Antropologi e missionari. Tanti mondi, un’unica terra

testi di Stefania Raspo, Francesco Remotti, Paolo Moiola |


Indice interattivo:

L’incontro con gli altri Uomini diversi da noi

La missionaria: Da un mito all’altro, dalla «civiltà» al «progresso».

L’Antropologo: A proposito di missionari e antropologi

Fonti bibliografiche.
Hanno firmato questo dossier

Un Yatiri – come vengono chiamati alcuni guaritori tra gli Aymara – mentre utilizza foglie di coca per leggere il futuro a El Alto, città che sovrasta la capitale La Paz. / Foto di Jorge Bernal – AFP.


L’incontro con gli altri

Uomini diversi da noi

Due categorie – i missionari e gli antropologi – che parrebbero molto lontane. Invece, è vero il contrario. Si sono spesso incrociate. Spesso hanno compiuto gli stessi errori. Sempre hanno avuto dilemmi su come comportarsi davanti a
«uomini diversi da noi».

Quando l’antropologia muoveva i suoi primi passi come ambito di studio con un suo proprio statuto scientifico, nella seconda metà dell’800, i missionari già da tempo andavano nei paesi di missione dei vari continenti per incontrare e convertire popoli non cristiani. I «nuovi» antropologi iniziarono a frequentare quegli stessi luoghi per studiare culture e organizzazione sociale dei popoli visitati. In un caso e nell’altro, si trattava di incontrare «uomini diversi da noi», per riprendere il titolo (italiano) di un libro dell’antropologo britannico John Beattie. A quel tempo, e per qualche decennio, gli sbagli furono molti: imperialismo, dominazione coloniale, monopolio culturale dell’Occidente, individuazione di culture superiori e culture inferiori. C’era tutto questo.

«Gli antichi Greci – scrive Beattie – credevano che tutti i popoli di stirpe non ellenica fossero barbari, selvaggi incivili. Sarebbe stato del tutto fuori posto trattarli come individui veri e propri. E anche oggi in nazioni notevolmente progredite troviamo gente che considera popoli di razza, nazione e cultura diversa in modi non molto dissimili da quelli citati, soprattutto se il colore della loro pelle è diverso oppure se essi si differenziano per fede religiosa o credo politico»1.

Per quanto riguarda i portatori di altre fedi religiose come i missionari, lo studioso inglese concede: «Nessuno sa meglio degli antropologi sociali quanto abbiano contribuito al benessere delle popolazioni africane molte migliaia di missionari di tutte le confessioni, che dedicarono la loro vita a tale scopo. Tuttavia, […] il loro messaggio non è sempre stato capito, e spesso gli effetti prodotti […] sono stati quelli di sconvolgere le istituzioni tradizionali, sia quelle moralmente innocue, sia quelle moralmente riprovevoli da un punto di vista cristiano».

Riconoscere uno sconvolgimento delle istituzioni tradizionali vuole intendere che l’opera dei missionari e quella degli antropologi sono inconciliabili? «I missionari – ammette Beattie – sono stati in grado di fare la loro antropologia. [Essi] hanno il vantaggio di un soggiorno prolungato in una singola comunità e, di solito, di una buona conoscenza della lingua indigena. Alcuni degli studi più profondi delle istituzioni e dei modi di pensiero indigeni sono dovuti a missionari». Verso gli uni e gli altri è durissimo Alfonso Maria Di Nola, uno dei più famosi antropologi italiani (1926-1997), che vede «una prepotenza e una violenza immorale dell’uomo occidentale che si autodimensiona come unica realtà di cultura e nega la comprensione di ogni altro uomo come portatore di diversità e di alienità. La quale violenza e prepotenza – consolidate negli studiosi occidentali anche più eminenti da una colposa pigrizia a uscire eroicamente dal proprio guscio culturale e alimentata dal terrore di scoprire le dimensioni altre ed aliene, quasi fossero attentati alla propria sicurezza – è stata una delle cause di tragica incomprensione fra uomini e ha fondato i diritti all’aggressione, all’imperialismo, al colonialismo»2.

Uscì certamente dal suo guscio – non senza scandalo – padre Silvano Sabatini (1922-2014), 40 anni tra gli indigeni dell’Amazzonia. La sua – ha scritto Antonino Colajanni, antropologo de La Sapienza – è stata una magnifica storia di missionario «che si pone alla prova, che si trasforma con l’esperienza del contatto interculturale»3

Padre Sabatini – scrive ancora Colajanni – «passa rapidamente dallo “scandalo” per la nudità degli indios di fronte all’altare di Cristo alla comprensione dei loro diversi valori, del loro diverso senso del pudore. Coglie immediatamente un tratto della cultura indigena, quella sorta di “teologia ambientale” che li fa sentire come parte del mondo naturale (e soprannaturale, a quello collegato) e non come dominatori della natura».

Padre Sabatini «identifica da subito un compito ineludibile per il missionario come per l’antropologo: quello di “dar voce” direttamente all’indigeno, perché racconti la sua verità, il suo punto di vista, non quello che i bianchi vogliono sentirsi dire».

Un rivoluzionario, padre Silvano Sabatini. Un antropologo de facto. Un missionario antitetico agli evangelici che danni enormi hanno fatto e stanno facendo in giro per il mondo. Un missionario di quelli che fanno tanto «arrabbiare» (eufemismo) i cattolici tradizionalisti, quelli che ogni giorno criticano papa Francesco4

«C’è un’incapacità che si è istituzionalizzata nella nostra società. Si tratta dell’incapacità di confronto. Ci riferiamo al confronto con le esperienze culturali distanti dalla nostra. […] A livello ideologico generale si sono istituzionalizzate forme di razzismo ed etnocentrismo»5.

Queste riflessioni del sociologo francese Gérard Leclerc risalgono al 1973. Si pensava descrivessero situazioni se non superate almeno attenuate. Invece, sono tornate e stanno tornando a farsi largo in modo prepotente, ovunque nel mondo. Il lavoro di missionari e antropologi dovrebbe contribuire a contenere questa tendenza.

Da tempo, papa Francesco sembra lavorare in questa direzione. Nel messaggio diffuso lo scorso 9 giugno per la giornata missionaria mondiale 2019, si legge: «Noi non facciamo proselitismo». A febbraio di quest’anno, nell’esortazione apostolica postsinodale Querida Amazonia, ha scritto: «In un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione» (n. 108). Infine, lo scorso marzo, in un messaggio rivolto ai cattolici cinesi, papa Francesco ha precisato che essi «devono promuovere il Vangelo, ma senza fare proselitismo». Tutte testimonianze che aiutano a inquadrare il ruolo dei missionari e a «superare l’incapacità del confronto».

Paolo Moiola

  • (1) (2) (5) John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973..
  • (3) Antonino Colajanni, introduzione a Il prete e l’antropologo di Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Ediesse, Roma 2011, pag. 11-23.
  • (4) Paolo Moiola, Tribalista ed ecologista, in «Amazzonie», dossier Missioni Consolata, gennaio-febbraio 2020.

Bolivia – © Pablo Andrés Rivero


La missionaria

Da un mito all’altro, dalla «civiltà» al «progresso»

Il missionario propone una religione, l’antropologo difende la libertà di essere quello che si è. Il racconto di una persona in cui missione e antropologia riescono a convivere. Arricchendosi a vicenda.

Sono una missionaria, ma anche un’antropologa. La vocazione e lo studio dell’antropologia si sono intrecciate già da molto tempo, da quando ero una studentessa universitaria di filosofia che, ad un certo punto, ha sentito la chiamata di Dio. A quel tempo dovetti scegliere un’area di studio per il secondo biennio. Io scelsi l’orientamento socio-antropologico, perché lo sentivo più in sintonia con l’apertura del cuore verso il mondo intero.

Donna indigena / Foto Tjabeljan.

All’università venivano presentati come contrapposti l’atteggiamento missionario, descritto come volontà di proporre-imporre una religione, e quello antropologico, descritto invece come volontà di difendere la libertà di essere quello che si è, per dirla in parole molto povere. La cosa mi colpiva, ma dentro di me non ho mai preso posizione. O forse sì…

Dopo la mia formazione e consacrazione religiosa, fui destinata alla missione in Bolivia, dove – con somma gioia – arrivai il primo febbraio del 2013. Da allora vivo con il popolo contadino di lingua quechua, nel dipartimento di Potosí: la gente ha conservato una forte identità indigena, e molte tradizioni continuano a essere vigenti, anche nelle nuove generazioni. Dopo alcuni anni, ecco che l’antropologia di nuovo bussa alla mia vita: mi viene proposto lo studio a distanza della disciplina, che comporta un’immersione continua nella realtà quechua e, allo stesso tempo, una riflessione teorica da incarnare nella vita quotidiana.

Questa esperienza mi porta ad affermare che non c’è contrapposizione tra missione e antropologia: le due situazioni s’illuminano a vicenda. Da estirpare, piuttosto, sono alcuni pregiudizi che possono accompagnare sia l’antropologa, sia la missionaria che convivono in me.

Iniziamo con la missione e la sua relazione con la colonia, che ha prodotto conseguenze fino al giorno d’oggi. L’espansione della Chiesa cattolica – e in generale del cristianesimo – a livello planetario si è servita di un mezzo non neutro, come è l’espansione coloniale dei paesi europei: dapprima in America, con gli imperi spagnoli e portoghesi, poi in Asia, Africa e Oceania. Alla base del colonialismo c’era una giustificazione molto semplice: noi siamo i più «bravi», siamo i civilizzati, che portano la civilizzazione ai primitivi. D’altra parte, la nostra missione, in questo caso come cristiani, era quella di fare uscire dall’errore gli infedeli perché abbracciassero la verità di Cristo per potersi salvare. Poi, è arrivato il Concilio Vaticano II, il quale ci ha spiegato che ci si può salvare anche fuori dalla Chiesa. Nel frattempo, il mito dei «portatori di civiltà» si è trasformato nel mito contemporaneo del «progresso». Sicuramente, chi ha frequentato le medie e superiori negli anni Ottanta e Novanta avrà studiato quelli che si chiamavano (e spesso ancora si chiamano) «i paesi in via di sviluppo».

Particolare di una statua lignea di Cristo. / Foto haaijk.nl

Graficamente parlando, l’idea è che i vari popoli si trovino su una retta, sulla quale stiamo progredendo, chi un po’ più avanti, chi un po’ più indietro (= in via di sviluppo). In quell’epoca (seconda metà del Novecento) la Chiesa missionaria ha tradotto questa idea con opere, grandi e piccole, per lo sviluppo di aree povere, costruendo scuole, ospedali, e chi più ne ha, ne metta.

Attualmente, il «mito del progresso continuo» è ormai stato sfatato dalle crisi economiche mondiali e dal disastro ecologico. Cosa resta di tutto questo, allora? Un sottile, subdolo senso di superiorità: «Io, come missionaria, ne so di più di questa povera gente…», e si agisce di conseguenza.

Come la missione, anche l’antropologia non è esente da pregiudizi o forse da errori di prospettiva. L’antropologa che è in me apprezza e valorizza le espressioni culturali dei vari popoli, e in modo speciale del mio caro popolo andino. Una posizione molto positiva che però rischia di farmi scivolare nel «romanticismo», come ci ha detto una volta un nostro professore di antropologia. Le culture non sono perfette, sono in cammino, come lo sono gli esseri umani che le creano giorno dopo giorno. La cultura, per di più, non è qualcosa di statico, che vive asetticamente nell’«iperuranio», in un Paradiso incontaminato, come direbbe Platone. La cultura è estremamente dinamica, non perfetta, ma perfettibile, in continua negoziazione con altre culture, dando e ricevendo in prestito, appropriandosi di elementi altrui e trasformandosi per poter continuare ad essere ciò che è profondamente: un progetto di vita, di vita buona, per il gruppo che la crea e la ricrea continuamente. Molte volte gli antropologi si presentano come dei «conservazionisti», cioè delle persone che operano per la salvaguardia della cultura così come è, in una certa staticità.

Veduta della Iglesia La Merced, a Sucre. / Foto di Kent MacElwee.

Cosa significa tutto questo dentro di me?

Caratterialmente, a pelle, anch’io apprezzo tanto le culture come sommamente buone, e vorrei che si conservassero così, soprattutto quelle native, che tanto hanno mantenuto della sapienza ancestrale. Allo stesso tempo, come missionaria sono chiamata ad annunciare Cristo, forse con categorie occidentali, perché da lì vengo e da lì viene anche il cristianesimo. Non voglio cambiare la gente, ma il mio desiderio è che conoscano Gesù come un Dio d’amore, e non castigatore. Dove trovare la soluzione?

Credo fermamente che il dialogo sia la strada giusta. Un dialogo tessuto nel quotidiano, nelle relazioni tra vicini, e non un monologo da una cattedra. Il popolo andino ha una spiritualità millenaria molto ricca: imparo da loro e posso anche offrire la mia semplice esperienza. In un incontro di missionarie della Consolata che lavorano con popoli nativi abbiamo pensato di chiamarlo «dialogo interspirituale».

Non si tratta di qualcosa di cerebrale, è piuttosto quel discorrere sereno e semplice, nel quale far trasparire la bellezza di una fede nel Dio che è amore, e scoprire che Lui si è già rivelato vicino e presente nella vita della gente. L’antropologia, permettendomi di entrare, in punta di piedi, nella cultura quechua, mi aiuta a trovare le parole giuste, le metafore che toccano il cuore, per poter condividere la mia esperienza, e allo stesso tempo mi aiuta a comprendere il sentire e la spiritualità del mondo andino. La fede in quel Gesù per il quale ho scommesso tutta la vita e mi manda in missione, è il senso del mio stare qui e del mio camminare con la gente.

Stefania Raspo

Indigeno seduto sui gradini in Plaza Mayor, a La Paz / Foto di Rogerio Camboim Silva de Almeida.


L’Antropologo

A proposito di missionari e antropologi

Ci sono stati i missionari «coloniali» e i missionari «conciliari». C’è stato il tempo delle «razze» e il tempo delle «culture». Queste, a loro volta, potevano entrare in contrasto con concetti quali «sviluppo» e «progresso». Un antropologo racconta i cambiamenti intervenuti.

Da tempo nutro un autentico interesse nei confronti dei modi con cui i missionari rappresentano se stessi e la loro attività in un mondo sempre più coinvolgente e interconnesso.

Pochi anni fa ero stato interpellato perché esponessi alcune mie riflessioni sull’argomento per Missione Oggi, la rivista dei missionari saveriani. Il titolo di quel modesto contributo – «I missionari visti da un antropologo» – non deve trarre in inganno: esso non significa «i missionari in generale», ma certe figure di missionari che un antropologo, o aspirante tale, ha incontrato nella sua ricerca sul campo. Quel contributo conteneva alcune precisazioni, che riproduco come punto di partenza del mio intervento1.

Nonostante sia stato sempre ben consapevole del ruolo storico svolto dai missionari nei diversi continenti, non ho mai affrontato questo tema a livello generale e neppure nei contesti di mia diretta conoscenza (intendo dire soprattutto il Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo). L’obiettivo della mia ricerca tra i Banande (o Nande) del Nord Kivu riguardava in effetti non già la situazione «attuale», bensì ciò che a partire dalla situazione attuale si poteva recuperare della loro cultura prima delle trasformazioni indotte dalla colonizzazione e dall’attività missionaria.

Le mie considerazioni iniziali nascono quindi non da studi appositi, bensì soltanto da esperienze e frequentazioni con i missionari incontrati durante l’arco temporale delle mie ricerche tra i Banande, tra il 1976 e il 2013.

Nel contributo citato avevo messo in luce due tipi di missionari, in cui mi ero imbattuto fin dall’inizio della mia esperienza: i coloniali e i conciliari.

Un verdissimo scorcio di Masisi, nella provincia del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo. / Foto Teseum.

Il primo tipo: i missionari coloniali

Il primo tipo era rappresentato da missionari anziani – per lo più belgi e olandesi – i quali erano approdati in quella parte del Congo durante il periodo coloniale. Ciò che colpiva il mio sguardo esterno erano in particolar modo i dispositivi di separazione rispetto alla gente: le case dei missionari chiuse, accuratamente recintate, vigilate e custodite non solo dal personale di guardia, di giorno e di notte, ma anche da cani, addestrati a latrare minacciosamente nei confronti dei neri. L’atteggiamento di questi missionari nei confronti di catechisti e di preti indigeni era inoltre improntato a un rigoroso senso gerarchico: i missionari, detentori – per la loro stessa origine europea – della verità evangelica, erano senza alcun dubbio i superiori, mentre catechisti e preti indigeni (a prescindere dal loro curriculum) erano gli inferiori. Del resto, la cultura europea in cui i vecchi missionari coloniali si erano formati era fortemente segnata da un’impostazione razzistica o quanto meno razziologica: nell’Europa di allora, tra Ottocento e Novecento, le razze erano ritenute da tutti come dati di fatto, e l’antropologia di cui i missionari coloniali erano portatori era un sapere fortemente biologizzante, che poneva le razze a fondamento di ogni altra considerazione. Non v’è dunque da meravigliarsi che il razzismo fosse un tratto normale del loro comportamento, indiscusso e quasi naturale.

Ho potuto conoscere di persona alcuni di questi missionari coloniali.

Vilacaya (Potosí, Bolivia): le Wataqaminas, come sono chiamate le donne protagoniste di un’antica cerimonia quechua. / Foto di Stefania Raspo.

Il secondo tipo: i missionari conciliari

Negli anni Settanta, la scena cominciava a essere occupata da un secondo tipo di missionari. Erano i missionari che si riferivano esplicitamente al Concilio Vaticano II (1962-1965): scomparsi i cani dai cortili delle missioni, anche le razze erano ormai divenute un concetto desueto. Al posto delle razze si parlava di culture.

Almeno per quanto riguarda i missionari di questo secondo tipo da me incontrati, la cultura, pur ammessa, era però in gran parte soverchiata dall’economia, ossia dalla preoccupazione per i problemi materiali della comunità locale. Una parola svettava su tutte le altre: «sviluppo» (maendeleo nel kiswahili parlato in quella zona). Molte attività dei missionari erano dirette appunto allo sviluppo, e la cultura (la cultura locale, ma anche la cultura più in generale) era in gran parte sacrificata all’economia. Evidentemente, alle spalle non c’era soltanto il Concilio Vaticano II; c’erano anche gli echi delle rivendicazioni che i movimenti giovanili e solidaristici avevano «portato avanti» (come si usava dire allora) anche in un’ottica internazionale. Per questo secondo tipo di missionari il Vangelo significava fare del bene, in primo luogo ai poveri, alle popolazioni del sottosviluppo. La domanda che essi si ponevano era dunque la seguente: è più importante mantenere i loro usi e costumi, la loro cultura o non piuttosto favorire lo «sviluppo», insegnare loro la strada del «progresso»?

Nei pressi dell’ospedale cittadino di Beni, nel Nord Kivu, Congo Rd. / Foto di Vincent Tremeau – World Bank Photo.

Soldi invece di capre

Vorrei portare un esempio in cui sono rimasto coinvolto. Uno dei temi su cui mi ero concentrato fin dall’inizio delle mie ricerche sul campo era il cosiddetto compenso matrimoniale (omutahyo in kinande), secondo il quale il futuro sposo raccoglieva dieci capre dalla sua famiglia per offrirle in maniera cadenzata e ritualmente programmata alla famiglia della sposa: si trattava, dunque, di un processo rituale che si svolgeva nel tempo e che impegnava in diversi modi le due famiglie, così da creare legami di «alleanza» sempre più stretti (Remotti 1993: cap. II). La ricostruzione di questo lungo e complesso processo rituale si scontrò con il fatto che – su suggerimento e per impulso degli stessi missionari – esso veniva ormai in gran parte sostituito dalla moneta. Ricordo di avere discusso con alcuni di questi missionari, i quali consideravano l’omutahyo non solo un residuo del passato, un costume puramente tradizionale, senza più alcun vero significato culturale, ma un’istituzione cha faceva da ostacolo al progresso economico e sociale. Perché perdere tempo ed energie per raccogliere le dieci capre e consegnarle con un ritmo ritualizzato ed estenuante, visto che con la moneta il problema del compenso – se proprio si doveva mantenere questa idea – poteva essere risolto in un batter d’occhio?

Anche questo cambiamento (soldi invece di capre) rientrava nel progresso, nello sviluppo: la monetarizzazione era condizione e segno dell’accesso alla modernità.

Teologia e tecnologia

Pure i Banande avevano diritto di lasciare alle spalle il sottosviluppo, la stagnazione e accedere al mondo moderno. L’impegno dei missionari consisteva ovviamente nel tentativo di impedire che questo avvenisse sotto l’egida del più brutale capitalismo o all’insegna di movimenti di sinistra. Sotto questo profilo, l’acquisizione delle innovazioni tecnologiche appariva come un passo necessario e inevitabile, da compiere però nell’ambito della Chiesa e della parrocchia. In sintesi, mi sia consentito citare questo brano:

«Da parte di alcuni [missionari] vi era persino l’idea di dover competere con i movimenti di sinistra: la sfida era coinvolgere la popolazione in progetti, in cui coabitassero temi evangelici, come la solidarietà, l’acquisizione di un maggiore benessere, grazie a processi di sviluppo locale, la valorizzazione dell’associazionismo indigeno. Teologia e tecnologia andavano a braccetto: il Dio evangelico era dispensatore di turbine, con cui si alimentavano alcuni piccoli mulini e si portavano luce e corrente elettrica nei villaggi e nelle case» (Remotti 2017: 50).

Una barca tradizionale al lavoro sul lago Kivu nella provincia omonima. / Foto di Abel Kavanagh – Monusco.

Il Dio dei cristiani, gli dèi degli altri

Il Dio evangelico era pur sempre il Dio che nel Primo Testamento ebbe a dire di sé: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso». Quindi, «non avrai altri dèi oltre a me» (Esodo 20, 5; Deuteronomio 5, 7). Nel capitolo IV di Contro l’identità ho riportato l’episodio della reprimenda a cui fu sottoposto un vecchio giudice, nonché decano dei catechisti della parrocchia, allorché i missionari vennero a sapere che costui venerava sì in chiesa il Dio dei cristiani, ma nel contempo continuava a fare sacrifici agli avalimu, gli spiriti della tradizione: «Anche noi – mi diceva K. – abbiamo i nostri avalimu» (Remotti 1996: 40).

