Vangelo senza quarantene


Vescovi in mezzo alla pandemia

Cinque missionari della Consolata raccontano la loro lotta contro il Covid-19. Da un punto di osservazione (e partecipazione) particolare: quello del vescovo. Cinque Chiese locali in cinque paesi tra Africa, Asia e America Latina. Cinque esperienze accomunate dallo spirito missionario, quello che va in cerca dei lontani e degli ultimi, anche in tempi di confinamento.

I vescovi missionari della Consolata oggi sono dodici. Tutti al servizio di Chiese presenti in territori poveri e a volte dilaniati dai conflitti, comunità colpite duramente anche dalla pandemia di Covid-19.

Nati in otto paesi diversi tra Europa, Africa e America Latina, hanno dai 47 ai 79 anni e operano in Brasile, Colombia, Eswatini, Kenya, Mongolia e Mozambico.

Dall’Africa alla Mongolia all’America Latina, il Covid-19 non ha risparmiato nessun paese e nessuna classe sociale, ma i primi a rimanere senza ossigeno sono stati, come sempre, i più poveri, gli esclusi, compresi quelli che nemmeno hanno potuto capire di cosa stessero morendo e sono rimasti fuori dalle statistiche per mancanza di tamponi, perché nel loro paese c’è un solo medico ogni 10mila persone.

Cinque di questi vescovi raccontano ai lettori di MC come stanno affrontando l’emergenza sanitaria nelle Chiese che servono. Monsignor Giorgio in Mongolia, mons. Joaquín in Colombia, mons. Diamantino in Mozambico, mons. José Luis in Eswatini e mons. Giovanni in Brasile.

Ciò che accomuna i loro episcopati è lo stile missionario, declinato in modo originale in ciascuna delle Chiese particolari nelle quali hanno operato e operano. L’annuncio a tutti, soprattutto a chi non ha ancora conosciuto Cristo, la scelta degli ultimi, la consolazione, la promozione della pace, il dialogo interreligioso, l’amore per Maria Consolata sono tra i pilastri della loro azione pastorale, anche in mezzo alla pandemia.

Sono volti di una chiesa che partecipa alla sofferenza e alla speranza del suo popolo.

Luca Lorusso

Grafico di Kreativezone


Confinati nelle steppe

Mongolia: Monsignor Giorgio Marengo

È diventato vescovo della giovanissima chiesa mongola nel mezzo della pandemia. Con tutti i luoghi di culto chiusi, dopo più di un anno, monsignor Marengo non ha ancora potuto celebrare l’eucaristia con il suo popolo. Ma la vicinanza ai mongoli, sia cristiani che non, è sempre viva.

La nomina a vescovo di Ulaan Baatar è arrivata a padre Giorgio Marengo il 2 aprile 2020, mentre era parroco della missione di Arvahieer, un piccolo centro rurale della Mongolia.

In quei giorni, le immagini della fila di camion militari che trasportavano le bare delle vittime bergamasche del Covid-19, facevano il giro del mondo. Il 27 marzo in Italia si era registrato il numero più alto di morti nella prima ondata, 919 in 24 ore, superato solo dai 993 del 3 dicembre successivo. La Mongolia sperimentava le chiusure anti-Covid già da febbraio, benché mancassero molti mesi al 29 dicembre, quando si sarebbe registrato il primo morto per Covid anche lì.

A causa delle chiusure, monsignor Giorgio non ha potuto essere ordinato vescovo in Mongolia e ha dovuto aspettare quattro mesi dopo la nomina. L’ordinazione è avvenuta l’8 agosto 2020 nella sua Torino, al santuario della Consolata.

È successore di mons. Wenceslao Selga Padilla, vescovo filippino della congregazione del Cuore immacolato di Maria, morto nel 2018, che, assieme ad alcuni confratelli, aveva rifondato la chiesa in Mongolia dal 1992, dopo 70 anni di comunismo. La Prefettura apostolica comprende l’intero territorio della Mongolia, 1,566 milioni di Km2 (quasi cinque volte l’Italia) nei quali vivono tre milioni di abitanti, e 1.300 cattolici. I sacerdoti sono 24, tutti, tranne uno che è locale, sono missionari stranieri. C’è un diacono che aspetta da due anni, a causa del Covid, di diventare prete, e 35 suore, anch’esse straniere.

A oggi, mons. Marengo non ha potuto ancora celebrare l’eucaristia con il suo popolo.

Monsignor Marengo, lei è diventato vescovo l’8 agosto 2020 nel bel mezzo della pandemia.

«La mia vita è cambiata in un anno strano. Molte delle cose legate al diventare vescovo, io le ho vissute fuori dagli schemi. Ad esempio: quando vieni nominato vescovo, entro 90 giorni devi essere consacrato. Ecco, per me non è stato possibile, perché in Mongolia non poteva venire nessuno, il paese era chiuso. Un altro esempio è la nomina: di solito vi è coinvolta molta gente, compreso il nunzio… per me, invece, eravamo quattro gatti, e tutto è stato fatto in sordina.

L’ho presa come un’indicazione di metodo, che poi è quello allamaniano di non fare rumore.

Oggi la Mongolia è ancora isolata e i luoghi di culto sono tutti chiusi da un anno e mezzo.

All’inizio, ho vissuto la pandemia in campagna, ad Arvahieer, come parroco. Quando è arrivato il momento di dare pubblicamente la notizia della mia nomina, sono andato in corriera a Ulaan Baatar. In quei giorni l’Italia era il paese più colpito dal coronavirus. Quando sono arrivato in capitale, è entrata la polizia nella corriera e, dato che io ero l’unico straniero, mi hanno chiesto di dove fossi. Quando ho risposto che ero italiano si sono spaventati tutti. Allora l’autista, che mi conosce, ha subito detto: “No no, lui vive qua, non era in Italia in queste settimane”».

Torino, consacrazione vescovile di Mons. Giorgio Marengo Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia

La chiusura ha riguardato solo le riunioni religiose, o tutti?

«A ondate è stata ridotta, fino a essere cancellata, anche la vita sociale in generale: le attività, i cinema, i teatri, ecc.

A intermittenza, le altre attività sono riprese, quella religiosa no. Non solo i luoghi di culto cristiani, ma tutti, anche i monasteri buddisti. Per noi cristiani è fondamentale recarci di persona in chiesa, per la celebrazione dei sacramenti, soprattutto l’eucaristia. È dunque un grande sacrificio quello che ci viene chiesto».

Ci fa una cronaca del Covid nel paese?

«Quando in Italia c’era il Festival di Sanremo, nel 2020, in Mongolia eravamo già chiusi.

Appena sono arrivate le prime notizie da Wuhan, il governo ha chiuso il confine con la Cina e ha bloccato tutte le comunicazioni interne.

In Mongolia sono molto bravi perché sono abituati a epidemie periodiche, per esempio alla peste bubbonica trasmessa dalle marmotte e dai roditori. Ogni anno d’estate ci sono dei luoghi in cui scoppia un focolaio, e allora chiudono tutto.

Per il Covid sono stati tempestivi, e sono riusciti a stare tranquilli per diversi mesi.

A marzo 2020 c’è stato il primo caso di un positivo: era un francese, lavoratore di una multinazionale. All’inizio è stato molto male, ma poi è guarito, e questa guarigione è stata vissuta dal paese come una vittoria. Si è diffusa un po’ l’illusione che la Mongolia fosse esente dalla pandemia. In effetti, i casi sono stati molto pochi per diversi mesi, fino all’autunno del 2020.

L’11 novembre è iniziato il primo lockdown serio, fino a Natale. Non si poteva uscire di casa. In quei mesi i mongoli hanno capito che non erano indenni neanche loro.

Con l’anno nuovo è iniziata la campagna vaccinale di massa. Questa primavera è stato un susseguirsi di lockdown e parziali riaperture.

Oggi (ad agosto, ndr) i casi sono molti e ci sono ancora decessi quotidiani, con picchi di 10 persone al giorno*».

Quali nuovi problemi e nuove opportunità ha portato la pandemia al paese?

«Nei momenti di chiusura sono emerse con più forza le grandi tensioni già presenti nella popolazione. Quelle che sfociano in piaghe sociali come l’alcolismo, che infatti ha avuto un boom.

La famiglia si sta sgretolando in Mongolia. Molte famiglie si sono trovate all’improvviso a stare “recluse” insieme nei pochi metri quadri della loro gher o appartamento, e sono venute fuori molte situazioni difficili, soprattutto laddove l’unità familiare era già minacciata dall’assenza di uno dei genitori, solitamente il padre. In generale, è balzata all’occhio di tutti la carenza del sistema sanitario. In un paese che sta crescendo, la sanità pubblica dovrebbe essere una priorità.

Il popolo mongolo, però, si compatta molto bene in caso di emergenza. Il sentimento di unità nazionale è molto forte, e si è visto chiaramente con la pandemia. Ad esempio, nessuno si lamenta della mascherina.

Sono anche emersi casi di eroismo civile: quando scarseggiavano ambulanze e autisti e lo stato ha chiesto aiuto alla popolazione, molta gente, anche con la propria macchina, si è offerta.

Come Chiesa abbiamo innanzitutto cercato di soccorrere le persone più in difficoltà, organizzando distribuzioni di generi di prima necessità. In questo, molti amici italiani sono stati di grande aiuto, rispondendo con generosità ai nostri appelli. Poi, trovandoci chiusi in casa, abbiamo potuto riflettere maggiormente sulle nostre attività, provando a intraprendere un discernimento. Da questo lavoro è nato, ad esempio, un progetto di catechesi in piccoli gruppi che possa andare avanti anche in caso di lockdown, perché le riunioni fino a cinque persone sono concesse. Una catechesi slegata dagli schemi del classico catechismo parrocchiale, quello fatto dall’autunno alla primavera, con la pausa estiva. Ci siamo inventati qualcosa di più adattabile.

E poi c’è tutto il discorso dei media: ancora adesso facciamo la trasmissione online della messa sul canale FB della prefettura apostolica della Mongolia. Anche le parrocchie la fanno. E i catechisti hanno iniziato a far circolare materiale sui social per sostenere i fedeli».

Qual è la peculiarità dell’essere un vescovo missionario della Consolata? Qual è il «valore aggiunto» che lei e i suoi confratelli vescovi offrite alle diocesi che guidate? E cosa offre il vostro essere vescovi all’Istituto?

«Alle chiese particolari i vescovi della Consolata offrono il loro essere missionari, quella spinta che va in ricerca non solo di chi è già cristiano, ma anche di chi è ancora fuori dal gregge cattolico. Penso anche alla nostra impostazione sacerdotale basata sulla spiritualità del beato Allamano, e quindi sui pilastri dell’eucaristia, della vita mariana e del fare bene il bene senza rumore. Sottolineerei soprattutto la dimensione della ricerca dell’annuncio. Cosa che magari in altri contesti, se il vescovo non viene da un’esperienza missionaria, può essere meno presente. Quindi un’attenzione particolare agli ultimi, e a quelli che, semplicemente, non sono cristiani, un atteggiamento di dialogo, una volontà di creare ponti nella società.

Per l’Imc avere dei vescovi tra i suoi missionari penso possa voler dire avere sott’occhio la situazione delle Chiese particolari da una prospettiva un po’ più ampia. Sono un po’ come delle voci che portano dentro l’Istituto tutta la Chiesa».

Il motto del suo episcopato è un versetto del salmo 34: «Guardate a Lui e sarete raggianti». In che modo ha vissuto questa esortazione nel suo primo anno da vescovo?

«Intanto mi sono piacevolmente stupito di come questo salmo ritorni molto spesso nella liturgia feriale. Ogni tanto nella messa quotidiana salta fuori questo “guardate a Lui e sarete raggianti”. Puntare lo sguardo del cuore verso il Signore penso sia la priorità del vescovo missionario.

Cerco, con tutta la mia povertà, di attaccarmi a questa Parola per viverla. La sproporzione fra le esigenze e le sfide della chiesa, e la mia povertà personale, mi mette con le spalle al muro, e mi rende più consapevole che la luce viene da Cristo. Se veramente guardiamo tutti a Lui, questa luce poi si espande nelle nostre realtà.

Poi c’è questa particolarità: “Guardate a lui e sarete raggianti” può essere tradotto anche con “guardate a lui e sarete luminosi”, oppure “illuminati”. Ecco, per noi l’illuminazione viene come pura grazia, non è il raggiungimento di un’intuizione nostra, è la luce di Cristo che ci raggiunge. L’illuminazione è anche il concetto centrale del buddismo. Quindi per me il versetto del salmo 34 ha anche il gusto del dialogo interreligioso.

Ho una grande stima dell’illuminazione come cammino di perfezionamento proposto dal buddismo, e nello stesso tempo sono felice di essere cristiano perché so che la luce viene e, semplicemente, noi la dobbiamo accogliere, e che arriva per chiunque, non è una cosa riservata a pochi intimi, ma è la proposta cristiana per tutti».

Luca Lorusso

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mongolia sono stati 236mila, 780 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 968, uno ogni 3.127 abitanti (in Italia uno ogni 470).


Scuola, sanità e narcos

Colombia: Monsignor Joaquín Humberto Pinzón Güiza

Monsignor Pinzón è il primo vescovo del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano. In un territorio «remoto», dove i confini sono percepiti come idee astratte, il Covid ha portato la durezza del confinamento, e la coscienza di essere uno spazio marginale per lo stato centrale. La pandemia ha evidenziato la carenza di sanità e scuola, ma anche il potere del narcotraffico e dei gruppi di guerriglieri. Nonostante questo, la resilienza e la speranza del popolo rimangono intatte.

Il nostro Vicariato di Puerto Leguizamo-Solano, costituito nel 2013, si trova nel Sud dell’Amazzonia colombiana. Comprende un territorio di 56mila km2 in cui convergono le comunità di tre dipartimenti colombiani: Sud di Putumayo, Sud di Caquetá e Nord dell’Amazzonia. La sua popolazione è di circa 59mila abitanti, di cui 49mila cattolici. Ci sono tredici sacerdoti, di cui 12 religiosi e uno diocesano, e 12 suore per 5 parrocchie. Uno dei suoi tratti peculiari è il suo carattere di confine (tra Colombia, Perù ed Ecuador), che consente lo sviluppo di dinamiche di scambio a tutti i livelli.

Frontiere immaginarie, frontiere reali

Quando papa Francesco dice che «tutto è connesso», ci aiuta a prendere coscienza che le dinamiche vitali che si generano sul pianeta riguardano tutti noi che lo abitiamo.

Essa è una verità ancora più evidente in questo tempo di pandemia da Covid-19. Chi avrebbe immaginato che il coronavirus, avendo avuto origine in terre lontane, avrebbe colpito anche questo angolo di mondo? Questo «luogo remoto», come è considerato da molti.

Possiamo dire che la pandemia non solo ha raggiunto il nostro territorio, ma ci ha anche colpito in modi sorprendenti e inaspettati*.

In questo spazio di vita colombiano dove i confini politici degli stati spesso sono più realtà immaginarie che effettive, dove le frontiere non entrano nella mentalità delle persone e dei popoli, ci è stato imposto un confinamento duro.

Improvvisamente le nostre interazioni e i nostri movimenti sono stati limitati.

Abbiamo capito che nonostante l’Amazzonia sia ampia, possono verificarsi condizioni che impongono limiti al movimento e alle relazioni.

Ora i confini nazionali e internazionali stavano entrando in vigore e in vita. Sì, la sfocatura e la relatività dei confini erano fortemente diluite davanti al nostro sguardo attonito e impotente.

Ora il fiume che ci ha sempre unito, non solo ci separava, ma sollevava nazionalismi che non aiutano nella ricerca di soluzioni ai problemi comuni che affrontiamo come persone, popoli e paesi.

Ora reciprocità e armonia lasciavano il posto all’isolamento e alle tensioni personali e comunitarie, locali, nazionali e internazionali.

Mons Pinzon con suor Gabriella Bono

Territorio trascurato: salute, scuola, fame

Il Covid-19 non solo ha messo in evidenza le differenze tra i paesi, ma ha anche e soprattutto rivelato le differenze all’interno del nostro paese. Abbiamo capito che quando veniamo chiamati «abitanti lontani» c’è qualcosa di vero, poiché in questo tempo di pandemia si è manifestato in modo chiaro lo storico abbandono dei luoghi periferici della Colombia da parte dello stato.

È così che il nostro territorio si rivela, pur con tutto il suo splendore, come territorio marginale, territorio di remota, vera frontiera. I servizi sanitari sono carenti: non esistono né le infrastrutture né il personale sufficiente, tanto meno le attrezzature e le forniture necessarie. Se la pandemia ha aiutato in qualcosa, l’ha fatto nell’evidenziare la precarietà del sistema sanitario.

Anche i servizi educativi sono stati travolti. Si è pensato di poter offrire un’educazione virtuale ai nostri bambini e ragazzi, ma qui, al di là dei cartelloni pubblicitari che affermano: «Leguizamo vive digitale», non c’è un servizio internet all’altezza. Non esistono apparecchiature informatiche che possano consentire ai ragazzi di connettersi. Se queste carenze sono state vissute nei centri urbani, che dire dei villaggi e delle comunità più remote?

È stato un fenomeno che ha esacerbato i problemi già esistenti di un sistema educativo di bassissima qualità, con molti limiti materiali e umani; un sistema che sopravvive grazie agli enormi sforzi degli insegnanti.

Purtroppo, tra i ragazzi c’è una grande diserzione della scuola: molti, demotivati dal fatto di non avere i mezzi per studiare, hanno iniziato a lavorare in fattorie, miniere o coltivazioni illecite.

Il confinamento ha portato anche la fame a coloro che vivono alla giornata (soprattutto nei centri abitati). A riguardo di questo, apprezziamo molto la generosità che è nata per soccorrere tante famiglie in difficoltà. Il valore della solidarietà è stato visibile.

Tarapaca, Colombia. Nov. 12, 2020. Aiuto a una famiglia in necessità. Credit: UE / ECHO / Nadège Mazars

Il traffico di droga non si ferma

Una realtà che non ha subito il confinamento è stata quella del traffico di droga. Anche durante la pandemia hanno continuato a esistere la coltivazione, la lavorazione e la commercializzazione delle droghe. È un fenomeno che rafforza un altro problema drammatico: la violenza.

Senza dubbio, quest’altra pandemia, quella della violenza, ha generato più morti del Covid-19, soprattutto tra i giovani.

Le coltivazioni illecite hanno la capacità di incoraggiare le nuove generazioni a entrare nel mondo del guadagno facile, di difondere quella che viene definita «narco mentalità», quella di chi vuole arricchirsi in fretta e con poco sforzo.

Tutto questo sta generando disgregazione familiare e sociale, sia nelle comunità contadine che in quelle indigene.

La guerriglia

Un’altra realtà, legata a quella della droga, che non ha vissuto il confinamento, è quella bellica. Essa ha continuato a seguire il suo corso «normale», uccidendo e provocando danni.

Gli effetti del processo di pace che si sta portando avanti con i guerriglieri delle Farc, li abbiamo sentiti nella fase di attuazione, quando il gruppo di insorti ha deciso di consegnare le armi. Abbiamo vissuto un periodo di armonia nel territorio e abbiamo potuto sperimentare una certa tranquillità. Ma è stato qualcosa di effimero, come ci ha detto un contadino: «Tanta felicità non può essere così duratura».

Ebbene, purtroppo, il processo di pace non ha previsto come fare per mantenere il controllo e garantire l’ordine nei territori precedentemente in mano alle Farc. Le istituzioni non sono state in grado di arrivare in quei territori. E i territori strategici per la loro collocazione geografica, come il nostro, sono diventati oggetto di contesa da parte di diversi attori, come i dissidenti delle Farc e i gruppi legati al narcotraffico (senza specifica identificazione), tutti motivati dal profitto che le economie illegali portano, e tutti generatori di paura, ansia, caos e morte.

La nostra gente vive consapevole che non c’è alternativa al resistere, e al resistere con saggezza e prudenza, come sa fare da decenni. È la stessa strategia che mette in atto per affrontare il Covid.

