Mongolia. Giovane Cardinale di una piccola chiesa


Dal 2003 è in Mongolia, paese che ama e che continua a stupirlo. Qui, con altri missionari e missionarie della Consolata, ha fondato una nuova parrocchia. Da agosto 2020 è prefetto apostolico di Ulaanbaatar. Poi l’annuncio di papa Francesco.

Nato il 7 giugno del 1974, cresciuto a Torino tra le parrocchie di sant’Alfonso, Regina delle Missioni e gli scout, Giorgio Marengo decide di entrare nei Missionari della Consolata dopo la maturità al liceo Cavour. Segue il percorso di formazione e viene ordinato a Torino, nel 2001, all’anniversario dei 100 anni dell’Istituto. Nel 2003 è nel primo gruppo di missionari in partenza per la Mongolia.

L’ordinazione episcopale arriva ad agosto 2020. Poi, a sorpresa, il suo nome compare nella lista dei nuovi cardinali, resa nota da papa Francesco lo scorso 29 maggio. Viene quindi nominato nel concistoro del 27 agosto. È il cardinale più giovane, ed è il primo tra i Missionari della Consolata e della chiesa in Mongolia.

Ci accoglie con un grande sorriso, e la disponibilità che lo contraddistingue, nonostante i tanti impegni di un periodo frenetico.

Come descriverebbe la Mongolia in poche parole?

«È un paese affascinante, molto bello, con tanti contrasti, a cominciare da quelli climatici. C’è il deserto freddo più grande del mondo, d’estate +40°, d’inverno

-40°. L’impatto dell’uomo è poco visibile. È il secondo paese meno popolato del mondo (su una superficie 5,2 volte l’Italia, vivono 3,3 milioni di persone).

È difficile da definire, ma possiamo parlare di due Mongolie, quella della capitale e poi tutto il resto. Entrambe rappresentano la Mongolia, ma in maniera diversa. Ulaanbaatar è una capitale evoluta, tecnologica, con molte costruzioni moderne, lo stile di vita è urbano. Negli ultimi dieci anni si è trasformata. La Mongolia dell’interno è quella tradizionale, dell’allevamento, delle grandi distese, delle tradizioni, dell’isolamento, del vuoto.

Un forte elemento identificativo è la storia. Ovvero Gengis Kahn e il ruolo dominante dei mongoli nel XIII secolo, quando hanno costituito l’impero più grande di sempre. Questo ha plasmato la coscienza comune. Sono un popolo molto fiero.

Oggi sono un paese sovrano e democratico in mezzo a due superpotenze, la Federazione Russa e la Cina popolare. La Mongolia è un paese che mantiene la sua identità, e vuole confermare la propria sovranità, su base democratica e di rispetto dei diritti e della libertà.

È stata per settant’anni una repubblica popolare, non formalmente membro dell’Urss, ma totalmente allineata alla politica sovietica. Questo ha implicato questioni molto gravi, compresa la repressione del buddhismo, la cancellazione della libertà religiosa, grosse sfide alla cultura, l’imposizione del cirillico al posto della scrittura mongola, l’ateismo di stato. Quei 70 anni hanno impattato, ma oggi, dopo 30 anni dalla fine del regime, la democrazia è affermata».

La Chiesa cattolica ha compiuto 30 anni nel paese. Come è stato l’inizio?

«All’indomani delle prime elezioni democratiche nel ‘92, quando si è costituito il primo governo multipartitico, questo ha voluto dimostrare al mondo l’impegno di tutelare la libertà di religione e di culto. Inoltre, il paese aveva molto bisogno di aiuto dall’estero perché, come è sempre successo nel post-comunismo, subito c’è stata una fase di grande crisi economica. Così il governo mongolo ha chiesto alla Santa sede di ristabilire relazioni diplomatiche. Di solito accade il contrario.

La Santa sede si è subito attivata e, per motivi storici, ha proposto alla congregazione del Cuore immacolato di Maria (Scheut) di andare in Mongolia. Intanto padre Jeroom Heyndrickx, noto
sinolgo, aveva già compiuto una prima esplorazione nell’ottobre 1991, così nel luglio 1992, sono stati mandati tre missionari, i padri Robert Goessens, Gilbert Sales (belgi) e Venceslao Padilla (originario delle Filippine). Questi hanno cominciato a inserirsi, creato contatti, e hanno fatto una grande attività di promozione umana, facendo arrivare tanti aiuti in un paese che allora era in ginocchio.

Con grande capacità relazionale, soprattutto di Padilla, si sono costituite le prime realtà ecclesiali, da un nucleo che si ritrovava nell’appartamento in affitto nel quale i missionari vivevano. Si sono create relazioni stabili con gente interessata a questioni di fede e dieci anni dopo, la Santa Sede ha eretto la Prefettura apostolica. Padilla è stato ordinato prefetto e poi vescovo nell’agosto 2003.

Noi Missionari della Consolata ci siamo inseriti nel luglio 2003, quando era ancora un’esperienza pionieristica.

Il cambiamento più grande è stato tra il 2003 e il 2010, quando c’è stato un grosso boom economico, legato ad aiuti e investimenti. La Mongolia ha accelerato la trasformazione interna, e questo si è riflettuto un po’ anche sulla realtà ecclesiale».

Veglia pasquale ad Arvaiheer con battesimi dei neofiti.

Ci racconta i primi passi della Consolata?

«I primi tre anni ci siamo dedicati a imparare la lingua, nella capitale Ulaanbaatar, iniziando a guardarci intorno per vedere dove installarci. La presenza missionaria si concentrava nella capitale, e noi volevamo metterci a disposizione di qualsiasi altra realtà che non fosse stata ancora raggiunta. Mons. Venceslao Padilla ci disse di fare noi il discernimento, e così facemmo, sempre in comunione con lui. Dopo una serie di viaggi esplorativi la Provvidenza ci ha portati in una zona del centro Sud, vicino al deserto del Gobi. Così ci siamo stabiliti nel 2006 ad Arveiheer, capoluogo della provincia. Eravamo due padri e tre suore. Abbiamo cominciato tutto da zero. È stata una bellissima esperienza di vita, di missione, di fede. Perché lì la chiesa non c’era mai stata.

Avevamo bisogno delle autorizzazioni delle autorità locali, e abbiamo vissuto in affitto condividendo la vita della gente di realtà diverse. Poi il governo ci ha dato il permesso e si è avviata la missione».