Questo vecchio giudice non intravedeva alcun problema di coesistenza tra il Dio dei cristiani – giunto dalle loro parti negli anni Quaranta del Novecento (un Dio senza dubbio importante, a giudicare dal potere degli europei e dalle risorse di cui anche i missionari disponevano) – e le loro divinità. Perché mai si sarebbe dovuto scegliere? Per questo vecchio saggio non c’era alcun motivo di rifiutare il Dio arrivato con gli altri, da lontano e dotato di tutti i beni di cui gli europei facevano sfoggio. Del resto, non era forse sufficiente che altri credessero in una loro divinità per ammetterne l’esistenza? Perché mai, in base a quali motivi, ricorrendo a quali criteri si dovrebbe negare l’esistenza delle divinità altrui? E se queste argomentazioni rendevano conto del fatto che i Banande non opposero alcuna resistenza all’arrivo della divinità dei Bianchi, perché mai esse non dovevano valere per gli spiriti e le divinità locali? «Anche noi abbiamo i nostri avalimu» aveva dunque il significato di una richiesta di riconoscimento: il vecchio giudice non chiedeva che gli europei (missionari o laici che fossero) partecipassero ai loro culti e ai loro sacrifici; chiedeva soltanto che si riconoscesse il diritto, da parte dei Banande, di venerare tanto il nuovo Dio (quello della chiesa costruita in mattoni), quanto gli avalimu, gli spiriti a cui erano dedicate minuscole capanne sparse qua e là sulle colline.

Per i missionari – anche per i missionari del secondo tipo, quelli che si ponevano esplicitamente nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II – la coesistenza invocata dal vecchio giudice era del tutto inammissibile. Nonostante la sua età avanzata e la sua autorevolezza, il vecchio giudice fu sottoposto a una dura lezione di monoteismo e, beninteso, non di un monoteismo generico, bensì del monoteismo forgiato da ciò che Jan Assmann (famoso egittologo tedesco, ndr) ha chiamato la «distinzione mosaica», ovvero il principio secondo cui il «nostro» Dio non è soltanto un Dio unico, ma è anche l’unico «vero» Dio: gli altri sono idoli, falsi dèi, con cui non si può convivere e che, anzi, occorre distruggere (Assmann 2011: 15, 25).

Una venditrice congolese si reca al mercato di Goma con un carico di «sambaza», piccoli pesci del lago Kivu. / Foto di Abel Kavanagh – Monusco.

I missionari e il diffondersi del dubbio

L’episodio del vecchio giudice avvenne nel 1976, proprio all’inizio della mia esperienza tra i Banande. Vent’anni dopo, nel 1996, incontrai a Kinshasa un gruppetto di giovani missionari: erano i missionari della Consolata. Anche per questi missionari il riferimento al Concilio Vaticano II era d’obbligo. Ciò che però mi aveva colpito, rispetto ai missionari del primo e del secondo tipo, era l’emergere di un – per me inatteso – spirito critico, anzi di un atteggiamento di dubbio. Dalle conversazioni avute con loro mi sembrava che lo spirito critico e il dubbio si rivolgessero sostanzialmente a due concetti: l’inculturazione e lo sviluppo. Ricordo anche che alcuni di loro chiedevano a me, in quanto antropologo, cosa esattamente fosse e come si dovesse intendere l’inculturazione, «quasi che i documenti del Concilio non fossero più del tutto convincenti» o del tutto chiari (Remotti 2017: 50).

Mi sia consentito proseguire nella citazione: «Rimasi colpito da questa loro esitazione e perplessità. Mi resi poi conto che per loro era molto problematico distinguere nella cultura nativa ciò che doveva essere considerato compatibile con il messaggio evangelico e quindi mantenuto, e ciò che doveva essere scartato. Ai loro occhi, e alla loro profonda sensibilità, balzavano i drammi che – magari senza saperlo, senza preavviso – si generavano con l’inculturazione».

Non diedi alcuna lezione. Mi rendevo conto che il concetto di inculturazione emerso dai documenti del Concilio e quello di impiego comune nelle scienze sociali non erano la stessa cosa. Soprattutto, però, mi rendevo conto che i dubbi e le perplessità di quei giovani missionari erano rivolti anche alla seconda nozione a cui ho accennato: «Essi ormai vedevano anche i guasti di ogni genere (sociale, culturale, economico) che spesso si producevano in nome dello “sviluppo”». La sensazione di avere a che fare ormai con un terzo tipo di missionari – se si accetta questa tipologia improvvisata, fondata soltanto sull’esperienza personale – era alquanto vivida e veniva confermata da quanto mi disse uno di quei missionari, il quale viveva presso un gruppo di pigmei. Riassumo in questo modo le sue parole: «Intendo la mia missione solo come una testimonianza; non impartisco ordini né suggerimenti; cerco di vivere come loro e secondo i dettami del Vangelo». Quel giovane missionario mi faceva anche capire che «”loro”, i pigmei, gli erano umanamente grati» di ciò. In questo modo, «era riuscito a farsi considerare un amico, un compagno. Nulla di più». Ma forse non c’è proprio bisogno «di più». Quel «nulla di più» in realtà «è tanto»: è niente di meno che condivisione di umanità, di una qualche forma di umanità.

Uno scolaro di una scuola elementare nei pressi di Goma, capoluogo del Nord Kivu. / Foto di Federico Scoppa – GPE.

La fede nel «progresso»: dall’esaltazione al ripensamento

Missionari e antropologi hanno molte cose in comune: tra queste il fatto di essere eredi di certezze, le quali si possono riassumere nella credenza di un progresso universale. Ovviamente, qui mi riferisco ai primordi dell’antropologia, allorché tra Ottocento e Novecento essa riteneva di poter collocare le società che andava studiando nei diversi continenti in una serie graduata di stadi di progresso, di forme di umanità sempre più perfezionate, culminanti nella civiltà contemporanea. E per quanto riguarda i missionari, che cos’è se non un’idea di progresso incessante quella contenuta nel concetto di plantatio ecclesiae? Come ci ricorda padre Mario Menin (2016: 13, 24-25), l’espressione, risalente agli Atti degli Apostoli e alle Epistole paoline, si ritrova nei padri della Chiesa (Agostino), nella teologia scolastica (Tommaso d’Aquino), per riapparire – infine – nella missiologia moderna, la quale «nella prima metà del secolo scorso ne fa una “bandiera di guerra” per definire il fine delle “missioni estere”». «Nel contesto coloniale», sottolinea ancora Menin (2016: 16), «missione» assume le sembianze ora di un’opera civilizzatrice di popoli «primitivi» e «selvaggi», ora di «conquista» di nuove terre a Cristo, attraverso la sconfitta e la sostituzione delle altre religioni e, più tardi, delle ideologie anticristiane, come il comunismo e l’ateismo.

Un secondo punto di convergenza tra antropologi e missionari può essere intravisto nel successivo abbandono, sia pure in tempi diversi, della fede nel progresso universale. Il rapporto tra gli antropologi e le società indigene non è più mediato dall’idea di progresso: è invece la «cultura» ciò che conferisce dignità di studio a società pur illetterate, prive di scrittura, dotate di una cultura materiale e di una tecnologia assai meno elaborate di quella occidentale. Perché la cultura (antropologicamente intesa) è sufficiente a conferire dignità di studio? Perché gli antropologi intravedono idee, valori, persino sistemi di idee e di significati, forme di pensiero profonde e raffinate nelle lingue e nelle pratiche sociali, nei rituali e nelle mitologie, nei saperi scientifici indigeni e nelle strutture politiche, nelle concezioni cosmologiche e filosofiche come nel pensiero giudiziario e così via. In altre parole, l’uso del concetto antropologico di cultura induce a scovare e a riconoscere un significato intrinseco ai sistemi sociali e culturali, e ciò del tutto a prescindere dalla posizione attribuita alle singole società in una ipotetica e ormai rinnegata scala evolutiva. Se la credenza nel progresso collocava inevitabilmente gli antropologi su un piano superiore di civiltà e gli indigeni su un piano inferiore, il concetto di cultura pone invece indigeni e antropologi sullo stesso piano, su un piano di parità e di dialogo. Addirittura costringe gli antropologi ad apprendere i segreti e le particolarità culturali delle società che essi studiano: molti antropologi hanno paragonato l’apprendimento, a cui sono professionalmente costretti sul campo, a quello del bambino che deve apprendere lingua e norme culturali del proprio gruppo.

Il Concilio Vaticano II e il nuovo missionario «ad gentes»

Nei documenti del Concilio Vaticano II possiamo cogliere assai bene il ruolo svolto dal concetto di cultura nell’impostare in maniera innovativa l’attività missionaria. Mario Menin sottolinea giustamente questo punto, allorché afferma: «Un’altra novità di Ad gentes», il decreto approvato quasi all’unanimità dal Concilio e promulgato da Paolo VI nel dicembre 1965, «è l’importanza data alle culture» (2016: 38). A questo proposito egli cita «uno dei passaggi più belli» (contenuto nel par. 11), quello in cui si afferma che occorre conoscere gli uomini in mezzo ai quali si vive e intrecciare con essi «un dialogo sincero e paziente» in modo tale da conoscere «quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli». Nello stesso paragrafo 11 le ricchezze elargite da Dio sono identificate con i «germi del Verbo» che si trovano nascosti nelle diverse culture umane: essi contribuiscono a costituire in maniera determinante il «patrimonio culturale» dei vari popoli (par. 21), nonché «tutta la bellezza delle loro tradizioni» (par. 22).

Per questo motivo coloro che si recano nei luoghi di missione – siano essi sacerdoti, religiosi, suore o laici – debbono «stimare molto il patrimonio, le lingue ed i costumi» delle società locali e a tale scopo occorre che essi siano «singolarmente preparati e formati» attraverso gli studi sia di missiologia sia delle scienze che forniscono «una conoscenza generale dei popoli, delle culture e delle religioni», una conoscenza che non sia orientata esclusivamente verso il passato, bensì soprattutto verso il presente (par. 26). Non solo, ma il decreto raccomanda un ulteriore approfondimento di conoscenza: una volta giunti sul terreno della missione, occorre impegnarsi per conoscere a fondo «la storia, le strutture sociali e le consuetudini dei vari popoli». Come si può notare, l’acquisizione del concetto di cultura induce a completare la figura del missionario con una vera e propria preparazione antropologica ed etnologica: egli non sarà soltanto un etnologo, perché – come vedremo – il suo compito non è solo conoscitivo; ma per svolgere il suo compito, il missionario dovrà comunque conoscere a fondo la cultura della società presso cui intende recarsi. E così, in veste di studioso, egli dovrà indagare e venire a conoscenza delle «idee più profonde» che le società «in base alle loro tradizioni, hanno già intorno a Dio, al mondo, all’uomo» (par. 26). È veramente notevole l’apertura che il decreto Ad gentes dimostra per gli aspetti più preziosi e in un certo senso più intimi e segreti di una cultura. Senza alcun dubbio è il concetto di cultura – fatto valere a proposito di coloro che un tempo venivano definiti «primitivi» e «selvaggi» – ciò che induce a trovare in loro e a valorizzare idee di ordine teologico, cosmologico, antropologico. La cultura presa in considerazione dal decreto Ad gentes e attribuita alle popolazioni del mondo è in effetti ricca e complessa: non è più la cultura povera ed elementare di coloro che dovevano essere spinti, a forza, sulla strada del «progresso».

Vilacaya (Potosí, Bolivia): le Wataqaminas, come sono chiamate le donne protagoniste di un’antica cerimonia quechua. / Foto di Stefania Raspo.

I dissidi tra evangelizzazione e culture

Come si è detto, il missionario di Ad gentes non è però soltanto colui che conosce da vicino e intimamente la cultura della società presso cui opera. Egli deve compiere all’interno della cultura un minuzioso lavoro di selezione. In un articolo di alcuni anni fa – a cui rimando per eventuali approfondimenti (Remotti 2011) – ho proposto alcuni brani, che qui riproduco in maniera sintetica:

1) nella Costituzione sulla sacra liturgia (Constitutio de sacra liturgia) «Sacrosanctum Concilium» (1963) si stabilisce di distinguere ciò che «nei costumi dei popoli… è indissolubilmente legato a superstizioni ed errori» e ciò che invece non lo è. Ciò che non è superstizione ed errore, la Chiesa «lo considera con benevolenza», «lo conserva inalterato» e «lo ammette nella liturgia stessa» (par. 37 – Denzinger 2003: 4037);

2) nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Constitutio dogmatica de Ecclesia) «Lumen Gentium» (1964) si ribadisce la distinzione tra ciò che nelle culture umane può essere conservato e ciò che va rifiutato. «Le capacità, le risorse e le consuetudini di vita dei popoli», che sono conservate in quanto «buone», vengono – inoltre – purificate, consolidate, elevate (par. 13 – Denzinger 2003: 4133).

Dieci anni dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI emana l’esortazione apostolica (Adhortatio apostolica) «Evangelii nuntiandi» (1975) in cui si precisa ulteriormente il rapporto tra evangelizzazione e cultura. In questo testo decisivo appaiono evidenti l’importanza e l’imprescindibilità della cultura sotto il profilo antropologico, come quando si afferma che gli uomini risultano sempre «profondamente legati a una cultura (sua certa cultura imbuti sunt)», di cui evidentemente non possono fare a meno, a tal punto che la stessa «costruzione del Regno», secondo i dettami del Vangelo cristiano, «non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane» (par. 20 – Denzinger 2003: 4577).

E tuttavia vi è un discidium inter Evangelium et culturam, una rottura, che si spiega con il fatto che il Vangelo e l’evangelizzazione «non si identificano con la cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture».

L’evangelizzazione non può fare a meno di calarsi nelle culture, di diventare essa stessa cultura, ma la sua prerogativa è quella di «penetrare» profondamente in tutte le culture e «impregnarle», senza con ciò «asservirsi ad alcuna». Anzi, il Vangelo ha una forza dirompente nei confronti delle culture esistenti: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere (evertere) mediante la forza del Vangelo (Evangelii potentia) i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono «in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza» (par. 19 – Denzinger 2003: 4575).

Donna e figlioletto all’ospedale di Beni, Nord Kivu, durante l’epidemia di ebola. / Foto di Vincent Tremeau – World Bank

La verità cristiana e il fine ultimo

È su questo sfondo tematico che occorre interpretare il concetto di inculturazione. Nell’enciclica Redemptoris Missio del 1990, Giovanni Paolo II intende tutta l’attività missionaria come avente lo scopo di inserire la Chiesa «nelle culture dei popoli», di provvedere dunque al «radicamento del cristianesimo nelle varie culture» (1991: § 52). Paolo VI in un discorso a Kampala aveva parlato di una vera e propria «incubazione» della verità cristiana nelle culture altrui. «Proseguendo nella metafora», possiamo dunque dire che «i missionari (parte attiva) sono coloro che penetrano nelle culture e le inseminano, facendo in modo che il germe attecchisca e si sviluppi in armonia con il Vangelo e con la chiesa universale» (Remotti 2011: 56).

Il fine è pur sempre quello chiarito in maniera indiscutibile nell’Ad gentes, ossia entrare nelle culture, separare ciò che è compatibile con il messaggio evangelico da ciò che non è compatibile, al fine di costruire «l’uomo nuovo», come era stato predicato nelle lettere di san Paolo e come ritorna più volte nell’enciclica citata (par. 8, 11, 12, 21).

Nell’Ad gentes si afferma in modo inequivoco che la costruzione dell’umanità nuova è non soltanto «compito imprescindibile» della Chiesa, ma anche suo «sacrosanto diritto».

Leggiamo in Ad gentes (par. 8): «“Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). E poiché chi non crede è già condannato (Gv 3, 18), è evidente che le parole di Cristo sono insieme parole di condanna e di grazia, di morte e di vita. Soltanto facendo morire ciò che è vecchio possiamo pervenire al rinnovamento della vita.

E ancora: «La ragione dell’attività missionaria discende dalla volontà di Dio, il quale «vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. Vi è infatti un solo Dio, ed un solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, uomo anche lui, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2, 4-6), e «non esiste in nessun altro salvezza» (At 4, 12). È dunque necessario che tutti si convertano al Cristo conosciuto attraverso la predicazione della Chiesa, ed a lui e alla Chiesa, suo corpo, siano incorporati attraverso il battesimo (par. 7).

I missionari che avevano rimbrottato il vecchio giudice seguivano esattamente queste linee dell’Ad gentes. Conoscevano le culture indigene, ma di fronte al «piano divino nel mondo e nella storia», di cui «l’attività missionaria non è altro che la manifestazione, cioè l’epifania e la realizzazione» (par. 9), le culture – come il vecchio giudice catechista – devono recedere: devono lasciarsi trasformare in un campo da inseminare.

Vangelo ed evangelizzazione: alcuni dilemmi

A me pare di trovarmi in un altro momento storico rispetto al Concilio Vaticano II. Come pure sostiene Mario Menin nel suo libro, «a cinquant’anni dalla fine del concilio (1965), la missione è molto cambiata» (Menin 2016: 121). L’idea della plantatio ecclesiae – così evidente, a mio parere, in tutta la prima parte dell’Ad gentes, dove in effetti si parla espressamente di plantatio Ecclesiae in populis (par. 6) – è stata in gran parte accantonata: la nuova idea di missione conosce la «svolta antropologica […] della teologia del Novecento» e l’inculturazione o l’inreligionizzazione sono concepite quali procedure di un’attività missionaria che «accetta il mondo, le religioni e le culture come interlocutori» (Menin 2016: 122). Le cose ovviamente non sono così semplici: alla base vi è pur sempre il «tormentato rapporto Vangelo-culture» (2016: 139).

Se le culture diventano protagoniste o coprotagoniste, se alle culture indigene si riconosce un ruolo attivo, che ne è del Vangelo? Possono ancora il Vangelo e la conseguente evangelizzazione essere considerati come fattori indipendenti, come manifestazione di una verità assoluta, che prescinde dai contesti storici e culturali, oppure Vangelo ed evangelizzazione sono anch’essi manifestazioni e realizzazioni culturali dell’umanità?

Una famiglia attraversa l’acqua che ha invaso la sede stradale nel territorio di Masisi, provincia del Nord Kivu, Congo Rd. / Foto Teseum.

Vangelo e culture, una distanza che si riduce

Le relazioni tenute al Convegno dei missionari e missionarie della Consolata (Roma, 14-18 ottobre 2019) non sono giunte dichiaratamente a questi esiti. Tuttavia, l’insistenza sui temi del dialogo e della condivisione; dell’incontro e dell’apertura; del convivere anziché del convertire; della necessità dell’apprendimento dalla cultura di coloro che coltivano altre credenze; della valorizzazione dei loro saperi e della loro peculiare e intrinseca spiritualità; della compenetrazione reciproca; dell’armonizzazione intima e paritaria tra Vangelo e saggezza indigena; delle opportunità di sintesi tra cristianesimo e religioni sconosciute e senza nome; dell’interculturalità come linguaggio polifonico; dell’ascolto del pensiero altrui provvedendo a una sospensione (epoché) dei propri criteri di giudizio e delle proprie convinzioni; del considerare e rendere gli indigeni protagonisti dell’attività missionaria; del ricercare un percorso condiviso così da non convivere solamente e limitarsi a stare insieme, bensì camminare insieme; del ricercare insieme, umilmente e fattivamente, forme più proponibili di umanità; del progettare insieme, in forma collaborativa, un futuro migliore per l’umanità – l’insistenza su questi temi fa capire che il discidium tra Vangelo e cultura, che per Paolo VI era «senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (Evangelii nuntiandi, par. 20 – Denzinger 2003: 4578), tende ad attenuarsi.

La distanza tra Vangelo e cultura appare assai meno accentuata: non sono più le culture a dover essere evangelizzate (§ 2); è anche il vangelo che potrebbe presentarsi come una cultura: una cultura a cui si vuole essere fedeli e tuttavia una cultura umana in mezzo ad altre culture umane.

Molti missionari nelle loro relazioni hanno posto in luce come la convivenza e l’interazione con le culture indigene abbiano plasmato la loro esistenza, abbiano mutato in senso positivo le loro convinzioni di partenza. Non ho mai sentito nessuno esprimere a tal proposito la preoccupazione avanzata da Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio, il quale metteva in guardia circa «i pericoli di alterazione che si sono a volte verificati», con la rinuncia alla «propria identità culturale», coincidente con il Vangelo e la verità cristiana (par. 53). Allo stesso modo, in nessuna relazione a cui ho assistito mi pare sia emersa la convinzione, presente invece nella stessa enciclica, secondo cui le culture umane, in quanto prodotte dall’uomo, sono inevitabilmente «segnate dal peccato» (par. 54): una definizione negativa e svalutativa delle culture umane, le quali hanno manifestamente bisogno di un programma di salvazione dal peccato per essere utili all’umanità. Al contrario, ho sentito dire che Dio è presente in quei luoghi, nelle loro culture, nelle loro forme di umanità.

Che fare (se rimane un po’ di tempo)?

Nelle relazioni ho avvertito un senso di urgenza. Il riferimento costante all’enciclica di papa Francesco Laudato si’, alla visione di un’ecologia integrale, al tema di un’interconnessione tra le culture umane e tra la cultura e la natura, esprimeva la necessità di dare luogo a una visione comune e condivisa, un sapere alla cui costruzione contribuiscano tanto il Vangelo quanto molte altre culture e religioni. Il mito del progresso, con cui un tempo missionari e antropologi pretendevano di indicare la via di salvezza per l’intera umanità, si è tramutato nello spettacolo immondo di una terra devastata, dove è in pericolo l’umanità stessa, oltre che molte altre specie naturali. Su questi temi molte società frequentate dai missionari e indagate dagli antropologi hanno da tempo richiamato l’attenzione di noi occidentali, noi «popolo della merce» dalla vista corta, accecati dalla nostra avidità, come lo sciamano yanomami Davi Kopenawa ci ha apostrofati (Kopenawa e Albert 2018).