Fare del Covid un’opportunità per la vita

Le devastazioni della pandemia da Covid-19 e le altre pandemie che abbiamo descritto, fanno percepire alle persone la fragilità della vita, nonostante sia un dono così prezioso. La malattia, così come la violenza, non hanno remore a colpirci con forza. Ciò che risalta di più in questa lotta è la resilienza delle persone che guardano al futuro con speranza.

Scendendo dal fiume Caquetá sul deslizador, mezzo di trasporto fluviale di questi territori, ho assistito a una conversazione tra alcune persone. Mi ha colpito la frase di una donna: «A che ci è servito tutto questo, se non impariamo niente? Continuiamo come prima».

La verità è che, per molti, tutto quello che hanno vissuto in questo tempo di pandemia, è stato solo una parentesi da chiudere al più presto per tornare alla «vita normale». Ma c’è anche chi crede che questa esperienza ci abbia aiutato in qualcosa, soprattutto a pensare e ripensare il nostro stile di vita politico, economico e sociale.

La pandemia ha messo in luce lo splendore e la fragilità della vita, e la precarietà dei nostri servizi educativi e sanitari. Ecco perché l’imperativo che ne traiamo è quello di valorizzare la vita al di là di ogni altra realtà e di lottare per essa, individualmente e collettivamente.

L’incertezza è ciò che caratterizza il futuro del nostro territorio. Il destino della guerra e del traffico di droga è incerto; incerta la situazione di abbandono da parte dello stato, e la condizione dei servizi educativi e sanitari. Sì, tutto è incerto, e qualsiasi previsione sarà sempre inscritta nell’orizzonte delle probabilità, delle utopie che a volte si trasformano in chimere. Tuttavia noi, come Chiesa, crediamo che la situazione che stiamo vivendo sia uno spazio propizio per sviluppare una spiritualità che ci permetta di affrontare le difficoltà, per rafforzare le spiritualità dei popoli e, al loro interno, proporre la spiritualità della cura, della riconciliazione, della comunione e dell’accompagnamento.

Qui è urgente sognare, progettare e realizzare propositi evangelici che formino e alimentino la vita dei credenti come popolo e come discepoli.

Essere famiglia umana

La coscienza di essere un’unica famiglia umana si rafforza nella fraternità e nell’amicizia sociale.

Nel nostro Vicariato sarà urgente la formazione della coscienza comunitaria, e il rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni.

Qui siamo sollecitati a capire che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi di alcuni riguardano tutti, come ha sottolineato papa Francesco. È necessario dare corpo all’utopia della fratellanza, quella tra gli uomini e quella tra l’uomo e la natura. A tal fine, cercheremo di fare delle nostre comunità spazi di vita e di comunione, spazi di trasmissione e coltivazione dei valori di un’umanità solidale.

I motivi per credere sono tanti, tanto da fare della resistenza la nostra forza e da trasformare la paura in speranza.

Joaquín Humberto Pinzón Güiza

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Colombia, su una popolazione di 48,6 milioni di persone, sono stati 4,9 milioni, 1.011 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 125.331, uno ogni 387 abitanti (in Italia uno ogni 470).

Casa distrutta dal ciclone Idai a Tete


Se non bastassero cicloni e terrorismo

Mozambico: Monsignor Diamantino Guapo Antunes

Successore del suo confratello, monsignor Ignazio Saure, divenuto arcivescovo di Nampula, mons. Diamantino è vescovo di Tete dal 12 maggio 2019. È il quinto da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Il Covid, in Mozambico, come in molti altri paesi, ha reso ancora più evidente l’insufficienza della sanità pubblica, e il bisogno di vicinanza e di gesti di consolazione.

La diocesi di Tete conta circa tre milioni di abitanti sparsi in un’area di 100mila Km2 (un terzo dell’Italia). I cattolici sono 750mila. Ci sono 35 parrocchie, 65 sacerdoti, tra cui 17 diocesani e gli altri missionari. I Missionari della Consolata sono sette, incluso il vescovo, responsabili di quattro missioni e un centro di formazione per catechisti.

Il territorio è molto vario, c’è una zona fertile molto popolata (altipiano di Angonia), e una zona secca e arida (lungo il rio Zambesi). Centro propulsore di tutta la regione è la città di Tete.

Le popolazioni appartengono alla stessa etnia bantu, ma sono differenti per lingua e tradizioni. Le principali lingue sono: cinyungwe (40%), cichewa (35%) e cisena (15%) e altre (10%).

La gente vive di agricoltura e, quando può, di commercio informale con bancarelle lungo la strada. Si vive a contatto con le popolazioni dello Zambia, Zimbabwe e Malawi. Il territorio di Tete è ricco di miniere di carbone e ha una delle più grandi centrali idroelettriche dell’Africa, la diga di Cabora Bassa sul fiume Zambezi.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Storia della diocesi

Possiamo dividere la storia dell’evangelizzazione nell’attuale diocesi di Tete in due periodi. Il primo fu iniziato nel 1562 da gesuiti e domenicani che rimasero nella zona fino alla loro espulsione nel 1910. Il secondo iniziò nel 1942, e fu un periodo di penetrazione e consolidamento della Chiesa nel vasto territorio. Esso portò alla creazione della diocesi nel 1962. L’opera di evangelizzazione continua a essere svolta dai gesuiti, dai Missionari d’Africa, dai Padri di Burgos, dai Missionari Comboniani e della Consolata, a diretto contatto con la popolazione, nel lavoro quotidiano e nell’assistenza sanitaria, con notevoli frutti.

La situazione pandemica

Il primo caso di infezione con il nuovo coronavirus in Mozambico è stato confermato il 22 marzo 2020. Si trattava di un uomo di 75 anni tornato dal Regno Unito. Nel 2020 i casi di infezione sono stati pochi, ma con l’allentamento di alcune misure di prevenzione alla fine dell’anno, e l’arrivo dei turisti sudafricani, i casi sono aumentati notevolmente*.

Il Mozambico a inizio agosto era il paese africano con il maggiore tasso di positività, il 16,7%. Le misure del governo si sono fatte più severe. Le scuole sono state chiuse in alcune città, i luoghi di culto pure, c’è il coprifuoco dalle 21 alle 4. Mercati chiusi la domenica. Funerali limitati.

Gli operatori sanitari sono vaccinati, ma la campagna di vaccinazione è lenta. L’intento è di estenderla a tutto il paese entro la fine del 2021.

I nuovi problemi

Il Covid-19 è arrivato in Mozambico in un momento di grande difficoltà. Eravamo nel mezzo della gestione dell’emergenza legata ai cicloni Idai e Kenneth, che avevano distrutto nel 2019 case, centri di salute e ospedali, oltre ad aver causato 600 morti e molti dispersi. Inoltre il terrorismo islamista nella provincia di Cabo Delgado era (ed è) un altro grave problema.

La pandemia ha avuto un grande impatto sull’economia e sulla società, in particolare sul turismo e l’esportazione di materie prime. Il 60% degli stabilimenti turistici ha chiuso. La caduta dei prezzi di materie prime, come carbone e gas, ha pregiudicato gli investimenti esteri, facendo perdere altri posti di lavoro ed entrate statali.

Le piccole imprese hanno immensa difficoltà a mantenere i propri impegni fiscali, divenendo un problema per il paese già abbastanza indebitato.

L’impossibilità dell’insegnamento in presenza ha avuto un profondo impatto sul settore educativo. Lo stesso possiamo dire in campo religioso con la sospensione delle celebrazioni pubbliche e delle altre attività pastorali.

Senza accesso a redditi o sussidi di disoccupazione, con un risparmio piccolo o nullo, e in uno scenario di aumento dei prezzi, la popolazione più povera di Tete, soprattutto urbana, è oggi vulnerabile alla fame. La povertà e l’insicurezza alimentare aumentano l’insicurezza pubblica e urbana, e la piccola criminalità.

Infine, si è ridotta la risposta dei servizi sanitari di trattamento e prevenzione di altre malattie comuni come malaria, tubercolosi, Hiv-Aids.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

La risposta della diocesi di Tete

La provincia di Tete è una delle più colpite dalla pandemia. Essa è, infatti, un corridoio di passaggio per i vicini Malawi, Zambia e Zimbabwe.

La diocesi ha cercato di mantenere viva la speranza tra la gente e di essere una presenza di consolazione e aiuto. Il vescovo ha visitato le missioni ed è stato in contatto con le comunità. Ha chiesto ai missionari di stare ancora più vicini ai fedeli, anche visitando le famiglie.

Siamo a stretto contatto con il ministero della Sanità a livello provinciale, partecipiamo ai tavoli tecnici per organizzare una risposta al coronavirus che metta al primo posto la prevenzione.

Nella Provincia di Tete c’è meno di un medico ogni 10mila abitanti (in Italia ce n’è uno ogni 247, ndr) e le strutture sanitarie sono poche e a volte prive di medicinali. Per questo la prevenzione e la formazione sono la chiave.

Gli agenti di pastorale si sono impegnati anche per diffondere messaggi di sensibilizzazione sul coronavirus, lavorando in piccoli gruppi per rispettare il distanziamento sociale. Abbiamo prodotto spot che sono trasmessi dalla neonata radio diocesana. Gli spot vengono diffusi in dialetti differenti, per arrivare a tutti. Alcuni missionari hanno montato degli amplificatori sulle macchine che girano per barrio e villaggi diffondendo le stesse raccomandazioni.

Diamantino Guapo Antunes

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mozambico, su una popolazione di 28,8 milioni di persone, sono stati 148mila, 51 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.881, uno ogni 15mila abitanti (in Italia uno ogni 470).


Una chiesa piccolo ma pronta

Eswatini: Monsignor José Luís Gerardo Ponce de León

Dal 2014 è vescovo dell’unica diocesi del piccolo Regno di Eswatini. Monsignor Ponce de León descrive una chiesa viva in un paese che, pur pacifico, ha manifestato negli ultimi mesi diverse tensioni, e palesato problemi sanitari, scolastici, economici e sociali rafforzati dal Covid.

Il Regno di Eswatini si trova tra Sudafrica e Mozambico. Il paese, che fino al 2018 si chiamava Swaziland, ha di recente fatto notizia a causa delle violenze dello scorso luglio. Conosciuta come una nazione pacifica, in pochi giorni ha visto la morte di una cinquantina di persone, il ferimento di altre centinaia, e la distruzione di molti negozi.

La diocesi di Manzini è l’unica del paese e, così, io sono l’unico vescovo cattolico. Su una superficie di 17mila km2 (come il Lazio, ndr) vivono 1,4 milioni di abitanti dei quali il 5% cattolici. Arrivato nel 2012 come «amministratore apostolico» dopo la morte di mons. Louis Ncamiso Ndlovu dell’Ordine dei servi di Maria, nel gennaio del 2014 sono diventato il suo quinto vescovo.

La piccola presenza cattolica, in questa nazione a maggioranza cristiana, è ben conosciuta, anche grazie al nostro servizio nel campo della salute (un ospedale, sette cliniche, un ospizio), dell’educazione (sessanta scuole) e della promozione di giustizia e pace (traffico di persone, rifugiati) coordinati dalla Caritas Eswatini.

Proteggere la popolazione

Non appena il presidente del Consiglio ha dichiarato, lo scorso marzo 2020, lo stato di emergenza, la nostra diocesi ha preso due iniziative. La prima è stata quella di interrompere la celebrazione delle funzioni religiose in tutte le parrocchie (17) e le comunità (un centinaio). La rapidità della decisione ha colto di sorpresa molti che hanno così capito la gravità della pandemia. La seconda è stata quella di identificare, insieme alla Caritas, le aree di intervento urgente. Ne abbiamo identificate sei: salute, cibo, acqua, rifugiati, comunicazione, casa.

Salute. Abbiamo fornito l’ospedale, i centri di salute e l’ospizio dei dispositivi di protezione individuale. La Conferenza episcopale italiana ci ha aiutati.

Cibo. La mancanza lavoro e la riduzione degli stipendi hanno inciso sulle famiglie. Le scuole, poi, nel nostro paese, sono una delle principali fonti di nutrimento per i bambini. Con le scuole chiuse, non ne potevano più beneficiare. Per questo, attraverso le nostre parrocchie, stiamo fornendo pacchi alimentari ai poveri della zona.

Acqua. Il messaggio «Lavati le mani» è stato uno dei primi che tutti abbiamo ricevuto e predicato. La domanda qui era: «Come fai quando l’acqua non c’è?». Abbiamo quindi offerto ad alcune famiglie una cisterna e delle grondaie per raccogliere l’acqua piovana. Avere un serbatoio consente anche di acquistare acqua da conservare per i tempi meno piovosi.

Informazione. Come in altri paesi, il governo ha utilizzato radio e Tv per informare sul virus. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che c’erano famiglie nelle zone rurali che non avevano nemmeno una radio. Pertanto è stato fatto un elenco di 500 famiglie cui fornirle. Le radio hanno aiutato anche i bambini che hanno potuto ascoltare i programmi radiofonici di insegnamento.

Case con due stanze. Questo programma è iniziato in diocesi molti anni fa grazie al supporto di Home Plan (Olanda). Il Covid-19 lo ha reso più urgente. Il distanziamento è essenziale nella lotta al virus, ma per alcune famiglie che vivono affollate in case di una sola stanza è un lusso.

Rifugiati. Ogni anno visitiamo il Centro per i rifugiati sostenendo le famiglie con pacchi alimentari. La metà dei rifugiati sono bambini. Quest’anno la richiesta del Centro è stata di fornire loro articoli da toeletta e materassi.

Cinquantesimo di padre Massa

Vicinanza social, ma non solo social

Come in altre nazioni, il Covid, oltre a creare dei nuovi problemi, ha portato allo scoperto quelli che già esistevamo ma stavano nascosti, come la mancanza di cibo e di acqua. Ne ha anche accentuati diversi, come la difficoltà delle famiglie di pagare la scuola: quando i giovani hanno potuto tornarci, tanti ci hanno chiesto una mano. La Chiesa cattolica qui è conosciuta come una chiesa al servizio di tutti, e il vescovo, in qualche modo, padre di tutti. Chiunque ne ha bisogno viene a trovarmi e, anche se non possiamo aiutare ogni volta, apprezzano di essere ascoltati.

Da sempre la diocesi ha saputo rispondere alle sfide sociali. Il Covid però ha portato nuove sfide come quella di accompagnare la fede dei cattolici che non potevano più andare in chiesa. La messa qui non è un’abitudine. Celebrare insieme è un elemento forte della nostra spiritualità.

Abbiamo allora preparato dei file audio da inviare via WhatsApp: preghiere e riflessioni sulle letture proposte dai preti della diocesi. Abbiamo anche offerto la messa della domenica su YouTube e, nella settimana santa, «le sette parole».

Con la pagina Facebook della diocesi sappiamo di aver raggiunto tanti.

Le sfide non finiscono

Al momento di scrivere questo articolo Eswatini si trova ad affrontare la terza ondata del Covid*, e soltanto il 10% della popolazione ha ricevuto le due dosi del vaccino. I numeri di coloro che possono entrare in chiesa è limitato. Chi vuole prepararsi per i sacramenti (battesimo degli adulti, comunione, cresima) non può farlo.

Per di più viviamo un tempo di violenza. Sembra che la calma sia tornata, ma è dovuta soltanto alla presenza dei soldati per le strade.

Un’altra sfida che rimane è quella della vicinanza a coloro che sono stati colpiti dal Covid. C’è bisogno di aiuto a livello spirituale e psicologico. Chi è stato contagiato e ha sentito la morte alle porte, chi ha visto i famigliari soffrire o morire a casa (una donna ne ha persi sette in due mesi), è rimasto con delle ferite non guarite.

Le chiese sono sempre il punto di riferimento più importante nei momenti difficili, e, allo stesso tempo, sono le prime a dover chiudere le porte…

Abbiamo bisogno, come diocesi, di ritrovarci (preti, religiose e laici) per riflettere su come essere chiesa in questo momento. La terza ondata probabilmente non sarà l’ultima e rischiamo di mancare di creatività, quella che ci porta lo Spirito, per continuare a testimoniare il Risorto.

José Luís Gerardo Ponce de León

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi registrati in Eswatini, su una popolazione di 1,5 milioni, erano 44mila, 302 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.158, uno ogni 1.267 abitanti (in Italia uno ogni 470).


È tempo di prendersi cura

Brasile: Monsignor Giovanni Crippa

Fin dall’inizio dell’emergenza Covid, dal marzo 2020, la Chiesa brasiliana si è spesa per soccorrere la popolazione, in particolare i poveri. Anche nella diocesi di Estância, dove monsignor Crippa è stato vescovo dal 2014 fino ad agosto, la pandemia ha colpito duro, ma la risposta della Chiesa è stata, ed è, forte e creativa.

La diocesi di Estância è stata eretta da papa Giovanni XXIII nel 1960. Il suo territorio fu il primo in Sergipe (Nord Est del Brasile, ndr) a essere toccato dall’azione missionaria dei Gesuiti (1575).

Situata nella parte centro meridionale dello stato di Sergipe, la diocesi ha una superficie di 6.650 km2 e una popolazione di 509.675 abitanti, di cui, secondo il censimento del 2010, il 50,56% vive in aree urbane e il 76,85% si dichiara cattolico.

La popolazione è il risultato dell’incrocio di indios, neri (ex schiavi) e bianchi figli dei colonizzatori, particolarmente dal Portogallo.

Abbiamo 28 parrocchie e 617 comunità, 41 sacerdoti, tutti diocesani, 22 seminaristi, 8 istituti religiosi femminili, con 52 religiose in 12 comunità.

Le frequenti situazioni di violenza, disoccupazione, illegalità e aggressione all’ambiente richiamano l’attenzione della diocesi, la quale risponde con progetti di formazione e di promozione umana, giustizia e salvaguardia del creato.

La realtà pandemica in Brasile

Tutti nel mondo stiamo vivendo un momento molto difficile a causa della pandemia. Un tempo che tocca la vita delle comunità nei suoi aspetti pastorali, liturgici, spirituali, sociali ed economici.

Il Brasile è uno dei paesi più colpiti, e fin da subito la Chiesa brasiliana si è mobilitata. Già il 15 marzo 2020, infatti, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha diffuso un messaggio chiedendo l’osservanza delle indicazioni sanitarie per contrastare la diffusione del virus.

La pandemia, inoltre, ha aggravato la crisi politica già in atto da tempo nel paese. Il 30 aprile 2020, il Consiglio pastorale episcopale della Cnbb ha approvato una nota in cui dichiarava il proprio impegno per un «Patto per la vita e il Brasile», firmato con altre importanti entità brasiliane. Allo stesso modo, ha invitato la società e le autorità pubbliche a unirsi per prevenire e combattere la più grave crisi sanitaria degli ultimi tempi.

Ordinazione episcopale del vescovo Giovanni Crippa

In quello stesso mese di aprile 2020 la Cnbb e la Cáritas brasileira hanno avviato l’iniziativa «É Tempo de cuidar» (È tempo di prendersi cura) con l’obiettivo di promuovere la solidarietà a favore delle famiglie bisognose, prive di cibo, lavoro, casa e accesso alle cure mediche.

Un anno dopo, nella 58ª Assemblea generale della Cnbb dell’aprile 2021, è stata nuovamente discussa la realtà pandemica in Brasile, e si è deciso di proseguire con la campagna. L’iniziativa «É Tempo de cuidar» incoraggia anche il supporto spirituale, psicologico e religioso per chi ha vissuto il lutto a causa della pandemia.

Con il tema «Ogni vita è importante», la Cnbb ha poi organizzato il 19 giugno 2021 una giornata di sensibilizzazione e preghiera in memoria degli oltre 500mila morti per Covid-19. Per entrare in sintonia con la Cnbb e il popolo brasiliano, nello stesso giorno, alle ore 15, tutte le campane delle chiese hanno suonato assieme.

Il 9 luglio 2021, ancora una volta, la Cnbb ha alzato la voce per difendere le vite minacciate, i diritti violati e per sostenere il ripristino della giustizia, cosciente che la società democratica brasiliana sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia.