Come è organizzata oggi la Chiesa cattolica in Mongolia?

«Abbiamo dieci luoghi di culto riconosciuti dallo stato, di cui otto parrocchie e due cappelle (cinque in capitale e dintorni, due nel Nord e una ad Arveiheer). Sono il fulcro della vita cristiana. Abbiamo 22 sacerdoti di cui due sono mongoli, 35 suore, alcuni laici missionari, per 11 congregazioni e 24 nazionalità. I catechisti, sui quali si è investito e si continua a investire, sono i principali protagonisti dell’evangelizzazione, grazie al fatto che sono membri di questo popolo e che possono esprimere con lingua e categorie culturali locali i contenuti essenziali della fede e accompagnare le persone nel loro percorso, con un discorso di comunità e fraternità.

Il 71% delle nostre attività sono di tipo sociale: promozione umana e sviluppo, educazione, sanità, assistenza, promozione e diffusione della cultura mongola. La chiesa è impegnata in settori di utilità comune, non specificamente religiosi. Quest’anno, oltre al sinodo stiamo celebrando i primi 30 anni della chiesa in questo paese e ci siamo fermati a riflettere. Io sono dell’idea che, probabilmente, le priorità non sono più quelle di 20-30 anni fa. Forse dobbiamo gradualmente riorientare le nostre energie verso obiettivi più attuali.

Ho scritto la mia prima lettera pastorale e ho proposto tre parole fondamentali: profondità, fraternità e annuncio.

Profondità, perché il seme è stato gettato, la testimonianza della prima generazione di missionari è stata feconda, accolta. Se abbiamo una comunità cristiana è perché le persone che la compongono hanno veramente accolto il Signore nella loro vita. Adesso però c’è bisogno che questa vita embrionale di fede raggiunga le fibre più profonde della persona e delle comunità, che non sia qualcosa di superficiale che poi è soggetta all’abbandono, ma si approfondisca continuamente.

Fecondità, perché questa piccola comunità rischia, come accade ovunque, di frazionarsi nelle otto parrocchie, anche a causa delle tendenze centrifughe delle varie congregazioni.

Annuncio, per non dimenticarci che, se siamo lì è perché con discrezione e con umiltà vogliamo condividere la nostra fede, e quindi non aver paura di continuare ad annunciare Cristo».

Cosa vuole dire essere una chiesa di minoranza?

«Essere una minoranza è una grazia, perché ci riporta al messaggio delle parabole: un po’ di lievito, un pizzico di sale, una candela, un seme caduto nel terreno. Il Signore quando ha parlato del Regno di Dio ha sempre fatto riferimento a immagini del poco nel tanto, quindi io l’ho vissuta così e continuo a viverla come una grazia. Ci porta a questa dimensione dell’autenticità messa alla prova per il fatto che non è per nulla scontato essere cristiani, ed essere accettati come tali. Usiamo spesso il parallelo con gli Atti degli apostoli.

Essere minoranza può avere, da una parte, il rischio di portarci a dire: stiamo bene tra di noi, siamo piccoli, siamo poveri. Questo non è il nostro caso. Dall’altra, quello di porci l’obiettivo di diventare noi maggioranza, cioè raggiungere una situazione in cui sia socialmente accettabile e auspicabile diventare cristiani. Ritengo che l’esperienza dell’Occidente sia importante, fondamentale, ma non è l’unica, e nella storia ha rappresentato una piccola sezione in ordine di tempo e di spazio. È importante il fatto di non dare nulla per scontato nell’esercizio della fede, perché è un continuo provare a metterla in circolo nella vita concreta, in una società in cui i punti di riferimento sono altri. È una provocazione sana, che ci fa rimanere umili, attenti, che ci fa dire: questa strada non funziona, allora ne proviamo un’altra.

L’importante è curare l’autenticità del messaggio e della vita di fede, aiutando le persone a viverla con coraggio e serenità, perché diventare cristiano per un mongolo è una scelta impopolare, che lo espone anche alla derisione sociale.

Come aiutare queste persone ad appropriarsi della fede, ad approfondirla in modo che poi diventi sorgente di una nuova interpretazione della realtà, in armonia con l’identità culturale, ma anche capace ogni tanto di provocare, è una delle grandi sfide.

Anche se in Italia è generalmente accettato, il messaggio del Vangelo è comunque sempre controcorrente, non è mai assimilabile a una cultura o società».

Com’è la relazione con le altre religioni?

«Essere minoranza ha come aspetto bello che ti fa percepire la ricchezza delle tradizioni religiose diverse. Per noi sono il buddhismo di matrice tibetana, che nel paese oramai si chiama buddhismo mongolo, poi lo sciamanesimo, come anche l’islam praticato nell’Ovest, nella comunità kazaca, e anche delle altre tradizioni religiose recenti, il bahaismo o le altre denominazioni cristiane non cattoliche.

C’è un rapporto con tutti, ma il migliore lo abbiamo con il buddhismo, rappresentato dalle loro istituzioni e dai loro leader, con cui abbiamo un cammino trentennale continuo. Il 28 maggio scorso il Papa ha ricevuto in udienza due autorità del buddhismo mongolo, uno è l’abate del secondo monastero della Mongolia.

Esiste una rete di incontri interreligiosi che, fino a un anno fa, erano annuali e ora sono quasi mensili: a turno uno dei leader religiosi ospita gli altri, si mangia, si discute di temi comuni. L’orizzonte di questi incontri è da una parte conoscitivo (solo se ci si conosce bene ci si rispetta, ci si apprezza), e dall’altra pensare quali obiettivi raggiungere insieme».

Come si diventa cattolici in Mongolia?

«Quando siamo andati ad Arveiheer non c’era nessun cristiano. È stato interessante vedere come la grazia si fa strada. È una storia di relazioni, di amicizia con i missionari e le missionarie, attraverso la quale le persone vengono in contatto con un mondo che si apre loro e che magari all’inizio è legato a una loro necessità. Da notare che la campagna ha conosciuto lo sviluppo dieci anni dopo la capitale. Per cui quando siamo arrivati c’era molta povertà. Quando abbiamo avuto il permesso di svolgere le nostre attività, la curiosità e l’amicizia ha portato le persone per la prima volta a mettere la testa dentro la nostra gher, a vedere cosa vuol dire la preghiera dei cristiani. O a vedere questi poveri stranieri imbranati che cercavano di rendersi utili con una mentalità di non sfruttamento degli altri e, possibilmente, di aiuto. Questo faceva sorgere dei punti di domanda, e le persone, gradualmente, senza correre, chiedevano di approfondire.