Non è più tempo di divisioni. Se ancora rimane un po’ di tempo, è bene che lo impieghiamo a costruire davvero una «nuova umanità», recuperando saggezza e lungimiranza da ogni parte esse possano provenire: dai testi sacri delle religioni più importanti, tanto quanto dalle culture più lontane e dalle religioni senza nome e notorietà. A questa impresa reputo che si sentano chiamati sia gli antropologi, allorché concepiscono la loro professione come un salvataggio conoscitivo delle forme di umanità più diverse (anche le più problematiche e inquietanti), sia i missionari, i quali con la loro presenza nei luoghi più lontani e più difficili intendono dimostrare che la collaborazione tra esseri umani è possibile e perseguibile, nonostante le differenze culturali e nonostante i conflitti, le lacerazioni, le degradazioni. Forse proprio questa è l’idea di missione più condivisa, quale è emersa dal Convegno, ossia un comune e partecipato impegno antropo-poietico (Remotti 2013), proprio quando si assiste ai disastri umani e naturali di un «incivilimento» forsennato.

Fratel Antonio Soffientini, missionario comboniano, ha affermato che prima i missionari camminavano insieme ai civilizzatori, ora invece camminano insieme alle vittime della civiltà. Anche per questo, mi sembra di poter dire che antropologi e missionari si ricongiungono su una stessa sponda. Abbandonati i miti e le certezze di un tempo, si ritrovano infine nella stessa barca, insieme a coloro che, costretti a fuggire dalle loro terre, si ostinano disperatamente a spingere lo sguardo verso un futuro migliore.

Francesco Remotti

Una donna con un bimbo sulle spalle al mercato di Mweso, territorio di Masisi, Nord Kivu, Congo Rd. / Foto di Alexis Huguet – AFP.


Fonti bibliografiche

  • Francesco Remotti, Etnografia Nande, Il Segnalibro, Torino 1993.
  • Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996.
  • Francesco Remotti, Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari 2004.
  • Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008.
  • Francesco Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Roma-Bari 2013.
  • Mario Menin, Missione, Cittadella Editrice, Assisi (Perugia) 2016.
  • Davi Kopenawa – Bruce Albert, La caduta del cielo, Nottetempo, Milano 2018.
  • John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973.
  • Gérard Leclerc, Antropologia e colonialismo. L’Occidente a confronto, Jaka Book, Milano 1973.
  • Alfonso Maria Di Nola, Antropologia religiosa, Vallecchi Editore, Firenze 1974.
  • Silvano Sabatini – Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo. Tra gli indios dell’Amazzonia, Ediesse, Roma 2011.

La Paz, Bolivia, marzo 2020 / foto Marcelo Perez Del Carpio / Anadolu Agency


Hanno firmato questo dossier:

Francesco Remotti – Antropologo e professore universitario, tra i vari incarichi ricoperti è stato direttore del dipartimento di Scienze antropologiche dell’Università di Torino. Si è occupato soprattutto di Africa equatoriale. Ha condotto ricerche in Congo Rd presso la popolazione Nande. È autore di numerosi libri tra cui i più recenti sono: Per un’antropologia inattuale (2014), Somiglianze. Una via per la convivenza (2019).

Stefania Raspo – Missionaria della Consolata, quarantatreenne, piemontese di nascita, boliviana di adozione. Dal 2013 vive a Vilacaya, nel dipartimento di Potosí, in Bolivia, in una regione contadina di lingua quechua. Laureata in filosofia e in teologia, sta studiando antropologia con un corso a distanza dell’Università cattolica boliviana.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.




Guka, il nonno (un piccolo grande missionario)

testo a cura di Gigi Anataloni |


Padre Angelo è deceduto il 28 dicembre 2019 a Nairobi in Kenya. Aveva 95 anni, di cui 73 vissuti da missionario della Consolata e 69 da sacerdote. Ecco la sua testimonianza di missionario in Kenya dal 1962 in un’intervista del maggio 2019.

«La mia vocazione missionaria è nata nella città di Fiuggi dall’incontro con mons. Filippo Perlo, al quale facevo quotidianamente da chierichetto, in una chiesa vicina alla casa di mia zia dove mi trovavo per le vacanze».

I padri Jaime Patias e Antonio Rovelli, consiglieri generali dei missionari della Consolata, in visita in Kenya nel maggio scorso, hanno incontrato e intervistato il guka (nonno, in lingua kikuyu).

«È il Signore che fa i miracoli! Io non ho mai fatto miracoli, ma ho sempre cercato l’appoggio dei benefattori per fare dei piccoli miracoli con le opere di carità».  Ascoltando la videointervista di padre Angelo, spontaneamente si ricorda una frase di san Paolo che riassume molto bene la vita di questo «piccolo grande» missionario: «Tutto io faccio per il Vangelo» (1 Cor 9,23).

Le parole di padre Angelo

P. Fantacci con bambini di Archer’s Post

«Mi chiamo padre Angelo Fantacci. Sono arrivato alla bella età, vicino ormai alla fine, di 95 anni (nato il 14/10/1924 a Collepardo, in quel di Frosinone) e questo lo considero una grande benedizione del Signore perché non tutti arrivano a questa età.

La mia vocazione è nata nel 1937 a Fiuggi dove d’estate andavo da una zia che aveva un albergo vicino alla chiesa parrocchiale. Tutte le mattine andavo a servire la messa lì e vedevo sempre un sacerdote con la barba che diceva la messa. Da quel bambino che ero, mi ero stupito, e parlando con mia zia le dicevo che il prete a cui avevo servito la messa portava le calze rosse. Barba e calze rosse: non era certo il modo di presentarsi del parroco del mio paese. E mia zia mi rassicurava che era normale perché quello era un missionario che era stato in Africa. Tranquillizzato, ho continuato ad andare a servire la messa.

Una mattina, mentre uscivo, lui mi ha chiamato. “Bambino, vieni qui”. Non sono cresciuto molto, ma allora ero davvero piccolo! “Come ti chiami?”, “Angelo”. “Dove stai?”, “Da mia zia che ha l’albergo Paradiso” (niente meno).

“Conosco tua zia, dille che ti mandi a trovarmi dove io abito”. Allora mia zia la mattina successiva mi ha detto: “Vai su a metà strada tra Fiuggi fonte e Fiuggi città e là trovi la casa di questo vescovo e così lui ti può parlare”.

Allora c’era il tram che portava fino lassù, così ho chiesto alla zia di darmi i soldi per il biglietto. Ma lei: “No no, tu vai a piedi”.

Ed è così che ho cominciato la mia missione! Sono andato e ho incontrato monsignor Filippo Perlo, monsignor Gabriele, suo fratello, padre Luigi, il terzo fratello, e la loro sorella Agnese, che d’estate venivano a stare in quella casa a Fiuggi.

Lì mons. Perlo ha cominciato a parlare delle missioni e mi ha fatto vedere tante fotografie. Poi mi ha dato due libri che lui aveva scritto e che ho portato a casa. Li ho mostrati alla zia e ho cominciato a leggerli. Da lì è nata un po’ la mia vocazione missionaria, tanto è vero che poi a ottobre di quell’anno ho deciso di andare nel seminario dei missionari della Consolata a Gambettola, e là ho cominciato i miei primi studi che ho poi completato in Piemonte dove sono stato ordinato nel 1950».

Arrivo in Kenya

«Sono arrivato in Kenya nell’agosto del 1961, adesso non ricordo bene la data. Era il 23 o il 25, ed è stato l’ultimo viaggio fatto in nave da Venezia fino a Mombasa, poi da Mombasa sono arrivato a Nairobi in treno. Da qui mi hanno mandato a Nanyuki, ai piedi del Monte Kenya, dove ho fatto il mio apprendistato, e poi un anno a Kaheti, parroco, tra i Kikuyu. Nel 1963 sono partito per Archer’s Post, sulla strada per andare a Marsabit, nel Nord del Kenya, dove non c’era assolutamente niente».

Antica cappella protestante Archer’s Post

Archer’s Post era in una località strategica dal punto di vista del lavoro dei missionari, perché relativamente vicina a Isiolo (dove finiva la strada asfaltata) e primo avamposto sulla strada verso Wamba (a Est) e Marsabit (Nord). Quest’ultima era la cittadina capitale dell’area omonima abitata da pastori nomadi che nel 1964 sarebbe diventa la sede della nuova diocesi affidata ai missionari della Consolata.

Padre Angelo è rimasto là fino al 1971. Nel 1972 è stato trasferito come parroco nella missione di Maralal, in posizione centrale per l’evangelizzazione della zona verso il lago Turkana, dove ha costruito quella che oggi è la cattedrale dell’omonima diocesi. Lo stesso anno è stato eletto consigliere del superiore dei missionari della Consolata in Kenya. Durante quel periodo, nel 1975, nel consiglio regionale hanno preso una decisione importante: aprire una missione sulla costa, nella città portuale di Mombasa, dove la maggior parte degli abitanti era musulmana.

«Dunque, avevano deciso di aprire anche a Mombasa però nessuno voleva andarci. Io ero del consiglio, uno di quelli che avevano approvato il nuovo progetto, così il superiore e gli altri padri mi hanno detto “accetta almeno tu che puoi andare e cominciare”. Allora sono andato a iniziare la missione sulla costa dell’Oceano Indiano».

1965 lavaggio dei piatti dopo pranzo, padri Rossi Berluti, Fantacci e Valli

Missione e opere

«Se ho realizzato delle opere è perché la missione vale se ci sono delle opere, soprattutto caritative o sociali. Il Signore faceva i miracoli, ma io non sono mai arrivato a fare un miracolo. Però ho sempre cercato di fare delle opere a cominciare dalle scuole per i bambini.

In alcuni posti lungo la costa di Mombasa non c’erano scuole, come anche al Nord tra i nomadi, perché gli inglesi avevano completamente dimenticato quella zona.

Quando ero ad Archer’s Post, la prima cosa da costruire non era la casa e la chiesa – l’unico cristiano ero io – ma il dispensario medico e io stesso davo le medicine più comuni, quelle che potevo dare senza rischi, naturalmente. Poi avevo iniziato con la scuola dei bambini, a partire dall’asilo. Dopo, pian pianino, erano venute tutte le altre opere e anche la chiesa dedicata alla nostra mamma Consolata. Così era cominciata la missione di Archer’s Post nel lontano 1963».

«L’ultima opera che ho fatto (prima di essere costretto dalla salute malferma a ritirarsi a Nairobi nel 2018) è una grande scuola a Ukunda, vicino a Diani, una rinomata località balneare molto frequentata dagli italiani. Prima ho comprato il terreno, che è costato parecchio, e poi ho detto al vescovo: “Qui c’è tutto questo terreno, vi voglio costruire una scuola tecnica per i bambini affinché possano imparare un mestiere”. Ora c’è una bella scuola gestita dai religiosi di una congregazione kenyana».

Missione a Mombasa

Nel 1976 è cominciata l’avventura di padre Angelo sulla costa, con la scelta della zona di Likoni, alla periferia Sud della città-isola di Mombasa. Per arrivarci occorreva (allora e oggi) prendere il traghetto. Gli abitanti erano un grande miscuglio di gruppi etnici provenienti dalle varie zone del paese attratti dalla possibilità di lavoro nel porto e nell’emergente industria turistica.

Nella missione di Likoni-Mtongwe, padre Angelo è rimasto fino al 1996, salvo un breve intervallo di tre anni (1979-1981) nella missione di Sagana nella diocesi di Murang’a.

A Mombasa la situazione non era facile. C’erano sono forti tensioni tra i nativi (islamici) e quelli che venivano da fuori (in maggioranza cristiani). Nel 1992 e nel 1997 gli scontri sono stati così violenti che la missione si è trovata invasa dai rifugiati. Ha scritto suor Corona Nicolussi (MC 12/2010): «La prima volta arrivarono 10mila rifugiati. Erano dovunque: in missione, in chiesa, nella scuola, asilo e cortile. Quando sentii che avevano cominciato a bruciare le case, andai con suor Ester a comperare un po’ di fagioli e granoturco da dare a chi era nel bisogno. Invece, dopo pranzo, la gente cominciò ad invadere la missione. Chiamai padre Angelo (Fantacci), il parroco. “Che facciamo?” Togliemmo i banchi della chiesa e la riempimmo di donne e bambini. Tutti i locali erano pieni, e il cortile era diventato un grande accampamento. Per fortuna non pioveva. Prova ad immaginare com’era! Chiudemmo il dispensario e tutte le cure andarono a chi avevamo in casa. Pensa che quando di notte mi chiamavano per un’emergenza, dovevo scavalcare i corpi dei dormienti».

A causa degli scontri, del 22 agosto 1997, il numero dei rifugiati presso imissionari della Consolata di Likoni ha raggiunto 2.200 unità

Una rete di benefattori

Chissà quanta gente ti ha aiutato a fare tutte quelle opere, gli domandano gli intervistatori.

«Ho sempre cercato di stare in contatto con i benefattori. Scrivevo lettere (proprio lettere) che spedivo e mandavo a tutti personalmente. Devo dire con sincerità che questi benefattori mi hanno sempre aiutato e qualcheduno continua ad aiutarmi anche adesso. Quindi devo ringraziare veramente questi benefattori perché hanno dimostrato il loro affetto non per me, ma per la missione sentendosi anche loro missionari. Scrivendo e ringraziando dicevo loro “ecco, bravi, perché non facciamo questo per noi stessi, ma per il Signore. Queste opere sono realizzate grazie alla vostra generosità”.

La fede ha valore quando ci sono delle opere. Possiamo predicare bene il Vangelo ma deve essere seguito dalle opere. Gesù è la fonte dei miracoli, ma i nostri miracoli dipendono dai benefattori e dalla loro generosità. Quindi le opere caritative e sociali che noi missionari abbiamo cercato sempre di realizzare esistono grazie alla loro generosità. E io vecchio missionario di 95 anni ringrazio anche a nome di tutti i missionari. Sono sicuro che il Signore saprà ricompensare tutti come giustamente meritano».

Gli intervistatori chiedono a padre Angelo due parole di incoraggiamento alle nuove generazioni di missionari della Consolata.

«Cari giovani missionari cercate prima di tutto di non pensare a voi ma alla gente con cui venite a contatto. E che cosa predicare? Non ciò che volete voi, ma seguire il Vangelo perché seguendo il Vangelo vi ascoltano di più e diventeranno senza dubbio dei bravi cristiani, e poi da questi possono nascere anche delle buone vocazioni».

Rifugiati presso la missione della Consolata di Mombasa dopo i disordini del 13 agosto

Il lavoro non è nostro, ma di Dio

«Ho sempre notato che la gente, pur vedendo il nostro colore bianco, ci ha sempre accettato con cordialità. Io contrasti duri non li ho mai avuti. Con qualche autorità sì, ma con la gente mai. Sempre in buoni rapporti. E hanno sempre ascoltato e sempre stimato ciò che si faceva per loro e questo ci incoraggiava a continuare a predicare il Vangelo, perché il Vangelo, come dice il Signore, è la parola della vita, la parola della salvezza e anche la parola di tanta gioia. Perché più si ascolta il Vangelo e più si segue Gesù e più uno si avvicina a lui e si avvicina anche all’eternità».

Sull’avviso per il funerale di padre Angelo, avvenuto il 3 gennaio 2020 al cimitero dei missionari della Consolata al Mathari, Nyeri vicino alla chiesa Memoriale degli Italiani, c’era scritto: «Caro padre Angelo, hai dato tutta la tua vita alla missione del Padre, come una matita nelle mani dell’artista: ti sei lasciato affinare e usare liberamente fino alla fine…».

La messa funebre è stata celebrata da mons. Virgilio Pante, vescovo della Diocesi di Maralal, con la presenza di molti confratelli e gente.

Un giovane missionario kenyano presente al funerale ha scritto: «Sulla sua tomba è stata posta una corona floreale. L’hanno deposta dei bambini che erano presenti alla sepoltura, per due motivi. Uno, padre Angelo è morto il 28 dicembre 2019, nella festa dei Santi Innocenti. Due, era un segno che in effetti era il nostro guka, nonno!

Sarà ricordato con affetto per il suo famoso detto: “Mzee, kazi sio yako, ni ya Mungu” (anziano, il lavoro – quello che hai fatto – non è tuo, ma di Dio)».

Gigi Anataloni

_______________

Ho compilato questo testo, senza pretese di completezza, utilizzando l’intervista del maggio 2019 e le notizie pubblicate su consolata.org in occasione del funerale, aiutato da memorie (e foto) personali. (G.A.)

 


Un pioniere della missione in Kenya

Mons. Filippo Perlo

Mons. Filippo Perlo (1873-1948), nipote di don Giacomo Camisassa, braccio destro del beato Giuseppe Allamano, è uno dei primi missionari della Consolata. Partito con il primo gruppo per il Kenya nel 1902, nel 1903 diventa superiore del piccolo gruppo di missionari che iniziano la loro avventura evangelica nella terra dei Kikuyu (Agekoyo allora). Nel 1905 quella regione diventa «Missione indipendente» separata dal Vicariato di Zanguebar (Zanzibar, vicariato che fino allora ha responsabilità su gran parte dell’Est Africa) e nel 1909 Vicariato apostolico del Kenya. Perlo ne diventa il primo vescovo fino al 1924, quando rientra definitivamente in Italia ed è nominato superiore generale dell’Istituto dopo la morte del fondatore, il beato Allamano. Nel 1930 si ritira a Roma con i fratelli e la sorella. Muore il 4 novembre 1948, pochi mesi dopo suo fratello mons. Gabriele.

Uomo di grande intelligenza, eccellente fotografo, grande stratega della missione, duro con se stesso ed esigente con i suoi confratelli, ha dato un impulso determinante allo sviluppo della missione in Kenya. Amato da tanti, contestato da altri, nel 1930 è stato estromesso dall’istituto, nel quale è rientrato in occasione del suo 50° di messa nel 1945. È stato una figura controversa, ma la sua passione per il Vangelo e la missione, il suo amore per il Kenya (dove ha anche fondato un istituto di suore locali a Nyeri) e per l’istituto sono fuori discussione. (G.A.)

Padre Barlassina (o Gabriele Perlo?) nella missione di Vambogo mentre ascolta il rapporto giornaliero dei catechisti. La foto porta scritta autografa di Filippo Perlo (già vescovo) a matita sul retro con due parole cancellate da uno strappo sulla carta: “P…….. della scena” + Filippo

 




Kazakistan: LA GRAZIA DELL’OSPITALITÀ E DELLA BENEDIZIONE

4 marzo 2020


L’inizio della nostra presenza in Kazakistan l’abbiamo vissuta all’insegna della benedizione e dell’ospitalità. Siamo arrivate all’eroporto di Almaty alle 00:50 del 29 di febbraio. Eravamo partite dall’Italia con la convinzione di dover fare la “quarantena” a causa del coronavirus ed eravamo disposte a farla pur di partire per la missione tanto attesa nel cuore. Invece abbiamo superato tutti i controlli! Abbiamo sentito la forza della preghiera delle nostre consorelle e la benedizione ricevuta nella Santa Messa celebrata prima della partenza, alle 3 del mattino da P. Germán Arana, SJ, nella cappella di Nepi, accompagnata dalla Direzione generale, dalla comunità del Kirghizistan e da altre sorelle in Nepi.

All’arrivo ci attendevano due sacerdoti della diocesi di Almaty Don Szymon Grzywinski, polacco, e Don Gregorio Perez, spagnolo, tutti e due abitano nella parrocchia di Kapchagay, che dista circa 70 km da Almaty. I primi giorni vivremo a Kapchagay fino a quando procureremo ciò che è necessario per preparare la nostra casa in Janashar.

Sabato 29 di febbraio, il giorno in cui siamo arrivate, è una data cara per la Chiesa in Kazakistan. Si commemorano i 25 anni della consacrazione dell’Asia Centrale alla Beata Vergine Maria, Regina della Pace e patrona del Kazakistan. Per noi figlie della Consolata è stato un segno di conferma della sua presenza e della chiamata come famiglia religiosa in mezzo a questo caro popolo.

Alla sera ci siamo unite alla comunità cristiana di Kapchagay, una trentina di persone, la maggioranza bambini, per la preghiera del rosario e per la celebrazione eucaristica, la prima in terra kazaka, in un clima fortemente mariano. Alle 20.30 abbiamo pregato ancora con la comunità cristiana, la coroncina della misericordia e ricevuto la benedizione personale con il Santissimo, segno della vicinanza del Signore ad ogni persona. Ci ha toccato profondamente come questa ricorrenza fosse celebrata proprio nel giorno dell’inizio della nostra presenza come Istituto tra il popolo kazako. Veramente il Signore e la Consolata ci hanno preceduto, accolto e benedetto.

Domenica abbiamo raggiunto la nostra comunità cristiana di Janashar, insieme a Don Szymon, il parroco, e al vescovo della Diocesi di Almaty, Mons. Josè Luis Mumbiela Sierra. Ad attenderci c’era una comunità cristiana di una ventina di persone con la quale abbiamo celebrato l’Eucaristia. Lì il vescovo ci ha introdotto alla comunità e ci ha fatto vedere quale sarà la nostra casa, un appartamento al primo piano, sopra ad un ambiente preparato per le attività parrocchiali. Alla Messa è seguito un momento fraterno con dei cibi tipici del posto.

Al pomeriggio con Don Szymon siamo andate a Nura, dove abbiamo celebrato l’Eucarestia nella casa di una famiglia, insieme ad una ventina di persone. Qui ci hanno invitato a cantare e abbiamo intonato un canto in Swahili “E Mama Bikira Maria Consolata”.

Abbiamo incontrato un popolo molto accogliente e generoso. La nonna che ci ha ospitato nella sua casa si preoccupava che avessimo il nostro piatto sempre pieno di ogni bene, che avevano preparato per noi.

Ci chiederete come comunichiamo. Abbiamo studiato un po’ di russo prima della partenza, ma in questo momento sperimentiamo, come tutti i missionari, una bella confusione. Con qualcuno parliamo un po’ di spagnolo, con un altro un po’ d’inglese, con un altro un po’ d’italiano e pratichiamo le nostre piccole frasi in russo. Ci anima però l’ospitalità e l’accoglienza calda del popolo kazako e della piccola presenza della Chiesa, un dono immenso per noi tutte, in questo nuovo inizio.

Grazie di vero cuore per la vicinanza e la preghiera con cui ci accompagnate e i tanti messaggi che ci avete fatto pervenire!!!