La tragica perdita di oltre mezzo milione di vite, fra le quali un grande numero di sacerdoti e alcuni vescovi, è purtroppo aggravata dal sospetto di illeciti e corruzione compiuti nella lotta alla pandemia. Il grande numero di contagiati* ha rivelato la precarietà del sistema ospedaliero brasiliano, nonché il rifiuto degli orientamenti della scienza da parte dell’attuale governo, particolarmente del presidente Jair Messias Bolsonaro.

Gli effetti nella diocesi

Anche la diocesi di Estância ha dovuto prendere decisioni che hanno segnato la vita delle comunità. Dal 18 marzo 2020, infatti, si è entrati in una sorta di quarantena generale: rapporti sociali ridotti al minimo, distanza di sicurezza tra le persone, manifestazioni di affetto da evitare, confinamento in casa, rinuncia a tutte le attività che comportano assembramenti, comprese le celebrazioni eucaristiche pubbliche.

La pandemia ci ha chiesto di essere più umili: con una maggiore coscienza dei nostri limiti e di non essere né onnipotenti né autosufficienti.

In questo tempo siamo chiamati a ricostruire la speranza, promuovere la solidarietà e incentivare la preghiera. È un tempo che ci ha chiesto una vita di austerità, sobrietà e semplicità.

Tutte le comunità hanno dato una testimonianza evangelica di solidarietà raccogliendo donazioni per i bisogni dei più poveri che bussano sempre più numerosi alle porte delle nostre chiese.

Se le porte delle nostre chiese sono rimaste «chiuse» per un certo tempo, la Chiesa ha però continuato la sua azione evangelizzatrice.

Le sfide in tempi di Covid

La condizione inedita in cui viviamo suscita molti interrogativi e, soprattutto, richiede un discernimento spirituale su ciò che il Signore vuole comunicarci in questo momento di tribolazione.

La pastorale ha bisogno in questo momento di reinventarsi, di usare la creatività. Le Linee generali per l’azione evangelizzatrice della Chiesa in Brasile (Dgae 2019-2023), sono strutturate sulla Comunità ecclesiale missionaria presentata con l’immagine della «casa». Una casa con le porte aperte per entrare (l’importanza dell’accoglienza) e anche per uscire (in missione).

La situazione che stiamo vivendo ci chiede di essere audaci cercando Gesù fuori dalle nostre case. Gesù non può essere ridotto al tempio. Le chiese dalle «porte ancora semi chiuse» ci provocano e ci sfidano a fare delle nostre case uno spazio per costruire la Chiesa domestica.

La Chiesa, anche attraverso i social media, ha davanti a sé la grande sfida di andare nelle periferie geografiche ed esistenziali e risvegliare tanti fratelli e sorelle alla vita di fede comunitaria.

La pandemia ha colpito tutti, anche se con impatti diversi. In questo momento, la Chiesa deve essere un «ospedale da campo» per sanare le ferite, offrire consolazione e speranza. Le situazioni di miseria, perdita del lavoro, vulnerabilità al contagio, interpellano la Chiesa a collaborare per il bene comune con le autorità pubbliche, a superare l’assistenzialismo e ad aiutare le persone a essere soggetti della propria storia.

Forse l’attuale «stato di emergenza» è un indicatore e anche un acceleratore del nuovo volto della Chiesa che Gesù vuole per questo nuovo tempo, che non può e non deve tornare indietro.

Giovanni Crippa**

* Al 7 settembre, i casi registrati in Brasile, su una popolazione di 207,6 milioni, erano 20,9 milioni, 1.006 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 584mila, uno ogni 355 abitanti (in Italia uno ogni 470).

** Pochi giorni dopo aver scritto queste righe, monsignor Giovanni Crippa, l’11 agosto, è stato nominato dal papa vescovo di Ilhéus, diocesi 600 km più a Sud.


Attuali vescovi IMC:

  1. Luis Augusto Castro Quiroga nato l’8/4/1942 a Santa Fe de Bogotá (Colombia). OE: 29/11/1986 a Santa Fe de Bogotá.
  2. Virgilio Pante nato il 16/3/1946 a Lamon, (Italia). OE: 6/10/2001 a Maralal.
  3. Anthony Ireri Mukobo nato il 23/9/1949 a Mufu – Kyeni (Kenya). OE: 18/3/2000 a Nairobi.
  4. Elio Rama nato il 28/10/1953 a Tucunduva (Brasile). OE: 30/12/2012 a São Paulo.
  5. Peter Kihara Kariuki nato il 6/2/1954 a Thunguri – Othaya (Kenya). OE: 11/9/1999 a Murang’a.
  6. Francisco Javier Múnera Correa nato il 21/10/1956 a Copacabana (Colombia). OE: 11/2/1999 a Santa Fe de Bogotá.
  7. Giovanni Crippa nato il 6/10/1958 a Besana in Brianza (Italia). OE: 13/5/2012 a Feira de Santana.
  8. Inácio Saure nato il 2/3/1960 a Balama (Mozambico). OE: 22/5/2011 a Maputo.
  9. José Luis Gerardo Ponce de León nato l’8/5/1961 a Buenos Aires (Argentina). OE: 18/4/2009 a Mtubatuba.
  10. Diamantino Guapo Antunes nato il 30/11/1966 a Albergaria dos Doze (Portogallo). OE: 12/05/2019 a Tete.
  11. Joaquín Humberto Pinzón Güiza nato il 3/7/1969 a Velez (Colombia). OE: 20/4/2013 a Bogotá.
  12. Giorgio Marengo nato il 07/06/1974 a Cuneo (Italia). OE: 8/8/2020 a Torino.

Hanno contribuito al dossier:

  • Monsignor Giorgio Marengo Vescovo di Ulaan Baatar, Mongolia, dall’8/8/2020.
  • Mons. Joaquín Humberto Pinzón Vescovo di Puerto Leguízamo-Solano, Colombia, dal 20/4/2013.
  • Mons. Diamantino Guapo Antunes Vescovo di Tete, Mozambico, dal 12/5/2019.
  • Mons. José Luís Gerardo Ponce de León Vescovo di Ingwavuma, Sudafrica, dal 18/4/2009; poi vescovo di Manzini, Regno di Eswatini, dal 26/1/2014.
  • Mons. Giovanni Crippa Vescovo ausiliare di São Salvador da Bahia, Brasile, dal 13/5/2012; poi vescovo di Estância, Sergipe, Brasile, dal 9/7/2014; ora vescovo di Ilhéus, Bahia, Brasile, dal 9/10/2021.
  •  Luca Lorusso Giornalista redazione MC che ha curato il dossier

 




La piccola donna dal grande destino

testo di Marco Bello |


Qualche mese fa, per caso, mi trovai tra le mani il libro La locanda della sesta felicità, di A. Burgess. È la biografia di una missionaria inglese del secolo scorso in Cina. Una donna modesta che fece cose grandi, e lasciò il segno. Una storia da conoscere.

«Il Dio di Gladys era per lei un’armatura impenetrabile alle frecce e alle pallottole che il mondo mortale poteva lanciarle. La sua fede era incrollabile […]. Nessun problema teologico la turbò mai: le paure e i dilemmi intellettuali soffiavano al di sopra del suo capo, a un livello stratosferico». Così scrive Alan Burgess, scrittore e biografo, a cui si deve la prima biografia della missionaria inglese Gladys Aylward, nel suo «The small woman», pubblicato nel 1957 (e tradotto in italiano un anno dopo con il titolo «La locanda della sesta felicità»).

Gladys era nata nel 1902, a Edmonton, un sobborgo a Nord di Londra, da una famiglia della working class. Non aveva mai viaggiato, «non ero mai stata oltre a poche miglia da casa mia», avrebbe confessato un giorno. Da giovane (erano gli anni ‘20 del XX secolo) amava danzare e andare a teatro, e voleva fare l’attrice. Non era molto alta, poco più di un metro e cinquanta, aveva i capelli neri, occhi vispi e tipico accento londinese. Dall’età di 14 anni iniziò a lavorare come cameriera nelle case dei ricchi e non era mai stata particolarmente religiosa.

Una sera, mentre con alcuni amici stava per andare a ballare, in una via affollata di Londra, fu presa in mezzo a un gruppo di giovani che entravano in una chiesa. Senza volerlo si trovò a seguire la funzione. «Quella sera, per la prima volta nella mia vita, realizzai che Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, era morto per Gladys Aylward. Questa percezione mi scosse e avrebbe alterato la mia intera vita», avrebbe scritto molti anni dopo. «Corsi a casa, mi buttai sul letto e pensai: Dio se sei vero mostrati, e se lo farai, prometto che io farò qualsiasi cosa mi chiederai».

La giovane donna non frequentava una chiesa, aveva poca dimestichezza con la Bibbia e non sapeva pregare. Iniziò a cercare se stessa. Un giorno lesse su un periodico che in Cina c’erano milioni di persone che non avevano mai sentito parlare di Cristo. «Pensai che era terribile passare la propria vita senza Cristo. Qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa». Cominciò allora a parlare con persone istruite, con competenze e posizioni sociali migliori delle sue, pensando che sarebbero dovuti intervenire loro. Ma nessuno la prese sul serio. Propose, infine, a suo fratello di partire lui per la Cina, promettendo che lo avrebbe aiutato. Lui rifiutò e la prese in giro, ma poi le disse: «Se davvero pensi che qualcuno debba andare, perché non vai tu stessa?».

Il fratello l’aveva messa davanti a uno specchio, e Gladys sprofondò nel dubbio: «Non ho mai fatto nulla di importante, non sono istruita, non ho soldi, non so predicare, non conosco nulla della chiesa». Ma arrivò a una conclusione: «Feci al Signore due promesse: se mi avesse mostrato la via, sarei andata io in Cina e non avrei mai più chiesto a nessuno di fare quello che lui avrebbe chiesto a me».

Non idonea

Il primo passo fu un periodo di prova presso il China Inland Mission, un’istituzione inglese che preparava e inviava missionari in Cina dal 1865. Ma dopo tre mesi il direttore le disse che non era idonea a diventare missionaria, perché, per il suo basso livello di istruzione, non avrebbe mai imparato il cinese e la teologia.

Gladys non si perse d’animo, sentiva forte la chiamata, e decise di partire da sola, senza l’appoggio di alcuna organizzazione. Però non aveva soldi né contatti. Riprese a lavorare duro, a servizio, facendo il massimo dell’economia. Per andare in Cina, all’epoca, c’erano due possibilità: per nave o per treno attraverso la Transiberiana. Questa seconda opzione era in quegli anni – fine anni ‘20 – altamente sconsigliata, a causa di una guerra non dichiarata tra Cina e Unione Sovietica ai confini della Manciuria, proprio dove passava il treno. Ma era molto meno cara. Gladys non volle sentire ragioni, e comprò, a rate, il biglietto.

Intanto studiava la Bibbia, e andava anche a tentare prediche pubbliche, che non godevano di grande considerazione, allo speaker’s corner di Hyde Park. Ebbe l’occasione di leggere diversi libri sulla Cina, quando fu a servizio da sir Francis Younghusband, che vi aveva lavorato.

Per le sue origini, Gladys era cresciuta nel mondo protestante anglosassone, anche se, per lei, quello che contava era essere cristiana.

In quel periodo, durante una funzione in una chiesa metodista, sentì dire che una missionaria in Cina, Jeannie Lawson, di 74 anni, cercava una giovane missionaria per portare avanti il suo lavoro. Fu come un colpo di fulmine, e Gladys scrisse subito una lettera alla Lawson, la quale, dopo mesi – i tempi dell’epoca -, rispose che l’avrebbe accettata.

Il viaggio

Il 15 ottobre 1932, Gladys Aylward partì dalla stazione londinese di Liverpool street. Aveva due valigie: una conteneva vestiti e l’altra, cibo in scatola, biscotti, un fornello ad alcool, una padella, una teiera e un po’ di riso. Aveva con sé pochissimi soldi. A salutarla al binario c’erano la madre, il padre e la sorella, che non sapeva quando e se avrebbe rivisto. Non lo fece a cuor leggero, fu un grosso sacrificio lasciare la famiglia e il paese. Non aveva mai viaggiato all’estero, non era mai stata su un traghetto, né su un treno a lunga percorrenza.

«Non ho mai chiesto il permesso ai miei genitori. Ho detto loro che sarei partita. Erano i miei soldi ed era la mia vita. E pensavo che stavo facendo quello che Dio voleva che facessi. Quindi, anche se non capirono, essi accettarono e mi lasciarono andare», avrebbe raccontato.

La sua determinazione, e forse una dose di sana sprovvedutezza, la aiutarono, ma la spinta fondamentale fu la fede in quello che credeva fermamente Dio le avesse chiesto: andare a parlare di Cristo ai cinesi.

In quell’epoca, una giovane donna (aveva 28 anni) non viaggiava da sola. La guerra, sebbene non dichiarata, c’era eccome, e la corsa del treno fu interrotta nella città siberiana di Čita. Gladys rischiò di morire di freddo in Siberia, poi di essere trattenuta in Unione Sovietica. Ma fortunosamente qualcuno la salvò e, pure senza un soldo, da Vladivostok – dove era stata deviata a causa del conflitto – prese una nave che la portò in Giappone. Anche lì, a Kobe, una coppia di missionari la aiutò, e finalmente giunse nella città portuale cinese di Tientsin, dove fu accolta in una missione ben strutturata. Jeannie Lawson era conosciuta, e si sapeva che lavorava nello Shanxi, una provincia montagnosa e selvaggia a Nord Ovest di Pechino. I missionari del Tientsin mission center la affidarono al signor Lu, un uomo d’affari che stava partendo per quella terra. Anche quello sarebbe stato un viaggio lungo e faticoso. Presero il treno per un lungo tratto e poi un autobus.

Arrivarono a Zézhou dopo un mese e Gladys fu accolta da due anziane missionarie che le indicarono dove abitava Jeannie, a Yangcheng, ad alcuni giorni di viaggio. Non c’erano strade, e l’unico mezzo per arrivarci era a dorso di mulo.

Jeannie la missionaria

L’incontro con Jeannie Lawson non fu caloroso. La missionaria scozzese era una donna brusca e, dopo 50 anni di servizio in Cina, non era facile da trattare per una giovane appena arrivata. In città non c’erano altri cristiani, e loro erano chiamate «diavoli stranieri»: i bambini scappavano e gli adulti tiravano loro del fango.

La regione era costantemente percorsa da mulattieri che con i loro muli trasportavano le merci tra le città e i villaggi fortificati sulle colline. Jeannie ebbe un’intuizione: «Se apriamo una locanda per mulattieri, diamo loro alloggio e un pasto caldo, potremo anche intrattenerli con delle storie – cosa che di solito amano – e racconteremo le storie di Cristo. I commercianti, poi, viaggiando porteranno questi racconti nell’intera provincia».

Fu così che nacque la «Locanda delle otto felicità», sembra in riferimento alle otto virtù confuciane, ma anche alle beatitudini del Vangelo di Matteo. Gladys aveva il compito di piazzarsi sul percorso dei muli in arrivo in città, e di tirare nel cortile della casa il primo della fila, in modo che gli altri seguissero. Era questa la maniera di procurarsi i clienti. Jeannie dava la zuppa ai mulattieri e intanto raccontava passi del Vangelo, mentre Gladys badava ai muli.

«Sebbene Jeannie non mi abbia mai insegnato a mangiare il cibo cinese con le bacchette, o qualcosa sui costumi locali, e neppure mi abbia mai dato un consiglio su come imparare la lingua, [da lei] imparai come pregare e guadagnare le anime delle persone per il mio Signore», avrebbe scritto poi Gladys.

Dubbi e segni

Ingrsso della locanda nel 2006

Un anno dopo il suo arrivo, Jeannie morì. Gladys si ritrovò sola, arrivata da poco e, per di più, donna e straniera. La situazione delle donne all’epoca non era molto libera: «Adesso credevo che, in quanto giovane donna da sola, avrei dovuto andarmene. Inoltre, in Cina le donne non uscivano mai da sole, erano sempre accompagnate da un uomo della famiglia o da un servitore. E se non c’era questa possibilità, non uscivano di casa. […] Mi sentivo rinchiusa. Desideravo uscire. Ero giovane, ero contenta, volevo essere libera. E adesso ero chiusa in un piccolo cortile, che ogni sera si riempiva di animali e uomini». Mentre si chiedeva perché Dio l’avesse portata in quella città sperduta, unica cristiana, ed era presa dai dubbi su come procedere, pregava per un segno. Inoltre, Jeannie aveva una piccola rendita come missionaria, che con la sua morte si era estinta. Si presentava anche un problema economico.

In quegli anni Chang Kai-Shek, il capo di stato, divenuto cristiano, aveva messo al bando l’antica, e invalidante, usanza di bendare i piedi delle bimbe, che poi sarebbero rimasti piccoli e rovinati per sempre. Servivano ufficiali del governo che, a dorso di mulo o a piedi, percorressero il paese per sensibilizzare le popolazioni sulle nuove regole.

Il nome della locanda nel 2006: il vecchio cortile di Gesù

Il mandarino (capo politico) di Yangcheng si presentò in pompa magna nel cortile della locanda, e chiese (piuttosto ordinò) a Gladys di essere l’ispettrice dei piedi della sua area. Il motivo: era l’unica donna con «piedi grandi» e sarebbe servita da esempio. «Io rifiutai. Ero andata in Cina per Gesù Cristo e non volevo mischiarmi con questioni di governo, piedi e politica. […] Ma lui non se ne andava». La piccola donna iniziò a pregare nel suo intimo, non sapeva come uscire da quella situazione. Poi sentì come una voce, ebbe un’illuminazione: essere ufficiale del governo le avrebbe permesso di viaggiare in tutta la regione, incontrare e parlare con la gente nei villaggi più remoti, e ricevere pure un compenso economico. «Occorre dare tutti se stessi. Dio in quel momento non aveva bisogno delle mie mani, ma dei miei piedi! E li ebbe». Disse al mandarino che accettava, ma essendo lei una missionaria, avrebbe pure parlato alla gente della vita di Cristo. Il politico – che sarebbe poi diventato un suo caro amico, e si sarebbe convertito al cristianesimo – non vide in ciò nulla di cui preoccuparsi.

Gladys divenne nota e rispettata in Yangcheng e in tutta la zona. Iniziarono a darle il nome di Ài Wĕi Dé, ovvero «la virtuosa». Un giorno venne chiamata per sedare una rivolta nella prigione, e non senza paura, vi riuscì. Suggerì quindi migliorie, che furono adottate, per rendere la vita dei carcerati meno dura, e riuscì a predicare il vangelo anche tra di loro.

Gladys Aylward iniziava a inserirsi nella società delle montagne dello Shanxi, ma rimaneva comunque l’unica straniera. I più vicini erano i missionari di Zézhou con i quali fece amicizia. Sentiva che qualcosa nella sua vita non andava e, inoltre, come donna, molte cose non poteva farle.

«Pregai per avere un compagno […] La gioia di avere qualcuno con cui scalare le montagne, discutere, cantare e pregare. Ma non arrivò». Gladys avrebbe poi detto in un colloquio: «[Dio] lo chiamò, ma lui non arrivò mai». Il tempo passava e Gladys pensò che il Signore non l’avrebbe lasciata sola, e forse sarebbe arrivata una compagna di missione. Ma ancora nulla.

«Nove soldi»

Un giorno Ài Wĕi Dé assistette a una scena raccapricciante. Una megera maltrattava un bambino vestito di stracci. Era in vendita, in quell’epoca succedeva. «Lo vuoi comprare?», disse la megera. Gladys non se l’aspettava, e non aveva quasi denaro con sé. La commerciante di bambini insistette e alla fine la missionaria offrì quello che aveva, nove soldi. Era una bambina, e fu soprannominata Novesoldi: «Comprai la bambina. Fu il primo atto di quella che sarebbe stata la mia completa sottomissione al Signore. Non avevo compreso che stavo comprando la mia prima figlia, una bimba che stava entrando nella mia vita per significare molto. Dopo di lei arrivarono, uno dopo l’altro, gli altri, tutti in maniere differenti, in varie circostanze, ognuno così diverso in carattere e temperamento. Pregai Dio per loro. Egli ci nutrì, ci vestì. La situazione divenne caotica, ma eravamo molto felici. A un certo punto avevo 40 bambini. Chiesi a Dio di non mandarmene altri per favore. Ma il Signore non sempre risponde alle tue preghiere come ti aspetti».