C’è sempre una specie di pre catecumenato, che è un periodo fluido di contatti, di relazione, di amicizia, fino a quando la persona formula la sua richiesta, che noi vogliamo sia scritta: io voglio iniziare un percorso di fede. Si propone la catechesi e il catecumenato dura due anni. Stiamo lavorando per preparare il materiale catechetico di base. Poi c’è l’iniziazione, il battesimo.

Oggi i cristiani in Mongolia sono di prima ma anche di seconda generazione. A chi è battezzato ed è riuscito a conservare la fede anche nella vita famigliare, si propone di far fare il cammino della catechesi anche ai loro figli. Non abbiamo mai insistito, abbiamo sempre aspettato che la gente si proponesse».

Quale ruolo può avere la chiesa mongola tra le chiese asiatiche?

«In Asia ci sono tante esperienze interessanti e anche diversificate tra di loro. È un arricchimento reciproco. Il blocco del Sud Est asiatico è erede di un’epopea missionaria dell’800 in cui i missionari erano provenienti da nazioni coloniali, un tema che in Mongolia non c’è. Non c’è mai stata sovrapposizione di poteri politici ed ecclesiastici. Lì c’è una cristianità più radicata, antica. Noi siamo la chiesa più giovane d’Asia.

Nella Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia (Fabc, fondata nel 1971), c’è un clima molto fraterno. I vescovi di tutta l’Asia si incontrano, condividono, dialogano, cercano vie comuni.

Da aprile sono entrato a fare parte della neonata conferenza episcopale dell’Asia centrale. Nell’autunno 2021 la Santa Sede l’ha istituita raggruppando le cinque repubbliche ex sovietiche, l’Afghanistan e la Mongolia.

A parte le Filippine e la Corea, dove ci sono le due chiese più affermate, per il resto, in tutta l’Asia siamo minoranza. In certi paesi ha buoni rapporti con lo stato, in altre parti è una chiesa sofferente».

Quali sono le sfide della Chiesa in Asia?

«Riuscire a essere un faro per i diritti là dove esistono regimi non morbidi, un agente di coesione e pace sociale, di promozione del dialogo: è una sfida grande in tutta l’Asia. Anche nei paesi di tradizione più affermata. Le comunità cattoliche in tutto il continente sono dei baluardi di umanità, fede, spiritualità, rappresentano una bella testimonianza.

L’ateismo puro in Asia non esiste, è esistito imposto dal comunismo, ma il tema non è Dio o non Dio, piuttosto quale Dio. Non c’è mai stato l’illuminismo quindi la cesura tra ragione e fede, tra uomo religioso e uomo scientifico non è mai esistita. In Asia si deve portare avanti un discorso di dialogo, per dire con quali valori comuni, noi seguaci di tradizioni religiose diverse, possiamo promuovere il bene di questi paesi. Poi c’è il discorso più teologico: io ho collaborato con il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso che organizza periodicamente un colloquio buddhista-cristiano».

Secondo lei, perché un cardinale in Mongolia?

«Bisogna chiederlo a papa Francesco. Conoscendolo, per lui queste esperienze di chiesa in situazioni di minoranza e marginalità sono preziose, e allora forse vuole che siano conosciute di più e rappresentate».

Quali sono i progetti futuri?

«Vorremmo riuscire a vivere la progettualità da un punto di vista più unitario, comunionale: non solo le singole congregazioni con i loro progetti, ma unire le forze per ottimizzare le cose già meravigliose che i singoli missionari stanno facendo.

Abbiamo rilevato un edificio in capitale, e vorremmo creare la Casa della misericordia, un luogo di accoglienza e consolazione, per rendere la chiesa un porto sempre accessibile a chiunque, con qualunque necessità».

Marco Bello

Cura dei bambini, il pasto

 




Argentina. Nella terra del sole


I Missionari della Consolata sono andati ad aprire una nuova presenza nella periferia di San Juan, zona centro occidentale dell’Argentina, dove tra insediamenti informali, povertà educativa, violenza ed emarginazione, portano il Vangelo.

La provincia di San Juan, insieme a quella di Mendoza e San Luis, forma la regione di Cuyo, nella zona centro occidentale dell’Argentina dove le Ande fanno da confine naturale con il Cile.

Lo scorso gennaio 2022, i Missionari della Consolata vi hanno iniziato una nuova missione stabilendosi a La Bebida, cittadina alla periferia Ovest della capitale provinciale. Una nuova apertura che porta l’Imc per la prima volta in questa provincia e che vuole essere in particolare sintonia con le indicazioni dell’ultimo Capitolo generale del 2017, con il progetto continentale e la decima conferenza regionale Argentina.

Missione sognata

La decisione di fare questo passo è stata la conseguenza di un discernimento compiuto con molta preghiera, tramite il confronto con il materiale e le informazioni a nostra disposizione, e grazie al dialogo con diversi vescovi argentini.

Il progetto continentale della Consolata in America, ai numeri 138 e 139, dice: «Sentiamo che le periferie esistenziali sono una grande sfida per il nostro essere e diventare missionari […]. Assumere questa opzione ci porta a passare da una pastorale della conservazione a una pastorale decisamente missionaria nel metodo e nello stile».

Il desiderio di aprire nuove strade con un percorso diverso da quello fatto finora, evidenzia la dimensione delle periferie esistenziali e dello stile di vita.

I vescovi delle diocesi di Mendoza, Catamarca e La Rioja, ci avevano invitati a integrarci nelle loro diocesi. Il nostro superiore regionale, padre Mauricio Guevara le ha visitate, ma alla fine ha scelto la diocesi di San Juan. Camminando per le strade dei quartieri periferici della città e incontrando la precarietà della gente, infatti, è stato colpito dalla grande sfida che rappresentava.

In questo momento la nuova missione tanto sognata e desiderata è già realtà.