Sr Adriana, Sr Claudia, Sr Luisa, Sr Zipporah




Innamorati e vivi

testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |


È il tema della prossima «giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri» che si celebrerà il 24 marzo nel 40° anniversario del martirio di sant’Oscar Arnulfo Romero.

Scrive Missio Italia sul suo sito: «Secondo i dati raccolti da Fides, nel corso dell’anno 2019 sono stati uccisi nel mondo 29 missionari […]: 18 sacerdoti, 1 diacono permanente, 2 religiosi non sacerdoti, 2 suore, 6 laici. Dopo otto anni consecutivi in cui il numero più elevato di missionari uccisi era stato registrato in America, dal 2018 è l’Africa ad essere al primo posto di questa tragica classifica. In Africa nel 2019 sono stati uccisi 12 sacerdoti, 1 religioso, 1 religiosa, 1 laica (15). In America sono stati uccisi 6 sacerdoti, 1 diacono permanente, 1 religioso, 4 laici (12). In Asia è stata uccisa 1 laica. In Europa è stata uccisa 1 suora. Un’altra nota è data dal fatto che si registra una sorta di globalizzazione della violenza: mentre in passato i missionari uccisi erano per buona parte concentrati in una nazione o in una zona geografica, nel 2019 il fenomeno appare più generalizzato e diffuso. Sono stati bagnati dal sangue dei missionari 10 paesi dell’Africa, 8 dell’America, 1 dell’Asia e 1 dell’Europa» (www.missioitalia.it).

La «globalizzazione della violenza» contro i cristiani, è un fenomeno a cui stiamo assistendo con stupore e preoccupazione. Non siamo abituati e non ci abitueremo mai alla violenza contro chi vive la sua fede, ma che in Cina si mettano in prigione senza processo credenti di diverse religioni e si distruggano chiese, è ben noto da anni. Che in Pakistan ragazze cristiane siano rapite giovanissime e costrette a cambiare religione e a sposare il loro rapitore, è storia triste che quasi lascia indifferenti. Pure ben nota è la violenza contro i cristiani in Iraq, Siria e Indonesia, e poi in Libia, Nigeria, Somalia, Mali, Centrafrica e in tanti altri paesi dove il fondamentalismo islamico ha messo radici con Al Qaeda, Isis, Boko Haram e gruppi simili. Niente di nuovo anche circa la situazione in Nicaragua e altri paesi centro americani, dove regimi tutt’altro che democratici non accettano critiche. Stupisce un po’ di più il fondamentalismo induista che è emerso in questi ultimi anni ed è diventato aggressivo e violento contro le minoranze cristiane, islamiche e di cultura tradizionale. Per molti è una sorpresa ancor più grande la violenza del fondamentalismo buddista che si sta estendendo a macchia d’olio nel Sud Est asiatico.

Ma quello che sorprende oggi è la violenza di casa nostra contro chiese, preti e cristiani. Gli attacchi mafiosi contro gli scout in Sicilia, la devastazione dei centri Caritas o di aiuto ai poveri e migranti, le scritte blasfeme sulle chiese, i post ingiuriosi sui social, l’intolleranza verso le posizioni della comunità cristiana e dei suoi pastori sui temi come la vita, la famiglia, la sessualità, l’accoglienza. Questa violenza verbale, e anche fisica, non viene da fondamentalisti di altre religioni, ma da
individui che si ritengono addirittura dei buoni cristiani.

Tutto questo lascia certamente perplessi, ma è anche un segno positivo della vitalità della nostra Chiesa, anche in Italia, capace ancora di testimoniare, senza lasciarsi intimorire, il vero volto di Dio che è amore senza barriere e confini.


Scienza e religione

«La teologia e la religione entrano in gioco quando la scienza non è in grado di spiegare ciò che accade nel mondo». Trovate questa frase a pag. 55 nel contesto di un bell’articolo su religione e scienza. Come ho scritto al nostro collaboratore, la frase è ambigua perché potrebbe essere la base per questa conclusione: quando la scienza riuscirà a spiegare tutto, non ci sarà più bisogno della religione.

L’autore ha concordato sull’ambiguità dell’espressione che voleva invece sottolineare la complementarità e la differenza tra religione e scienza, ciascuna con un proprio ruolo specifico, diverso ma non contrapposto.

Ritengo che la scienza abbia il compito di capire e spiegare il come funziona questo nostro mondo e di dare gli strumenti per una sua corretta gestione. La religione risponde invece ai perché e alle domande di senso, cioè le ragioni e
lo scopo per cui il mondo e l’uomo esistono.

È vero che nel passato la religione ha preteso di controllare la scienza, ma è anche vero che senza gli uomini di religione noi oggi non avremmo la scienza che conosciamo.

La religione da tempo ha smesso di volersi imporre alla scienza e ne rispetta l’autonomia, ma non sembra che tutti gli uomini di scienza si siano resi conto che la scienza non deve diventare una religione, bensì restare tale senza aver la pretesa di avere la risposta a tutto, compreso il senso, lo scopo e lo stile dell’esistenza dell’uomo e del mondo.

 

 




Noi e Voi


Dubbi sì, ma poi?

Egregio direttore, premetto che sono abbonato alla vostra rivista da diversi anni e che la considero una delle più interessanti riviste missionarie. Leggendo l’editoriale di novembre dal titolo «dubbi», sono rimasto poco soddisfatto delle conclusioni. Interessanti le varie osservazioni a eccezione di quella sulle diete dove si domanda chi paga il prezzo. Io sono vegetariano e con me tanti amici. Cosa vuol dire con l’affermazione: «Chi paga il prezzo dell’espansione delle monocolture»?

Ma a parer mio, manca la conclusione con un invito a ogni singolo uomo e alle nostre comunità a una riduzione dei prodotti di origine animale, all’utilizzo di vetture a basso consumo energetico, a ridurre lo spreco in queste festività (sprechi nelle decorazioni …) cene varie, all’utilizzo di prodotti non avvelenati, una riflessione sui regali e così via. Tanti saluti e auguri

Daniele Engaddi Pontida (Bg), 21/12/2019

I dubbi sono dubbi, non affermazioni categoriche. Quanto alla domanda sulle monocolture, non vuole essere una provocazione, ma un invito a riflettere, abbandonando posizioni ideologiche. Su questa rivista abbiamo già espresso alcune riserve in merito nella rubrica Nostra madre terra del giugno 2019 dal titolo «L’altra faccia della soia». Ma si possono trovare altri interventi autorevoli nella stampa internazionale.

Grazie dell’invito alla sobrietà nelle festività (non solo nel periodo natalizio e di fine anno) e in tutto quello a esse correlato. Su questo ci trova completamente concordi. Lo spreco è una grande ingiustizia ed è una realtà che esigerebbe una maggior riflessione da parte di tutti, a cominciare dallo spreco del cibo a quello di energia, illuminazione notturna, imballaggi, vestiario, acqua … una lista infinita.

Finché siamo capaci di dubitare e di porci interrogativi c’è speranza. Se poi siamo anche capaci di «conversione», allora sì che c’è futuro.


«Cattolici» vs Francesco

Ho amici, cattolici, che purtroppo se la prendono con il santo padre Francesco, accusandolo di tutto il male che accade dentro la Chiesa, anche di colpe che storicamente non sono certamente sue, e a me queste loro posizioni dispiacciono molto. Tra le varie accuse, ultimamente si è inserita la vicenda del Sinodo amazzonico. In particolare, per loro «motivo di «scandalo» sarebbero le «cerimonie» di adorazione o comunque venerazione di statuette femminili, considerate dai nativi come vere divinità locali reali e di una maschile raffigurante un uomo in condizioni di erezione sessuale e di altri simboli, tra cui la barca, portati persino, a loro avviso, in processione in San Pietro, presente il papa. Io credo che quanto visto non abbia affatto motivazioni e finalità idolatriche, ma tant’è.

Potete dirmi qualcosa in merito? Oppure dove potrei trovare materiale utile per documentarmi? Vi ringrazio.

Bruno Cellini Follonica (Gr), 03/11/2019

Spero proprio che il dossier «Amazzonie», pubblicato in gennaio, abbia aiutato a chiarire alcuni di questi dubbi e l’infondatezza di tante accuse. Non aggiungo di più. Mi chiedo solo perché questi critici accettino invece come perfettamente coerenti con la nostra religione immagini come la «Madonna del latte» di Jean Fouquet, acclamata opera d’arte che di «Madonna» ha ben poco, oppure – per fare un altro esempio – la grande madre che distribuisce latte a tutti dalla parete della Sala Clementina in Vaticano, la tradizionale sala delle udienze pontificie. Per non dire di tante altre opere d’arte sparse nelle chiese di tutto il mondo o di processioni tradizionali nel Sud del nostro paese, in Spagna e in molti paesi dell’America Latina, che di cristiano hanno solo l’etichetta o la collocazione.

Gli attacchi contro il papa, specialmente – ma non solo – in occasione del Sinodo amazzonico, dimostrano solo una cosa: la lotta è contro una fede viva che interpella e provoca la società umana in tutte le sue dimensioni (politica, giustizia, pace, ambiente, povertà, centralità di Dio) per mantenere invece una religione contenta di se stessa nell’intimo di chiese inondate d’incenso, di arte e di ritualità, che si occupi solo delle anime e del cielo, lasciando ad altri la gestione del «corpo» e del mondo.


Ricordando il Mozambico

Carissimo padre, sono don Carlo Donisotti, ex missionario fidei donum della diocesi di Vercelli. La mia missione in Mozambico iniziò nel 2002 nella diocesi di Inhambane, presso la vostra missione di Santa Ana di Maimelane, fondata nel 1948 da padre Celestino Blasutto e altri confratelli. A causa della guerra in corso, due padri furono sequestrati e quindi i sacerdoti e le suore abbandonarono la missione. Il centro fu trasformato in caserma fino al 1997, quando la missione fu ripresa dai vostri missionari da Vilankulo. Là si stabilirono suor Rita, suor Florentina, suor Elisabetta e suor Clemenzia.

Ora vorrei parlarvi della loro bella testimonianza: suor Rita (Assunta Tessari) fu volontaria nel vostro ospedale, ora nazionalizzato, come infermiera e donna delle pulizie; suor Florentina (Busnello) seguiva le donne nel cucito; suor Elisabetta (Possamai) si occupava della catechesi e in tre anni è riuscita a creare un gruppo di catechisti che la aiutarono a ricostituire cinquanta comunità che si erano disperse durante la guerra; suor Clemenzia (Sicupira), con la sua moto, arrivava ovunque ad assistere ammalati, orfani e persone denutrite. Le sorelle erano seguite da padre Alceu Agarez di Vilankulo e, nonostante la malaria, con enorme fatica e tanto lavoro, riuscirono a dare forma alla missione. L’esempio di queste eroiche suore era sorprendente.

In quegli anni così belli ho apprezzato lo stile di famiglia proprio dei vostri missionari. A Maputo padre Manuel Tavares era una presenza attenta e sempre pronta ad aiutare i missionari in difficoltà. A Guiúa, padre Diamantino Antunes (oggi vescovo di Tete, ndr), con padre Gabriele Casadei, erano molto accoglienti e lasciavano i loro impegni per ascoltare e aiutare chi si rivolgeva a loro, come padre Alceu e padre Carlo Biella a Massinga. A Vilankulo, padre Andrea Brevi e padre Sandro Faedi erano diventati un punto di riferimento per i diocesani. Non si può dimenticare padre Arturo Marques, superiore regionale, che si fermava sempre dai padri e dalle suore consolatine.

Ho viaggiato attraverso le varie comunità, accompagnato da suor Elisabetta e sovente mi confidavo con lei esprimendomi un po’ negativamente sullo stile di alcuni missionari. La suora mi lasciava parlare e poi con garbo e tanta carità mi elencava le virtù e le qualità di ognuno di loro. In breve tempo, ho capito che i gruppi della congregazione avevano fatto proprie le qualità di rispetto, di comprensione e di famiglia di cui il beato Allamano era stato promotore. Anche a Mambone, padre Amadio Marchiol, apparentemente burbero nell’accoglienza, seguiva la stessa filosofia. Infine, fiore all’occhiello, era fratel Pietro Bertoni, anima stupenda, generosa, umile, gioiosa… le qualità di un vero missionario.

Tutti quei valori che padri e suore mi hanno trasmesso quando ero in Mozambico sono stati per me una ricchezza e un grande insegnamento che mi sostengono nella vita quotidiana.

Spero, prego e mi auguro che il beato Allamano e Maria Santissima illuminino il cuore di tanti giovani, affinché possano scoprire, nella vostra istituzione, la bellezza del vivere in famiglia, amandosi con uno stile unico e fraterno.

Grazie per il vostro esempio.

Don Carlo Donisotti 19/01/2020


Museo

Caro Direttore, bellissimo l’articolo sulla comunità di giovani famiglie di Mongreno (MC 12/2019, ndr). Ho trovato invece in un altro articolo un accenno un po’ troppo sbrigativo sul museo etnografico dei missionari della Consolata, che non è una robetta, ma un enorme patrimonio da valorizzare. È difficile trovare in Italia, e forse in Europa, tanta ricchezza che può essere di base a una cultura antropologica, e che ha solo bisogno di essere schedata, classificata e esposta in una sede più degna e più ampia, e non solo in un magazzino..

Certo, non è il compito dei missionari, anche se quelli in ritiro potrebbero essere utili. E tutto si deve a un colpo di genio dell’Allamano che prescrisse di riportare a Torino tracce delle culture e delle colture che i missionari incontravano, ma raccomandò di pagarle e di non farsele regalare. E una comunità che ha visto all’opera per anni un missionario che chiede di portare a Torino un bel ricordo e vuole assolutamente pagarlo il giusto, gli darà quello che ritiene il meglio. Certamente di più di quel che si dà a chi offre perline di vetro, o a chi cerca di razziare qualcosa.

Sono convinto che le fondazioni bancarie torinesi sarebbero felici di programmare la valorizzazione di tanto patrimonio, e anche di far collaborare la cattedra di antropologia dell’Università

Claudio Bellavita 25/12/2019

Effettivamente in una breve notizia si è solo accennato al museo etnografico dei missionari della Consolata custodito ormai da oltre un secolo nei locali della Casa Madre di Torino.

Iniziato ai tempi dell’Allamano, alimentato con competenza e passione da tanti missionari, sopravvissuto ai bombardamenti del 1943, rilanciato negli anni ‘80 e da allora curato con passione da padri come Bartolomeo Malaspina, Achille Da Ros e, ancora oggi, Giuseppe Quattrocchio, un affabulatore che incanta e Angelo Dutto, il museo attende un’esposizione più degna che richiede persone, tempo e mezzi. Aperto solo per visite private, si offre al pubblico – nella sua forma provvisoria – sul web come «Museo etnografico missionari Consolata».

Il successo dell’esposizione sull’Amazzonia nei Musei vaticani, realizzata con molti reperti provenienti dal nostro museo, sta incoraggiando a trovare una sistemazione dignitosa e definitiva, che speriamo possa diventare realtà quanto prima.


Svalutazione

Con riferimento all’articolo «L’euro della discordia» su MC 5/2019, senza prendere in considerazione le osservazioni sul dedito pubblico, ci troviamo assolutamente perplessi per quanto riguarda quanto scritto sull’euro, in particolare per i ragionamenti sulla svalutazione.

Quando si afferma che l’euro avrebbe danneggiato le esportazioni del nostro paese non si tiene conto di alcune questioni importanti.

  1. La svalutazione della moneta nazionale nei confronti delle altre vuol dire che, con una unità di moneta straniera, si comperano più unità di moneta nazionale. Per esempio, un tempo si comperavano più lire con un dollaro, quindi gli americani avevano maggior convenienza a comperare in Italia; di qui la maggior competitività delle nostre esportazioni. Per contro, poiché per comprare un dollaro erano necessarie più lire, tutte le materie prime con prezzi in dollari, a partire dal petrolio, costavano di più agli italiani. Se dunque oggi non avessimo l’euro, con il formidabile aumento dei prezzi del petrolio avvenuto negli scorsi anni – e che è prevedibile perduri – il costo di spese essenziali, quali per esempio il riscaldamento delle abitazioni e dell’energia elettrica, graverebbe ben di più sulle famiglie.
  2. La svalutazione della moneta porta all’inflazione interna e dilapida i risparmi delle persone cioè il valore del loro lavoro accumulato negli anni; di fatto l’inflazione riduce il potere di acquisto delle persone. Riuscire o non riuscire a difendersi dipende dalla più accidentale distribuzione del potere contrattuale tra i lavoratori.

I bei tempi delle svalutazioni spingevano i «semplici» a ritenere di star bene in quanto c’era lavoro, ma non erano in grado di sapere che tale situazione era in buona parte sostenuta artificialmente dalla cosiddetta competitività dei prezzi che era permessa proprio da quelle svalutazioni.

Tornando però all’euro, in questi anni il problema italiano non sono state le esportazioni, aumentate dal 18% del Pil del 2009 a oltre il 25% del 2017. L’errore è nel credere che le nostre imprese debbano competere con la svalutazione della moneta nazionale, mentre ne hanno bisogno soltanto le imprese incapaci di migliorarsi attraverso la qualità dei loro prodotti e l’innovazione.

La vera carenza dell’economia nazionale è l’incapacità di creare un numero sufficiente di imprese che diano lavoro qualificato, soprattutto ai giovani, e siano in grado di competere grazie all’innovazione dei loro prodotti, non attraverso il basso costo del lavoro che permette bassi prezzi.

La carenza di imprese deriva, certamente anche dalla inefficienza della pubblica amministrazione, ma soprattutto dalla insufficiente capacità imprenditoriale. Non possono essere suscitate se non si riesce a cogliere e promuovere l’aspetto nobile dell’attività imprenditoriale: dare lavoro e soddisfare, con l’innovazione e le tecniche, i bisogni reali delle persone.

Grazie per l’attenzione

Piercarlo Frigero e Gian Carlo Picco, Torino, 07/06/2019

Questa email era finita nel dimenticatoio per un disguido. Sollecitato dagli autori, l’ho girata a Francesco Gesualdi, che così ha risposto.

«Ringrazio per le precisazioni che sono incontestabili. La svalutazione inevitabilmente ha effetti di lievitazione sui prezzi interni, specie se il paese dipende dall’estero per le materie energetiche. Ciò non di meno, è altrettanto innegabile che nell’immediato può avere la capacità di rilanciare le esportazioni perché rende le proprie merci più convenienti da un punto di vista valutario. Appurati gli effetti, decidere se svalutare o meno è una scelta politica che dipende da ciò che si ritiene preminente nel momento dato e dalle valutazioni che si fanno sugli effetti di lungo e breve periodo. Trattandosi di obiettivi, ponderazioni e valutazioni, ognuno può giungere a conclusioni diverse, e ciò mi pare più che legittimo. Il problema che si pone nel caso dell’euro è se sia stato vantaggioso sposare una situazione che priva dell’autonomia di svalutare. Ovviamente anche in questo caso non esiste una risposta univoca: più risposte sono possibili in base alle valutazioni sociali, politiche ed economiche, sapendo, comunque, che la storia è l’ultimo giudice di ogni scelta».

Francesco Gesualdi


Banche armate

Buongiorno Direttore e Redazione. Sono abbonato alla rivista Missioni Consolata i cui contenuti a carattere socioeconomico ed etico condivido e sostengo. Segnalo che tra le banche da voi utilizzate, compare Unicredit Banca che Francesco Gesualdi, ancora una volta, annovera tra le «banche con l’elmetto», quindi legate al commercio di armi (vedi MC 12/2019 pag.6). Mi aspetto che abbandoniate quanto prima questo legame e, come in molti hanno fatto e facciamo, intraprendiate rapporti bancari con Banca Popolare Etica, che vuole stare sul mercato in modo etico, responsabile e trasparente. Auguri a tutti Voi,

Alessandro Grando Verona, 21/12/2019

Siamo ben coscienti della problematica e della contraddizione della nostra posizione, nella quale da una parte attacchiamo le banche armate e dall’altra invece le usiamo. È certamente una situazione complessa, spina nel fianco da un bel po’. Grazie comunque per lo stimolo offerto che passo ai miei diretti superiori con speranza.


La lotta degli Yanomami

A Parigi, il 30 gennaio 2020, alla presenza di fratel Carlo Zacquini, Imc, e Davi Kopenawa, è stata inaugurata la mostra di Claudia Andujar «La lotta Yanomami». Promossa dalla Fondazione Cartier, rimarrà aperta fino al 10 maggio prossimo.
Info: www.fondationcartier.com.

Questo slideshow richiede JavaScript.




Missionarie della Consolata Operazione Ki.Ka.

testo di Ivana Cavallo, foro MdC |


Il 6 gennaio, solennità dell’Epifania del Signore, nella casa generalizia delle suore missionarie della Consolata in Nepi (Viterbo), le otto sorelle destinate alle nuove missioni del Kirghizistan e del Kazakistan hanno ricevuto il mandato missionario dal cardinale João Braz de Aviz.

«Il vostro andare è segno che la Chiesa è viva. Grazie per il vostro coraggio come Istituto, che va gratuitamente senza aspettare niente in cambio». Così il cardinale Braz de Aviz, prefetto della «Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica», si è espresso nell’omelia della celebrazione eucaristica nella quale abbiamo ricevuto il nostro mandato per le nuove aperture missionarie in Asia (vedi MC 11/2019, p. 16).

L’essere inviate ci ricorda che non andiamo a titolo personale, ma a nome della Chiesa e dell’Istituto, per una missione affidataci. È un dono grande quello che ci è stato consegnato: andare e annunciare il Vangelo al popolo Kazako e Kirghizo, ma è anche una responsabilità. Essere per loro quella stella che porta a conoscere Gesù, guidata dallo Spirito Santo e che si fa presente nella semplicità, nella vicinanza, nel rispetto e con tanta delicatezza, come la Consolata, di cui abbiamo ricevuto l’icona. Sì, perché, proprio come ci ricorda la festa dell’Epifania, Lui è venuto per tutti i popoli, e culture.