Nel frattempo, Gladys Aylward decise di prendere la cittadinanza cinese, per sentirsi meglio in mezzo alla gente, diventò ufficialmente Ài Wĕi Dé. Anche se, nella pratica, poco cambiò.

La grande traversata

Erano gli anni in cui cominciava la seconda guerra sino-giapponese (1937-45), che faceva parte di una vasta strategia di occupazione dell’Asia da parte del Giappone. In Cina si opponevano all’invasione l’esercito regolare nazionalista, ma anche i guerriglieri comunisti. La guerra arrivava da Est e inizialmente la gente delle montagne a Yangcheng non pensava di esserne coinvolta. Invece iniziarono i bombardamenti della città che crearono morte e distruzione. Gladys si adoperò organizzando i primi soccorsi. Portò i suoi bambini in un villaggio di montagna e faceva la spola con la città per aiutare. Ma poi i militari giapponesi arrivarono e commisero atti efferati. Gladys fu anche picchiata, riportando lesioni interne che le avrebbero poi creato problemi di salute e fu ferita da una pallottola alla schiena. Intanto gli orfani che raccoglieva aumentavano, perché, a causa della guerra, molti bambini restavano soli e vagavano per le campagne.

Quando la situazione stava per precipitare, la piccola donna decise che era il momento di partire per portare i bimbi in salvo da morte certa. Ne aveva circa un centinaio, una ventina dagli 11 ai 15 anni, tra i quali Novesoldi, e un gran numero di piccoli dai quattro anni in su. Si congedò dal mandarino, che non avrebbe mai più rivisto e che l’aiutò con un po’ di cibo per i primi giorni. Poi, il chiassoso gruppo, con lei unica adulta, partì a piedi verso le montagne, direzione Ovest. Era all’incirca il marzo del 1940.

Fu una scelta molto coraggiosa, da un’analisi superficiale si potrebbe dire incosciente. In realtà fu, come sempre per Ài Wĕi Dé, dettata da una grande fede, che le dava forza e una determinazione travolgente.

Dopo quasi due settimane arrivarono sulle sponde del Fiume Giallo che segna il confine Ovest tra lo Shanxi e lo Shaanxi. Tutti i villaggi erano stati abbandonati e la popolazione sfollata aveva attraversato il fiume per fuggire ai giapponesi. Non c’erano più barche. Gladys e i bambini erano allo stremo, affamati e sporchi, ma non si trovava da magiare. Se non avessero attraversato il grande fiume, sarebbero morti.

Dopo tre giorni, comparve un ufficiale dell’esercito nazionalista che pattugliava il fiume. Vedendoli in quello stato, e stupito di quella strana compagine, si adoperò per fare venire delle barche dall’altra riva e i 100 bambini con Gladys poterono proseguire.

Ci vollero ancora giorni, a piedi e poi su un treno merci, ma Ài Wĕi Dé riuscì a portare tutti i suoi bambini al sicuro, nei pressi della città di Xian (Shaanxi), dove erano stati allestiti dei campi profughi per la gente che fuggiva da Est. Avevano percorso oltre 400 km attraversando le montagne.

Gladys Aylward era però in pessime condizioni di salute. Perse conoscenza, fu curata e accudita alla missione di Xingping e all’ospedale della missione battista di Xian. Senza le cure sarebbe morta. Ci vollero mesi, ma si riprese.

In seguito lavorò nelle città Lanzhou (Gansu) e Chengdu (nello Sichuan, più a Sud ).

Cina addio

Gladys Aylward tornò in Inghilterra nel 1949 grazie all’interessamento di un’associazione statunitense, che le pagò il biglietto. Lasciò la Cina a malincuore, dopo tanti ripensamenti. Perché tutto ciò che amava era lì. Aveva bisogno di cure, inoltre con la vittoria dei comunisti iniziarono le persecuzioni delle religioni. Lei non voleva causare problemi a chi stava aiutando.

«Ci incontrammo, io e la famiglia (i ragazzi e bambini, ndr), per l’ultima volta in un campo fuori dalla città di Chengdu. Avevo deciso che era tempo di partire. Mettevo in pericolo chi stava con me perché, sebbene avessi un passaporto cinese, e fossi cinese nei miei pensieri, nel mio amore, nella mia lingua, nei vestiti e in tutto tranne che nel viso, avevo ancora la faccia di una straniera».

In Inghilterra si adoperò per i migranti cinesi, e per promuovere la missione. Voleva tornare in Cina, ma le autorità le rifiutarono l’autorizzazione.

Ài Wĕi Dé andò ad Hong Kong nel 1958, ancora sotto controllo britannico. La città era invasa di profughi arrivati dalla Cina popolare. Qui si prese cura di loro e contribuì a fondare la Hope Mission che li accoglieva.

Si trasferì quindi a Taiwan, dove, sull’isola di Formosa, i nazionalisti cinesi, guidati da Chang Kai-Shek, avevano fondato la Repubblica cinese.

Affittò un hotel chiuso a Beitou, appena fuori Taipei, la capitale, e vi fondò un orfanotrofio, il Gladys Aylward orphanage. Nei primi anni ‘60 arrivò dall’Inghilterra una giovane ad aiutarla, Kathleen Longton: finalmente Gladys ebbe la sua compagna di missione.

Nel 1959 acquistò un terreno a Muzha grazie all’aiuto della Ong statunitense World Vision e vi costruì un orfanotrofio che nel 1963 chiamò Bethany nursey school.

Un’opera che continua

Il 3 gennaio 1970 Gladys Ài Wĕi Dé morì per le complicazioni di una semplice influenza, poche settimane prima di compiere 68 anni. Il suo fisico ormai cronicamente debilitato non andò oltre. Ma la sua opera continua, e si espande. Un gruppo di suoi collaboratori presero in mano la struttura nel 1971.

Una missionaria inglese Linda McFerren vi ha poi lavorato 26 anni con i colleghi cinesi (1992-2018). Nel 2010 la struttura ha cambiato statuto per adattarsi alla mutazione della società, e il nome è diventato Bethany children’s home. Un moderno centro per accoglienza di bambini e adolescenti (0-18 anni) in difficoltà. Il centro sperimenta un metodo innovativo di assistenza famigliare degli orfani. Oltre a continuare con i progetti di reinserimento, realizza servizi di sostegno per bambini svantaggiati e appoggio diretto alle famiglie problematiche.

Marco Bello
(fine prima puntata)

 




Tu, «padrecito», non capisci niente

testo di Renzo Marcolongo |


Ero sinceramente convinto che una laurea in psicologia mi avrebbe dato una marcia in più al servizio della missione, aiutandomi a capire le persone senza problemi. In realtà le persone sono molto di più di quanto i manuali scientifici riescono a codificare. C’è sempre qualcosa da imparare.

Un pomeriggio a San Vicente del Caguán, una donna mi chiamò al cellulare chiedendo un appuntamento per sua figlia quindicenne che soffriva di depressione. Le ricevetti (la madre, la figlia e la nipotina di 3 mesi) lo stesso pomeriggio, e ascoltai ciò che la madre – molto preoccupata e nervosa – mi diceva: sua figlia non mangiava, non dormiva, si chiudeva in se stessa, si isolava e non voleva parlare. Tutto questo a causa di una vicina che le aveva mandato una maledizione, un incantesimo o una stregoneria, perché invidiosa della ragazza che aveva dato alla luce una bella bambina.

Chiesi alla madre di uscire dal mio studio per poter parlare con la figlia. Dal dialogo capii che la ragazza stava soffrendo di depressione post-partum. In più non era assolutamente felice di essere rimasta incinta a 14 anni e abbandonata dal padre della bambina. Il suo futuro non sembrava per niente roseo. La mia diagnosi di depressione post-partum mi sembrava molto azzeccata (quasi da manuale) e, in questo caso, aggravata da fattori personali.

Con questa diagnosi in mente, invitai la madre a entrare nel mio studio e le spiegai in modo semplice che lo stato di sua figlia non dipendeva da una maledizione e che non c’era motivo di preoccuparsi. Tutto si sarebbe sistemato abbastanza presto. La signora ascoltò incredula le mie parole e, con mia sorpresa, mi disse: «Tu padrecito non capisci niente e troverò un’altra soluzione».

La soluzione alternativa fu quella di consultare i «fratelli» (curanderos tradizionali) che le promisero di eliminare l’incantesimo mettendo sotto il letto della figlia un bicchiere d’acqua benedetta da un sacerdote (probabilmente benedetta da me), per tre notti, e chiedendo un contributo «volontario» di 150mila pesos (35 euro) per ogni bicchiere d’acqua.

Sorriso sotto i baffi

Non so se la neomamma, poi, sia stata meglio. Penso di sì, non tanto a causa dei benefici dell’acqua benedetta posta sotto il letto, quanto perché la depressione post-partum non tende a durare a lungo, a meno che non subentrino complicazioni.

La replica della madre alla mia diagnosi mi sembrò divertente e sotto i baffi mi scappò un sorriso, perché le sue parole avevano messo in discussione i miei 32 anni di esperienza come terapeuta. Tuttavia, con il passare del tempo, le parole di quella donna continuavano a risuonarmi nella mente come un chiodo fisso. Iniziai a chiedermi allora se per caso non mi fosse sfuggito qualcosa nella mia diagnosi, forse un’interpretazione della realtà diversa da come io l’avevo percepita che mi avrebbe permesso di offrire alla ragazza una cura più consona alla sua cultura.

Dal punto di vista della psicologia «scientifica» del mondo occidentale, la depressione post-partum ha una soluzione terapeutica collaudata con un percorso di recupero eccellente.

Però, perché non prendere in considerazione le convinzioni e le credenze delle persone che vivono esperienze emotive in culture diverse da quella del mondo occidentale, cose tutte che influiscono sul benessere della gente?

Qual è l’impatto che il mondo del «sacro» e del «simbolico», che ognuno inconsciamente porta dentro di sé, ha sulla vita quotidiana e sul benessere della persona? Il mondo sacro e simbolico è un serbatoio di senso e significati che le persone usano per vivere1.

Identità e culture

Il mondo personale e intimo di ogni essere umano possiede una sinfonia, un insieme di valori, miti, visioni sulla natura umana, su ciò che è «normale e anormale», su ciò che è «salute e malattia» (fisica o mentale), sulle cause di essere sani o malati, sul significato di «maturità», su come ricostruire i rapporti familiari e sociali distrutti e scoprire chi o cosa li ha distrutti. È una sinfonia trasmessa dalle generazioni passate e interpretata nel presente da persone che condividono e assumono ciò che è importante per il gruppo di appartenenza che, a sua volta, offre un’identità.

Identità: un termine che viene dal latino idem, che significa «lo stesso – medesimo» e si applica alla persona. La mia identità dice chi sono io con le mie caratteristiche che mi distinguono dagli altri; e si applica anche all’identità di un gruppo che crea e modella ciò che è importante per il gruppo stesso e i suoi membri. Comprendere l’identità di un gruppo significa entrare più profondamente nella mente di una persona che ne fa parte e ccapire le visioni e le percezioni del suo mondo. E questo favorisce la diagnosi e il cammino terapeutico.

Il contributo della psicologia scientifica occidentale può «guarire» la mente spiegando le dinamiche psicologiche che sono in gioco. Ma in un mondo non occidentale, non sempre la psicologia riesce a «guarire» l’insieme della mente e del cuore che formano un’unità nella persona. Il limite della psicologia scientifica è quello di non dare la dovuta importanza ai mondi simbolici e diversi che creano e organizzano tutta la vita delle persone nella loro mente, nella loro salute e nelle loro relazioni.

* .

Un mondo di relazioni

Quella donna che scelse di avvicinarsi ai «fratelli» e non a uno psicologo «qualificato», fece una scelta culturale, sociale e religiosa, attingendo alle sue percezioni del mondo e ai suoi valori. Cercava un «significato» per quello che stava accadendo a sua figlia, e il significato offerto dalla psicologia non possedeva il peso affettivo, né il valore emotivo che i «fratelli» le offrivano. Le emozioni e il cuore furono più potenti ed efficaci della scienza e del cervello.

Quello che per me era un disturbo interno, mentale, personale e passeggero, per la donna era la conseguenza di un mondo esterno che entrava nella persona; un mondo di relazioni sociali negative segnate dall’invidia. E questo mondo esterno era percepito come la causa della sofferenza e di lì la necessità di sconfiggerlo.

Incontro tra Psicologia e cultura

Possiamo parlare di incontro tra psicologia e cultura? Possiamo incoraggiarlo? Sarà possibile?

Credo che per favorire l’incontro tra il cosmo (che significa ordine) scientifico e quello dell’esperienza culturale, sia necessario un «interprete», pur cosciente che l’interprete è, per forza di cose, sempre un po’ un traditore: è impossibile, infatti, tradurre da un universo culturale a un altro in modo fedele il significato profondo di una parola, un’espressione, un sentimento, un’esperienza sociale, emotiva e strutturale di un gruppo. L’ordine sociale espresso a parole, in culti e musica è ben compreso solo da coloro che appartengono a quel gruppo. Gli altri possono capirlo teoricamente ma non emotivamente.

Quello che imparai personalmente fu che la mia diagnosi era stata parziale perché non aveva incluso il mondo culturale di madre e figlia, mondo che formava e interpretava le manifestazioni delle malattie fisiche e mentali.

Ora mi rendo conto che lè importante nella guarigione della persona, per restituirla alla sua comunità sana e ristabilita, scoprire, assieme alla diagnosi psicologica, qual è la sua visione del mondo. In questo modo si può ricostruire quell’identità specifica che appartiene alla grande sinfonia di identità individuali che formano la persona e che la fanno sentire parte di un gruppo.

* .

Questione di armonia

Ricostruire l’identità significa ricostruire l’armonia del gruppo ed eliminare quella dissonanza che danneggia la melodia dello stesso.

Ognuno ha dentro di sé un equilibrio emotivo che gli permette di vivere con tranquillità la propria esistenza, interpretando il suo mondo. Questo equilibrio può apparire fragile agli occhi di uno straniero, ma non alla persona che lo vive.

Ora ho imparato che, come psicologo, non posso più fidarmi solo del quadro interpretativo della malattia mentale offerto dalla psicologia. Se veramente mi sta a cuore la guarigione completa della persona è essenziale comprendere il mondo interpretativo (quadro di riferimento) del suo cosmo, collegando così la guarigione a tutta la persona.

La storia di Teresa

E fu così che, con questa esperienza e riflessioni, affrontai, alcuni mesi dopo, il caso di Teresa (un nome fittizio per proteggere la sua identità).

Teresa mi aveva chiesto un incontro, perché si sentiva agitata da uno spirito che non le permetteva di vivere bene (era depressione), e lo spirito proveniva da una persona che la malediceva e la odiava senza che Teresa ne sapesse le ragioni. Le prime sessioni, durante le quali Teresa acquistò fiducia in me, furono seguite da incontri nei quali lei entrava in trance cambiando tono di voce, personalità e raccontando episodi dolorosi della sua vita. Al risveglio Teresa diceva di non ricordare nulla, però lo «spirito» del trance mi dava informazioni importanti su avvenimenti passati e su sentimenti percepiti come troppo dolorosi per accettarli coscientemente.

Ciò mi diede la possibilità di affrontare emozionalmente situazioni del suo passato dolorose e traumatiche.

Il cammino verso la guarigione sembrava stesse funzionando bene, fino a quando, in una delle sue ultime sessioni, lo «spirito» mi chiese – durante un trance – che, come sacerdote, andassi nel suo campo per rimuovere e distruggere una ciotola sepolta lì dal «nemico» che conteneva le maledizioni e lo «spirito» stesso, e per esorcizzare il terreno.

Accettai di andare, e pur non trovando alcuna ciotola, nonostante il figlio avesse scavato in vari posti indicati dallo «spirito» (mentre Teresa era in trance), spiegai che senza dubbio la ciotola di cocco si era sciolta, consumata dopo cinque anni sotto terra e che, con quella, era sparito anche lo «spirito» e la maledizione.

Feci l’esorcismo del terreno, e la presenza calma e silenziosa di un cane confermò che non c’era più nulla di malefico nella tenuta (secondo la cultura spiritica dei «fratelli», i cani abbaiano quando sentono la presenza di uno spirito o di una maledizione).

Teresa entrò e uscì dalla trance ancora una volta, dopo di che si sentì integralmente libera. Ringraziò e abbracciò i presenti e da allora la sua guarigione fu completa.

Darsi una mano

Ho incontrato Teresa molte altre volte camminando per le strade del paese, e ho notato che è ben inserita nella sua famiglia e nella sua comunità.

Mi sono convinto che il semplice intervento psicologico non sarebbe stato sufficiente se non avessi percepito gli aspetti emotivi, sociali e spirituali di Teresa. L’esorcismo ha dato un’ulteriore risposta al malessere e disagio di Teresa completando così il lavoro terapeutico.

Credo sia fondamentale per ogni disciplina (scientifica o tradizionale) saper riconoscere i propri limiti, liberandosi dalla pretesa di sapere tutto e risolvere tutto.

Scoprire il mondo delle immagini, del divino e del simbolico di una cultura, collegandolo con la storia vissuta della persona, ci porta a una visione più completa delle persone e quindi a inventare nuovi cammini per risanare e curare.

Dandosi la mano, scienza, mondo tradizionale e spirituale, possono favorire un benessere più profondo e significativo nella gente. E questo è il mio ministero qui, a San Vicente del Caguán.

Renzo Marcolongo

(1) Sono grato a David W. Augsburger che con il suo libro «Pastoral counselling across cultures» (WP Philadelphia, 1986), mi ha molto aiutato a diventare culturalmente sensibile e aperto a nuove interpretazioni della realtà.

Padre Marcolongo Renzo, celebrando l’Eucarestia in casa generalizia a Roma




Coraggio e missione


All’inizio di giugno, i Missionari della Consolata in Europa (Italia, Polonia, Portogallo e Spagna), 230 in tutto (al 25 marzo 2021), si sono «radunati» online per riflettere insieme su cosa vuol dire essere missionari, oggi, in questo continente. I fattori in gioco non sono incoraggianti. Tra quelli interni al nostro Istituto ci sono l’invecchiamento dei missionari, l’assenza di nuove vocazioni europee, le strutture pesanti. Tra quelli presenti nella società europea ci sono la scristianizzazione e le conseguenze, ancora imprevedibili, della pandemia che hanno messo sottosopra un modo di vivere e chiedono nuove risposte dall’evangelizzazione.

Di fronte a tutto questo, ci si poteva aspettare un’assemblea scoraggiata e rassegnata. Invece il realismo degli interventi era carico di speranza, ottimismo e coraggio. Un bell’esercizio di fede, sostenuto dal motto del beato Allamano: «Coraggio, e avanti in Domino (nel Signore)!».

Condivido qui solo poche frasi rivelatrici dello spirito di questi giorni.

Padre Stefano Camerlengo, superiore generale, sì è domandato insieme a noi: «Che cosa facciamo ora? Che cosa siamo diventati? Che cosa resterà di tutto questo? [La pandemia] è solo una dolorosa – per molti, drammatica – interruzione, per ricominciare appena possibile da dove eravamo rimasti? Oppure avremo il coraggio di iniziare un percorso diverso? […] A quali condizioni sarà possibile fare cose nuove per davvero? Come sarà il nostro Istituto domani, fra qualche anno? Come continuerà la sua missione? Quale sarà il volto della missione futura?