Semplicità di vita e mezzi

La comunità missionaria è formata da padre Sang Hun Im Marcos (del 1978), originario della Corea del Sud; padre James Macharia Kirira (del 1987), keniano, e il sottoscritto, padre Manolo García Candela (del 1956), dalla Spagna. Ci accompagna, inoltre, con il suo servizio fino alla sua ordinazione sacerdotale, il diacono Pablo Ezequiel Sosa Martín, del 1989, argentino, originario di Mendoza.

Senza averlo premeditato, in questo momento la comunità rappresenta i quattro continenti nei quali l’Istituto è presente. Consideriamo importante e valorizziamo anche questo aspetto multiculturale.

Le indicazioni dell’ultimo Capitolo generale Imc, al numero 139, dice: «Lo stile delle nuove aperture deve realizzarsi nella semplicità della vita e dei mezzi, coinvolgendo per quanto possibile la Chiesa e le comunità locali». Noi siamo arrivati a San Juan quasi solo con quello che indossavamo (pochi bagagli personali e alcune scatole che riempivano appena un furgone).

Una volta arrivati, siamo partiti da zero per attrezzare la casa con un minimo di comfort. La gente del posto si è occupata del resto: l’accoglienza, il cibo e l’igiene durante i primi giorni.

La temperatura è molto alta a San Juan, i raggi del sole sono forti per molte ore al giorno, ma il calore che emana dal cuore delle persone li supera.

Questa è stata la nostra prima impressione.

Abbiamo trovato una popolazione diversa da quella di altre aree in cui abbiamo lavorato. Persone molto amichevoli, rispettose e accoglienti, anche nelle espressioni e nel modo di parlare. Tutto è totalmente inedito per noi, e sappiamo di avere molto da imparare.

Periferia esistenziale

Il centro abitato in cui ci troviamo si trova nel dipartimento di
Rivadavia. È una zona periferica della città di San Juan. La nostra missione copre un territorio di 49 km2 abitato da una popolazione di trentamila persone distribuite in un gran numero di quartieri.

Quella di San Juan è una zona sismica, e le scosse di terremoto si sentono di frequente.

Il punto di riferimento della missione è la parrocchia che ci è stata affidata, dedicata alla Madonna del Rosario di Andacollo, una devozione di origine cilena.

La parte occidentale del territorio arriva fino alle colline pedemontane e alla prima catena montuosa.

A Sud si stanno formando numerosi quartieri, diversi insediamenti costituiti da famiglie che si costruiscono dei piccoli ripari alzando muri d’argilla e che vivono in condizioni precarie. Alcuni di questi insediamenti sono senza acqua ed elettricità.

Le persone aspettano che il governo assegni loro una casetta con i servizi minimi, ma l’attesa può durare anni.

Tra i problemi che si vivono negli insediamenti spontanei, uno riguarda la distanza delle baracche dalle scuole. Lontani dai mezzi di trasporto pubblici e da tutto in generale, in questo tipo di ambiente nascono e crescono violenza, criminalità, rapine, spaccio di droga.

Da subito siamo stati informati del fatto che eravamo giunti in una zona difficile, conflittuale e insicura. Però non ci siamo spaventati, né ci spaventiamo.

Abbiamo chiaro che dobbiamo raggiungere le famiglie. Il nostro atteggiamento è quello dell’ascolto, perché le persone qua hanno molto da raccontare. E noi vogliamo essere con loro per accompagnarli e camminare e celebrare la fede insieme. Soffrire i dolori insieme e godere delle stesse gioie.

È sorprendente per noi scoprire che tra loro alcuni sono stati feriti, maltrattati o emarginati anche da ministri della chiesa.

Siamo giunti a questa missione come se fosse un ospedale da campo, pronti a curare le ferite, riconciliare, accompagnare, ascoltare, perché ciascuno trovi gioia e pace con se stesso, con gli altri e con Dio.

Papa Francesco ci incoraggia con le sue parole: «Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, che esce dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, per sostenere la speranza, per essere segno di unità… costruire ponti, rompere muri, seminare riconciliazione» (Fratelli tutti, 276).

Questa terra di San Juan ci ricorda la terra di Gesù, la Palestina, sia per il suo terreno arido, sia perché esistono le condizioni necessarie affinché l’uva delle viti dia un buon vino e gli ulivi abbondanti producano l’olio che dà lustro al viso (cfr. Salmo 103,15). Le viti e gli ulivi sono i simboli della gioia e della pace, quella pace di cui, secondo Isaia, il messaggero è portatore.

La nostra comunità si presenta come annunciatrice e portatrice di pace. «È bello vedere i piedi del messaggero di pace scendere dalla montagna».

Manolo García Candela




«P» come missione


A fine giugno a Roma, c’è stata la seconda conferenza nazionale sulla cooperazione italiana (vedi pagina 71) che ha articolato i suoi temi attorno a cinque «P»: persone, pace, prosperità, pianeta e partnership. Mi sono domandato quante e quali sono le «P» di cui si occupa la missione.

Sempre a giugno, la settimana prima, per quattro giorni la famiglia della Consolata (consacrate, consacrati e laici) si è radunata online in un convegno con oltre 600 partecipanti da 33 nazioni diverse, in sei lingue e quasi quaranta gruppi di lavoro. Lo scopo era quello di fare memoria e attualizzare la cosiddetta «conferenza di Murang’a», tenuta in Kenya nel 1904 dai primi dieci Missionari della Consolata presenti in quel paese, per pregare e riflettere insieme sul senso e il metodo della loro azione missionaria in quel contesto. Da quell’incontro di quasi 120 anni fa era emerso, tra le altre cose, che al centro della missione c’era la persona.

Ecco la prima «P» della nostra missione. La persona di Cristo che si fa Parola per comunicarsi e che è la ragione stessa della missione, e la persona dell’«uomo» incontrato nella sua concreta unicità, nella sua diversità di età, sesso, cultura, tradizione religiosa, stato sociale. Con una preferenza: la persona più piccola e più povera, quella che conta meno, che sta ai margini, che è trafficata, sfruttata, aggredita, ignorata, invisibile. Chi non può accedere alla scuola, non gode dei servizi sanitari, fa fatica a mangiare un pasto al giorno, non ha diritto di voto, non ha un riparo sicuro, e per questi motivi è visto come pericolo, nemico, minaccia.

