro fra religiosi innovatori, a volte addirittura rivoluzionari, da un lato, e volontari laici, dall’altro. La parola «laico» in questo caso significa il contrario di quello che potrebbe sembrare a un lettore esterno al mondo ecclesiale: non rimanda al laicismo ma al laicato, il complesso dei fedeli che non appartiene al clero.
Un esercizio interessante per dare la misura di questo incontro è prendere la lista delle Ong riconosciute dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e scavare un po’ nella sezione Chi siamo dei rispettivi siti. Il risultato è abbastanza illuminante: su 217 organizzazioni, una su tre circa ha per fondatore, ispiratore o dirigente, un religioso, e quasi una su cinque è vicina al mondo missionario. Alcune Ong sono nate per sostenere il lavoro di uno specifico missionario, di un Istituto o di una Congregazione, altre sono emanazione di un Centro missionario diocesano, altre sono talmente missionarie di ispirazione che inseriscono la parola anche nel nome.
Gli anni Sessanta e Settanta sono stati una grande incubatrice per queste realtà: erano gli anni della decolonizzazione, delle crisi in Biafra e in Congo, delle campagne di Raoul Follereau; la Chiesa affrontava il cambiamento epocale del Concilio Vaticano II e assisteva al sorgere, in America Latina, della teologia della liberazione.
In Italia erano anni drammatici, di scontri politici e sociali, di forti ineguaglianze, evidenti in particolare nelle grandi città.
La Focsiv, che federa gli organismi italiani di ispirazione cristiana (Ong e non), è nata nel 1972 e ad oggi raggruppa 86 organismi.
Negli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta l’incontro fra missione e cooperazione allo sviluppo era ormai una realtà consolidata e strutturata grazie all’impegno di tanti missionari e al coinvolgimento dei volontari laici cristiani: l’invio di questi ultimi in missione era regolare, i riconoscimenti dello status di Ong da parte del ministero degli Esteri sono cominciati ad arrivare, la disponibilità di fondi – sia pubblici che privati – ha dato un’ulteriore spinta, e le campagne di sensibilizzazione in Italia sono state numerose e molto partecipate.
Anche la nostra rivista, che parla di cooperazione e di sviluppo sin dagli anni Settanta, ha inserito per gran parte del decennio 1980 – 1989 l’argomento fra i temi fissi trattati nelle rubriche. La lettura degli articoli sulla cooperazione di quegli anni è un tuffo più nel futuro che nel passato, tanto raffinata era già l’analisi delle cause delle diseguaglianze e tanto forte era il richiamo, oggi molto di moda, al cambiamento negli stili di vita.
La nota della Cei su laici, missione e cooperazione citata sopra è arrivata nel 1990 proprio per mettere ordine in questa relazione tanto vivace e animata da rischiare di diventare caotica. La Cei infatti, oltre al richiamo a non perdere di vista l’ispirazione cristiana, insisteva sull’importanza di migliorare la preparazione sia spirituale che professionale dei volontari ed esortava a evitare permanenze troppo brevi e mal programmate. La cooperazione missionaria non è una parentesi, un periodo circoscritto nella vita dei cristiani: è una scelta di vita che continua anche al rientro dalle missioni.
Cooperazione e missione oggi
L’ultimo ventennio ha visto un’impennata nella professionalizzazione della cooperazione. È nata la figura del cooperante, sono sorti corsi di studi a livello universitario, la gestione del ciclo di progetto si è fatta più complessa, l’obbligo di trasparenza nella gestione dei fondi è oggi, giustamente, un imperativo.
Quanto questo processo sia legato, in positivo, a un bisogno di affrontare in modo rigoroso una crescente complessità del mondo o, in negativo, agli obiettivi non raggiunti – e agli errori – di cinquant’anni di cooperazione internazionale, è un dibattito aperto.
Il dato di fatto è che le organizzazioni di origine missionaria, come tutte le altre, si sono attrezzate e dotate di personale formato e contribuiscono a quella parte della missione che, per brevità, si può definire sociale.
I fondi dei donatori pubblici non costruiscono chiese né comprano Bibbie per i catechisti (ci sono donatori cattolici per questo); ma certamente possono essere un sostegno fondamentale per scavare un pozzo e dare acqua pulita a un dispensario, formare infermieri, dare assistenza a migranti in fuga da un paese sull’orlo del disastro che arrivano stremati e disperati nel paese confinante.
Da questo punto di vista, il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo continua a godere di ottima salute una volta che ci si accorda su uno spazio comune in cui una può essere funzionale alla realizzazione degli obiettivi dell’altra senza snaturarla. Si può dire, per semplificare, che la missione continua a «ospitare» la cooperazione allo sviluppo nella parte sociale della cooperazione missionaria e che la cooperazione allo sviluppo ricambia «ospitando» i missionari in tutti i suoi settori, a patto che oltre al collarino ecclesiastico indossino lo stetoscopio del medico, il casco antinfortunistico dell’ingegnere, il grembiule del maestro di scuola.
Senza avere una struttura professionalizzata che lo affianchi per gli aspetti tecnici, per il singolo missionario diventa impossibile realizzare interventi complessi come quelli previsti da un progetto di cooperazione allo sviluppo istituzionale. Il progetto, senza un aiuto adeguato, rischia di essere percepito dal missionario come un male necessario, uno strumento di cui non si può fare a meno ma che porta via tempo al resto. E per un missionario, il resto, spesso, è il grosso: «Ecco, Chiara», mi ha detto una volta il padre responsabile di una impresa sociale del settore alimentare gestita dalla Consolata in un paese africano, «con il progetto che ci aiuterai a scrivere potremo finalmente aumentare la produzione; per il resto, con i proventi delle vendite già manteniamo la biblioteca, facciamo i corsi di alfabetizzazione per i nostri lavoratori, contribuiamo all’allevamento di polli delle loro mogli. Poi, a tempo perso, diciamo messa, facciamo le confessioni, prepariamo i catecumeni… Ogni tanto riusciamo anche a stare in silenzio, pregare un po’ e dormire».
In questi anni di lavoro nell’ufficio progetti mi sono trovata spesso a scherzare con i missionari con cui lavoro sul fatto che è una lotta impari cercare di far appassionare a un quadro logico e a un cronogramma qualcuno (il missionario) che ha per logica il Verbo e per orizzonte temporale la vita eterna.
Al di là delle battute, però, probabilmente il punto è proprio questo: il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo è stato ed è proficuo proprio perché sono due attività non completamente sovrapponibili: negli anni, oltre a non capirsi mai del tutto e, a volte, a criticarsi, si sono anche ascoltate e ciascuna ha fatto a se stessa delle domande che non si sarebbe mai fatta se l’altra non l’avesse stimolata. E non smette di sorprendermi quanto le domande che i missionari della Consolata si fanno da oltre un secolo, ispirandosi al loro fondatore, Giuseppe Allamano, – «stiamo capendo i segni dei tempi? Stiamo davvero facendo uomini e non beneficiari, assistiti, bisognosi?» – somiglino alle domande che si fa il mondo dello sviluppo.