Sono domande importanti, fondamentali, che richiedono tanta interiorità. Cerco di riassumerle in questo modo: a quale condizione ci potrà essere un vero e stabile cambiamento nel nostro stile di vita, di presenza e di missione? Rispondo: la novità può venire solo dal cuore, cioè dall’interiorità silenziosa della coscienza di persone che non si sottraggono ai perché della vita e alle esigenze della propria vocazione missionaria. Senza tenerezza, senza cuore, senza amore, non ci sarà profezia né testimonianza credibile!

Carissimi, mi piacerebbe che mettessimo più cuore in quello che facciamo. Mi piacerebbe che prima delle difficoltà e dei problemi lasciassimo parlare il cuore. Mi piacerebbe che cominciassimo ogni riflessione e discernimento avendo a cuore il nostro continente e la nostra gente. […]

La cosa più necessaria nella vita della Chiesa è tenere vivo il fuoco, non adorare le ceneri. È bello sentire la paternità del nostro caro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che aveva il cuore ardente e non era, in nessun modo, prigioniero della cenere; che ha saputo accendere profeticamente il fuoco del Vangelo attraversando confini, incomprensioni, vedute limitanti, concretizzando una visione missionaria innovativa. Carissimi, ricordiamoci che siamo presenti in Europa perché è luogo di missione e siamo chiamati a vivere e a operare da missionari anche qui. […] Non possiamo abdicare, ma dobbiamo rilanciare e tornare a entusiasmare».

Padre Daniele Giolitti, dalla Certosa di Pesio (Cn), prendendo spunto dalle parole del Signore rivolte a Paolo chiuso in prigione: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così bisogna che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11), ha detto: «Il coraggio è fiducia ed è il contrario della paura. Coraggio è, sì, forza agonistica, ma è soprattutto una virtù del cuore. È la forza spirituale per andare avanti o, come dicono i Padri del deserto, la “forza per buttare il cuore oltre l’ostacolo”. Ancora: la paura è la mancanza di fede, il coraggio è la fede di vivere la vita fino in fondo, di viverla da vivi, non da morti. Il Signore dice a Paolo che “bisogna che dia testimonianza anche a Roma”. Cosa significa? Paolo dirà: per me è una necessità evangelizzare, non ne posso fare a meno (1 Cor 9,16). Bisogna è la parola che Gesù usa sempre quando parla della sua morte (cfr Lc 17,25), non per dire che lui è costretto a farlo, ma che il donarsi fino alla fine è un bisogno interiore. Come bisogna che l’acqua bagni, se no non è acqua, che il fuoco bruci, che la vita viva, così “bisogna che tu mi testimoni”, è la necessità di essere come Cristo. […] In conclusione, nei periodi di discernimento e di crisi, guardiamo al nostro futuro come Paolo, accogliendo la Parola e la missione: la prima ci consola e ci dà coraggio, la seconda ci spinge ad andare. Così facendo siamo spinti nel cammino verso un mondo altro: un cammino che diventa sogno e disegno di Dio per ogni uomo e donna». Anche in Europa.

 




Consolate il mio popolo


Un anno fa scrivevo l’editoriale del mese di giugno dal chiuso della mia stanza, nel bel mezzo di una clausura forzata durata ben oltre due mesi. Quei giorni dovrebbero essere un lontano ricordo, e invece la pandemia è ancora qui e sta manifestando la sua virulenza in tutto il mondo, in particolare in quei paesi già colpiti da povertà, guerre e deficienze strutturali croniche. E facciamo fatica a tornare alla «normalità» che rimpiangiamo.
Scrivo «normalità» tra virgolette, perché mi piacerebbe vedere nascere dalla tragedia del Covid una normalità diversa da quella di prima. Quella di cui abbiamo tutti nostalgia, infatti, era fatta di consumi eccessivi di risorse, di spreco e di ingiustizia sociale. Una normalità alla quale siamo stati abituati nei decenni da un sistema economico incentrato sul profitto immediato, che ora spinge perché venga ripristinata quanto prima quella stessa normalità.

La parte di normalità precedente al Covid che salverei e, anzi, amplificherei, è invece quella fatta di relazioni: scambiare un abbraccio, tenersi per mano, mangiare insieme, far festa, danzare, partecipare alla messa e quanto altro comunica amore, aiuta l’incontro, dona consolazione.
E di relazione con la natura, nella quale vivere da ospiti e non da padroni.

Per riprendere nel modo più forte e profondo quella normalità, un esercizio utile da fare è quello della contemplazione, del rintracciare nel mondo che abbiamo attorno i segni della presenza di Dio, i segni che riempiono il cuore e spingono alla comunione con gli altri, e alla consolazione.

Quando usciamo per le strade, allora, proviamo ad assumere lo sguardo di un mio confratello, padre Andrés Garcia, missionario della Consolata che vive tra i Warao a Nabasunuka sui canali del Delta dell’Orinoco in Venezuela, del quale condivido le parole, scritte dopo aver gridato con forza che non vuole rassegnarsi né abituarsi alla paura, alla povertà, all’ingiustizia e al dare sempre la colpa agli altri. Voglio condividere le sue parole con voi, in questo mese dedicato alla nostra Consolata, madre del vero Consolatore e modello di ogni missionario.

«Voglio rallegrarmi per ogni persona che si rialza, per ogni tentativo, per ogni sospiro di speranza.
Voglio sognare di nuovo con ogni sorriso, con ogni carezza, con ogni sforzo.
Voglio che si imprima a fuoco nella mia anima la gioia di quella bambina che dice alla mamma di sapere già le vocali e del suo fratellino più grande che, con espressione di trionfo, mi dice che lui sa già leggere e scrivere.

Voglio continuare ad emozionarmi nel vedere due anziani camminare per strada mano nella mano, innamorati, e nell’ascoltare quei giovani fidanzati che sognano come sarà la loro famiglia, la loro storia d’amore.

Voglio rimanere senza parole di fronte alla bellezza del fiore che cresce umilmente completando con il suo colore e profumo la sinfonia della giungla e anche davanti a quella (giungla) che cresce in città.

Voglio sentirmi una sola cosa con l’universo nel bel mezzo della tempesta e quando la leggera brezza mi accarezza.

Voglio fremere con ogni persona che sogna una nuova umanità e impegnarmi per ogni persona che costruisce giustizia e pace con il suo stile di vita e anche con chi lo fa attraverso i movimenti sociali e i tribunali.

Voglio gioire per tutti gli sforzi fatti in favore della riconciliazione delle persone e dei popoli.

Voglio cantare con ogni persona che si rialza dopo ogni caduta, cercando di essere migliore.

Voglio dirvi che oggi migliaia di persone si sono riconciliate, che sono nati migliaia di bambini, che centinaia di migliaia di innamorati si sono baciati (sì, anche nella quarantena), che centinaia di popoli continuano ad organizzarsi per riprendere i loro diritti, per recuperare la loro storia, le loro terre, la loro cultura, la loro dignità.

Oggi, anche oggi, come ieri e come domani, l’amore continua a vincere e a generare vita in tutto l’universo.

Voglio dirvi quello che già sapete: che Dio è Amore e che lui vince sempre e per sempre.
Non lo vedete?».

Foto di Piergiorgio Pescali dal Myanmar, dedicata alla gente di quel paese in questo momento così difficile e violento. Un augurio di pace.




South Africa Fifty (Il giubileo d’oro della Consolata in Sudafrica)

Indice

I tre aspetti salienti della consolata in Sudafrica

Nati in terra di frontiera

Sono gli anni dopo il concilio Vaticano II. Anche i Missionari della Consolata cercano un nuovo stile di evangelizzazione. Si aprono per loro nuovi paesi di missione, nuove culture con cui confrontarsi, ma anche nuove forme organizzative. Così si diffonde l’approccio delle piccole comunità missionarie, agili ad adattarsi alle situazioni. Fondamentale anche la componente formativa per i giovani che iniziano il cammino missionario.

La nascita della delegazione (chiamata così in quanto piccolo gruppo, ndr) del Sudafrica avvenne il 10 marzo 1971. Fu l’avvio di un cammino nuovo per l’Istituto, nella ricerca di nuove terre e di nuovi stili di evangelizzazione, e pertanto una vera «terra di frontiera». Erano gli anni che seguivano il concilio Vaticano II e la celebrazione del Capitolo generale del 1969. L’Istituto si sforzava di aprire nuove strade che potessero incarnare al meglio il carisma di Giuseppe Allamano in un’epoca di grandi cambiamenti nella Chiesa e nella società.

Terra di frontiera

Ai nostri primi missionari destinati al Sudafrica veniva affidato l’impegnativo compito di camminare su terre da noi non ancora esplorate, a contatto con nuove realtà missionarie e di evangelizzazione, capaci di arricchire il tradizionale stile missionario dell’Istituto.

Il 9 novembre del 1971, padre Mario Bianchi, superiore generale, a pochi mesi dall’inizio dell’avventura sudafricana, così scriveva in una lettera circolare all’Istituto: «[…] Ma già ora vi è uno sviluppo importante nell’Istituto, non di numero, ma di qualità; cioè di situazioni nuove in cui l’Istituto viene a trovarsi e a cui deve fare fronte: inserimento in nuovi campi di missione e quindi in confronto con popoli, culture e religiosità differenti (è il caso dell’Etiopia e Sudafrica); cambiamenti talora profondi nelle aree geografiche in cui già siamo inseriti, sotto il punto di vista di Chiesa, vita politica o sociale; cambiamenti e sviluppi anche nella sensibilità spirituale, vita comunitaria e organizzativa all’interno dell’Istituto. Queste nuove situazioni conducono a una crescita qualitativa e spirituale dell’Istituto se tutti noi sapremo affrontarle con coraggio, pazienza e saggezza».

Quanto padre Mario Bianchi proponeva all’inizio di questa avventura missionaria, penso che mantenga ancora oggi tutta la sua validità: l’invito a scoprire sempre nuove strade della missione nella comunione con il cammino delle chiese, nel cercare e trovare nuovi modi per rendere più efficace la comunicazione del Vangelo di Cristo e nel solidarizzare con i popoli. Nel fare tutto ciò in maniera efficace, è necessario che il nostro discernimento sia sempre accompagnato dalla preghiera costante allo Spirito Santo, e dal desiderio di rispondere al meglio allo spirito del nostro beato fondatore Giuseppe Allamano.

Piccoli gruppi

L’Istituto desiderò che le nuove aperture realizzate dopo il Concilio fossero tutte di piccole dimensioni. Simili a quella del Sudafrica furono le altre nuove aperture di quegli anni: Etiopia, Congo (Zaire) e Venezuela. Il fatto di andare in piccoli gruppi, sebbene possa apparire un elemento di fragilità e povertà, offre innumerevoli risvolti positivi: una maggiore agilità nell’attuare scelte nuove e migliorare situazioni, crescita costante nella comunione e fraternità comunitaria, ricambio facile di personale nelle nostre presenze pastorali, maggiori possibilità di collaborazione con la Chiesa locale evitandole inopportuni condizionamenti.

Siamo coscienti che l’elemento comunitario gioca un ruolo importante nella nostra crescita personale e nello svolgimento del nostro servizio.

Grazie alla ricorrenza dei 50 anni dalla nostra apertura in Sudafrica, abbiamo avuto l’opportunità di ripercorrere il cammino fatto dai confratelli negli anni passati, e le scelte da loro operate. Tutto ciò ci può servire a confrontare la situazione attuale della nostra missione con il sogno che l’Istituto ebbe nell’avviare la nostra presenza in Sudafrica e nel corso di questi cinquant’anni. Ogni celebrazione giubilare, come desiderava il Beato Allamano, deve attingere ispirazione dalle origini e alimentare gli impegni attuali con lo sguardo sempre aperto al futuro.

Una comunità formativa

Pensando alla delegazione attuale del Sudafrica, non posso dimenticare di sottolineare il privilegio che abbiamo avuto accogliendo la comunità del seminario di Merrivale, e la responsabilità che abbiamo nell’assicurare ai nostri giovani missionari l’ambiente migliore per la loro crescita e maturazione vocazionale. Li sentiamo come parte integrante e importante della delegazione. Gioiamo con loro per le varie tappe che ogni anno essi raggiungono. Li accogliamo volentieri nelle nostre comunità durante le loro esperienze pastorali. Sperimentiamo con loro la bellezza del fare missione in Sudafrica anche se poi la maggioranza emigrerà in altre terre di missione. La convivenza con i missionari li spinge a rallegrarsi per la scelta missionaria fatta e a un impegno sempre maggiore nella loro ultima fase formativa di base.

In conclusione, voglio riaffermare la convinzione profonda che l’efficacia apostolica, e quella missionaria in primo luogo, è basata sulla testimonianza dell’amore che lega le persone che proclamano il Dio della misericordia.

Stefano Camerlengo


Breve racconto di cinquant’anni di presenza

Le sei «fasi» della storia

Dai pionieri Jack Viscardi e John Berté a Piet Retief, e dal loro lavoro «ponte» con le famiglie dei migranti mozambicani, all’arrivo nelle townships di Newcastle e poi di Pretoria e Johannesburg. Con l’attività pastorale e di formazione di leader. E poi l’apertura del seminario di Merrivale, per arrivare alla «figliazione» con la nuova missione nel regno di Eswatini.

Alla fine degli anni Sessanta, il Capitolo generale dei Missionari della Consolata accettò la richiesta di iniziare una presenza missionaria nella prefettura di Volksrust (oggi diocesi di Dundee). I padri Giovanni (Jack) Viscardi e Giovanni (John) Berté furono i primi ad arrivare il 10 marzo 1971. La prima missione fu Piet Retief. Per 24 anni essi diffusero il Vangelo in diverse zone, nel territorio oggi conosciuto come diocesi di Dundee.

Giovanni Berté, durante un’intervista che gli feci nel 1996, per il venticinquesimo, divise in quattro fasi il lavoro dell’Istituto nei primi 24 anni passati unicamente nel territorio della diocesi di Dundee. Trovandoli attuali, voglio riportarli qui di seguito.

I primi quattro passi

Primo. La prima tappa in Sudafrica fu nella Prefettura di Volksrust, guidata dal vicario monsignor Marius Banks. I missionari iniziarono a Piet Retief, poi gradualmente andarono a Ermelo (Damesfontein), Evander, Secunda, Embalenhle, Kriel, Standerton e Bethal. Un importante atto di consolazione fu quello di diventare ponte tra alcuni mozambicani, lavoratori delle miniere del Transvaal, e le loro mogli e figli in Mozambico. Questo fu possibile perché i missionari della Consolata erano presenti anche nel paese di origine dei migranti.

Secondo. Al momento della creazione della diocesi di Dundee (anni Ottanta), i missionari andarono nelle aree rurali di Pongola e Pomeroy. Ci fu l’idea di andare a Amakhasi, ma non si materializzò. Tutte le attività erano volte a enfatizzare la presenza della consolazione tra i poveri. In quel periodo i missionari aiutavano anche il vescovo nella parrocchia di Dundee.

Terzo. Nel 1991 i Missionari della Consolata, incoraggiati dal vescovo Michael Paschal Rowland, andarono nelle townships (città riservate ai neri) di Newcastle. Le energie spese al centro pastorale di Damesfontein per la formazione di leader e catechisti, con la nuova area pastorale, iniziarono ad essere utilizzate a beneficio dell’area densamente popolata del decanato di Newcastle. Presto i segni dei tempi chiamarono i missionari a focalizzarsi su progetti, raduni di studio e ritiri in aiuto dei malati di Hiv.

Quarto. Il 20 giugno 1995 si iniziò una presenza missionaria a Waverley e Mamelodi West rispettivamente un sobborgo e una township di Pretoria, capitale del Sudafrica. Qui uno degli obiettivi era rafforzare la consapevolezza della responsabilità missionaria nella chiesa locale, e formare giovani a diventare missionari della Consolata dal Sudafrica al mondo.

Avendo lavorato per molti anni in aree rurali, dai primi anni Novanta, consapevoli del fenomeno di urbanizzazione, i missionari della Consolata iniziarono una presenza in diverse townships, inizialmente nella diocesi di Dundee e successivamente nell’arcidiocesi di Johannesburg (Daveyton 2004). Molti giovani furono accompagnati nel loro discernimento vocazionale, le comunità parrocchiali pregavano per le vocazioni e una squadra vocazionale diocesana fu attivata nella diocesi di Dundee, dove religiose e religiosi, preti e clero locale potevano incontrarsi e pianificare periodicamente. Una squadra simile fu realizzata pure in Eastern Deanery, Pretoria. Sfortunatamente queste due squadre dovettero sciogliersi per mancanza di nuove forze, dopo la tragica morte del padre comboniano Giorgio Stefani a Pretoria (20 ottobre 2005), e di suor Anna Thole, delle Nardini Sisters, nella diocesi di Dundee (1 aprile 2007).

Due passaggi ulteriori

Il padre John Berté (andato in Paradiso il 5 gennaio 2005), all’epoca, non mi aveva menzionato altri possibili passaggi storici.

Voglio però aggiungere due passaggi successivi che reputo importanti.

Quinto. Grazie all’intuizione del consigliere generale per l’Africa, padre Matthew Ouma, il primo settembre 2008 ha aperto i battenti il seminario teologico interculturale di Merrivale (Kwa Zulu Natal), e un anno dopo è stata pure aperta la parrocchia St. Martin de Porres, Woodlands, nell’arcidiocesi di Durban. Il seminario è composto dagli studenti religiosi professi della Consolata originari di diversi paesi dell’Africa, ma non ancora da sudafricani.

Sesto. Un nuovo capitolo della storia dell nostro istituto in Sudafrica è iniziato nel 2016, con l’apertura della missione nel piccolo regno di Eswatini (che si scrive pure eSwatini, ndr), dove il missionario argentino José Luis Ponce de León è diventato il vescovo della diocesi di Manzini, l’unica nel piccolo regno.

Passato remoto

Voglio ricordare qui due momenti storici che hanno anticipato la nostra presenza in Sudafrica e hanno legato l’istituto al paese.

Nel 1940, 89 missionari della Consolata furono portati dagli inglesi in Sudafrica dal Kenya, come prigionieri di guerra italiani. Furono rinchiusi a Koffiefontein, cittadina mineraria nel Free State al centro del paese, per tre anni.

Nel 1948 alcuni missionari, invece, furono mandati dall’Italia all’Università di Cape Town, per specializzazioni o per accreditare i loro titoli di studio secondo il sistema britannico, prima di partire per Kenya e Tanzania come insegnanti.

Devo infine ricordare che, anche se l’Istituto è presente nel paese da così tanti anni, non c’è ancora un missionario della Consolata sudafricano, perché inizialmente l’obiettivo fu lo sviluppo della chiesa sudafricana, attraverso la promozione del clero locale.

Rocco Marra


Un missionario «senior» fresco di Sudafrica

Riflessioni dell’ultimo arrivato

Padre Mario Barbero è un missionario della Consolata di lungo corso. Questo significa che conosce molti confratelli del passato e del presente. In Sudafrica era stato solo per brevi visite, quando lavorava in altri paesi del continente. Da poco più di un anno si è trasferito a Pretoria, dove si sente l’ultimo arrivato. Ci racconta le sue avventure con il calore che sempre lo contraddistingue.

Non è la prima volta che vengo in Sudafrica, ma adesso sono arrivato con un regolare permesso di lavoro e con visto di residente. La prima volta venni nell’ottobre 2003 proveniente dalla Repubblica democratica del Congo assieme a una coppia congolese per prendere parte all’incontro panafricano del Marriage encounter. Dal 1978, infatti, faccio parte del Wwme (Worldwide marriage encounter, in Italia Incontro matrimoniale), movimento familiare internazionale e, dovunque ho lavorato, mi sono sentito sostenuto da coppie, sacerdoti, consacrate e consacrati di questa associazione.

Andavo a Johannesburg con una coppia di Kinshasa per prendere parte a una settimana d’incontro con coppie e sacerdoti di nove paesi africani impegnati nella pastorale familiare. In quell’occasione avevo chiesto al superiore delegato, padre Ponce de León (ora vescovo di Manzini in Eswatini), di poter prolungare di una settimana il mio soggiorno per visitare le nostre missioni in questo paese. Così nel giro di una settimana visitai quasi tutte le comunità dei missionari della Consolata nel paese. Fu con grande emozione che nei pressi di Delmas pregai sul luogo dell’incidente mortale dei padri Paolino Ferreira e Alexius Lipingu.