Se la persona sta al cuore della missione, ne consegue che deve essere la missione ad andare alle persone, non viceversa. Come ha fatto Gesù che è venuto e continua a venire incontro all’umanità, e come hanno fatto i nostri primi confratelli (e facciamo oggi) che hanno dato uno stile itinerante all’annuncio: non le persone chiamate a raggiungere i missionari, ma i missionari che raggiungono le persone.

Da questo principio discendono poi tante altre «P»: pace, perseveranza, pazienza, perdono, partecipazione, piccolezza, povertà. Parole che si coniugano bene con altre più moderne come pianeta, partenariato, prosperità, ma ne escludono altre come potere, plagio, privilegi, paletti.

E scopri che la missione ha bisogno anche dei piedi. Piedi che indossano sandali: segno di un andare libero, per scelta e senza costrizioni, senza sandali di scorta, per condividere la precarietà, la provvisorietà e la povertà di chi si incontra.

Due altre «P» hanno un legame profondo con la «missione»: preghiera e pane. La preghiera è il suo motore. Con la preghiera rimani legato al Mandante, lo ascolti, ti verifichi, ti lasci trasformare, ti ricarichi quando sei in crisi. Con il pane nutri e sei nutrito, fai stare bene gli altri e te stesso. Lo spezzi e scopri che ce n’è in abbondanza per tutti. Se poi tieni sempre presente che il vero Pane è Lui, Gesù, che si spezza e ci invita a spezzarlo ogni giorno per vivere nell’oggi la sua passione, morte e resurrezione, allora davvero rimani ancorato al senso della missione.

Ce ne sarebbero molte altre di «P» che si sposano con la «missione». Ma per me centrale rimane la «P» di «persona», che non è mai una categoria o un gruppo anonimo, un numero o un’etichetta, ma un volto, un nome, una storia, un incontro, un bisogno, una lacrima o un sorriso. È un paio di occhi che ti penetra nel cuore. È Anthony, ad esempio, un bambino vissuto solo due ore per un difetto cardiaco. È Sharon, rapita dall’Aids a sette anni.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, persona è ciascuna di quelle innumerevoli incontrate, spesso con nomi per noi impronunciabili, nelle foreste dell’Amazzonia, nelle baraccopoli delle grandi città (anche europee), nelle immense steppe dell’Asia, nei villaggi abbarbicati sui monti della Cordigliera andina, nei campi profughi a confini dell’Ucraina o in quelli del Marocco, nelle riserve indiane degli Stati Uniti.

Mettere la persona al centro è una scelta di coraggio. Coraggio che richiede cuore e fantasia per non restare imprigionati nelle pastoie della nostra onnipresente burocrazia e del vizio, ormai consacrato, di regolamentare tutto, fino all’ultima virgola, seppellendo le persone sotto montagne di carte.




Giacomo Camisassa 100


La beatitudine di essere secondo

Con la Madonna e la missione nel cuore

Braccio destro del beato Giuseppe Allamano per 42 anni, Giacomo Camisassa è stato un uomo e un prete schivo che non amava far parlare di sé, ma che ha lasciato un segno unico e irripetibile nella Chiesa torinese e nella vita dei Missionari e Missionarie della Consolata. Nato il 26 settembre 1854, quest’anno ricorrono i cento anni dalla sua morte, avvenuta il 18 agosto 1922.

Giacomo Camisassa in Kenya con missionari e suore Vincenzine

ll 18 agosto 2022 ricorre il centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei nostri due Istituti missionari, fraterno amico e strettissimo collaboratore del fondatore Giuseppe Allamano, il quale ben difficilmente avrebbe messo mano all’opera della fondazione senza di lui.

Desideriamo riscoprire la figura di questo vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere «la beatitudine di essere secondo» coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con l’Allamano che egli considerava «padre».

Tra l’Allamano e il Camisassa ci fu un’intesa straordinaria, che portò a una stretta collaborazione che si rivelò un dono particolare di Dio, proprio in vista di quanto avrebbero realizzato assieme.

Il segreto della loro profonda amicizia ci pare che si possa trovare nella loro spiritualità. L’Allamano ricevette da Dio la vocazione di fondare i due Istituti missionari. Il Camisassa ricevette la vocazione di essere il collaboratore indispensabile nella realizzazione della missione dell’Allamano. Non è fuori posto pensare che, senza l’apporto continuo e attento del Camisassa, l’Allamano non avrebbe realizzato quanto invece portò a termine in tutte le sue iniziative. Il ruolo specifico del Camisassa non consistette solo nella stima e nel rispetto verso l’Allamano, ma anche nella capacità di capirlo, di interpretare le sue idee e di collaborare stando sempre al proprio posto. Non ci furono momenti nei quali il Camisassa volle sostituirsi all’Allamano, mai.

Tra il Camisassa e l’Allamano la fiducia era totale. Si comunicavano idee, sentimenti, intuizioni, impressioni, informazioni, situazioni e notizie, anche sul personale, sicuri della reciproca confidenzialità.

L’Allamano ebbe l’abilità di scegliersi un collaboratore che lo completasse. Aveva potuto conoscere le qualità del Camisassa durante il periodo del seminario, trovandolo adatto e affine, pur nella diversità.

Durante i 42 anni di convivenza al Santuario della Consolata, il Camisassa fu sempre il «Vicerettore» ed economo. Giuseppe Allamano, il Rettore, l’aveva richiesto come «coadiutore» e tale il Camisassa rimase per tutta la vita. Un binomio inossidabile ed esemplare di vita e di apostolato, che niente riuscì a spezzare, nemmeno le varie proposte di promozioni a incarichi più autorevoli, quali l’episcopato in diocesi piemontesi.

La profonda sintonia tra il Camisassa e l’Allamano maturò nella continua ricerca del dialogo, cibo quotidiano per sostenere i loro molteplici impegni apostolici e per crescere nella mutua comunione.

Il Camisassa non aveva segreti per l’Allamano.

L’Allamano e il Camisassa si erano impegnati a «dirsi sempre la verità», e lo fecero. Un mezzo che avevano appreso dagli anni del Seminario e che non tralasciarono mai era la cosiddetta «correzione fraterna».