Tutte noi abbiamo vissuto questo momento con grande gioia e speranza, sia per la forza spirituale ricevuta, sia perché ci siamo sentite accompagnate con tanta preghiera da tutte le nostre sorelle, familiari e amici, e anche perché ci siamo sentite inviate come comunità. Non andiamo come singole, ma insieme, da sorelle con età, culture ed esperienze missionarie diverse, chiamate a dare testimonianza del nostro stare insieme con e per il Signore. «Attive nel bene, perché abbiamo ricevuto la vita non per sotterrarla, ma per metterla in gioco; non per trattenerla, ma per donarla», come ci ha ricordato papa Francesco nell’omelia della celebrazione dei vespri per l’inizio del mese missionario straordinario dello scorso ottobre.

KiKa2020, mandato alle otto sorelle MdC in partenza per Kirzighistan e Kazakistan

Stupore e meraviglia

le sorelle MdC in partenza per il Kirzighistan

Essere questo segno della Chiesa viva partendo per l’Asia Centrale, ha suscitato e suscita molte domande e perplessità in molti, ma anche tanta ammirazione e stupore. Ecco le domande e le espressioni più frequenti rivolte a noi partenti:
«Ma dove si trovano questi paesi? Mai sentiti nominare! Perché andate proprio là?».
«Ma c’è ancora bisogno di evangelizzare?».
«Che coraggio! Ma siete matte, siete così poche suore! E perché andare in paesi di maggioranza musulmana? Non avete paura?».
«Abbiamo tanto bisogno di suore anche qui, perché andate così lontano?».
«Ma come, ve la sentite davvero di imparare una lingua così difficile come il russo?».
«Vi assicuriamo la nostra preghiera, ne avrete bisogno!».
«Siete davvero felici di andare?». E tante altre ancora.

Per noi, come sorelle e come Istituto, è chiaro il motivo del nostro andare, è insito nella nostra identità più profonda e carismatica, nella nostra chiamata. Con san Paolo anche noi diciamo: «Non è un vanto per me predicare il Vangelo, è un dovere: guai se non predicassi il Vangelo» (1Cor 9.16).

Come missionarie ad gentes siamo chiamate ad andare verso gruppi e ambienti non cristiani dov’è assente o insufficiente l’annuncio evangelico e la presenza ecclesiale, non per fare proselitismo, ma per dare testimonianza di Gesù Cristo, come ci ricorda spesso papa Francesco: «È vivere la fede, è parlarne con mitezza, con amore, senza voglia di convincere nessuno, ma gratuitamente. È dare gratis quello che Dio gratis ha dato a me: questo è evangelizzare».

KiKa2020, mandato alle otto sorelle MdC in partenza per Kirzighistan e Kazakistan

Pronte alle sfide aiutate dalla vostra preghiera

Le sorelle MdC in partenza per il Kazakistan

Sfide sicuramente ce ne saranno e anche tante, una tra tutte è la lingua non facile, per cui ringraziamo chi ci sostiene e accompagna con la preghiera. Ma queste sfide e le incognite non ci tolgono la gioia di voler vivere la nostra missione tra quei popoli. Lì è il nostro posto, perché lì ci ha pensate e ci vuole il Signore, e se rimaniamo unite a Lui, Lui stesso darà la forza e il coraggio non solo di partire, ma di stare, accogliendo le gioie e le fatiche, i successi e anche gli insuccessi,

«Allora, quando andrete?», ci domandano ancora. La data di partenza non dipende da noi, ma da quando riceveremo i visti dai due paesi.

Quando voi leggerete queste righe noi speriamo proprio di essere già arrivate là per celebrare la nostra prima Pasqua in quelle terre.

Ivana Cavallo
missionaria della Consolata

 


Ultimo minuto:

arrivate in Kazakistan le prime 4 missionarie
ci uniamo alla loro gioia e nel ringraziamento al Signore e alla Consolata.

Nepi, 29 febbraio 2020

Carissime Sorelle ieri 28 febbraio sono partite verso il Kazakistan le nostre quattro Sorelle: sr Adriana, sr Claudia, sr Luisa e sr Zipporah. Oggi abbiamo ricevuto un messaggio da Padre Carlos Lahoz, sacerdote amministratore della diocesi di Almaty. E sono buone notizie che desideriamo condividere con tutte voi, che con amore e preghiera state accompagnando questo nuovo cammino dell’Istituto in Asia.

Ecco, lui dice così dirigendosi a sr Cecilia Pedroza S. in un messaggio whatsApp, accompagnato da questa foto:

“Buongiorno! Non dovranno fare la quarantena. E sono arrivate bene, sono a Kapchigai. Questi tre sacerdoti [che sono nella foto] abitano a Kapchigai: due polacchi e un spagnolo. E grazie a voi, che fate tanto per il Signore! Vi aspettiamo anche a voi, che volevate venire insieme con loro. Quando Dio vorrà”.

In questo nuovo inizio missionario continuiamo ad affidare queste nostre Sorelle all’amore della Consolata, rileggendo quanto la nostra Direzione generale scrisse nella lettera del 25 dicembre 2018:

“Davvero, Sorelle, la Consolata stende il suo manto, la sua capulana, la sua kanga, il suo aguayo, il suo sarong su di noi, sul corpo dell’Istituto, sua creatura, attirandoci a Lei, nel suo grembo, in una azione di rigenerazione che ci purifica, ci riporta all’essenziale, sollecita in noi la comunione, il percepirci e viverci sempre di più come unico corpo, al di là di ogni confine geografico, culturale, generazionale, situazionale”.

E come unico corpo preghiamo con fede per le nostre Sorelle in Kazakistan:
Proteggi Padre, la tua Famiglia e mantieni in essa il tuo spirito!”

dalla direzione generale della Missionarie della Consolata




Missionari della Consolata da 25 anni in Costa D’Avorio


Il logo del Giubileo è un Vangelo aperto.
Sempre e ovunque il punto di partenza e di arrivo della missione non può che essere il Vangelo – la vita e le parole, i gesti e le scelte di Gesù di Nazareth. La sua vita aperta e offerta è la ragione e il cuore amorevole di ogni annuncio vero, rinnovato e fecondo (cf. Evangelii Gaudium 11).

Dalle pagine stesse del Vangelo emergono visibilmente le parole ad gentes
che esprimono l’identità e la vocazione primaria della Chiesa (cf. Evangelii Nuntiandi 14) e della nostra famiglia religiosa missionaria (cf. Costituzioni IMC 5). Ci ricordano il significato carismatico del primo annuncio che abbiamo portato (cf. EG 164) e la particolare bussola vocazionale della nostra consacrazione per tutta la vita per la missione (cf. Cost. IMC 4).

Slogan.
Per rendere più dinamico questo anno di grazia, il logo è accompagnato da uno slogan. Sono parole piene di significato e di risonanza che provengono dal cuore appassionato di Paolo di Tarso: “Tutto per il Vangelo”. Si ispirano a 1 Cor 9,16-23, dove l’Apostolo delle genti afferma con fervore la centralità del suo impegno di evangelizzazione nella sua vita di discepolo-missionario di Gesù Cristo: “Sono diventato tutto per tutti”. Quanto zelo ci fanno vedere queste parole di fuoco…! Per noi Missionari della Consolata della Costa d’Avorio questo è sinonimo del nostro “ardente desiderio” di far conoscere Gesù (cf. Cost. IMC 18) e di lasciarci invadere e trasformare dal suo amore (cf. EG 178).

La Fiamma
Nel logo, al centro del Vangelo, c’è una grande fiamma, simbolo dello Spirito Santo, vero protagonista della missione della Chiesa (cf. Redemptoris Missio 21). “Ci vuole il fuoco per essere un apostolo”, ripeteva costantemente il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, ai missionari. Alludeva al fuoco dello Spirito che si traduce in segni e gesti di gratuità apostolica. È lo stesso fuoco dello Spirito che ci guida e ci accompagna nelle scelte fondamentali della vita e della missione con la sua presenza creativa (cf. EG 259).

Le Stelle
Questa fiamma è coronata da tre stelle che ci ricordano la nostra madre e fondatrice, la Madonna della Consolata (cf. Cost. IMC 2). Sono tre, come quelle della icona della Consolata, che saggiamente evocano la totale e perpetua verginità di Maria di Nazareth: prima, durante e dopo la nascita del nostro Salvatore (cf. Lc 1,34-37; Mt 1,18-25). La Vergine Maria è anche chiamata la stella dell’evangelizzazione e offre alla nostra spiritualità uno stile tipico e un “come” caratteristico (cf. LG 65) in cui sono sempre presenti tenerezza e affetto (cf. EG 288).

Il sole che sorge
Nella parte inferiore del logo, la presenza del sole che sorge (cf. Lc 1,78), mostra i nuovi giorni che ci attendono e verso i quali tutto quest’anno vuole muoverci e orientarci: la nostra primavera missionaria in Costa d’Avorio (cf. RM 86). Questi giorni saranno segnati dalla gratitudine per la nostra storia missionaria e per i confratelli che si sono succeduti fin dal primo giorno nel Bardot. Vediamo sorgere questo nuovo giorno su un orizzonte tanto straordinario quanto inaspettato, costruito sull’unità d’intenti. Inizia un nuovo giorno, un giorno ricevuto da te, Padre (cf. Inno delle Lodi, Liturgia delle Ore), che ci invita ad approfondire le sfide della missione di oggi con una fedeltà attiva e creativa dalla nostra luminosa storia evangelizzatrice.

I luoghi
Per valutare il cammino vissuto in questi primi 25 anni di consacrazione alla missione, abbiamo voluto presentare, in modo particolare, le diocesi ivoriane che ci hanno accolto e accettato. Da sinistra a destra, in ordine cronologico di arrivo nel paese, possiamo vedere una barca e un faro – mare e pesca – simboli della diocesi di San Pedro e punto di partenza della nostra consolante presenza. Segue una piccola casa e un granaio – famiglia e provvidenza – tradizionalmente riconosciuti nella cultura dei Senufo, seconda presenza consolatrice nella diocesi di Odienné. Infine, la cattedrale di Saint Paul si riferisce alla nostra terza presenza missionaria nell’arcidiocesi di Abidjan con la casa di formazione della Beata Irene Stefani – speranza e futuro – per tutto l’Istituto.

I colori
Infine, la tavolozza dei colori utilizzati (arancione, bianco, verde) si riferisce alla bandiera tricolore della Costa d’Avorio.




Fino al dono della vita

Testo e foto di Anair Voltolini, MdC


La parola missione, pur inflazionata nel linguaggio attuale, continua a indicare un affascinante e intenso dinamismo di vita. Anzi, il suo significato raggiunge una dimensione sempre più ampia e profonda nella vita cristiana di oggi.

Ero una ragazza di 13 anni quando scattò una prima scintilla di vocazione – il desiderio di consacrare la vita al Signore per la missione. Nata in una famiglia di fede semplice ma profonda, ho ricevuto lì e nella comunità cristiana una solida formazione umana ed evangelica che ha aperto la strada per una risposta. Le missionarie della Consolata erano presenti nel mio piccolo paese – Cafelandia nel Sud del Brasile – e con la loro testimonianza di vita consacrata missionaria e con il loro aiuto ho deciso di seguire l’avventura di andare sulle strade del mondo a condividere con altre persone e altri popoli la gioia di credere in un Dio che ci ama e che ha dato la sua vita perché tutti possano avere vita e vita in abbondanza.

Dopo gli anni di formazione e dopo la professione religiosa, l’impegno missionario si è intensificato e ha assunto connotazioni nuove ed esigenti che coinvolgono tutta la vita e per sempre.

Partire per l’Africa in missio ad gentes

Missione ad gentes è dire con la vita e annunciare con la parola il messaggio di Gesù alle genti che ancora non lo conoscono, o non hanno ancora trasformato in vita vissuta la bellezza di credere nel Dio di Gesù. È andare tra la gente dove lui è già presente ma non ancora conosciuto e rendere sempre più visibile ed effettivo il suo mistero salvifico – rivelazione e manifestazione del Dio Amore, appassionato della persona.

Essere missionaria in Mozambico, dove ora mi trovo, o in qualunque parte del mondo, implica coltivare una profonda esperienza di questo amore di Dio, alimentare un forte spirito di fede e ravvivare una sempre viva sensibilità alla brezza dello Spirito, generatore di vita nuova. Implica uno sguardo sconfinato di speranza, anche quando sembra che poco o nulla cambi attorno a te nonostante anni di servizio e dedizione. Implica una carità evangelica che cresce attorno alla Parola e all’Eucaristia, che costruisce la comunione e la fraternità universale, che porta l’evangelizzatore fino al dono della vita.

La vita missionaria, credo di poter dire, si esprime soprattutto in tre dimensioni chiare, concrete e creative: nella testimonianza di una vita profondamente evangelica, nella preghiera costante al Padre con Cristo in favore dell’umanità e nell’annuncio di Gesù Cristo, il figlio redentore, e del suo Vangelo di salvezza.

Missione è gioia

Vivere la missione richiede, a chi è chiamato e inviato, innanzi tutto una testimonianza gioiosa della sequela di Gesù come discepola missionaria del Vangelo. «Gesù vuole evangelizzatori che annunciano la buona Novella non soltanto con parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio» (EG, n. 259).

Papa Francesco nella Evangelii Gaudium, è chiaro e persistente nel presentare l’esigenza di una profonda esperienza di amore per Cristo e di sentirsi da lui intimamente amati, come fondamentale motivazione per una effettiva evangelizzazione.

Anche papa Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi è stato molto efficace nell’affermare che l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri e se crede in questi è perché sono testimoni (cf. EN n. 41).

La missione vive di una grande passione per Cristo Gesù e allo stesso tempo di una vera passione per le persone, per la gente. Non è il proselitismo trasforma il cuore della persona ma l’attrazione di una vera testimonianza di chi sa «dare ragione della propria fede e speranza» (cf. 1Ptr 3,15). Essere missionaria è esserci, essere presenza, essere con la gente.

Un dono speciale: la consolazione

Per noi missionarie e missionari della Consolata il carisma (dono di grazia specifico) che ci caratterizza è quello di evangelizzare nel segno della consolazione. Essere presenza di consolazione è prima di tutto essere segno della più grande consolazione che è Cristo Gesù. Il modo di essere tra la gente, la relazione di fraternità, la prossimità rispettosa di ogni persona e della sua cultura, la vicinanza all’altro in ogni situazione di gioia o di dolore, l’accoglienza della diversità come ricchezza, l’attenzione ai più poveri e marginalizzati, apre alle persone e ai popoli la strada che conduce all’incontro con il mistero del Regno di Dio.

Preghiera, anima dell’evangelizzazione

Una seconda dimensione missionaria che illumina e facilita il processo di evangelizzazione è la vita di preghiera dell’inviato. Ricordo sempre un principio, che ho ben impresso nel cuore: la missione non consiste soltanto nell’annunciare la Parola di Dio, cioè parlare di Dio alla gente, ma è fondamentale per l’annunciatore parlare della gente con Dio. I missionari sanno che l’opera di conversione e di salvezza non è opera loro, ma viene dallo Spirito di Dio che si muove come, quando e dove vuole.

La missione è di Dio

L’evangelizzatore è mediatore, è ponte, è al servizio della missio Dei. La missione è di Dio. Il Salvatore è Gesù. I missionari hanno un compito prezioso e fondamentale: presentare a Dio, portare davanti a Lui la realtà e la vita della gente e del mondo.

Per questo la sua è una preghiera ora di ringraziamento e di lode, ora di supplica e d’intercessione, ora di lamento e di offerta, di consegna di sé perché la vita raggiunga la sua pienezza.

La missione allarga il cuore e gli orizzonti di chi la abbraccia come suo ritmo di danza quotidiana; fluisce nel suo spirito come respiro vitale e determina ogni scelta del suo cuore. La missione implica la contemplazione.

Il nostro fondatore, Giuseppe Allamano, diceva ai suoi figli e figlie che era indispensabile per il servizio della missione che si formassero uomini e donne contemplativi, uomini e donne di una intensa preghiera. «Il nostro primo dovere – ricordatelo sempre! – non è lo sbracciarsi, ma il pregare» (Così vi voglio p. 234). Su questo punto l’Allamano era molto fermo.

Alcuni pilastri

La mia esperienza di missione tanto in Mozambico come in Brasile percorre questo nuovo processo costruito su alcuni pilastri chiave.

  • L’inserimento nelle culture con grande rispetto, a «piedi nudi e mani vuote» per riconoscere e accogliere la presenza di Dio in esse e l’attenzione a una inculturazione graduale del messaggio evangelico.
  • La formazione di una Chiesa ministeriale, in un impegno non negoziabile di collaborazione e partecipazione dei laici nella diversità di pastorali che costituiscono la comunità-comunione dei discepoli di Gesù.
  • Il dialogo ecumenico e interreligioso che unisce nella fede e nella carità, nel rispetto e nella tolleranza evangelica la diversità di religioni e di chiese.
  • La promozione e formazione integrale della persona, in particolare della donna, in modo che possa conoscere e assumere la sua dignità e vocazione nella Chiesa e nella società.
  • L’attenzione alla persona da evangelizzare e alla formazione di piccole comunità che crescono attorno alla Parola, all’Eucaristia e al servizio della carità fraterna. Sembra di poter dire che l’annuncio del Vangelo tocca il cuore della persona e diventa efficace quando è direttamente fatto a piccoli gruppi e non alle moltitudini.

Gratitudine e gioia

A conclusione di questo discorso, frutto di esperienza e di riflessione sulla missione oggi nel mondo, voglio dire la mia gratitudine e la mia gioia, prima di tutto di essere membro di un istituto missionario, con un carisma specifico di servizio alla missione ad gentes.  Poi di essere in missione in Mozambico, specificamente, in Maúa nella provincia di Niassa.  Sono qui in questa realtà missionaria per la seconda volta. Dopo aver lasciato il Mozambico per una missione diversa in altri lidi, sono tornata tra il popolo Macua, una grande etnia nel Nord del paese. È qui, tra questo popolo, in questa porzione di Chiesa, che mi è offerta l’opportunità di vivere la missione nelle dimensioni che ho cercato di presentarvi e di percepire la bellezza e la grandezza di una vocazione che investe tutto della persona.

E di viverla in una comunità missionaria internazionale, interculturale e intergenerazionale. Mi piace poter dire con chiarezza e convinzione: «Mai più la missione dei navigatori solitari, pur pieni di amore e di ardore per l’evangelizzazione».

L’Allamano così ha pensato, sognato e voluto la sua famiglia missionaria della Consolata fin dalla sua origine: un gruppo di persone consacrate al Signore per la missione per tutta la vita, con lo spirito di famiglia, che si stimano reciprocamente, dove è ben accesa la fiamma di una carità vera; dove si cammina e si guarda all’orizzonte del progetto missionario in unità d’intenti.

Missionari con Maria

Faccio mia la preghiera di papa Francesco: «Stella della nuova evangelizzazione, aiutaci a rifulgere con la testimonianza della comunione, del servizio, della fede ardente e generosa, della giustizia e dell’amore verso i poveri, perché la gioia del Vangelo arrivi fino ai confini della terra e nessuna periferia rimanga privata della sua luce» (EG n. 288).

Suor Anair Voltolini
missionaria della Consolata  in Mozambico




Da Saulo di Tarso a Paolo apostolo


Nel nostro cammino di rilettura degli Atti degli Apostoli siamo giunti al colpo di scena che imprimerà agli Atti un percorso nuovo. Entra in scena Saulo di Tarso, incontrato solo di sfuggita in At 7,58; 8,1, prima della sua conversione.

Ci si potrebbe aspettare che con lui finalmente l’azione si allontani da Gerusalemme, si apra al mondo intorno. In effetti sarà così, ma con un percorso meno lineare di quanto potremmo immaginare. Da una parte, l’apertura al mondo non ebraico è già iniziata, sia pure in modo sfumato, con il battesimo di samaritani ed eunuchi (At 8), che non facevano parte del popolo ebraico e anzi erano spesso visti come persone da evitare a qualunque costo (i samaritani), ma che, agli occhi di un non ebreo, erano probabilmente difficili da distinguere. Dall’altra, il primo a battezzare un pagano sarà Pietro (At 10,48). Ma anche il racconto della conversione di Paolo non è un semplice colpo di scena: aggiunge ricchezza, profondità e raffinatezza al discorso.

Tre racconti

Per questo brano ci troviamo davanti a tre versioni del medesimo avvenimento. Sono dei «doppioni» secondo uno stile che talora si trova già nell’Antico Testamento e, più diffusamente, nei vangeli sinottici. È ben raro, però, che si trovino all’interno dello stesso libro, e quando succede è per ragioni ben precise. Saranno queste ragioni, quindi, che indagheremo, anche perché il procedere di Luca è tanto preciso e puntuale che fa sembrare strane queste ripetizioni.

  • Il primo racconto in cui si narra del cambiamento di Saulo è l’unico che è narrato dall’esterno, come da un osservatore, e che è posto al momento cronologico esatto in cui è accaduto (At 9). Saulo sta andando a Damasco per perseguitare i cristiani quando splende una luce, parrebbe soltanto per lui, e si sente una voce che però i compagni di viaggio di Saulo non riescono a comprendere. Diventato cieco, Paolo è accompagnato in città, dove incontra Anania, un cristiano affidabile la cui resistenza è vinta a fatica da Dio, che lo guida a guarire e lo battezza.
  • Il secondo racconto è al capitolo 22. Paolo (non più Saulo) è giunto a Gerusalemme per portare la colletta raccolta nelle chiese del Mediterraneo orientale, ma viene attaccato nel tempio e accusato di blasfemia, creando un tale subbuglio che la pattuglia romana interviene e lo porta via, probabilmente con l’intenzione di flagellarlo e interrogarlo. Paolo, a questo punto, si svela come personaggio cosmopolita e importante, che parla in greco al centurione e poi racconta la propria vicenda alla folla «in lingua ebraica» (At 21,40: in realtà doveva trattarsi di aramaico, ma la confusione tra le lingue era comunissima). In questa versione – narrata dallo stesso Paolo – coloro che camminano con lui vedono la luce ma non sentono la voce, e Anania sembra decisissimo nella propria missione, lo guarisce senza toccarlo e gli spiega nei dettagli ciò che compirà nella chiesa.
  • Il terzo racconto è al capitolo 26. Paolo, arrestato e in attesa di essere inviato a Roma, perché si è appellato alla possibilità di essere giudicato da un tribunale per cittadini romani, viene convocato quasi per svago dal procuratore Festo e parla anche davanti a Erode Agrippa II, esperto di questioni ebraiche. A lui Paolo presenta la propria vicenda con tanta passione da spingere il re alla battuta: «Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!» (At 26,28). In questo racconto pare che tutti vedano la luce, la voce che gli parla cita la scrittura (a differenza che negli altri due testi) e non c’è traccia di Anania, ma è la voce udita sulla strada per Damasco a spiegargli anche la sua missione futura.