Una seconda visita in Sudafrica, sempre con visto turistico, fu più lunga, da dicembre 2007 a giugno 2008, un soggiorno di sei mesi nella parrocchia di Daveyton, nell’arcidiocesi di Johannesburg, come aiuto al mio amico padre Ettore Viada, compagno di studi a Roma.

Sebbene fossi prete da oltre quarant’anni, era la prima volta che mi trovavo in una parrocchia a tempo pieno, e fu molto bello. Quasi ogni giorno, accompagnato da un parrocchiano, visitavo le persone malate e gli anziani nelle loro case, leggendo sui loro volti la gioia nel ricevere la visita di un sacerdote e soprattutto la Comunione. Indimenticabile la scena di una signora anziana che, vedendomi arrivare, esclamò: «I am so happy, father!». Sabato e domenica prestavo servizio nelle chiese succursali di San Martin e San Lambert.

Tre giorni dopo il mio arrivo a Daveyton, mi chiamò la responsabile della pastorale familiare di Johannesburg per invitarmi a pranzo e per farmi conoscere un salesiano impegnato nella pastorale giovanile e dei fidanzati, naturalmente non me lo feci ripetere due volte.

In quei sei mesi ebbi anche la possibilità di prendere parte alla celebrazione del trentesimo anniversario del Marriage encounter in Sudafrica (iniziò nel 1978 come in Kenya) e di animare due fine settimana del programma Retrouvaille.

Inoltre, con padre Tarcisio Foccoli, mio compagno di ordinazione e superiore delegato dell’epoca, vissi un’altra esperienza memorabile: andare a Merrivale, nell’arcidiocesi di Durban, per vedere una casa che sarebbe poi stata la prima residenza del seminario teologico che si progettava di aprire (e che di fatto si aprì il primo settembre 2008): una novità molto importante per la nostra presenza sudafricana.

Sorpresa gradita

Nel mese di novembre 2019, mentre da tre anni risiedevo nella nostra comunità di Rivoli (To), il padre generale, Stefano Camerlengo, mi propose una nuova partenza per il Sudafrica, questa volta con regolare visto di residenza. Era la terza destinazione in Africa dopo il Kenya e la RdC, inframmezzati da due «parentesi» di dodici anni ciascuna, in Usa e in Italia.

Mentre preparavo i documenti per richiedere il visto regolare, cercai di rinfrescare le mie memorie sull’Istituto in Sudafrica cominciando dalla sua preistoria.

Infatti la prima presenza di missionari della Consolata nel paese non era stata pianificata dai nostri superiori o da una decisione di un Capitolo generale, ma dal governo inglese che allo scoppio della guerra nel 1940, senza tanti complimenti, vi deportò ben 89 nostri missionari che lavoravano in Kenya (foto sopra), i quali da un giorno all’altro si trovarono con l’etichetta di nemici di sua Maestà britannica. Questi nostri confratelli, con la laboriosità tipica dei missionari, durante quasi quattro anni nel campo di concentramento di Koffiefontein pregarono, studiarono, si tennero aggiornati sulla Bibbia e sulla teologia, tessendo anche relazioni con altri prigionieri italiani confinati con loro, aiutandoli anche a rinfrescare la loro pratica religiosa. Scorrendo il loro elenco vidi che li avevo conosciuti quasi tutti in Italia o durante i miei dodici anni in Kenya, e alcuni di loro (in particolare fratel Guido Grosso, indimenticabile formatore al Consolata seminary di Langata) mi raccontarono come si erano tenuti occupati in quel periodo.

Nel 1948 c’era stata poi una presenza Imc programmata per il Sudafrica: l’apertura, a Cape Town, di una «casa di studi» per i missionari destinati a frequentare corsi di specializzazione per insegnare nelle scuole, soprattutto in Kenya. Tra i tanti, non posso non ricordare qui padre Giuseppe Bertaina (ucciso in Kenya nel 2009), che avrebbe lasciato memoria indelebile, e padre Carlo Capone che si laureò in medicina (cosa rara per un prete a quel tempo, per cui richiese un permesso speciale dal Vaticano) e svolse poi un grande lavoro nel coordinare i servizi del Catholic Relief Services (la Caritas degli Stati Uniti, ndr) in tutta l’Africa.

Mi ricordo bene quando l’Istituto, dopo il Capitolo del 1969, decise di programmare nuove aperture anche per snellire la presenza massiccia nelle nostre zone storiche d’Africa: Kenya, Tanzania e Mozambico.

E così vennero, nei primi anni ‘70, la riapertura in Etiopia, e le nuove aperture in Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo), e in Sudafrica. Conobbi i due pionieri, i padri Giovanni Berté e Jack Viscardi, fin da quando erano ancora studenti di teologia a Torino.

Quanti nomi conosciuti

Per prepararmi all’arrivo in Sudafrica, padre Rocco Marra, attuale superiore delegato, mi inviò la lista di tutti i confratelli che dal 1971 fino all’ultimo (che sarei io, credo) erano stati destinati a questa delegazione. Per me, scorrere quell’elenco fu come fare un pellegrinaggio nella storia del nostro Istituto. Essendovi entrato da ragazzino nel 1950, avevo avuto modo di conoscere buona parte di quei 68 nomi che erano sulla lista: missionari dapprima solo italiani poi di varie nazionalità, che avevano lavorato qui per brevi o lunghi periodi, ognuno con le proprie caratteristiche, dando ciascuno il suo contributo in questa Chiesa durante i passati cinquant’anni. Quattordici sono già stati «trapiantati» sull’altra sponda dal Signore.

Guardando alla lista dei missionari e alle zone dove l’Istituto aveva lavorato notavo una certa mobilità, sia di personale, sia geografica. Molte missioni erano state iniziate e poi cedute ad altri. All’inizio c’era stata una concentrazione nella zona del Kwa Zulu Natal e Mpumalanga, dove poi era nata l’odierna diocesi di Dundee. In seguito erano venute le aperture nelle arcidiocesi di Pretoria (1995) e Johannesburg (2004). Sono stati passaggi da una sola diocesi a varie diocesi, da zone prevalentemente rurali ad aree urbane.

Le novità più rilevanti negli ultimi quindici anni furono l’apertura del seminario teologico di Merrivale (2008) e l’apertura di una comunità nello Swaziland/Eswatini (2016), con il vescovo, monsignor José Luis Ponce de León (già dal 2013). Mi sembrano, ancora oggi, due segni di vitalità e di coraggio: l’impegno «ad gentes» in Eswatini, e l’impegno nella formazione di missionari per il mondo.

La decisione di aprire un seminario teologico internazionale e interculturale fu un dono per la nostra piccola delegazione, non solo per contribuire a formare missionari per l’Istituto, ma anche perché la presenza di seminaristi missionari, dà un volto giovanile e dinamico al nostro gruppo. I seminaristi infatti trascorrono dei periodi di servizio nelle varie parrocchie portando una testimonianza dell’universalità della Chiesa. In dodici anni, il seminario di Merrivale ha «prodotto» diciassette sacerdoti missionari, che ora servono in dieci paesi di quattro continenti, ognuno portando qualche impronta di quanto ricevuto dalla società e Chiesa sudafricana.

Negli ultimi vent’anni il nostro gruppo di missionari della Consolata ha cambiato visibilmente composizione sia come provenienza che come età. Nei primi trent’anni di presenza in Sudafrica i missionari erano europei e latinoamericani, dopo, la maggioranza ha iniziato a provenire da paesi del continente.

La nostra è una delegazione giovane, con un’età media dei sacerdoti di 45 anni, quella dei seminaristi di 30 anni.

Chissà se i nostri primi missionari, arrivati in Sudafrica nel 1940 come prigionieri di guerra dal Kenya, avrebbero mai immaginato che in pochi decenni vari confratelli proprio del Kenya sarebbero stati le nuove forze della Consolata ad annunciare il Vangelo nel paese.

Covid relief projects

«Lockdown in Pretoria»

Sono arrivato in Sudafrica il 26 febbraio 2020, con uno degli ultimi voli Alitalia, Roma-Johannesburg, in tempo per concelebrare con padre Rocco la messa serale del mercoledì delle Ceneri. Un mese dopo, anche qui è scattato il lockdown e le chiese sono state chiuse alla partecipazione dei fedeli. La quaresima si è interrotta alla terza domenica, quando avevo appena conosciuto alcuni parrocchiani. Ho vissuto questi lunghi mesi come un regalo del Signore per prepararmi meglio al ministero parrocchiale, ricordando che «la preghiera è il nostro primo dovere». Per me la chiesa non era chiusa e potevo, non solo celebrare messa ogni giorno, ma anche passare un po’ più di tempo a pregare per i miei parrocchiani. Anche se non li conoscevo ancora, il Signore sapeva dove indirizzare le mie preghiere! Ho cominciato a comunicare con loro con messaggi whatsapp e con video quasi settimanali di commento alle letture liturgiche. Ho potuto apprezzare anche la generosità di famiglie che (come i corvi per il profeta Elia, in 1 Re 17,6) mi portavano da mangiare. Con il passare delle settimane ho migliorato la mia competenza culinaria e sono diventato sempre più esperto a preparare gli spaghetti al dente.

La parrocchia dove mi trovo, Queen of the most holy Rosary di Waverley, Pretoria (capitale della nazione), è la prima nostra presenza in città dal 1995. Nel 2020 era in programma la celebrazione del Giubileo d’argento (25 anni dalla fondazione). Naturalmente, a causa della pandemia, non si è fatta nessuna festa, se non il ricordo nella preghiera.

Il primo parroco della Consolata è stato padre Jack Viscardi, che era in comunità con padre Alexius Lipingu, tanzaniano, responsabile di St. Mary’s Mamelodi West, una parrocchia della township a mezz’ora di macchina da Waverley. I due confratelli prestavano il loro servizio pastorale nelle due parrocchie come coparroci.

Padre Alexius lo avevo accolto in seminario a Nairobi nel 1978, e accompagnato all’ordinazione nella sua parrocchia nel 1987. Destinato al Sudafrica nel 1993, era diventato superiore della delegazione, e nel 1999, a 43 anni, è morto in un incidente stradale. Mai avrei immaginato di diventare suo successore in questa parrocchia dove egli è ricordato con simpatia e gratitudine.

In questi 25 anni, vari confratelli di varie nazionalità si sono succeduti qui nel servizio pastorale. Oltre a padre Lipingu, altri due sono già in Paradiso, Jesus Ossa, colombiano, e Jack Viscardi. Li ho frequentati in Italia negli ultimi anni della loro vita: padre Jesus lavorava con la comunità latinoamericana a Torino e padre Jack era nella casa di Alpignano (To). Quando prego il rosario passeggiando su e giù nella chiesa del Santo Rosario e quando celebro la messa, quasi sento la loro presenza fisica nel mistero della comunione dei Santi a intercedere per i loro (ora miei) parrocchiani.

Mario Barbero

St. Gabriela Healin Center, a Mtubatuba: centro di prevenzione e cura dell’Hiv/Aids,


Il vescovo di Manzini indica i fattori di successo

Piccole comunità, grandi greggi

Piccoli gruppi missionari, anziché presenze ingombranti. E la capacità di aderire con dinamismo al mutare delle esigenze del contesto. Ma anche un’attività pastorale dominante, che ha favorito la formazione di leader della chiesa locale. Questi gli aspetti determinanti nei cinquant’anni di missione appena trascorsi.

Era il 1992 quando ho scritto a padre Giuseppe Inverardi, prima della fine del suo secondo mandato come superiore generale, chiedendo di essere destinato altrove. Da sei anni ero in Argentina, dove sono nato. Ero entrato nell’Istituto «per essere inviato» e non per rimanere. È vero che avevo anche la curiosità di sapere se sarei riuscito ad imparare un’altra lingua (avevo fatto il noviziato e la teologia in Colombia), e a inserirmi in un’altra cultura, diversa di quella dell’America Latina.

Durante una sua visita in Argentina lui mi ha chiesto: «Dove vorresti andare?». Anche se mi ero reso disponibile per andare in qualsiasi nazione, ho detto: «Preferirei un gruppo piccolo». Dietro la mia risposta c’era l’immagine delle nostre presenze dove, dopo tanti anni di servizio missionario, siamo cresciuti nel personale ma anche nelle strutture, cose che possono rendere più difficile una nostra disponibilità a rispondere alle nuove sfide.

Lui aveva già un’indicazione: «Abbiamo pensato al Sudafrica». Mesi dopo, nel 1993 sono stato ufficialmente destinato al Sudafrica dove sono arrivato all’inizio del 1994 dopo alcuni mesi passati a Londra per migliorare la lingua inglese.

Quasi trent’anni dopo, penso che quella intuizione sia stata importante.

La nostra presenza in Sudafrica è stata marcata da due elementi particolari: è sempre stata «piccola» nel numero dei sacerdoti missionari (la delegazione non ha mai avuto fratelli) e non è mai stata legata a una infrastruttura. Questo ha permesso ai missionari di spostarsi con facilità per dare una risposta alle diverse sfide.

È stato così che nel 1991, in risposta al vescovo della diocesi di Dundee, l’Istituto ha preso in consegna le parrocchie del decanato di Newcastle, per sviluppare un lavoro d’équipe secondo il nostro carisma missionario.

Qualche hanno dopo, nel 1994, è stata decisa la prima presenza fuori della diocesi di Dundee: due parrocchie nell’arcidiocesi di Pretoria (Waverley e Mamelodi) e nel 2003 la prima presenza nell’archidiocesi di Johannesburg.

La comunità dei professi è nata nel 2008 seguita da una parrocchia «a fianco» nell’arcidiocesi di Durban nel 2009, e poi una seconda parrocchia a Mamelodi (Pretoria) nel 2015.

Più tardi, nel 2016, è iniziata la presenza dell’Istituto nella diocesi di Manzini, nel Regno di Eswatini(*).

Quando guardo indietro vedo una grande dinamicità in un gruppo così piccolo e una grande capacità di risposta ai bisogni della diocesi e alle proposte dei vescovi.

Una presenza pastorale

Un altro elemento di questi 50 anni è che la nostra è sempre stata una presenza «pastorale». In molti luoghi sono state costruite delle cappelle o delle chiese, ma non c’è mai stato il bisogno di costruire delle scuole o centri di salute (realizzati questi dal governo). La nostra chiamata è sempre stata quella di creare o consolidare delle comunità, nella visita alle famiglie e nella formazione dei loro leader.

Per tanti anni, la Conferenza episcopale ha offerto corsi di formazione per i laici attraverso il centro pastorale Lumko. Ancora oggi ricordo quella volta in cui una delle incaricate del centro ha incontrato padre Pietro Trabucco, in visita in Sudafrica, e gli ha raccontato: «Voi, missionari della Consolata, non soltanto avete curato la formazione dei laici ma, in tutti i corsi, i religiosi erano seduti in mezzo alla gente. Anche loro hanno voluto essere formati insieme al popolo». Ed è vero. Diverse generazioni di missionari sono passate in Sudafrica, arrivate dall’Europa, dall’America Latina e dal resto dell’Africa, ma la cura della formazione dei laici è stata sempre presente nel cuore di ciascuno, forse nella consapevolezza che noi siamo di passaggio e sarà la gente del posto a portare avanti la crescita della chiesa.

L’anno scorso, un sacerdote diocesano al quale è stata affidata una delle nostre missioni, mi ha scritto dicendo: «Sono io oggi a godere dei frutti del lavoro dei Missionari della Consolata. Posso contare su leader preparati con grande cura».

Anche se tutto questo è parte essenziale della nostra identità, non è sempre facile vedere dei frutti quando si lavora in un contesto dove le chiese cristiane si moltiplicano come funghi, il senso di appartenenza a una chiesa è spesso debole, o quando uno dei laici formati sceglie di andare via e di dare inizio alla propria chiesa.

Ho sempre il ricordo di un incontro del nostro gruppo di missionari, una ventina di anni fa. Nella condivisione riguardo al nostro essere in Sudafrica era presente, in quasi tutti, la sensazione di non essere stati di grande aiuto alla chiesa locale. Io ero superiore delegato e ho guardato tutti in silenzio senza dire una parola. Eravamo già presenti in tre diocesi e i vescovi parlavano benissimo di tutti i nostri missionari, ma eravamo noi stessi a non riuscire a vedere l’impatto della nostra presenza.

Il Sudafrica è sempre una realtà molto sfidante, ed è soltanto la convinzione che è lo Spirito di Gesù risorto che si occupa dei frutti, la forza che ci guida e ci sostiene.

José Luis Ponce de León

 (*) Nota: dal 2018 lo Swaziland ha assunto il nome regno di eSwatini, ovvero terra degli Swazi. In questo dossier si è scelta la scrittura alternativa Eswatini.

foto dell’icona della Consolata che secondo una nostra tradizione e` stata donata dal Fondatore ai suoi missionari, conservata nell’ufficio di Mons. Luigi Santa, il quale l’ha data ai primi missionari che sono arrivati a Cape Town nel 1948, quando abbiamo aperto una casa per missionari destinati a fare corsi di specializzazione. Da Cape Town e` stata portata a Damesfontein, probabilmente nel 1981 e infine nell’attuale casa della delegazione a Waverley-Pretoria in aprile 2004.


Il partito di Nelson Mandela è spaccato in due

Alta tensione,  tra i figli di Madiba

Il presidente Ramaphosa cerca di fare pulizia nel partito al potere. Ma non è cosa facile, perché la corruzione è radicata e lui ha una maggioranza interna ristretta. Intanto la xenofobia verso gli immigrati africani non sembra diminuire. Anche a causa della crisi economica dovuta alla pandemia da Covid-19. Riuscirà il presidente nel suo intento? Ne parliamo con un esperto di Cape Town.

«Il presidente Cyril Ramaphosa sta facendo un buon lavoro, ma lentamente. Penso che non ci sia nessuno nell’Anc (African national congress, ndr) che potrebbe fare un lavoro migliore del suo, ma allo stesso tempo, lui non può fare il migliore lavoro di cui avrebbe le capacità, a causa del fatto che è in un partito molto diviso». Chi parla è padre Peter John Pearson, dell’arcidiocesi di Cape Town, contattato telefonicamente. Padre Pearson è incaricato dalla Conferenza episcopale del Sudafrica dei rapporti con il parlamento, ed è coinvolto in una dinamica democratica che prevede la partecipazione della società civile nella definizione di policy e nell’osservazione del lavoro legislativo.

L’African national congress è il partito al governo dalla fine dell’apartheid e le prime elezioni libere nell’aprile 1994. «È uno dei principali partiti che hanno portato alla liberazione del Sudafrica, non l’unico – ricorda padre Pearson -, ma quello con la storia più lunga. È molto vicino alla gente». In quelle elezioni vinse Nelson Mandela che fu presidente fino al 1999. Gli succedette Tabo Mbeki, sempre storico personaggio dell’Anc, per due mandati. Nel 2009 venne eletto Jacob Zuma, controverso personaggio, già indagato per corruzione quando era vicepresidente di Mbeki.

Zuma fu poi obbligato a dimettersi prima della fine del secondo mandato, nel febbraio 2018, per le pressioni dell’Anc, perché eraè coinvolto in troppi casi di corruzione.

L’Anc scelse Cyril Ramaphosa, diventato segretario generale del partito nel 2017, per sostituirlo. Alle elezioni generali del 2019 Ramaphosa fu confermato.