Cento anni dopo la morte del Camisassa, siamo qui a commemorare la sua straordinaria figura di uomo di Dio, uomo di comunione, uomo di acuta intelligenza e profondissima umiltà, uomo di alacre operosità e intensa vita interiore, che ebbe una parte essenziale e insostituibile nella nascita e sviluppo dei nostri Istituti. In comunione,

suor Simona Brambilla
 e padre Stefano Camerlengo

(Testo adattato e ridotto dalla lettera dell’8 dicembre 2021, Anno del Camisassa nel centenario della sua morte, dei due superiori generali ai Missionari e Missionarie della Consolata e loro amici e benefattori)

12/11/1916. Visita del cardinal Giovanni Cagliero – nel mezzo tra l’Allamano e il  Camisassa – alla Casa Madre dei Missionari in Torino.


«Non dimenticate quest’uomo!»

Giacomo Camisassa, il gregario ideale

Ricordare una persona, nel senso etimologico, è «riportarla al cuore», ravvivandone una riconoscente memoria. Giacomo Camisassa, sacerdote di Torino, fu un uomo di Dio, lavoratore instancabile e umile, con grandi capacità di relazione. La sua amicizia con il beato Giuseppe Allamano segnò la vita di entrambi e dei due istituti missionari di cui fu confondatore.

«Non potremmo certo dimenticarlo e dimenticare il bene che fece per l’Istituto, per il quale tutto si sacrificò fino all’ultimo respiro della sua preziosa e santa vita» (Beato G. Allamano, lettera circolare ai Missionari, 20 giugno 1923).

Personalità armoniosa

Prima foto di Giacomo Camisassa. Risale al 1884.

Prima di raccontare la vita del Camisassa e il bene da lui realizzato, è utile riflettere sul fatto che la sua fu una personalità armonica e armoniosa, nella quale maturità, responsabilità, equilibrio e stabilità si seppero intrecciare mirabilmente. Le numerose doti, le molteplici attività intraprese, la grande capacità di relazioni, la vita cristiana vissuta in modo missionario e lo spirito di fede per essere in sintonia con il progetto di Dio su di lui, si fusero in una grande unità e caratterizzarono la solidità della sua personalità.

Per essere veramente ben compreso, ogni atto della sua vita va letto alla luce della totalità della sua esistenza. Che egli fosse un «lavoratore» indefesso e geniale tutti l’ammettono facilmente. Anzi, monsignor Gaudenzio Barlassina, allora vescovo della Prefettura apostolica del Kaffa in Etiopia, commemorandolo nel primo anniversario della morte, mise in guardia coloro che del Camisassa coglievano soltanto questa dimensione: «Quelli che lo guardano con un occhio solo, non vedono in lui che una meravigliosa operosità. Ma noi, che abbiamo avuto agio di rimirarlo con due, abbiamo potuto scorgere e contemplare la sua eccelsa virtuosità, non inferiore alla capacità tecnica, alla sua costante attività».

Uomo concreto

Il canonico Camisassa, di costituzione robusta e tendente all’obesità, fornito di rara intelligenza e di ferma volontà, era un uomo eminentemente pratico e sempre in moto. Fu un artista della tecnica e dell’esecuzione delle opere materiali.
Architetti, ingegneri, pittori, decoratori, marmisti, muratori, ditte industriali, impresari, appaltatori, notai, ragionieri, avvocati, professionisti in genere, trovavano in lui l’esperto.

Con facilità e sveltezza abbozzava prospetti, stendeva relazioni, redigeva progetti, scriveva articoli, faceva bilanci, saldava parcelle, rivedeva conti, calcolava l’ampiezza di un locale e le sue giuste proporzioni in comodità, estetica, igiene, solidità, economia. Esaminava il materiale da impiegarsi, la portata della tubatura dell’acqua e della conduttura del gas, il telaio di una finestra, la serratura di una porta, la qualità di una stoffa, la foggia di un vestito, l’arredamento di una camera, l’imballaggio di una cassa. Le sue erano giornate piene, costruttive, in cui non si perdeva tempo e si verificavano pochi sbagli.

«L’Allamano aveva in grande stima il canonico Camisassa e un alto concetto delle sue virtù e dei talenti di lui. Lo trattava paternamente con modi rispettosi e squisitamente educati; aveva riposta in lui la sua piena fiducia e colla massima tranquillità attendeva da lui ogni più valido aiuto; di lui si serviva come Iddio deve servirsi degli Angeli, come la Madonna a Nazareth, per le proprie faccende doveva servirsi di Gesù adolescente» (Tommaso Gays, 16 febbraio 1942, 16° anniversario della morte del veneratissimo Padre Fondatore).

Uomo di Dio

Era un uomo di fede perché tutto compiva sotto gli occhi di Dio e nulla altro temeva. Era questo il segreto della sua inalterabile calma, anche in mezzo alle contraddizioni e alle prove.

Il denaro per lui fu sempre e unicamente il mezzo per procurare la maggior gloria di Dio. Visse e morì povero. La prebenda canonicale (Prebenda: una specie di rendita che gli era dovuta per il suo ruolo di canonico della diocesi di Torino, ndr), quando l’ebbe dal 1892, la donò sempre per il bene dei missionari e per i restauri del santuario. Avrebbe potuto esser ricco, invece visse poveramente.

«Era assolutamente schivo dagli onori che evitava. Era alieno da qualunque parata e con studio spontaneo si eclissava ovunque vi fosse da fare bella figura» (padre Borda Bossana – Testi citati nella lettera dei superiori generali dell’8 dicembre 202).

Era cortese, affabile e, «a tavola era molto parco nel cibo; durante il pasto non beveva mai, solo in fine beveva un bicchiere di vino, diceva, per digerire». «In contrario al suo aspetto serio e chiuso, quando alcuno aveva occasione di parlargli, allora egli manifestava la grande bontà del suo cuore», perché «in lui batteva un cuore sempre pronto alle necessità altrui, anzi a niuno secondo per finezza di discernimento delle miserie della povera umanità» (da testimonianze di vari confratelli).

Gentile e cortese con i sani, lo era maggiormente con gli infermi. «Quando alcuno della casa era malato se ne interessava tosto, riferiva al Rettore e disponeva per tutto quanto occorreva con larghezza di cuore. Ammirai in lui delicatezza e cuore. Aveva proprio un cuore di padre; per rimettermi bene in salute mi aveva procurato un liquore da prendersi giornalmente a bicchierini, che mi fece tanto bene; infatti, poco dopo ripartivo per l’Africa» (fratel Anselmo Jantet).

Chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno fondamentale e unico della sua vita e del suo sacerdozio.