Perché queste differenze?

Un brano ripetuto più volte serve normalmente a ribadirne l’importanza. Inoltre ripeterlo più volte può anche aiutare a suggerire al lettore quali dati siano davvero centrali. Se in un passo Paolo vede una luce e gli altri no e in un altro tutti la vedono, se in uno sentono la voce e nell’altro no, significa che questi particolari non sono decisivi. Se Anania compare in due versioni, se ne ricava che è importante ma non essenziale.

A tornare in tutti e tre i brani sono soltanto tre elementi (non sempre nella stessa forma): l’intenzione bellicosa di Paolo nell’andare verso Damasco, l’apparizione di Gesù e soprattutto la sua parola con la quale si identifica con la Chiesa, e la missione futura di Paolo.

Il primo di questi elementi può essere più immediatamente intuito anche da noi. Paolo rivendica il fatto di non essersi inventato tutto, perché, anzi, era tanto lontano dal diventare cristiano che piuttosto stava perseguitando i credenti.

Incontrare Gesù nella Chiesa

Sulla strada, però, gli accade qualcosa di straordinario. Un inciampo nel percorso, che lo costringe a fermarsi e a ripartire con un’altra consapevolezza. Al centro dell’inciampo uno sconosciuto che gli parla con voce severa: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4; 22,7; 26,14). La domanda sembra richiamare quella con cui Dio aveva chiamato un giovanissimo Samuele, ignorante di Dio ma destinato a essere un sacerdote e profeta importantissimo, che avrebbe unto re prima Saul e poi Davide (1 Sam 3,10). E il verbo «perseguitare», ripetuto anche al versetto dopo, con insistenza, potrebbe anche significare «inseguire, perseguire». Sembra quasi che Luca si diverta a dire che colui che sembrava voler cancellare dalla faccia della terra il nome cristiano, in realtà stesse faticosamente e insistentemente cercando l’incontro con Gesù.

L’antichità non indulge facilmente alle ricostruzioni psicologiche, ma pare veramente che qui Luca sia in piena sintonia con sant’Agostino che, tre secoli più tardi, scriverà la prima vera autobiografia spirituale di un cristiano spiegando in questo modo il suo tentativo di tenersi lontano da Dio: «Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha squarciato la mia sordità. Hai mandato un baleno, e il tuo splendore ha dissipato la mia cecità» (Confessioni, 10,27.38).

Per la prima volta insicuro e spiazzato, Paolo chiede alla voce di identificarsi: «Io sono Gesù, che tu perseguiti». Si potrebbe obiettare che Paolo non perseguitava Gesù: lo considerava anzi già morto. Ma il cuore dell’incontro è proprio lì: in qualche modo (in quale modo non ci importa, Luca ci invita a non fermarci sui particolari) Paolo intuisce, su quella strada, che Gesù si identifica appieno con i suoi fedeli, che è presente in mezzo a loro, in loro, e che perseguitare loro significa perseguitare lui. Ma se Gesù, dopo la morte, è presente in mezzo a loro, è dunque Signore della morte, l’ha vinta. E solo Dio può vincere la morte, non evitandola (come gli antichi immaginavano che facessero gli dèi greci) ma attraversandola.

E a questo punto il Signore che si è identificato con la sua Chiesa si ritira nuovamente, o per meglio dire, ritorna alla sua presenza più nascosta. È intervenuto in modo grandioso, «da Dio», per bloccare Saulo, ma non completa la sua opera. Dovrà essere un cristiano, vincendo anche la propria paura (At 9,13-15), ad andare da Saulo, a decidere di fidarsi di questa conversione, ad annunciargli ciò che dovrà patire e fare per Gesù, a guarirlo. E dovrà essere la comunità cristiana di Damasco, a sua volta, a dover decidere di fidarsi e poi a salvarlo facendolo scappare di nascosto dalla città e dalle insidie dei nemici che Saulo si è di nuovo suscitato (At 9,19-25). E dovrà poi essere la comunità cristiana di Gerusalemme a decidere di fidarsi di quello che un tempo la perseguitava, e un cristiano, Barnaba, a fare discernimento decidendo di introdurlo nelle riunioni dei fratelli (At 9,26-28).

Luca pare dirci che Gesù è presente nella sua comunità, si identifica con essa. E può persino decidere di assisterla in modo prodigioso, intervenendo con un miracolo stravolgente. Ma è un’eccezione, non la norma: subito dopo torna a «nascondersi», a offrirsi nella comunità, che a volte agisce in modo compatto e quasi anonimo, a volte tramite alcuni rappresentanti individuali (Anania, Barnaba), ma sempre porta avanti l’opera di Gesù, che può dire: «Io sono loro, loro sono me».

Debolezza e continuità

Forse c’è anche altro che Luca intende suggerirci con i tre, insistiti, racconti del cambiamento di mentalità di Paolo (è questo il significato più autenticamente biblico del vocabolo «conversione»).

Nel primo racconto, al cap. 9, freme strage, è incaricato dal sinedrio con lettere ufficiali ed è accompagnato da una scorta, è insomma un uomo nel pieno possesso delle proprie forze. Negli altri due, ai capitoli 22 e 26, Paolo è imprigionato ma si difende con sicurezza e orgoglio. Eppure l’incontro con Gesù lo svuota di ogni pretesa, lo lascia ammutolito e cieco, costretto a farsi prendere per mano per lasciarsi accompagnare alla meta. E poi, ancora, l’incontro con Gesù lo risanerà e gli darà la forza di riprendere a parlare e a predicare con grinta.

Ma la sua fragilità non è dimenticata per sempre: da Damasco deve scappare di nascosto, a Gerusalemme di nuovo la sua attività gli attira ostilità tali che i fratelli decidono di rispedirlo a Tarso (At 9,30). E siccome Luca ci ha già fatto intuire che la comunità cristiana non è immune da divisioni interne (At 6,1 e tutto ciò che segue), non sembra impossibile qui vedere un’attività paolina che suscita fastidio anche in alcuni cristiani, perché troppo lontana da quella politica di appianamento delle tensioni che sembra valere per i cristiani galilei che si sono fermati nella capitale, che stanno vicino al tempio, che lo frequentano ogni giorno (At 2,46; 3,3; 5,42).

Questa avversione che Paolo suscita la ritroveremo anche più avanti, quando diventerà il grande missionario delle genti. Perché Paolo è persona decisa, travolgente, che di solito non si ferma a mediare ma va diritto verso la meta che intuisce. E l’incontro con Gesù non lo cambia, semplicemente gli dà una nuova direzione.

Mentre parla della Chiesa, Luca sembra aggiungere informazioni riguardo alla vita cristiana, che è incontro personale con Gesù ma sempre comunque mediato e perfezionato dalla Chiesa, anche se le modalità sono diverse per ognuno. Un incontro nel quale la nostra identità non viene stravolta, ma semmai compiuta, perfezionata e orientata verso l’obiettivo che non rende i nostri sforzi vani. E in questo ri-orientamento siamo perfezionati e accolti come siamo veramente, nella nostra autenticità e fragilità, con le nostre doti e difetti. Fa parte di questa chiamata la capacità di sopportare anche tempi che umanamente dovremmo definire di fallimento. Saulo, ad esempio, partito per Gerusalemme a studiare per diventare un grande rabbino, dopo aver acquisito potere e autorevolezza davanti al sinedrio, era entrato nella comunità che perseguitava, ma non è riuscito a mantenere il proprio ruolo, e se ne è tornato, mortificato, nella propria patria. Sarà chiamato a grandi cose che già sono state promesse, perché Dio guarda lontano, ma nulla di tutto ciò si vede ancora. La promessa di Dio, però, non cade invano.

Angelo Fracchia
(10 – continua)




Missione a km0

Testo di Luca Lorusso


Una nuova forma di presenza della Chiesa

Abitare è annunciare

«Abitare in una parrocchia con i propri figli per un’esperienza di accoglienza, di annuncio del Vangelo, di corresponsabilità pastorale, per dare volto a una Chiesa fraterna e missionaria, per annunciare la gioia del Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona», è la frase che campeggia nella parte alta del blog delle Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano: https://famigliemissionariekm0.wordpress.com/

Sono famiglie che annunciano il Vangelo nella quotidianità e nella fraternità, abitando uno spazio ecclesiale, a volte con altre famiglie, con altri laici, a volte con sacerdoti, religiosi o religiose in una bella e feconda sinergia di vocazioni.

Il gruppo di Milano, che al momento è l’unico organizzato, conta già 27 esperienze, ma molte altre ne esistono e ne stanno nascendo in diverse diocesi della Chiesa italiana.

Siamo andati a conoscerne alcune.



btroz

A Mongreno, sulla collina torinese

Ricchi di fraternità

Quattro giovani famiglie vivono gli spazi altrimenti abbandonati della chiesa di San Grato facendo esperienza di fraternità e di servizio alla Chiesa e all’evangelizzazione. Nella semplicità della loro vita quotidiana.

L’appuntamento è per l’ultimo sabato mattina di settembre alla chiesa di San Grato, immersa nel bosco della collina torinese a Est del fiume Po. Lì, in zona Mongreno, vive una fraternità di quattro famiglie, due nella canonica e due in un’altra casa poco distante di proprietà della parrocchia. Sono otto adulti tra i 30 e i 40 anni e sette bimbi tra i 6 mesi e i 7 anni, più un altro in arrivo.

Sono tutti provenienti dal mondo dello scoutismo con un grande desiderio di mettersi a disposizione: della Chiesa e degli altri. Per questo le loro settimane sono scandite da diversi servizi pastorali e dagli appuntamenti di fraternità, oltre che dagli impegni famigliari e lavorativi comuni a chiunque.

Dopo diversi minuti di salita e di tornanti, parcheggiamo l’auto a un centinaio di metri dalla destinazione, di fronte a una piccola struttura che una volta ospitava la scuola elementare di zona, e percorriamo l’ultimo tratto a piedi. L’aria d’inizio autunno è fresca, e c’è un silenzio molto piacevole.

Arriviamo al sagrato della chiesa: un terrazzo stretto tra la facciata seicentesca dell’edificio e la vegetazione che cresce sul terreno scosceso della collina. Ci guardiamo intorno: oltre alle strutture della chiesa non si vede nient’altro che bosco. Le case dei parrocchiani che abitano qui attorno sono tutte sparse per la collina, e lungo la via ne abbiamo intuito la presenza solo dai passi carrai o dalle stradine laterali che s’infilano nel verde.

Fraternità casalinga

Alla canonica di San Grato si accede da un cancello che dà su un cortile, a lato della facciata della chiesetta. Suoniamo il campanello. Viene ad aprirci Massimiliano Grasso, Max per tutti, il più giovane tra gli adulti della fraternità: 30 anni, capelli neri, folti e ricci. Bolle di sapone sparate da una pistola verde e arancio campeggiano sulla sua maglietta nera. Ci accoglie con un sorriso e ci guida alla porta della canonica, una costruzione di due piani addossata al fianco della chiesa. Lui vive al piano terra con la moglie Sara Stilo, 31 anni, e con i loro bimbi Iago, di 2 anni, ed Elia, di 6 mesi.

Entriamo in cucina, dove Sara, capelli neri a caschetto attorno a un viso che pare giovanissimo, ci saluta mentre prepara la pappa per Elia che sorride allegro nel seggiolone. La piccola stanza, che fino a tre anni fa era una saletta parrocchiale, è semplice e accogliente: dentro ci stanno una cucina ad angolo, un divano a due posti, un tavolo per quattro. Le pareti sono organizzate con pensili e mensole carichi di tutto ciò che una giovane famiglia con bimbi piccoli deve avere a portata di mano.

«Lavoriamo tutti e otto – inizia a raccontare Sara -. Io e Serena, un membro della fraternità, lavoriamo insieme. Lei è la mia referente in una cooperativa di animatori. Facciamo attività di educazione al consumo consapevole nelle scuole. Mio marito, invece, è infermiere, ma in questo momento si sta occupando più di educazione che d’infermieristica, in una comunità di ragazzi psichiatrici. Da poco segue un bambino arrivato da un orfanotrofio russo. Avevano bisogno di una figura maschile e gli hanno chiesto se voleva occuparsene lui».

Quattro giovani famiglie

Max esce nel cortile al richiamo di due voci di bimbi, e al suo posto compare Giovanni Messina, 37 anni, che abita con la moglie Enrica Ruffa al piano di sopra. Sente che parliamo di lavoro e si presenta: «Io faccio lo sviluppatore di web e app per una cooperativa. Invece mia moglie è coordinatrice di una struttura di accoglienza della diocesi di Torino che si trova qua vicino, in strada Traforo del Pino. Segue una quarantina di rifugiati provenienti dal Moi (l’ex villaggio olimpico di Torino occupato da migranti e sgomberato a più riprese negli ultimi anni, ndr). Si occupa di tutto: dalla sistemazione ai documenti, all’italiano, alla condizione sanitaria, alle borse lavoro e alla vita ordinaria».

Mentre Giovanni parla, entra in cucina Iago, seguito da suo papà Max e dall’amichetta Cecilia, di due anni come lui. Iago porta con sé un vasino che posa a terra di fronte a noi: ha imparato da poco a usarlo ed è felice di mostrarlo a tutti.

Giovanni ci spiega che Cecilia ha un fratellino, Pietro, di sei anni, e che i suoi genitori, Stefano Picco e Chiara Gaschino, sono una delle due coppie che vivono nell’altra casa della fraternità a pochi passi da qui: Stefano ha 40 anni e fa il consulente sulla sicurezza in ambito forestale, Chiara ha 37 anni e fa la maestra. In questo momento Chiara è a casa, ma Cecilia è qui perché voleva giocare con Iago.

Nella casa dove abitano Stefano e Chiara c’è un secondo alloggio nel quale stanno Serena Andrà, 34 anni, con suo marito Claudio Aseglio, 35 anni, medico anestesista, e i loro bimbi: Agnese di 7 anni, Paolo di 5 e Francesco di 2 e mezzo. Un quarto piccolino nascerà all’inizio del prossimo anno.

Amici che si spalleggiano

Dopo averci presentato per sommi capi le famiglie della fraternità, Giovanni ci illustra anche i molti servizi che la fraternità offre per la comunità di San Grato e per l’unità pastorale nella quale San Grato è inserita: «Ci occupiamo di un’ex parrocchia di collina. Quando l’ultimo parroco è andato via, la parrocchia è stata fusa con quella di Sassi, dove don Stefano Audisio, che oggi ha quasi ottant’anni, fa i salti mortali. Il nostro incarico è essere qua, aprire e chiudere la chiesa, animare le messe domenicali: abbiamo il nostro nucleo di una decina di parrocchiani affezionati, e poi amici, altre famiglie con bambini, scout che vengono per il week end.

Ci siamo ritagliati una stanza nella casa di sotto dove vivono Chiara, Stefano, Serena e Claudio: la usiamo per i momenti di preghiera della nostra fraternità e per l’ospitalità nei fine settimana. Ospitiamo soprattutto scout per il semplice motivo che dormono per terra, oppure in tenda.

Oltre a questi servizi a San Grato, diamo una mano a don Stefano anche in altri ambiti della pastorale parrocchiale: il corso prematrimoniale, ad esempio, poi il corso per i battesimi, il catechismo, un percorso per i genitori dei bimbi del catechismo. Seguiamo anche un gruppo di giovani affiancando il don. Partecipiamo al consiglio pastorale.

I parrocchiani sono molto felici che ci siamo. Se non ci fossimo noi, probabilmente questa chiesa sarebbe chiusa e la struttura in decadenza. Il bosco si prenderebbe tutto se non ci fosse qualcuno qui.

Il punto di forza della nostra esperienza – conclude – è che siamo in quattro e ci spalleggiamo. Per le messe domenicali, ad esempio, ci alterniamo».

Storia della fraternità

Dal cortile sentiamo arrivare il suono gracchiante di un walkie talkie. È Serena che ci raggiunge con Francesco, di due anni come Iago e Cecilia. I bimbi più grandi, Agnese e Paolo, non volevano venire, e sono rimasti a casa insieme a Chiara, collegati con la mamma tramite la radiolina. La casa è appena al di là del piccolo sagrato della chiesa e di una rampa di scale in discesa tra gli alberi, forse una cinquantina di metri, ed è divertente rimanere in contatto così. Mentre Francesco si ferma in cortile con Iago, Cecilia e Max, Serena entra e ci saluta.

Serena e suo marito Claudio vivono a San Grato da sette anni, a differenza delle altre tre famiglie che sono arrivate tre anni fa. Chiediamo quindi a lei di raccontarci la storia della fraternità.

«I primi a venire a Mongreno nel 2006 sono stati Paolo e Nicoletta Leombruni. San Grato era ancora parrocchia, e don Sebastiano, che aveva ricevuto come lascito testamentario la casetta qui sotto, li ha invitati a viverci perché gli dessero una mano. Loro si occupavano di pastorale famigliare.

Quando don Sebastiano è andato in pensione e la canonica è rimasta vuota, Paolo e Nicoletta hanno chiesto a Luca e Arianna Tagliano di venire a viverci per fare un’esperienza di fraternità. Era il 2008. Entrambe le famiglie sono rimaste a Mongreno fino al 2016-17. I Leombruni avevano 4 figli più un affido. I Tagliano tre figli. Noi siamo arrivati nel 2012, dopo due anni di matrimonio, mentre aspettavo Agnese».

Quando Serena e Claudio sono arrivati, hanno introdotto alcune novità. Una di queste è stata l’apertura agli esterni del triduo pasquale fino ad allora vissuto in fraternità. Un triduo «ora et labora», lo chiama lei, cioè un’occasione di preghiera e lavoro per sistemare il verde che cresce rigoglioso attorno alla chiesa. «È stato proprio durante uno di questi tridui, nel 2016, che abbiamo conosciuto Max e Sara. Loro sono rimasti colpiti dall’esperienza, allora, dato che i Tagliano stavano per andare via, abbiamo proposto loro di venire a vivere qui. Ad agosto si sono sposati, e a gennaio 2017 si sono trasferiti».

Nel frattempo anche la famiglia Leombruni ha deciso di andare altrove, e Serena e Claudio hanno iniziato a cercare altre coppie.

«In quell’estate del 2016 – interviene Giovanni -, Serena e Claudio hanno incrociato noi e Chiara e Stefano e ci hanno fatto la proposta. Noi abbiamo iniziato a venire nei week end per vedere e, pian piano, abbiamo capito che la cosa ci interessava».

«C’è stato un attimo di défaillance – confessa Serena -, non pensavamo che tutti fossero interessati. Gli spazi erano per tre famiglie, non per quattro».

«Quindi abbiamo cercato di capire se ci saremmo stati – prosegue Giovanni -. Noi eravamo già sposati e anche Chiara e Stefano, che avevano già Pietro. Quando abbiamo deciso di venire, abbiamo iniziato i lavori qui nella canonica per ricavare un secondo alloggio e, alla fine, abbiamo traslocato durante l’estate 2017. Ovviamente, in tutto questo cammino, siamo stati sempre accompagnati da don Stefano».

Questioni pratiche (ed economiche)

Dato che si parla di ristrutturazioni e di famiglie che abitano dei luoghi che non sono di loro proprietà, chiediamo qualche delucidazione sugli accordi con la parrocchia. «Il nostro alloggio, qui sopra, è fatto di due stanze, il bagno e la cucina – spiega Giovanni -. Questo di Sara e Max ha la cucina, due stanzette piccole, la camera da letto e il bagno. Le ristrutturazioni le abbiamo pagate noi dividendoci la spesa. Il contratto è un comodato d’uso gratuito per cinque anni. A nostro carico, oltre alle ristrutturazioni, abbiamo ovviamente le spese vive, le utenze di luce, acqua, gas. Poi, ogni anno, facciamo un’offerta volontaria che corrisponde all’Imu. È come se fossimo in affitto: la spesa per le ristrutturazioni è più o meno quello che avremmo speso per un affitto di cinque anni».

Coppia, famiglia, fraternità, impegno

Essendo arrivate le 12, Serena si congeda: aveva già da tempo in programma di andare con i bimbi al picnic ecologico «Un Po meno inquinato» organizzato al parco Colletta, ai piedi della collina, da diverse associazioni, tra cui Altri Modi Ets, l’impresa sociale per cui lavora Enrica.

Anche Sara e Max andranno al picnic tra poco.

La nostra attenzione è rapita dal gorgoglio che Elia emette, quasi come una ninna nanna, in braccio a Sara. Con tutta la fatica che qualsiasi coppia fa, tra le tante gioie, per costruire l’equilibrio sempre nuovo di una giovane famiglia con bimbi piccoli, domandiamo come facciano a tenere dietro anche a tutti gli impegni legati alla fraternità.

«Effettivamente è una delle fatiche – risponde Sara -. Siamo tutti molto impegnati e, tra l’altro, ci siamo resi conto che è importante coltivare anche le relazioni tra noi famiglie. L’anno scorso abbiamo iniziato una riflessione sull’equilibrio tra fraternità, famiglia e servizio. È emerso che alcuni di noi sono qua soprattutto per l’aspetto comunitario e che il servizio dovrebbe essere nel cerchio più esterno. Prima si deve essere alleati nella coppia. Poi si allarga il cerchio ai figli, poi alla fraternità, poi al servizio. Per avere delle fondamenta forti».

Il valore aggiunto

Per lasciare che Sara e Max si preparino anche loro per il pic nic ecologico, ci spostiamo fuori con Giovanni che oggi rimarrà l’unico della fraternità a San Grato. C’è un piacevole sole autunnale che ci illumina e scalda. Nel cortiletto c’è un tavolo da esterno con le sedie.

«Qual è il valore aggiunto di questa fraternità alla vostra vita di sposi?», chiediamo. «Una cosa bella che la fraternità ci offre è quella di poter fare servizio insieme, come coppia. E poi c’è una dimensione di sogno e di condivisione che ci piace. Di bisogno di camminare con altri, di poterci confrontare».