South African President Cyril Ramaphosa is briefed by a nurse before getting inoculated with a Covid-19 vaccine shot at the Khayelitsha Hospital in Cape Town on February 17, 2021. (Photo by GIANLUIGI GUERCIA / POOL / AFP)

La corruzione, «benefit» del potere

«L’Anc è fortemente diviso – spiega padre Pearson – tra chi pensa che il potere sia l’occasione per approfittare [per arricchirsi], come fecero i bianchi prima, e chi ha una visione diversa. Il precedente presidente, Jacob Zuma, è accusato di molti casi di corruzione e irregolarità negli appalti. Secondo una stima, a causa della corruzione, sia nel pubblico che nel privato, il paese avrebbe perso tre trilioni di rand (circa 170 miliardi di euro, ndr), una cifra molto elevata per un paese a medio reddito come il nostro. Ogni atto di corruzione è un furto ai poveri. Rubando questi soldi si è sottratto un enorme investimento in servizi sociali per la gente, casa, educazione».

Nel mondo della politica è difficile togliere la corruzione, perché chi è dentro si è abituato a beneficiare dei suoi frutti.

La fazione del presidente attuale non è nel filone della corruzione, ma di chi lotta contro essa. Ramaphosa, sindacalista prima e poi uomo d’affari, è stato molto attivo nella lotta anti apartheid. «Purtroppo è arrivato al potere con una maggioranza molto piccola, per cui se vuole fare qualcosa, lo deve fare a piccoli passi, altrimenti mette a rischio il suo futuro politico».

Ramaphosa lavora molto con le commissioni, che si occupano dei casi di corruzione nelle diverse istituzioni di governance: «Verificano ad esempio i flussi di reddito di persone con incarichi importanti. Per cambiare le persone, il presidente usa le commissioni, in questo modo non può essere accusato di favoritismi. Però il processo ha bisogno di più tempo. Intanto almeno non sacrifica il suo avvenire politico nel breve periodo».

Suo feroce oppositore è Ace Magashule, segretario generale dell’Anc che guida una fazione del partito legata a Zuma. «Il presidente ha chiesto a Mashule e altri di dimettersi dai loro incarichi di partito. Ma questi non ne hanno intenzione. Si andrà allo scontro che potrebbe arrivare alle aule del tribunale. È un momento molto delicato», sostiene padre Pearson. «C’è un gruppo di persone nell’Anc che difende la democrazia. Ci sono alcuni veterani del partito che dicono: “Questa gente sta buttando tutto quello per cui abbiamo lottato e siamo finiti in carcere”. Per cui appoggiano Ramaphosa affinché faccia pulizia».

«Fortunatamente in Sudafrica abbiamo istituzioni molto indipendenti: il sistema giudiziario, la stampa, la libertà accademica, il diritto di organizzarsi e criticare il governo. Sono tutte cose che stanno ancora funzionando molto bene. E noi come chiesa stiamo appoggiando queste istituzioni, affinché la democrazia resti forte».

Migranti africani? No grazie

Il Sudafrica, essendo una delle economie più importanti del continente, attira molti africani dei paesi confinanti, e non solo, alla ricerca di lavoro e di una vita migliore. Padre Pearson si occupa della tematica: «La legislazione e la Costituzione in Sudafrica su migranti, rifugiati e richiedenti asilo è abbastanza liberale, sulla carta. Nella pratica c’è la tendenza a ridurre le possibilità e i diritti della gente che viene nel paese. Non sappiamo quanti siano, ma si stima intorno ai 4 milioni da altri paesi africani, dei quali la maggior parte ha passato la i confini di stato illegalmente, evitando i posti di frontiera».

Atti di xenofobia ricorrente occupano spesso le cronache. «Le cause sono molte, tra le quali complesse ragioni storiche. Uno dei motivi è il lavoro. Il tasso di disoccupazione nel paese è di circa il 32%, ovvero una persona su tre non lavora, senza contare i sotto occupati, che sono un’altra categoria. La gente pensa che i pochi lavori che ci sono siano minacciati dai migranti, i quali sono disposti a lavorare per salari più bassi e per più tempo, non appartenendo a sindacati. In realtà analisi e studi mostrano che non è esattamente così», sostiene Pearson.

«Anche a livello governativo, ci sono molti segnali, nelle politiche e nelle leggi, di chiusura verso gli stranieri, principalmente nei confronti degli africani. Per un europeo o un indiano, venire a vivere in Sudafrica non è così difficile, mentre per un nero africano sì. La chiamiamo esclusione strisciante, ovvero attuata poco alla volta».

Molti migranti fanno dei lavori, creano piccoli business, come la vendita di bevande e frutti per strada, altri hanno competenze e trovano lavoro in aree nelle quali i sudafricani non sono qualificati. «Vengono nella speranza che qui le cose siano un po’ migliori, perché nei loro paesi se la passano male, ad esempio in Zimbabwe. Sappiamo che ci sono circa due milioni di zimbabwesi che vanno e vengono dal Sudafrica. Alcuni lavorano sei mesi poi tornano indietro. Prendono i rischi per venire qui, perché nel loro paese non c’è nulla. Molti migranti però arrivano e non trovano lavoro, così aumentano il numero dei poveri», conclude padre Pearson.

La pandemia che preoccupa

Il lockdown a causa della pandemia è stato rigido in Sudafrica e solo adesso è meno restrittivo. «La pandemia è sotto controllo ma c’è molta preoccupazione per una terza ondata, a causa delle varianti e della stagione invernale che si avvicina», indica padre Pearson, «inoltre è chiaro che l’economia non può affrontare un altro lockdown duro».

Il nostro interlocutore termina con un monito: «L’anno prossimo ci sarà il congresso dell’Anc. Ramaphosa dovrebbe essere rieletto dal partito. In quell’occasione i falchi sperano di farlo fuori».

Marco Bello

Covid relief projects


Pennellate di Sudafrica

Il Sudafrica si trova all’estremo Sud del continente africano. I primi europei a toccare le coste di questo paese, grande quattro volte l’Italia, furono i portoghesi nel 1487. Da allora se ne servirono come scalo obbligato gli inglesi, i francesi e gli olandesi diretti verso oriente. I primi che ne rivendicarono il possesso, costruendo una base fortificata, furono i coloni olandesi che arrivarono a Città del Capo nel 1652. Essi cominciarono subito a espropriare la terra agli indigeni (Boscimani e Ottentotti).

Questi coloni, con 200 ugonotti francesi, formarono la comunità boera, che cercò poi l’indipendenza dall’Olanda.

Nel 1795 l’Olanda, occupata dalla Francia, chiese aiuto all’Inghilterra, e questa decise di occupare una parte del Sudafrica. Seguirono poi lunghe tensioni e guerre fra boeri e inglesi che si conclusero con la vittoria di questi ultimi. Nel frattempo in Inghilterra avveniva la rivoluzione industriale e le fabbriche necessitavano di molti minerali: l’Africa del Sud poteva darglieli.

I coloni, padroni di tutte le miniere, avevano però il problema della manodopera. La popolazione africana viveva ancora esclusivamente di agricoltura. Il governo locale, composto di soli bianchi, emanò delle leggi fatte apposta per costringere la popolazione a lasciare le terre e andare a lavorare in miniera. Così però i raccolti diminuirono e le famiglie s’impoverirono. Dall’Asia poi, soprattutto dall’India, arrivarono in cerca di lavoro numerosi immigrati.

Agli inizi del XX secolo, i bianchi decisero, sulla base di conquiste militari, di impadronirsi di quasi tutta la terra dei neri.

Nel 1951 si sancì la divisione dei bianchi dal resto della popolazione, e poi la separazione degli africani in gruppi linguistici. Nacque così l’apartheid: un’astuta struttura politica che assicurava alla minoranza bianca di avere il dominio su tutto il paese e sulla maggioranza nera.

Nel 1991, grazie anche alle pressioni internazionali, il governo del Sudafrica si aprì alla formazione di un governo di transizione multietnico e nel 1993 fu pubblicata una bozza della Costituzione per l’abolizione di ogni forma di discriminazione. Con le elezioni popolari del 1994, il paese iniziò a respirare una nuova aria di libertà e tranquillità, sotto la guida del presidente Nelson Mandela. La strada percorsa è stata lunga, ma il Sudafrica di oggi è un paese pacifico, affrancato dal suo passato e consapevole del suo potenziale economico.

Economia

Le potenzialità economiche del Sudafrica sono impressionanti. Tra di esse, una delle principali è il settore minerario che produce il 30% delle entrate totali di valuta straniera. Grazie a esso il Sudafrica è uno dei paesi più ricchi al mondo e le sue compagnie di estrazione sono molto importanti e di notevoli dimensioni (sono presenti vasti giacimenti di oro, zinco, uranio, platino, piombo, ferro, argento e miniere di diamanti).

Molto importanti sono l’industria chimica, della lavorazione della plastica e l’industria dei mezzi di trasporto. Quest’ultima ha registrato una crescita pressoché continua anche grazie alle società multinazionali dell’automobile attratte dagli incentivi del governo di Pretoria. La Fiat, ad esempio, ha avviato nel ’99 la produzione in Sudafrica delle sue automobili destinate ai mercati emergenti.

Un altro settore importante è quello agricolo che ha notevoli potenzialità, data la grande estensione di terreno coltivabile e un clima temperato. I prodotti del Sudafrica stanno ora conquistando i maggiori mercati africani, e non solo.

Altri due settori sono quello delle attrezzature mediche, in forte espansione grazie all’estensione dei servizi sanitari alla popolazione nera, e quello dei sistemi di sicurezza, provocato dalla piaga, purtroppo molto diffusa nella realtà sudafricana, della criminalità.

Il visitatore straniero è subito colpito dagli alti muri di recinzione e dai fili elettrici che circondano le abitazioni della popolazione bianca e delle fabbriche. Con la fine dell’apartheid, nel 1994, i bianchi hanno abbandonato i centri cittadini delle principali città andando a insediarsi nelle periferie che nel tempo si sono trasformate in confortevoli centri residenziali e commerciali. La popolazione di colore invece ha intrapreso il percorso inverso, uscendo dalle townships in cui era stata relegata (anche se tuttora esse sono vicine alle grandi città e mostrano dimensioni impressionanti) per occupare i centri città svuotati.

Il turismo è un’altra realtà importante e ancora poco sviluppata in rapporto al potenziale esistente: i parchi a Nord di Johannesburg, la natura tropicale e il mare dell’area di Durban, la bellezza di Città del Capo con i vigneti a perdita d’occhio, le montagne dolomitiche, una fauna e una flora che lasciano senza fiato, sono solo alcuni aspetti che testimoniano la varietà della bellezza di questo paese.

Alle prospettive positive esistenti nel campo economico e politico, si oppongono però aspetti negativi, che gettano un’ombra sulle speranze di sviluppo di questo paese: l’altissimo livello della disoccupazione (32%), diffusa soprattutto nella popolazione nera, la scarsa formazione dei lavoratori, una situazione sociale con una forte disparità, la criminalità dilagante, la piaga dell’Aids che pare colpisca circa il 18% della popolazione.

Pietro Trabucco

 

Padre Benedetto Bellesi che ha servito in Sudafrica per molti anni e poi redattore e direttore di MC

Hanno firmato il dossier:

Archivio MC

 

 

 




Non voglio abituarmi

Testo di García Fernández P. Andrés |


Non voglio abituarmi.

No, non voglio.

Quando ogni giorno si sentono sparatorie accanto alla casa;
quando ogni giorno vedi decine di persone mangiare accanto ai topi, letteralmente, dai sacchi della spazzatura rotti che giacciono sui marciapiedi della capitale;
quando nelle code degli uffici o dei negozi, o dei mezzi pubblici si vedono solo volti tristi e stanchi, vestiti rammendati;
quando, nella capitale, l’acqua arriva nelle case dopo una o due settimane;
quando lo stipendio mensile di un impiegatonon è sufficiente per comprare solo quattro pagnotte.

Giorno dopo giorno… al punto che sembra (che tutto questo debba) essere normale.

Distribuzione di cibo a Carapita, periferia di Caracas, Venezuela (foto AfMC / James C. Patias)

No, non voglio abituarmi.

Non voglio abituarmi alla paura di parlare, perché perdi il lavoro e la borsa di cibo che potresti ricevere una volta al mese (dopo aver trascorso vari mesi nei canali del Delta Amacuro) …

Non voglio che la mia coscienza veda normale il contrabbando come l’unica alternativa per ottenere sapone e dentifricio, se non vuoi passare una settimana a remare (da villaggio sul fiume alla città più vicina, ndr) per vedere se il bonus che il governo offre per questo è arrivato …

Non voglio abituarmi a veder morire di tubercolosi persone lasciate abbandonate perché non possono arrivare in città…
Non voglio abituarmi a vedere bambini, giovani e adulti privati della possibilità di studiare per mancanza di quaderni e altro materiale didattico, per mancanza di libri, per mancanza di un salario degno per gli insegnanti…

Non voglio abituarmi a sentire ogni giorno che “gli altri sono i colpevoli”, gli altri non ci lasciano, gli altri…

Non voglio abituarmi a pensare che il corona-virus sia da incolpare per tutto, anche di quello che continua a non funzionare come (non funzionava) prima (del virus)…

Né voglio abituarmi a vedere la resilienza di così tante persone.

Caracas, coda per comperare cibo (Jaime C. Patias /AfMC)

Voglio rallegrarmi per ogni persona che si rialza, per ogni tentativo, per ogni sospiro di speranza.

Voglio sognare di nuovo con ogni sorriso, con ogni carezza, con ogni sforzo.

Voglio che si imprima a fuoco nella mia anima la gioia di quella bambina che dice alla mamma di sapere già le vocali e del suo fratellino più grande che, con espressione di trionfo, mi dice che lui sa già leggere e scrivere.

Voglio continuare ad emozionarmi nel vedere due anziani camminare per strada mano nella mano, innamorati; e ascoltando quei giovani fidanzati che sognano come sarà la loro famiglia, la loro storia d’amore.

Voglio rimanere senza parole di fronte alla bellezza del fiore che cresce umilmente completando con il suo colore e profumo la sinfonia della giungla e anche davanti a quella che cresce in città…

Voglio sentirmi una sola cosa con l’universo nel bel mezzo della tempesta e quando la leggera brezza mi accarezza…

Voglio fremere con ogni persona che sogna una nuova umanità e impegnarmi per ogni persona che costruisce giustizia e pace con il suo stile di vita e anche con chi lo fa attraverso i movimenti sociali e i tribunali…

Voglio gioire per tutti gli sforzi fatti in favore della riconciliazione delle persone e dei popoli.

Voglio cantare con ogni persona che si rialza dopo ogni caduta, cercando di essere migliore.

Voglio dirvi che oggi migliaia di persone si sono riconciliate, che sono nati migliaia di bambini, che centinaia di migliaia di innamorati si sono baciati (sì, anche nella quarantena), che centinaia di popoli continuano ad organizzarsi per riprendere i loro diritti, per recuperare la loro storia, le loro terre, la loro cultura, la loro dignità …

Oggi, anche oggi, come ieri e come domani, l’amore continua a vincere e a generare vita in tutto l’universo.

Voglio dirvi quello che già sapete: che Dio è Amore e che lui vince sempre e per sempre. Non lo vedete?!

García Fernández P. Andrés, aprile 2021
da Nabasanuka Comunidad Apostólica, diocesi di Tucupita, Venezuela

Bambini Warao ( AfMC)




Viaggiare e rinascere

Viaggiare e rinascere

Questo mese affrontiamo il tema del viaggio attraverso tre libri molto diversi tra loro. Partendo dall’isola di Manus, a Nord della Papua Nuova Guinea, vero inferno dei migranti, passando dal Kenya, visto dagli occhi innamorati di un missionario, oggi vescovo di Asti, arriviamo alle nostre città che inquinano di luce il cielo della notte.

Nessun amico se non le montagne

L’isola di Manus è la quinta per grandezza della Papua Nuova Guinea. Gli australiani, com’è noto, in tema di accoglienza di profughi e immigrati, usano politiche al limite della barbarie, e hanno stretto un accordo con il governo papuano per fare di Manus un campo di detenzione.

Da quella prigione si esce solo se si accetta di tornare nel paese d’origine, diversamente si rimane lì. A tempo indeterminato, senza diritti, tutele, possibilità di riprendersi in mano la propria vita.

Le condizioni di detenzione sono disumane. Lo hanno certificato decine di indagini indipendenti, e il governo australiano fatica a mettere la polvere sotto il tappeto.

Il poeta curdo iraniano Behrouz Boochani ha passato a Manus cinque anni, finché la pressione internazionale gli ha fatto ottenere un visto temporaneo per la Nuova Zelanda.

Usando un vecchio telefonino e una singhiozzante copertura internet, Boochani, che oggi ha 37 anni, sms dopo sms, messaggio Whatsapp dopo messaggio, che inviava ad amici e colleghi, ha scritto un memoriale. Ha raccontato la sua vita nell’isola, la quotidianità del campo di detenzione, le storie dei compagni di viaggio e di prigionia.

La summa di tutto ciò è un libro che Add Editore ha pubblicato nel 2019 e che si intitola Nessun amico se non le montagne.

Quattrocentotrenta pagine molto dense, toste da leggere. E lo sono per due motivi: in primo luogo, Boochani è innanzitutto un poeta, e il suo sguardo, anche dal profondo degli inferi, rimane visionario, capace di crudezza e levità nello stesso verso. In secondo luogo, i versi di Nessun amico se non le montagne sono un lungo messaggio digitato dal telefonino: non c’è manoscritto, carta, penna, computer, stampante. Solo le sue dita su una piccola tastiera da tenere lontana dagli occhi delle guardie.

Un paradiso terrestre coperto di giungla e contornato da spiagge bellissime, può essere un inferno, e nessuno lo sa.

Dove Dio ha nome di donna

Avviciniamoci un po’, e arriviamo in Africa, nel Kenya di un sacerdote fidei donum torinese oggi vescovo di Asti, una diocesi con radici nel IV secolo d.C.

Monsignor Marco Prastaro è nato a Pisa nel 1968, ma è torinese d’adozione. È stato ordinato sacerdote nel 1988 dal cardinale Ballestrero, e inviato in Kenya, nella parrocchia di Lodokejek, dal card. Saldarini.

Ha lavorato nella diocesi di Maralal, 350 chilometri e 5 ore di fuoristrada a Nord di Nairobi. Un’esperienza africana che si è conclusa dieci anni fa, ma che ancora oggi porta i suoi frutti. Uno di questi è Dove Dio ha nome di donna, edito dall’Editrice missionaria italiana.

«Alcune esperienze […] segnano in modo permanente la vita – scrive mons. Prastaro -. La plasmano, la cambiano, a volte […] la trasformano completamente. Alla fine ci si ritrova un’altra persona. Questa è la resurrezione, che è sempre ingresso in una vita nuova».

A metà strada tra il diario e il recupero della memoria recente, il libro del vescovo di Asti ha un gran merito: è limpido, senza retorica, senza alchimie. È lo specchio di ciò che è la vita missionaria: un incontro tra culture lontane, che hanno bisogno di tempo per comprendersi, entrare in sintonia e dare frutto.

«Nel dicembre del 1997, per la prima volta pensai alla missione. Era appena rientrato per motivi di salute uno dei due preti della nostra missione diocesana di Lodokejek e, pensando a don Adolfo, rimasto lì da solo, mi dissi: “Qualcuno deve pur andare ad aiutarlo […]. Magari potrei andarci io”.

A volte le scelte sono più semplici di quanto uno possa immaginare. E così don Marco si ritrova tra i Samburu a condividere con loro una quotidianità molto complessa: il flagello della siccità che porta al limite la resistenza fisica e mentale, la diffusione dell’Aids, le centinaia di gravidanze indesiderate di donne bambine, il filo troppo sottile che separa la vita e la morte, il senso d’impotenza e rabbia di fronte a un bambino che muore di malaria perché non sei arrivato con quelle due pastiglie che gli avrebbero salvato la vita. E poi quella rassegnazione delle popolazioni locali, che impari a comprendere solo con il tempo.

Nel libro di Prastaro non ci sono risposte, ma il percorso di un uomo bianco che nel cuore dell’Africa cambia e rinasce.

Cieli neri

L’ultimo tratto del viaggio è a casa nostra, o quasi, e ha un altro orizzonte: il cielo.