Coloro che volessero vedere nel canonico Camisassa puramente l’uomo dell’azione esteriore, sbaglierebbero. Fu uomo di azione senza dubbio, ma soprattutto un sacerdote.

Tenera e sentita fu la sua devozione a Maria: «Mi abbandono tra le braccia di Dio ed in quelle di Maria». Viene spontanea la conclusione che è di tutti quelli che l’hanno conosciuto: la sua attività fu manifestazione del suo zelo e della sua pietà, prova ed effetto della sua santità.

Il certificato di battesimo di Camisassa Giacomo Francesco. Secondo questo certificato il battesimo fu fatto il 27 settembre 1954 alle ore 7 di mattina e la nascita avvenne alle ore 11 di notte del 26.

La giovinezza

Giacomo Camisassa nacque a Caramagna (Cuneo) il 27 settembre 1854, quintogenito di Gabriele Camisassa e Agnese Perlo. Era il tempo in cui il Piemonte vide fiorire una meravigliosa schiera di santi e di anime apostoliche e contemplative: Giovanni Bosco, Giuseppe Cafasso, Maria Mazzarello, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Luigi Orione, Leonardo Murialdo, i fratelli Luigi e Giovanni Maria Boccardo, Pier Giorgio Frassati, Callisto Caravario, Guglielmo Massaia, Giuseppe Marello, Ignazio di Santhià, Maria Cristina di Savoia, e molti altri.

Fattosi più grande, frequentò le scuole elementari del comune con assiduità e impegno, dando sempre prova di spiccata inclinazione allo studio, di chiara intelligenza e di esemplare condotta. Imparò presto il catechismo, e, come chierichetto, a servire bene la messa e tutte le altre funzioni religiose. Gli piaceva cantare e fu, per tutta la vita, un grande innamorato della musica sacra.

Da ragazzo lavorò come apprendista nella bottega di un fabbro, e nel 1868 entrò nell’Oratorio di S. Francesco di Sales, iniziato dopo tante peripezie e contrarietà da Don Bosco con l’aiuto di san Giuseppe Cafasso, zio materno dell’Allamano. Frequentò poi il seminario di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, studiò teologia nel seminario di Torino, dove incontrò Giuseppe Allamano che, nonostante fosse appena tre anni più vecchio di lui, divenne la sua guida spirituale per cinque anni, dal 1873 al 1879.

Fu ordinato sacerdote nel 1878 e, in seguito, completati i suoi studi, fu aggregato fra i dottori delle Facoltà di Teologia e di Diritto di Torino.

Promotore di sinodalità

L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi le cose con verità. La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, nel rispetto vicendevole dei loro ruoli e nella condivisione di ideali, rimane un esempio mirabile.

Oggi ci si può meravigliare quando si scopre che l’Allamano e il Camisassa si diedero del «lei» per tutta la vita. Se da una parte questo era un uso più comune e normale allora rispetto a oggi, dall’altra non era assolutamente necessario comportarsi in tal modo tra amici.

Tutto nacque da un vero atto di fede nella volontà di Dio espressa dal comando di monsignor Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino dal 1871 al 1883, che aveva assegnato prima l’Allamano alla formazione in seminario e poi nel settembre 1980, con il Camisassa, al Santuario della Consolata e all’annesso Convitto ecclesiastico. Ne seguì un lungo cammino di vera comunione di intenti, di progetti, di azione che produsse una incredibile mole di opere al santuario prima e all’Istituto dopo.

«Insieme sulla scia della volontà di Dio», così termina la lettera che l’Allamano scrisse al Camisassa informandolo del suo nuovo incarico come rettore del santuario della Consolata e invitandolo a essere suo aiutante come economo e vicerettore: «Faremo d’accordo un po’ di bene, eserciteremo la carità […], procureremo di onorare il culto della nostra madre Consolata; in questo nuovo ufficio avrà campo di esercitare il santo ministero, sia nel predicare che nel confessare».

«Ci siamo promessi di dire sempre la verità», disse l’Allamano in un’altra circostanza, svelando uno dei segreti per camminare insieme sulla scia della volontà di Dio.

L’Allamano iniziò il suo servizio al santuario il 2 ottobre 1880, raggiunto il giorno dopo dal Camisassa.

Ma la realtà più bella, nata dallo spirito di collaborazione tra i due, fu l’eredità di testimonianza che essi ci hanno lasciato, mostrandoci come si deve lavorare nella Chiesa e nell’Istituto, qual è lo spirito che lo permea, come cioè si deve evangelizzare. La loro collaborazione e amicizia aveva una solida base in Dio. «Erano 42 anni che eravamo insieme; eravamo una cosa sola; ci siamo sempre amati in Dio», confessò il fondatore alla morte dell’amico (Sr. Chiara Strapazzon, Deposizione, vol. 11, p. 854).

Sebbene essi avessero personalità e doti molto differenti, seppero tuttavia allacciare una relazione profonda e costante, nel rispetto della diversità, nel desiderio della complementarità. Crebbero come persone, come sacerdoti, come uomini di Dio. La pratica del dialogo fu fondamentale per rinsaldare e rendere efficace l’amicizia che legò il Camisassa al Fondatore.

Il canonico Camisassa (al centro) con un gruppo di sacerdoti del Convitto ecclesiastico.

Dirsi tutto

Una bella pagina del volume dei fratelli Giuseppe e Gian Paola Mina, dal titolo «La beatitudine di essere secondo» (Giuseppe e Gian Paola Mina, La beatitudine di essere secondo, Emi, Bologna 1982; riedizione riveduta e ridotta con ampio apparato fotografico, Editrice Velar, Golle [Bg] 2021), che è la biografia del Camisassa, presenta efficacemente la realtà di comunione tra l’Allamano e il suo più stretto collaboratore: «Dopo pranzo, nell’ufficio dell’Allamano, i due amici prendono una tazzina di caffè insieme e parlano. Più che un parlare, è un comunicarsi gli eventi grandi e piccoli, per un bisogno di confronto, sempre tesi come sono l’uno e l’altro alla ricerca della verità per scoprire i segni dei tempi […]. Dopo la cena, si ritrovano per vagliare quanto nella giornata è emerso e quanto il domani sembra prospettare. Niente di formale, niente di rigido, ma tutto è chiarezza, ricerca, gioia di camminare insieme […]; non ritengono sprecato quel tempo speso per chiarirsi le idee, per approfondire problemi, per giungere a conclusioni. Pregano, vivono nella stessa direzione. L’uno è sicuro dell’agire dell’altro e ciascuno conserva mirabile autonomia».