«E quali sono, invece, le difficoltà?».

«La difficoltà dell’esperienza di fraternità è che, come succede a tutti i fratelli che vivono sotto lo stesso tetto, quando ci si passa vicini, ci si può urtare. Ci sono i momenti nei quali uno si dice, chi me l’ha fatto fare? Il fatto di essere in quattro, però, a volte aiuta, perché se c’è un momento nel quale hai bisogno di chiuderti un po’ a guscio, puoi farlo senza scompensare troppo gli equilibri.

C’è poi la fatica della trasparenza continua. Qui non c’è l’anonimato condominiale, e tutto quello che fai è conosciuto dall’altro: i tuoi orari, come decidi di rimproverare i figli, come li fai giocare, cosa gli regali… Tutto è pubblico, anche le tue fatiche con il coniuge, i litigi di coppia. È un’esperienza molto sfidante.

Poi c’è anche il vantaggio di dire: “Mio figlio mi sta facendo impazzire, te lo lascio un attimo perché se no darei di matto”. Hai una rete solida vicina».

Una chiesa incarnata

Arriva il momento di andare anche per noi. Quando ci congediamo, partiamo pensando alla spontaneità dei bimbi e dei loro genitori, colti nel mezzo della loro vita quotidiana. Il clima famigliare, la semplicità dell’accoglienza e della casa, l’andirivieni di bimbi e adulti, la pappa, il caffè preparato con un piccolo in braccio, il pic nic ecologico, ci hanno dato il sentimento di trovarci in mezzo a fratelli che condividono le cose di ogni giorno senza ansie e con molta flessibilità.

È un’immagine di Chiesa in uscita che s’incarna in un tempo e in un luogo attraverso voci e vicende personali, famigliari e comunitarie precise.

Quando abbiamo domandato a Giovanni se crede che l’esperienza di fraternità che sta vivendo abbia un suo posto nella Chiesa di oggi, ha risposto: «Io penso che sia una cosa naturale. Non la vedo come una cosa strana, di rottura. È il frutto del Concilio Vaticano II. Il ruolo del laico. La ricchezza dell’essere coppia, e dell’essere fraternità. Siamo in un tempo di costruzione, di esplorazione. È una dinamica normale, sensata».

Luca Lorusso


Casa Santa Barbara, un condominio speciale ad Alba

Il bene comune si fa insieme

Siamo andati a conoscere dal vivo l’esperienza di Emanuela e Nicola Costa: una «Famiglia missionaria a km0» che vive la fraternità e l’accoglienza in uno spazio parrocchiale assieme a due giovani volontari e a tre donne africane in difficoltà.

A guardarla da fuori è un’anonima palazzina di tre piani come se ne vedono in qualsiasi città: uno scatolone intonacato di bianco con balconi e finestre disposti simmetricamente a sinistra e a destra della scala.

Dentro, però, l’anonimato non ha spazio, perché le persone che la abitano, tutte in modo temporaneo, vivono un’interessante esperienza di fraternità, accoglienza e solidarietà, sempre con le porte aperte.

Siamo ad Alba, seconda città della provincia di Cuneo per popolazione dopo il capoluogo.

La palazzina, chiamata casa Santa Barbara perché sorge nell’omonima via di un quartiere centrale piuttosto benestante della città, è una struttura di proprietà della parrocchia Cristo Re destinata all’accoglienza di donne sole in condizione di disagio.

Attualmente è abitata da tre donne africane con i loro figli che risiedono in tre alloggi distinti, da due giovani volontari, Paolo in un appartamento e Giulia in un altro (in attesa dell’arrivo anche di Miriam, altra giovane), e dalla famiglia Costa, di quattro persone, cui fa capo l’associazione «Il Campo» che gestisce l’accoglienza. Un’umanità variegata che, nella semplicità della vita quotidiana, fatta anche di documenti da tradurre, telefonate dei servizi sociali, tapparelle da aggiustare, nutre le relazioni con occasioni di gioco per i bambini, momenti condivisi di manutenzione, feste, pasti, preghiere, compiti di scuola fatti assieme.

Una parrocchia accogliente

Alla stazione di Alba viene ad accoglierci Emanuela Iacono: jeans blu, maglietta rossa, foulard variopinto di farfalle, occhiali viola e una parlantina invidiabile. Lei e il marito Nicola Costa, entrambi quarantenni, con i due figli Edoardo di undici anni e Giacomo di sette, sono arrivati ad Alba da Milano cinque anni fa per lavoro. Nicola è un esperto di sicurezza alimentare, Emanuela si occupa di comunicazione per il terzo settore.

Emanuela cammina spedita facendoci strada. Oggi è lunedì, giorno di lavoro, e avremo a disposizione poco più del tempo della pausa pranzo. Nonostante questo, prima di andare in via Santa Barbara, abbiamo in programma di conoscere don Claudio Carena, parroco di Cristo Re e vicario generale della diocesi di Alba, responsabile ultimo della casa.

Arriviamo in cinque minuti, e troviamo ad accoglierci nel suo ufficio don Claudio, 53 anni, affabile e sorridente. Nella sua parrocchia l’esperienza della casa Santa Barbara non è l’unica iniziativa sociale: «Qui in canonica, ad esempio, ospitiamo quattro famiglie e quattro persone singole – ci spiega -. È una struttura molto grande, e il mio predecessore ne ha tratto otto bilocali. Gli ospiti hanno tutti situazioni difficili. Innanzitutto economiche, ma anche di fragilità psicologica, sociale. Oggi abbiamo ospiti di tre etnie e tre religioni diverse. C’è un dialogo interreligioso di fatto in un bel clima di rispetto. Le famiglie fanno una convenzione per undici mesi rinnovabili, ma alcuni non riescono ad andarsene anche quando avrebbero la possibilità economica di farlo: c’è una coppia marocchina con due figli, ad esempio, che lavora e potrebbe pagare un affitto altrove, ma nessuno vuole dare loro il proprio appartamento…».

L’esperienza della casa Santa Barbara, dove ora vivono Emanuela e Nicola «è nata circa 20 anni fa – ci racconta don Claudio -. Una persona aveva donato una struttura alla parrocchia con l’impegno di attivare qualcosa per i poveri. Il parroco di allora, don Angelo Stella, ha costruito l’attuale condominio grazie all’istituto per il sostentamento del clero. Poi, il parroco successivo, don Valentino Vaccaneo, ne ha fatto una casa di accoglienza per donne sole, e una coppia di parrocchiani, Anna e Franco Foglino, è andata a viverci dedicando all’accoglienza 18 anni di vita con grande generosità e competenza. Quando sono arrivato io sette anni fa, mi hanno chiesto di trovare un’altra famiglia, e la provvidenza, nel 2016, ha mandato Emanuela e Nicola».

Uno spazio nel quale ricostruirsi

Salutiamo don Claudio e ci lasciamo guidare da Emanuela verso via Santa Barbara. «Accogliamo donne sole in difficoltà – ci spiega lungo la strada -. Sono donne spesso segnate da rapporti difficili con le famiglie di origine o con i compagni. L’obiettivo della casa è offrire un tempo di ripartenza verso una vita autonoma di massimo due anni. Le donne vengono segnalate dai servizi sociali o da associazioni. A ognuna chiediamo di partecipare alle spese della casa. Quando non possono ci aiutano gli enti che ce le mandano: i servizi sociali, Caritas o altri.

Noi diamo una mano a queste donne nelle cose di ogni giorno come buoni vicini di casa: stampare la pagella dei figli, scrivere il curriculum vitae, e cerchiamo di attivare reti di aiuto informali. La loro provenienza è varia. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto con noi donne dalla Romania, dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Bulgaria, dall’Italia».

Le attuali ospiti sono tre donne africane: «Una è madre di un ragazzo di 12 anni con disabilità. Insieme a loro c’è anche la nonna. Hanno da poco avuto l’assegnazione di una casa popolare». La seconda è di origine marocchina con un bimbo piccolo: «Sta affrontando una separazione difficile. Ha bisogno di un tempo in cui seguire le pratiche legali, trovare un lavoro, e riprogettare la sua vita». La terza è una mamma originaria della Nigeria, con una bimba di dieci mesi. «È stata battezzata in parrocchia a Cristo Re. Lì ha battezzato anche la sua bimba. Era in un Cas (Centro di accoglienza straordinaria, ndr) di Alba, poi è stata spostata in un Cas di un’altra città. Quando ha ottenuto la protezione internazionale, le abbiamo proposto di tornare qui come segno di cura da parte della comunità che l’ha accompagnata al battesimo. Lei è molto contenta di essere di nuovo ad Alba dove si è ben integrata anche grazie all’aiuto di associazioni del territorio. È molto motivata a ripartire».

Condividere tempi e luoghi

Arriviamo in via Santa Barbara 4. Dietro la palazzina s’intravede un cortile. Di fronte, dall’altra parte della strada, c’è un palazzo di cinque piani, di quelli i cui alloggi negli annunci immobiliari recano la scritta «finiture di pregio».

Entriamo nell’androne sul quale si affacciano tre porte: una è del centro di ascolto Caritas della parrocchia; un’altra è di uno degli alloggi per l’accoglienza, la terza dà su un monolocale a uso comune. I volontari l’hanno sistemato due mesi fa, e ora è attrezzato con una cucina, un tavolo e alcune sedie.

Qui tutti i giovedì vengono alcuni ragazzi scout e delle parrocchie vicine a far giocare i bambini della casa. «Un altro gruppetto di giovani viene il sabato mattina a fare dei lavori manuali – ci racconta Emanuela -. Tra questi c’è anche Babatunde, arrivato in Italia qualche anno fa. Ora ha una fidanzata albese e lavora in una cantina. Viene il sabato mattina a dare una mano perché vuole restituire l’accoglienza che ha ricevuto».

Nel monolocale c’è Nicola, arrivato dal lavoro pochi minuti fa per la pausa pranzo: sta preparando gli agnolotti del plin, tipici piemontesi, e un’insalata. C’è anche Paolo, un giovane di 27 anni – «capo scout», ci tiene a dire -, che vive al piano di sopra da maggio per fare un’esperienza di accoglienza e fraternità. Paolo è già in partenza per andare al lavoro, ma fa in tempo a raccontarci dell’altra sua bella esperienza conclusa appena prima di arrivare qua: ha abitato per due anni con un altro giovane nella canonica della sua parrocchia Santa Margherita, per sperimentare la vita fuori dalla casa paterna, la convivenza e soprattutto il servizio alla parrocchia.

Oltre a Paolo, come detto, nella palazzina abita da poco anche Giulia, e un’altra giovane, Miriam, si sta avvicinando: la famiglia Costa ha, tra le sue caratteristiche, quelle della condivisione e della fraternità, sia con le donne accolte che con i giovani.

Una famiglia missionaria a km0

Emanuela e Nicola sono una scheggia albese del gruppo di «Famiglie missionarie a km0» che loro stessi hanno contribuito a creare nel 2013 nella diocesi di Milano. Un gruppo nel quale si sono radunate famiglie che, in modo indipendente l’una dall’altra e con stili diversi, avevano iniziato ad abitare con spirito missionario in canoniche, oratori o altre strutture ecclesiali. Si definiscono «famiglie missionarie», perché molte di loro hanno vissuto esperienze all’estero, anche di diversi anni, o semplicemente perché sta loro a cuore l’evangelizzazione, far conoscere Gesù a chi ancora non l’ha incontrato; «…a km0» per sottolineare la vicinanza tra la loro vita e la missione: che sia ad Alba o a Quarto Oggiaro – il quartiere milanese della parrocchia Pentecoste nella quale i Costa hanno vissuto due anni, prima di trasferirsi -, poco importa.

Desiderio di fraternità

«In questa casa ci sono dieci alloggi. Uno è questa stanza comune per stare insieme – ci dice Nicola -. Poi c’è il centro di ascolto della Caritas, l’alloggio per Paolo, quello per Giulia, e quello per noi. Tutti gli altri sono dedicati all’accoglienza».

La descrizione della destinazione degli alloggi non vuole essere un semplice elenco, vuole piuttosto mettere in luce uno degli elementi fondamentali di questa esperienza di condominio solidale: la fraternità. La casa non è solo un «rifugio» per persone in difficoltà, ma è un luogo nel quale sperimentare una forma nuova di vicinato, una modalità aperta di relazioni paritarie tra persone diverse.

«La cosa è nata dalla nostra esperienza precedente in parrocchia a Milano – ci spiega Emanuela -. È significativo che ci sia una fraternità tra famiglia e sacerdote al centro della parrocchia. Ci sembrava significativo che ci fosse una forma di fraternità anche al centro dell’esperienza di accoglienza. Cercavamo un’altra famiglia e non l’abbiamo trovata. Allora abbiamo pensato ai giovani».

«Prima che arrivassero questi nuovi giovani – aggiunge Nicola -, è stata qui Elisabetta, che oggi ha 27 anni e si è appena sposata. Lei diceva che voleva vedere le cose con i suoi occhi: “Ho un lavoro, ho il fidanzato, ma non voglio andare a convivere. Esco di casa, faccio due anni con la porta aperta. Mi metto al servizio di chi ha bisogno”». «Alla fine – aggiunge Emanuela – ha detto che essere qua non è solo fare servizio, ma rendersi conto di cosa succede nel mondo, perché ognuna delle donne ospitate ti racconta come vanno le cose a casa sua e anche la fatica di stare in Italia. Paolo e Giulia staranno qua per un anno, Miriam farà un ingresso più graduale. L’idea è che passino per questa esperienza prima delle scelte definitive della vita: è anche un’esperienza di discernimento. Si mettono al servizio, e in più provano a immaginare la loro vita futura. Per vivere la fraternità in modo più completo con loro, facciamo almeno una cena alla settimana insieme. Poi in pratica diventano anche due o tre, perché spesso passano per un saluto e alla fine si fermano a mangiare. Oltre alla cena, stiamo costruendo il modo di pregare insieme».

La quotidianità fraterna, però, per i Costa non si realizza solo con i giovani. In senso più ampio è il vivere con la porta aperta e il cuore disponibile nei confronti degli ospiti: «Vivendo insieme è più facile che s’inneschino delle dinamiche di reciprocità – continua Emanuela -. Io sono qua per aiutarti, però, se questo spazio è unico e lo abitiamo insieme, anche tu che sei ospite partecipi. Il bene comune lo costruiamo insieme. Questo è difficile, soprattutto per quelle persone che sono tanti anni che vengono aiutate. Fare quel salto di qualità: pensare “però anche io posso darmi da fare per gli altri”, è provocatorio, ma vivendo insieme viene naturale».

Il cortile si riempie

Mentre mangiamo e chiacchieriamo, arriva da scuola Edoardo, il figlio maggiore di Nicola ed Emanuela. Saluta, posa lo zaino e si siede a tavola anche lui. Partecipa volentieri a questo pranzo con uno sconosciuto: è abituato a condividere gli spazi e i tempi di casa con altri. Chiediamo però ai suoi genitori come fanno a conciliare le esigenze di coppia e di famiglia con quelle di un condominio così.

Nicola, ormai alla fine della sua pausa pranzo, risponde: «La famiglia e il servizio non sono due cose distinte. Non è come il lavoro: esco, vado in un luogo dove gli altri non possono venire, faccio le mie cose e torno. È una parte integrante della nostra vita. È una forma della vita, anche se bisogna riuscire a tenere degli spazi riservati, soprattutto per i figli». «Il nostro è un vicinato aperto – Aggiunge Emanuela -. Poi è bello che io e Nicola facciamo le cose assieme. Invece per i nostri figli è bello avere molte relazioni. Per cui capita che ci sia l’invasione di chi non vuoi nei momenti che non vuoi, ma poi hai tanto di più attorno. Loro sono contenti. Lo erano anche di vivere in parrocchia. Apprezzano molto i giovani che abitano qua, i giochi al giovedì, il fatto che vengano gli amici dei bambini accolti, che il cortile si riempia».

La terza porta della chiesa

La famiglia Costa vive nella casa Santa Barbara da tre anni. Come i loro amici della diocesi di Milano, anche loro si sono dati un tempo di cinque anni, scaduti i quali verificheranno, insieme alla parrocchia, se la loro presenza nella casa ha portato buoni frutti e se proseguire con l’esperienza oppure andare altrove. «Tre anni sono pochi. Cinque anni permettono di entrare nel vivo. È un tempo sensato. Dopo di ché ci sentiamo sostituibili».

La casa Santa Barbara non è una realtà visibile. È un condominio in mezzo ad altri condomini. Non ha insegne o frecce luminose che ne indichino la presenza. Si fa vedere solo da chi la conosce, e da chi frequenta le persone che la vivono. Non è invadente. Ma è un pezzettino di Chiesa che abita il quartiere, che sta in mezzo alle case.

«Le Famiglie missionarie a km0 sono la terza porta della Chiesa – ci dice Emanuela mentre ci salutiamo -: c’è la porta istituzionale, poi c’è la porta piccola che è quella degli istituti religiosi o della sacrestia dove entrano solo gli addetti ai lavori, e poi c’è la terza porta che è fatta da quelli che desiderano vivere la fede e una vita piena pur facendo la vita di tutti. L’impegno è quello di essere una porta d’ingresso verso il popolo di Dio. Questo è il nostro impegno: riuscire a fare da tramite».

Luca Lorusso


Dieci storie in un libro

Le Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano, dal 2013 costituiscono un gruppo ormai consolidato e organizzato che oggi conta almeno 27 famiglie più altre in rete.

Le loro provenienze sono le più disparate: c’è chi viene dal mondo scout, chi da Azione cattolica, da Comunione e liberazione, dal laicato dei missionari della Consolata, dall’Operazione Mato Grosso, dalla rete delle famiglie ignaziane e da altre realtà.

Tutte si ritrovano attorno a una chiamata e a una prassi comune: essere missionari nella quotidianità, attraverso l’abitare in un quartiere, in una parrocchia, in uno spazio della Chiesa, qui in Italia. Senza bisogno di valicare frontiere. Essere missionari non a prescindere o nonostante la condizione di famiglia, ma proprio perché famiglia.

Il gruppo di Milano è il più visibile, in questo momento, nella Chiesa italiana, ed è quello che ha maturato una riflessione più articolata, ma i suoi membri non sono i soli che vivono la missione a km0. Proprio il fatto di avere iniziato a darsi un nome, a comprendersi come un volto specifico della Chiesa del nostro tempo, sta facendo loro conoscere molte altre esperienze in giro per il nostro paese, famiglie che sentono la stessa chiamata in forme simili e che stanno avviando un dialogo con le loro diocesi di appartenenza.

Gerolamo Fazzini, nell’ottica di iniziare a tirare un po’ le fila di qualcosa che sta pian piano, con i tempi dello Spirito, prendendo forma, ha raccolto in un bel volume, ben scritto e gustoso nei contenuti, dieci esperienze: sette milanesi, due piemontesi e una veneta, con una prefazione di mons. Luca Bressan, una cronologia essenziale della storia del gruppo ambrosiano, una piccola panoramica delle esperienze fuori dalla diocesi di Milano e una postfazione con un’intervista a Johnny Dotti sull’«abitare generativo».

L.L.


A colloquio con monsignor Luca Bressan

Scrivere la presenza di Gesù nel quotidiano

L’esperienza milanese delle famiglie missionarie in canonica sono una freccia che indica nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. La quotidianità, la fraternità, la sobrietà, l’accoglienza, sono alcuni dei suoi strumenti principali per incarnare la fede nella Chiesa e nel mondo che cambiano.

«Per me è stato un privilegio incontrare le Famiglie missionarie a km0. Io le leggo come un segno che lo Spirito ci dà per dire come incarniamo la fede oggi. Sono una realtà giovane che va aiutata a crescere e a scoprire il mistero che porta dentro. Allo stesso tempo sono un dono che interroga la Chiesa, e che mette in luce quanto essa sta cambiando».

Monsignor Luca Bressan è sacerdote della diocesi di Milano dal 1987, dal 2012 è vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, «ovvero – ci dice -, quella parte di azione pastorale che intercetta la cultura, il mondo, la società, e quindi ne legge i cambiamenti».

È coinvolto nell’accompagnare quelle famiglie che nella sua diocesi incarnano la condizione di «Chiesa in uscita» abitando una struttura ecclesiale, e ce ne offre una lettura di ampio respiro.

Don Luca, a proposito di Chiesa che cambia, in un tuo intervento di qualche mese fa a Padova, proprio riferendoti alla Chiesa, hai parlato di «tornante storico». Ci puoi spiegare?

«Tutti ci accorgiamo che la Chiesa cambia, non solo perché i presbiteri sono meno, ma perché sono meno anche i battesimi. La Chiesa ha un’incidenza minore nella storia.

Il Concilio ci insegna che dobbiamo abitare questo cambiamento senza stancarci. Il rischio, però, è di interpretare questo “non stancarci” in modo troppo attivo: “Siamo noi che agiamo sulla riforma della Chiesa, che la mettiamo al passo con i tempi”. Invece, più che disegnare a tavolino quale sarà la forma futura della Chiesa, è molto meglio fermarsi e vedere come lo Spirito suscita vocazioni diverse, modi differenti di dire la fede.

Veniamo da un passato in cui la fede era incarnata soprattutto dalla vita religiosa, dall’esercito di suore che, accanto ai malati, agli abbandonati, ai bambini, raccontavano alla gente la gratuità dell’amore di Dio. Ecco, adesso quell’esercito di religiosi, religiose, preti, sta venendo meno, e corriamo il rischio che la Chiesa diventi “un’agenzia di servizi” a cui ricorrere per una preghiera, una prestazione.

La presenza delle Famiglie missionarie a km0 ci ricorda che è ancora possibile vivere una logica di gratuità. Avere queste famiglie non significa avere manodopera in più, ma delle persone che scrivono la presenza di Gesù nel quotidiano».

Le Famiglie missionarie a km0 sono una nuova forma di presenza della Chiesa nella società?

«Sì, noi la leggiamo in questo modo. Per questo la vogliamo accompagnare. È una freccia che ci indica nuove forme di presenza. Non in alternativa, non in sostituzione alle forme organizzate, al ministero presbiterale ad esempio, ma proprio come forma di aggiunta.