Irene Borgna, giovane antropologa e guida montana con la passione per la scrittura, ha pubblicato da pochissimo Cieli neri. Come l’inquinamento luminoso ci sta rubando la notte, per Ponte alle grazie.

Savonese, trasferitasi in Valle Gesso, in provincia di Cuneo, con questo libro pone l’accento su un aspetto della nostra vita contemporanea, apparentemente marginale, ma legato al tema serio del cambiamento che la Terra sta subendo: se alziamo gli occhi al cielo non vediamo più le stelle.

A metà strada tra la lettura romantica della notte e l’analisi scientifica di un fenomeno naturale che scompare, Irene Borgna, a bordo di un camper, va a caccia delle aree del Nord Europa nelle quali, di notte, si può ancora essere travolti dal cielo stellato.

«La pianura Padana – scrive Irene – è tra le aree più abbagliate e abbaglianti dell’intero pianeta. […] Nessun italiano può dire di godere di una notte intatta […] otto italiani su dieci non riescono a scorgere la Via Lattea da casa propria».

La luce e il buio dettano i ritmi della vita, alterarli è una pessima idea. Esistono iniziative che cercano di portare il tema all’attenzione del grande pubblico. Irene Borgna invita il suo lettore: «Passa all’azione. Controlla che le luci di casa siano ineccepibili. Se quelle dei tuoi paraggi non ti convincono, consulta la documentazione e la normativa regionale […] sul sito cielobuio.org […], poi chiedi un consiglio su come iniziare a riconquistare la notte».

Il cielo più buio, e quindi luminoso, d’Europa, Irene lo trova. Per scoprire dove, vale la pena leggere il suo libro.

Sante Altizio




Marsabit: Da «maisha magumu» a «maisha mazuri»

testo di Giuseppe Inverardi e Gigi Anataloni |


Dal 30 ottobre scorso non abbiamo più la franca risata e gli occhi allegri di monsignor Ambrogio che è stato per 25 anni vescovo della diocesi di Marsabit in Kenya. Ora dal cielo continua l’opera di intercessione già iniziata nel santuario della Consolatrice sul monte di Marsabit.

Lo ricordo bene quel giorno. Ero in noviziato, quando il 9 febbraio 1957 ci fu comunicato che tre nostri confratelli venivano ordinati sacerdoti a Washington. Uno di loro era padre Ambrogio Ravasi. Erano stati i primi ad essere inviati a studiare teologia alla Catholic University of America. Un atto coraggioso e lungimirante da parte della Direzione generale di allora. L’interculturalità, anche teologico accademica, faceva capolino.

Ambrogio Ravasi, sacerdote, e missionario. Il sacerdozio missionario ha caratterizzato tutta la sua vita. Aveva cuore e spirito pastorale anche quando era occupato in altre attività e in uffici amministrativi. Sia a Buffalo, che a Somerset, tutti potevano contare sulla sua pronta disponibilità per vari servizi religiosi. Era gioia per lui.

Consacrazione e piscopale di mons Ambrogio Ravasi a bellusco, suo paese natale, da parte del card Otunga e dei vescovi Gatimu e Njenga dal Kenya.

Un uomo gioioso

Consacrazione episcopale di mons Ambrogio Ravasi a Bellusco.

Gioia, semplicità, serenità lo connotavano. Tutti ne venivano toccati e ne parlavano con ammirazione. Accoglieva e accomiatava con sorriso di cordialità.

Conosco pochi missionari poliedrici come lui, per obbedienza, o necessità, o carisma. Negli Stati Uniti è stato insegnante, maestro dei novizi, primo superiore e formatore del seminario di Buffalo, poi superiore delegato, quindi incaricato della direct mail (il servizio di corrispondenza con i benefattori, ndr), e anche direttore della rivista Consolata missions.

Visse un episodio drammatico come maestro dei novizi, fortunatamente senza conseguenze. Un novizio, veterano di guerra, all’improvviso impazzì. Brandendo un coltello minacciò padre Ravasi. Non so con quali convincenti parole lo dissuase, ma fu salvo.

1971, in Kenya

Nel 1971 raggiunse finalmente il Kenya, una destinazione attesa da anni, per svolgere esplicita attività missionaria. Il suo desiderio fu però tradito. Lo mandarono subito come insegnante e cappellano al Teacher’s college di Egoji, diocesi di Meru, dove svolse un apostolato significativo tra i giovani studenti che si preparavano a essere insegnanti.

Dopo soli tre anni, fu eletto vice superiore regionale dei missionari in Kenya, un servizio a tempo pieno. Rifiutata la rielezione nella speranza di poter finalmente essere inviato nei villaggi più remoti, dal 1977 al 1981, come l’Allamano, dovette accettare la «parrocchia più grande», e divenne superiore e formatore dell’incipiente seminario dei missionari della Consolata a Langata, alla periferia di Nairobi.

Erano i primi passi in Africa della formazione di missionari nativi del paese, attraverso gli studi di filosofia prima, e il noviziato e gli studi teologici poi.

Il «nuovo» doveva inserirsi sull’albero della tradizione del carisma, e la tradizione doveva accogliere il nuovo culturale. Un futuro inedito ma promettente di fecondità. Padre Ravasi ne era convinto.

La formazione nel nuovo contesto richiedeva discernimento, pazienza, fiducia, apertura, realismo. E se l’educazione, come afferma don Bosco, è un’arte dell’amore, tanto più lo era nelle nuove circostanze. Padre Ravasi possedeva i necessari requisiti, e li esercitava con intelligenza e cuore. Quante conversazioni e considerazioni assieme ai suoi cooperatori formatori, alle quali partecipavo pure io (padre Inverardi, allora superiore generale, ndr), per tracciare un cammino illuminato.

Mons Ambrogio Ravasi in dialogo con donne samburu all’inaugurazione e benedizione della nuova chiesa di Lodokejek.

Nel 1981, vescovo

Le voci della candidatura di padre Ravasi a vescovo di Marsabit già circolavano. La supposizione divenne certezza quando nel 1981 a Roma, durante il Capitolo generale dei missionari della Consolata, il cardinal Angelo Rossi, prefetto di Propaganda Fide, si appartò con lui e gli parlò a lungo. Doveva far breccia nella sua resistenza. Alla fine padre Ambrogio, per obbedienza, accettò. Vescovo di Marsabit.

La consacrazione avvenne il 18 ottobre, vigilia della giornata missionaria mondiale, al suo paese, Bellusco (allora nella provincia di Milano) per le mani di ben tre vescovi africani: il cardinal Maurice Otunga di Nairobi e i vescovi Cesare Gatimu di Nyeri e John Njenga di Eldoret.

2002 a Tuthu, mons Ravasi durante la celebrazione del primo centenario della presenza dei missionari della Consolata in Kenya.

La diocesi nata grande

Marsabit è la diocesi creata dal nulla nel 1964 per mons. Carlo Cavallera, quando lodevolmente si dimise da vescovo di Nyeri per passare la mano al primo vescovo keniano, mons. Cesare Gatimu, suo ausiliare dal 1961.

Il Marsabit del deserto, delle strade impolverate, delle distanze interminabili, degli shifta (banditi guerriglieri somali, ndr), dei gruppi etnici in conflitto tra loro per le scarse risorse, delle difficoltà a non finire. Lo zelo e l’intraprendenza di mons. Cavallera avevano fatto fiorire il deserto già a cominciare dal 1952. Allora, in piena ribellione Mau Mau, aveva incoraggiato i suoi missionari a entrare nelle terre del Nord, formalmente parte della sua diocesi di Nyeri, ma chiuse ai missionari dal potere coloniale inglese, per visitare i campi dei prigionieri politici a Baragoi. Più tardi entrarono per assistere le piccole comunità di cattolici che già esistevano nei centri principali dove c’erano funzionari governativi e commercianti originari da Goa in India.

Erano sorte, così, missioni in luoghi strategici con i loro addentellati di evangelizzazione e promozione umana: asili, scuole, dispensari, pozzi. Più tardi aveva iniziato a Maralal la scuola per catechisti e il seminario, il Good Sheperd seminary, per la formazione di sacerdoti dai popoli nomadi.

Inaugurazione e benedizione della nuova chiesa (ancora incompleta) della cappella di Lemsigiyioi a Suguta Marmar, voluta da padre Luigi Andeni e benedetta da mons Ambrogio Ravasi.

Impegno continuo

Non era facile subentrare a mons. Cavallera. Tuttavia, con personalità e stile diverso, mons. Ravasi continuò a far crescere la diocesi, sì da portarla alla sua «moltiplicazione». Nel 2001 nacque la diocesi di Maralal (circa 21mila km2), con mons. Virgilio Pante come primo vescovo, nel distretto Samburu a Sud, lasciando ancora a Marsabit un territorio di oltre 80mila km2 al Nord.

Il vescovo, ricco di umanità ed energia, era molto vicino ai missionari e missionarie e alla gente. Affrontava sfide e situazioni difficili con invidiabile serenità. Vedeva bene i problemi, e sapeva comprendere e accompagnare. Sempre dialogante, ma determinato ed energico quando necessario. Reagiva, agiva, decideva. Forte la sua voce, più forte il suo carattere.

Era un eccellente comunicatore. Scriveva moltissime lettere. Sia a Somerset quando, incaricato della direct mail, era a contatto con i benefattori, sia dopo. Le sue lettere non erano corte, perché ricche di notizie.

Io non ho mai convissuto con lui nella stessa comunità. Ma eventi, circostanze e attività ci hanno messi vicini sia negli Stati Uniti che in Kenya, e dopo. Vicini… è dire nulla. Vicini e fratelli. Abbiamo condiviso riflessioni, decisioni, cammini. La sintonia di convinzioni e valori era perfetta. Era sempre una gioia incontrarsi e ricordare. Askofu (vescovo) Ravasi, un autentico missionario dalla Consolata.

Vescovo emerito

Raggiunti i limiti di età, nel 2006, ha dato le dimissioni e la diocesi è passata sotto la cura di mons. Peter Kihara che, da buon missionario della Consolata, ha lasciato la più centrale diocesi di Muran’ga con i suoi agricoltori montanari kikuyu per stare con i pastori delle savane e deserti del Nord.

Il vescovo Ravasi, ormai emerito, ha chiesto allora, e ottenuto, di poter restare nella diocesi che ha tanto amato e, dopo un anno nell’episcopio, conscio del rischio di essere una presenza difficile per il suo più giovane successore, si è trasferito nel «Maria Mfariji house of prayer shrine» (Maria Consolatrice casa di preghiera e santuario), da lui fatto costruire in cima ai monti di Marsabit, per poter fare quello che sentiva ormai essere il suo servizio principale alla «sua sposa»: pregare.

Al Maria Mfariji shrine di Marsabit presso la tomba di padre Paolo Tablino.

Maria Mfariji Shrine

Il santuario della Consolata consolatrice (Mfariji è colei che dona consolazione, faraja, ndr), a 1.500 metri, è adagiato sulla montagna alle spalle della cittadina di Marsabit. È la realizzazione di un sogno di mons. Carlo Cavallera che voleva ringraziare la Consolata per le meraviglie operate in quella regione, a partire da quella che lui considerava la miracolosa apertura di quei territori «proibiti al Vangelo».

Diventando vescovo, mons. Ravasi aveva fatto suo quel progetto, ma per venti anni, altre priorità come scuole, acqua, salute, lotta alla fame e povertà, nuove missioni, i catechisti, il seminario e l’impegno per la convivenza pacifica tra i diversi gruppi etnici, avevano assorbito tutte le sue forze.

L’anno giubilare del 2000 ha dato un nuovo stimolo all’antico sogno. Trovato un architetto italiano disposto a sognare con lui, ha coinvolto i santuari in tutta Italia a dargli una mano e, intanto, ha maturato l’idea di costruire non solo un santuario per ringraziare la Madre di Dio, ma soprattutto un centro di preghiera e formazione per tutta la diocesi. Il tutto arricchito dal «safaria ya imani» (il viaggio della fede), quarantatre grandi quadri che presentano la storia della Salvezza e sono una calamita che attira tanti visitatori. Un luogo con una comunità residente che prega e insegna a pregare. Sia con l’esempio della vita che attraverso incontri, ritiri, lectio divina e quanto altro può aiutare a vivere più profondamente la propria fede.

Iniziata la costruzione nel 2002, il santuario è stato inaugurato nel 2006 e poi ampliato con una piccola casa del pellegrino per coloro che desiderano fermarsi per qualche giorno di ritiro.

Gennaio 2009, nel Consolata shrine di Nairobi al funerale di padre Giuseppe Bertaina.

Come Mosè sul monte

L’amore alla Consolata lo aveva indotto a costruire quel santuario, una meraviglia per l’ancora giovane chiesa del Marsabit.

Lui ci aveva creduto. Per questo nei suoi ultimi anni è rimasto lassù, su quel monte, come Mosè con le mani alzate a intercedere per il suo popolo. Là, accanto alla tomba di un altro grande pioniere del Nord, padre Paolo Tablino, il suo corpo ora dorme un sonno eterno di pace, ma veglia in intercessione per la chiesa del Marsabit, che ha servito con il prodigo amore del Buon Pastore.

«Maisha magumu»

Caro Ambrogio, con benevola facezia più volte esclamavi «maisha ni magumu» (la vita è dura). Vero. Tanti ripetevano scherzosamente il tuo ritornello. Vita dura: sfide, difficoltà, problemi. Ma pure sogni e progetti. Non ti arrendevi. Quante realizzazioni. Ora non farai più lunghi viaggi faticosi. Solo riposo. Non più deserto, ma i prati ubertosi di una «maisha mazuri» (vita bella e buona) che il Buon Pastore ti dona in premio. A te, servo umile e fedele.

Giuseppe Inverardi
a cura di Gigi Anataloni

Mons Ravasi ritratto ai piedi della croce in uno dei 43 grandi dipinti sulla storia della Salvezza al Maria Mfariji shrine di Marsabit.


Dai campi della Brianza alle savane del Kenya

  • 1929: nasce a Bellusco il 17/02, da Nazzareno e da Stucchi Maria.
  • 1935-1941: frequenta le scuole elementari a Bellusco.
  • 1941-1943: a Vimercate, la scuola di Avviamento al lavoro.
  • 1943-1945: sospesi gli studi, aiuta i genitori nel lavoro dei campi; sono gli anni più duri del secondo conflitto mondiale.
  • 1945-1947: a 16 anni entra, a Montevecchia, tra i missionari della Consolata per iniziare gli studi ginnasiali.
  • 1947-1952: prosegue gli studi alla Certosa di Pesio (Cuneo), con l’anno di noviziato e la professione religiosa il 10/11/1951.
  • 1952-1953: anno di filosofia a Torino.
  • 1953-1957: destinato agli Stati Uniti, si laurea in teologia presso l’Università Cattolica di Washington; il 9/02/1957 è ordinato sacerdote dal delegato apostolico Amleto Cicognani, sempre a Washington.
  • 1957-1971: nei 14 anni di permanenza in Usa, riveste diversi incarichi: dal 1957 al 1963 si dedica alla formazione nei seminari di Cromwel, Batavia e Buffalo; dal 1963 al 1968 ricopre la carica di superiore dei Missionari della Consolata negli Stati Uniti; dal 1968 al 1971 è incaricato della animazione missionaria e redige la rivista «Consolata Missions».
  • 1971: è destinato alle missioni del Kenya.
  • 1981: il 30 luglio, Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Marsabit.
  • 1981: il 18 ottobre è consacrato vescovo a Bellusco in Brianza.
  • 2006-2020: diventa vescovo emerito e si ritira in preghiera nel Maria Mfariji house of prayer shrine in Marsabit.
  • 2020: il 30 ottobre riceve la chiamata finale al Cielo.

 

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Camminiamo la speranza

Testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Papa Francesco conclude il primo capitolo della nuova enciclica «Fratelli tutti» con un invito: «Camminiamo nella speranza» (Ft 55). È un invito coraggioso e bello in questi tempi duri, sofferti e contraddittori in cui la tentazione è quella di gettare la spugna e prendere quel che si può senza preoccuparsi del futuro e degli altri.

Questa pandemia, con cui volenti o nolenti siamo costretti a fare i conti, se da una parte può essere l’occasione per tirar fuori il meglio di sé (come molti ci stanno dimostrando pagando anche con la vita), dall’altra fa emergere modi di essere e agire perlomeno discutibili e decisamente dannosi per tutti. Alcuni di questi atteggiamenti negativi sono cronici e fanno parte da sempre della nostra stessa fragilità umana. Altri invece sono nuovi, alimentati ad arte dalla concezione idolatrica e materialistica del mondo che oggi sembra dominare quasi ovunque.

La nuova enciclica elenca un numero impressionante di situazioni negative («Le ombre di un mondo chiuso») che abbracciano sia la dimensione personale che sociale. Partendo dai sogni andati in frantumi e dalla mancanza di progettualità, evidenzia tutte le «ombre» analizzando la «logica dello scarto» (che esclude bambini e anziani, alimenta il razzismo e specula sul costo del lavoro) ai «diritti umani non uguali per tutti» (la dignità  calpestata dei poveri e delle donne, la schiavitù e il traffico di persone), i «conflitti e paure» e la «globalizzazione del progresso fine a se stesso»; le «pandemie e flagelli» della storia e le «frontiere discriminanti», «l’illusione di una vera comunicazione» e le «sottomissioni culturali ed economiche», arrivando a sottolineare il «disprezzo e disistima dei poveri e dei marginali della storia e dell’economia».

È una lista di «ombre» dettagliata che non vi presento nella sua completezza perché riempirebbe da sola tutta questa pagina, ma che vale la pena di affrontare per svegliarci dal torpore e riconquistare la libertà di essere autenticamente uomini. Benché papa Francesco presenti un quadro duro e impietoso, non cede al pessimismo o alla rassegnazione, e reagisce invitando a camminare insieme nella speranza. Perché «la speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale […] per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa».

Parole che mi hanno aperto il cuore, perché la speranza è l’anima della missione e ogni missionario (ogni discepolo) è un «camminatore di speranza».

 

E  la speranza non delude. È bello vedere in questi giorni persone audaci che continuano a non arrendersi alle «ombre», ma vivono fino in fondo la loro umanità, anche pagando di persona. Il nostro presidente Mattarella ha riconosciuto la bella testimonianza di Willy e don Roberto, ma accanto a loro ci sono le migliaia di infermieri e medici, insegnanti e volontari, sacerdoti e religiosi che si sono dedicati a servire gli altri e continuano a farlo con generosa dedizione anche a costo della propria vita. La loro testimonianza ci incoraggia ad andare avanti, anche se a piccoli passi. Noi oggi vinciamo «le ombre» non con azioni dirompenti, ma con la forza di innumerevoli piccole candele che brillano nel buio. Piccole candele di amore che ci permettono di guardare in faccia al nostro vicino («prossimo») per quello che è, chiamandolo per nome, creando relazione, scoprendolo come sorella o fratello, persona umana al di là degli stereotipi e degli slogan.

Camminare (nel)la speranza è scegliere e difendere la vita, soprattutto dei più indifesi e fragili come i bimbi non ancora nati e indesiderati e gli anziani. È accogliere ogni persona come persona, senza discriminazioni ed etichette (di «razza», di genere, di provenienza, di condizione sociale). È «gentilezza» e attenzione all’altro, passando dall’io al noi, senza mettere il «mio» diritto al primo posto sempre e a ogni costo. È fermarsi e staccare la spina dalla frenesia delle cose da fare e avere per essere all’altezza delle aspettative del mondo. È reagire all’informazione martellante, veloce, ossessiva, che gioca con i tuoi sentimenti e le tue paure invece di farti usare la testa.

È dare tempo al silenzio e alla preghiera, all’ascolto della Parola di Dio, contro il rumore che ci assorda. È andare a messa la domenica come atto di amore agli altri e dichiarazione di libertà contro la dipendenza dai riti idolatrici del divertimento e consumismo che svuotano le tasche ma non riempiono il cuore. Forti della speranza che non delude, camminiamo insieme per costruire un mondo secondo il sogno di Dio.