Il valore profetico che c’è in quest’esperienza è l’idea della fraternità missionaria che fa vedere come insieme si viene trasfigurati dalla fede, dal Vangelo che si vive, e quindi lo annuncia».

La fraternità è una delle caratteristiche fondanti di quest’esperienza, come si esprime?

«Questo dipende dalle situazioni. Ci sono luoghi nei quali la fraternità s’incarna in una frequenza fisica e quotidiana, ci sono luoghi in cui la famiglia abita dove una volta c’era il prete e ora il prete non c’è più, per cui la fraternità è più vincolata a momenti e orari.

C’è una fraternità quotidiana vissuta localmente che si esplicita in modi diversi. Poi c’è una fraternità più ampia che riguarda l’intera esperienza delle Famiglie missionarie a km0, che vuole essere uno spazio nel quale, ad esempio, si confrontano i tanti carismi da cui le coppie provengono: il mondo della missione, quello francescano, gli scout, Cl, famiglie legate a spiritualità più tradizionali, il mondo dei gesuiti…

Il gruppo è come una piazza in cui le differenze s’incontrano e arricchiscono tutti. L’ultima cosa che desiderano è spegnere le differenze. Infine c’è una fraternità ecclesiale di fondo che lega queste famiglie con la Chiesa».

Oltre alla fraternità, anche la quotidianità è un elemento fondamentale per questa esperienza.

«L’incarnazione avviene nel quotidiano. Il Verbo si è fatto carne in un momento determinato della storia e in un luogo determinato. Per cui, esatto, il quotidiano è una parola chiave. Il Vangelo non si vive e non si testimonia in astratto».

Quali sono i punti di forza, le criticità e le prospettive delle Famiglie missionarie a km0?

«I punti di forza sono, da una parte, l’energia spirituale, la gioia, la voglia di creare nuovi percorsi. Poi lo stile di vita famigliare, la sobrietà, la voglia di far vedere che cosa dà sapore e senso alla vita.

C’è una differenza tra ricerca del piacere e ricerca della gioia. C’è chi cerca la gioia pur vivendo in un mondo che ricerca solo i piaceri.

Le sfide stanno nel capire come innestare tutti questi elementi di novità nella presenza della Chiesa tra la gente, e come dare loro forma. La criticità sarà poi superare man mano la fase di entusiasmo e vedere come far diventare questa esperienza la normalità della vita ecclesiale, come farla diventare una figura conosciuta, una figura ministeriale».

Com’è accolta questa esperienza dalla gente e dai sacerdoti della diocesi?

«La gente in qualche caso ha espresso diffidenza, ma poi si è accorta della capacità di contagio e di annuncio che ha quest’esperienza. I preti, in parecchi casi, hanno riconosciuto in questa presenza un nuovo modo di declinare la loro missione, e anche la loro scelta celibataria. Più di un prete mi ha detto che, grazie alla famiglia missionaria, ha imparato, ad esempio, a organizzare meglio la sua vita, gli spazi di silenzio, i luoghi d’incontro con la gente».

Lo scopo del gruppo delle famiglie qual è?

«A livello diocesano è quello di istituire uno spazio di crescita anzitutto spirituale e comunionale. Ci s’incontra per nutrirci a vicenda della profondità del mistero che abitiamo e per tornare poi a immergerci in un quotidiano che richiede tante energie».

C’è una commissione in diocesi che sta redigendo delle linee guida. Cosa sono?

«L’idea è, senza affrettare i tempi, quella di consolidare l’esperienza. Scopo delle linee guida è di mettere per iscritto alcuni suoi elementi costitutivi perché ne diventino l’ossatura e le permettano di essere trasmessa e condivisa. Permettere a noi e agli altri di capire quali sono i tratti essenziali delle Famiglie missionarie a km0, così che poi possano essere declinati nelle differenti situazioni e, man mano, possano istituire una figura riconoscibile dalla diocesi.

Della commissione fanno parte alcune famiglie e alcuni elementi della Chiesa diocesana.

Però non vogliamo accelerare i tempi. Vogliamo che il processo di stesura sia la trascrizione a livello verbale del processo di consolidamento dell’esperienza che si sta vivendo a livello di corpo».

Come viene gestita la presenza di una famiglia in spazi di proprietà della Chiesa?

«Essendo un’esperienza carismatica segnata dalla gratuità, le famiglie si mantengono con il loro lavoro, come fa qualsiasi famiglia normale. Dato però che abitano in un contesto di fraternità missionaria e di collaborazione pastorale, la chiesa le ospita in modo gratuito nelle sue strutture. Il tutto basato su un contratto di comodato di cinque anni, rinnovabile, che permette a tutti di essere liberi, soprattutto alla famiglia. Il primo compito della coppia è salvaguardare, approfondire, nutrire il suo sacramento, e quindi la famiglia: la durata quinquennale serve per dare un termine e per vedere se nella famiglia, ad esempio con la crescita dei figli, sono nate nel frattempo nuove esigenze. L’idea è di non mettere a nessuno degli obblighi».

Cosa dà a te quest’esperienza?

«Io sono contentissimo. Mi accorgo di esserne nutrito. Trovo dei fratelli e delle sorelle che mi aiutano a tenere incarnata la mia fede e, allo stesso tempo, danno gioia al mio cammino. Fa parte del famoso centuplo raccontato dal Vangelo. Ritrovo dei legami famigliari che non avrei mai immaginato potessero esserci. E questo è bellissimo».

Luca Lorusso


Marco, Maida e i loro cinque figli, dalle Ande peruviane a Milano

Con la porta sempre aperta

Marco e Maida Radaelli appartengono all’Operazione Mato Grosso (Omg), presente in Ecuador, Perù, Brasile e Bolivia, fin da giovani. Prima di conoscersi hanno fatto alcune esperienze all’estero: Marco in Ecuador e Maida in Perù, e quando si sono sposati, neanche trentenni, dopo due mesi sono partiti per 10 anni in Perù.

Oggi vivono nella parrocchia di Ponte Lambro, Linate, zona Sud Est di Milano, e sono una Famiglia missionaria a km0 con i loro cinque figli, di cui le prime tre nate sulle Ande: Martina di 14 anni, Margherita (11), Beatrice (9), Daniele (2) ed Elena (1).

«Nel tornare ci eravamo chiesti quale sarebbe potuto essere il modo per vivere la missione anche qua in Italia», ci dice Maida per telefono.

Maida, ci descrivi la vostra esperienza in Perù?

«Vivevamo in una casa dell’Omg a Yungay, a 2.800 metri, in zona rurale sulle Ande, proprio ai piedi del Huascarán, la montagna più alta del Perù. Niente a che vedere con Ponte Lambro a Milano.

Avevamo una scuola di falegnameria con un internato dove c’erano 20 ragazzi scelti tra i più poveri dei villaggi vicini: vivevano insieme a noi e quindi passavamo tutta la giornata con loro.

Dopo due anni abbiamo costruito una scuola: asilo, elementari e medie. Dalle 8 alle 16 avevamo con noi 300 bambini, ai quali davamo anche da mangiare. Tutto con l’aiuto dei volontari italiani.

I professori erano peruviani, e poi c’erano volontari italiani che venivano anche solo per un mese, e davano una mano a insegnare».

Quindi il vostro lavoro in Perù era quello educativo. Non avevate un’altra fonte di reddito?

«No. Non avevamo stipendio. Vivevamo anche noi con quello che veniva mandato dall’Italia. Poi avevamo delle donazioni private di parenti o amici che utilizzavamo per cose nostre».

Che formazione avete?

«Siamo infermieri tutti e due. Ci siamo conosciuti all’università. Abbiamo lavorato come infermieri cinque anni prima di partire».

Cosa vi ha lasciato l’esperienza di condivisione continua con i ragazzi peruviani?

«Una ricchezza molto grande. Le nostre figlie hanno respirato da sempre che la nostra famiglia non è chiusa. La porta di casa era sempre aperta. È sempre stata una famiglia molto allargata. Vuoi o non vuoi, i tuoi problemi, le cose che ti sembra di non riuscire a superare, passano in secondo piano. Condividere la giornata con altre persone ti fa capire che non sei tu il centro del mondo. Le nostre figlie hanno visto con i propri occhi la povertà, materiale e non. Quando oggi diciamo: “Stai attenta a non pensare solo a te stessa”, ci capiamo. In Perù eravamo molto facilitati in tutto, perché non avevamo un lavoro che ci portava via durante il giorno, e quindi eravamo lì 24 ore su 24. Potevamo dedicarci agli altri sempre. In Italia la vita è più frenetica e ti impedisce di fare quello che vorresti: ci sono gli impegni fissi come la scuola, il lavoro, e quindi poi devi gestire il tempo che ti rimane».

Ogni tanto sentivate il bisogno di avere uno spazio solo vostro, di famiglia?

«Ce lo chiedono sempre. Certo: avevamo il nostro spazio con una piccola cucina e le nostre stanze. A volte venivano a bussare, però era sottinteso che se eravamo nel nostro spazietto, dovessero trattenersi. Poi in realtà passavamo in casa pochissimo tempo. Eravamo sempre insieme ai ragazzi».

Collaboravate con la parrocchia?

«C’erano due sacerdoti locali. Con loro avevamo anche dei momenti insieme, e una volta alla settimana uno veniva a celebrare la messa con noi e i ragazzi. C’era una strettissima collaborazione».

Com’è stato il rientro per le vostre figlie?

«Per loro l’Italia era un mondo sconosciuto e si sentono ancora peruviane. Rimpiangono spesso la vita semplice del Perù. Però quando abbiamo spiegato loro che avremmo mantenuto alcune caratteristiche della vita peruviana, che saremmo venuti a vivere in una parrocchia, hanno accettato bene».

Avevate già un posto dove andare?

«Sì, avevamo sentito l’ufficio missionario della diocesi di Milano. Inizialmente avevamo chiesto di andare in un paese e non in città, perché le nostre figlie in Perù avevano vissuto una vita molto semplice e volevamo conservare questo aspetto. Ci è stato proposto Bulciago, in Brianza, e quando siamo tornati nel 2014 siamo andati direttamente lì, in canonica, per tre anni. Nel frattempo è tornato dal Perù don Alberto Bruzzolo che ha sempre chiesto, sia in Italia che in Perù, la collaborazione di una famiglia vivendoci insieme. In diocesi è stato il primo a provare questa esperienza fin dal 2001 a Pentecoste. Quando è arrivato, conoscendoci già, ci ha chiesto di fare fraternità con lui. Allora nel 2017 ci siamo spostati qui a Ponte Lambro, in un contesto di periferia urbana totalmente diverso. Noi diciamo sempre alle nostre figlie che non importa dove si vive, importa come uno vuole spendere la sua vita: che sia con i ragazzi peruviani, in Brianza, o in città. Ne abbiamo parlato molto, e alla fine loro hanno detto che sì, l’importante è aiutare gli altri.

Qui c’è un centro d’ascolto della san Vincenzo che segue 150 famiglie. Vengono distribuiti vestiti, medicine… Anche qui i miei figli vedono la povertà».

Com’è la vita di fraternità?

«Viviamo in fraternità missionaria con don Alberto, che è parroco, e con don Emanuele Merlo, che segue la pastorale dei Rom. Siamo in una casa di due piani dentro l’oratorio: al piano terra ci siamo noi, e al piano superiore i due don. In un’altra struttura ci sono tre suore Marcelline. Anche loro hanno chiesto di lavorare nella periferia.

Abitando nella stessa casa, diciamo le lodi al mattino insieme, poi facciamo colazione per raccontarci un po’ di cose. E poi la domenica sera facciamo la compieta e un commento di un brano biblico.

Nella vita quotidiana, poi, ci sono pranzi, cene. Così come vengono. Avendo la porta sempre aperta è facile che succeda».

Lavorate?

«Mio marito sì. Io no. È stata una scelta per coltivare l’accoglienza. La mia presenza in casa è importante. Infatti, per il fatto di essere un’infermiera, a volte le persone vengono a chiedermi medicine o iniezioni… e questa cosa ci apre un mondo, perché le persone vengono e poi ti raccontano tutto di loro. Come dice una mia amica che vive anche lei in una canonica: “Noi facciamo la pastorale del caffè”.

A volte la figura del sacerdote può dare un po’ di soggezione. Invece vedere una famiglia, che è una famiglia normale, perché ha i figli, fa casino, i bambini gridano, la mamma pure, fa sentire più a casa. Don Alberto dice che conosciamo le stesse famiglie, ma da punti di vista diversi: i nostri figli vanno alle feste di compleanno, vanno a scuola… in tutte quelle parti della vita dove il don non può arrivare, noi possiamo».

Tuo marito che lavoro fa?

«Con degli amici, anche loro tornati dalla missione, ha fondato una cooperativa sociale di imbianchini e giardinieri, e gestiscono cinque isole ecologiche qua nei dintorni e in Brianza. Poi fanno un lavoro sociale con il reintegro nel lavoro di ex alcolizzati, ex drogati, persone bisognose.

Lui dice sempre che non vuole fare un lavoro che lo separi dalla vita normale».

In parrocchia che ruolo avete?

«Non abbiamo cose precise. Facciamo incontri con genitori che chiedono il battesimo. Ognuno di noi ha un gruppo di lettura del Vangelo una volta ogni 15 giorni: cioè andiamo nelle case delle persone che si rendono disponibili. Io sono anche catechista e gestiamo l’oratorio feriale e le attività dei bambini, sempre con i due don e con le suore».

Difficoltà e soddisfazioni?

«La difficoltà è quella di avere pochi momenti di intimità famigliare. A volte dici: “Ma basta! Questo campanello che suona in continuazione”. I bambini che avrebbero bisogno di attenzione, però devi dire loro di aspettare un attimo. A volte è una fatica. Usi energia togliendola alla famiglia. Ma alla fine ti dici: non è quella la cosa che mi rende più felice, pensare solo a me e alla mia famiglia. Alla fine, vivere così è una ricchezza».

L.L.


Per una parrocchia a misura di pannolino

Contagiati dalla gioia

Suor Enrica Bonino, 53 anni, accompagna il cammino delle Famiglie missionarie a km0 fin dal 2001, quando ha partecipato alla nascita della prima esperienza nella parrocchia di Pentecoste, nel quartiere di Quarto Oggiaro a Milano.

È una suora energica. Torinese di nascita e ignaziana di spiritualità. È un’ausiliatrice delle anime del purgatorio con la vocazione di accompagnare le persone attraverso i loro «purgatori», le fasi di crisi che la vita offre a tutti, verso la gioia.

Suor Enrica non esita a definire «profetica» la realtà delle famiglie missionarie che a Milano e altrove offrono un volto nuovo di Chiesa alla gente.

Suor Enrica, tu sei legata all’esperienza delle
Famiglie missionarie a km0 fin dagli inizi.

«L’esperienza è nata nel 2001 nella parrocchia Pentecoste a Quarto Oggiaro, dove vivevo. È partita dal parroco don Alberto Bruzzolo, da Marco e Marta Ragaini, una coppia con tre figli arrivata dal Chad dopo 6 anni di missione, e da me. Loro vivevano in parrocchia, io nella mia comunità e il parroco in un appartamento nel quartiere.

L’ho vissuta fino al 2006, quando sono partita per un anno in Colombia. Al mio rientro nel 2007, sono andata a Torino, e ho ripreso l’attività con le famiglie, anche se più legata alla spiritualità ignaziana. Insieme ad alcune coppie, ci siamo resi conto che è necessaria una certa cura del cammino a due, allora ho sviluppato un po’ questo aspetto: affiancare le famiglie e sostenerle in un percorso di spiritualità coniugale. Credo molto in quello che dice l’Amoris Laetitia (31): “Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa”.

Infine, nel 2012, sono tornata a Quarto Oggiaro».

Che ruolo hai nel gruppo delle Famiglie a km0?

«Sono stata coinvolta per la mia esperienza con le famiglie e perché la spiritualità ignaziana offre degli strumenti concreti: gli esercizi spirituali, una disciplina e un metodo di preghiera, un metodo per il discernimento e per le scelte.

Io non ho un ruolo specifico. Quando il gruppo ha iniziato a organizzarsi, mi sono stati chiesti degli incontri di formazione spirituale. Dopo di che ho iniziato a visitare alcune famiglie a fare telefonate, visite, confronti, in una modalità molto relazionale. L’idea è di prendersi cura l’uno dell’altro e di sensibilizzarsi reciprocamente su questa cura».

E che ruolo hanno, invece, le Famiglie missionarie a km0 nella Chiesa?

«Secondo me hanno un ruolo profetico. Entrare in una canonica e non trovarti la classica segretaria o il parroco, ma un bambino che ti chiede se giochi con lui, rivoluziona l’idea della parrocchia: offre un’immagine di semplicità, di vita quotidiana, di una chiesa a misura di pannolino, direi.

Oggi la parrocchia rischia di essere un luogo in cui si fanno delle cose, mentre è importante che sia vissuta come luogo di fraternità dove si sperimentano delle relazioni, poi si fanno anche delle cose, ma in funzione di una relazione che sia la più ampia, accogliente, aperta possibile».

La fraternità con sacerdoti o religiosi è un punto centrale per tutte le Famiglie missionarie a km0?

«Sì, però le modalità dipendono dalle situazioni: dai lavori della coppia, dalla disponibilità di tempo, dall’età dei figli, dal tipo di sacerdote. Non c’è un cliché. Un momento di preghiera insieme e uno di scambio su come va, c’è sempre. Per chi è implicato nella pastorale, lo scambio avviene anche su dove stiamo andando, cosa stiamo facendo, cosa aiuta di più la parrocchia. Ma non è detto che tutte le famiglie siano coinvolte nella pastorale allo stesso modo».

Quali sono i punti di forza di quest’esperienza per la famiglia, la parrocchia, il quartiere?

«Il punto di forza per la famiglia è la possibilità di non chiudersi in sé, nei propri problemi, nella gestione faticosa della quotidianità, di aprirsi ad altri e di coltivare un orizzonte spirituale più ampio. Perché quando sei continuamente sollecitato dagli altri, ti devi rinnovare nella motivazione che ti abita. Questo è anche il punto di fragilità, perché, a volte, essere troppo sollecitati può creare disguidi. È necessario cercare un equilibrio sempre nuovo.

Anche la comunità parrocchiale e il territorio ne hanno un beneficio, perché iniziano a vedere un volto diverso di Chiesa, la possibilità di confrontarsi con una fede più semplice, vissuta. Non è tanto una fede parlata, è una presenza accogliente.

L’altra cosa bella, per me, è che alcune Famiglie missionarie a km0 prendono contatti con altre diocesi, altre regioni, altri paesi, ad esempio la Francia, dove ci sono realtà simili: è come stare dentro un laboratorio continuo. Tutto questo crea una grande circolazione d’idee ed esperienze. Per esempio, alcuni da Milano sono andati qualche tempo fa a Padova a conoscere una comunità di famiglie ignaziane. Conoscere altri territori e stili è arricchente, dà molto entusiasmo ed è un modo per sostenersi a vivere una vita evangelica».

Il gruppo di famiglie della diocesi di Milano può aiutare altre esperienze a emergere?

«Ci sono diverse esperienze di famiglie che sperimentano fraternità differenti ma non si conoscevano tra di loro e non provengono da organizzazioni già costituite nelle diocesi. Adesso che con i convegni tenuti ogni due anni a Milano, con le trasmissioni televisive, i giornali, si inizia a vedere che c’è una realtà lombarda consistente, allora le altre realtà più isolate incominciano a venire fuori e a chiedere un confronto. Ne ho conosciute in Puglia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria, Toscana, in Sicilia… Alcune realtà iniziano a confrontarsi con le proprie diocesi. Alcune diocesi non hanno le realtà ma i vescovi vorrebbero.

C’è un grande movimento e una grande curiosità. È un’esperienza portatrice di grande fermento.

Dove porterà non lo so. Don Luca Bressan dice, e io condivido, che dobbiamo lasciare che la cosa cresca, sostenerla con delicatezza, lasciando che le persone trovino il proprio spazio, senza codificare troppo, perché altrimenti si spegne lo spirito.

È necessaria una grande attenzione. Ed è per questo che ci sono molte telefonate: come stai? Come sta quella coppia? La vai a trovare tu, o vado io?».

È bella questa sinergia tra vocazioni differenti.

«Io credo molto nel sostegno tra vocazioni diverse. Indirettamente queste famiglie sostengono me nella scelta che ho fatto e, per quel che sono capace, a mia volta offro un sostegno, una presenza.

Io credo che la Chiesa possa essere solo così. Non può esserci una Chiesa di separati, in cui i religiosi sono da una parte, le famiglie sono dall’altra e ognuno sta chiuso nella propria casa o convento.

Mi piace la possibilità di mostrare un volto di chiesa diverso, il cui la suora, ad esempio, lavora come tutti, dà una mano in cucina se serve, può accompagnare i bambini al bagno e guardare i cartoni animati con loro. È considerata una persona come le altre. Questo è uno stile che vivo anche con la rete delle famiglie ignaziane da anni.

Lavorare per questo ideale e per questa mescolanza a me dà una grande gioia. Poi non so come andrà e chi tirerà le fila di tutto, ma anche questo a me dà una grande gioia e libertà: provo a lavorare, e poi tutto è nelle mani di Qualcun altro».

Questa esperienza è uno dei frutti che il Vaticano II continua ancora oggi a far nascere?

«Per me è un’esperienza a contagio. Sono arrivati dei missionari che hanno fatto esperienza di missione, e hanno iniziato a contagiare. È l’esperienza della semplicità che tu sperimenti solo in missione, con i più poveri, che a un certo punto trasforma la tua vita e non riesci più a vivere diversamente.

Io la vivo così, non tanto pensando ai documenti della Chiesa. Certamente è uno sviluppo del Vaticano II, certamente è in linea con il pontificato di papa Francesco e con tutti i documenti che lui ha scritto, perché uno dei punti cardine di questa esperienza è diffondere la gioia del Vangelo. Cioè far vedere che a essere cristiani si è felici, si è contenti, pur essendo incasinati. Perché i casini non li risparmia a nessuno la vita. Ma li vivi in un altro tipo di serenità, perché sai di chi sei, a chi appartieni e chi vuoi passare, chi vuoi trasmettere».

Luca Lorusso