Ogni idea, ogni proposta, ogni progetto veniva esaminato, vagliato, controllato da ambedue insieme: nulla fu mai fatto o da uno solo di essi o indipendentemente uno dall’altro.

Frutto di questo dialogo fu la nascita e la crescita dei due Istituti missionari. A noi è rimasto uno spirito, una eredità. «Unità di intenti» era, infatti, l’ideale proposto dal fondatore ai suoi missionari.

Il santuario della Consolata da Via Consolata

Nell’abbellimento del Santuario

Il 3 ottobre 1880 arrivò al santuario don Giacomo Camisassa, chiamato dall’Allamano per coadiuvarlo. Qui fu vicerettore ed economo del santuario e del Convitto ecclesiastico a esso connesso (Fondato nel 1817 per i sacerdoti appena ordinati, che per due anni approfondivano la teologia – soprattutto quella morale – e la pratica pastorale. San Cafasso vi aveva insegnato fino al 1860. Nel 1876 il vescovo Gastaldi lo chiuse per contrasti sull’insegnamento della morale. L’Allamano lo fece riaprire nel 1880 nei locali annessi al santuario – ndr).

Nei 42 anni successivi (1880-1922) alla Consolata, l’Allamano e il Camisassa diedero inizio a tutta la serie di attività che avrebbero riempito la loro vita e li avrebbe resi grandi agli occhi di Dio e della Chiesa: riapertura del Convitto ecclesiastico, restauri del santuario, sviluppo della devozione alla Consolata, beatificazione di san Giuseppe Cafasso presentato quale modello del clero, fondazione di due Istituti missionari.

Insieme decisero di intraprendere i restauri necessari al santuario in vista anche della celebrazione dell’ottocentesimo anniversario del 1904, ma toccò al Camisassa seguire puntualmente i molteplici lavori. Il santuario allargato e ristrutturato fu benedetto il 20 giugno 1904, con la partecipazione di un legato pontificio, cardinali, arcivescovi e vescovi.

Insieme all’Allamano, fondò e diresse la rivista «La Consolata» (1899), per far conoscere la vita del santuario, i lavori di restauro e, in seguito, la vita e lo sviluppo dell’Istituto e delle missioni.

Nel 1892 il Camisassa fu anche nominato canonico della cattedrale di Torino.

Rivoli (To), 8 maggio 1902- Allamano e Camisassa con i primi quattro partenti. Da sx: fratel Celestino Lusso, padre Tommaso Gays, padre Filippo Perlo, fratel Luigi Falda. Di fronte Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa. Foto dell’8 febbraio 1902, conservata nell’Archivio generale IMC a Roma, n. 245

Nella fondazione dell’Istituto

Nel 1897 il cardinal Agostino Richelmy, compagno di seminario di Giuseppe Allamano, fu nominato arcivescovo di Torino. Lo speciale rapporto di fiducia e confidenza con il nuovo vescovo, consolidò l’idea della fondazione dell’Istituto missionario che l’Allamano coltivava da tempo, e il 29 gennaio 1901 nacque l’«Istituto della Consolata per le Missioni Estere» del quale Giuseppe Allamano non volle mai essere chiamato «fondatore», convinto profondamente che fondatrice fosse solo la Consolata.

Il Camisassa, dunque, chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno centrale della sua vita e del suo sacerdozio. Sentì che il programma dell’Allamano era pure il suo, non solo per un dovere di contratto, ma per un obbligo di elezione divina.

Ambedue si dedicarono alla preparazione dei futuri missionari. Nel 1902, l’8 maggio, partirono per il Kenya in Africa i primi quattro, due sacerdoti e due laici, seguiti poi da altri quattro il 15 dicembre. Altri sei, affiancati da otto suore Vincenzine del Cottolengo, arrivarono a destinazione in Kenya il 17 giugno 1903.

Il terreno in Via Circonvallazione(514-516) di 12.000 mq venne acquistato dall’Allamano nel 1905. I lavori iniziarono il marzo 1905 o poco dopo. La nuova Casa Madre venne inaugurata il 23 ottobre 1909. E’ da considerarsi come il memoriale del patto vicendevole intercorso tra l’Allamano ed il Camisassa. – Disegno e direzione sono dell’Ing. E.Ruffoni. Ditta: Fratelli Faia – La facciata é di 90 m – I due fabbricati minori erano adibiti a parlatori, museo, ì segheria … – Nella parte di mezzo avrebbe dovuto sorgere, col tempo, la ì nuova chiesa. Così secondo un “vivo desiderio del Fondatore”. (La Consolata – ottobre 1909, pp.160-161).

Nella costruzione della Casa Madre

Quando la prima casa dell’Istituto in corso Duca di Genova (l’attuale corso Stati Uniti) a Torino, denominata «la Consolatina», non fu più sufficiente a ospitare gli aspiranti missionari che vi studiavano, vivevano e lavoravano, l’Allamano acquistò un terreno di 12mila m2 in via Circonvallazione 514-516 angolo corso Oporto (ora corso Francesco Ferrucci, dal 12 al 18). Nel marzo 1905, sotto la guida del Camisassa, si iniziarono i lavori di quella che sarebbe diventata la Casa Madre.

In Kenya, durante uno dei molti viaggi da una missione all’altra.

Nel provvedere per le missioni

Tutta l’organizzazione materiale delle prime missioni (preparazione del corredo per i missionari, spedizione di casse, progetti per la costruzione di case, fornitura di attrezzi di lavoro, ecc.) dipendeva da Giacomo Camisassa.

Come già per il Santuario aveva studiato progetti, trattato con impresari, tenuto sedute con architetti, assistito a lavori, scelto i materiali, cercato persone idonee, concluso contratti, sempre attento alla perfezione della riuscita; così fu per il compito che assolse per le missioni.

Il canonico Allamano non era fatto per questo genere di preoccupazioni e di occupazioni. Il primo a riconoscerlo e manifestarlo fu egli stesso, come scrisse padre Sales: «Era solito dichiarare che non si sarebbe deciso al grave passo – di fondare l’Istituto – se non si fosse trovato al fianco un uomo della tempra e dell’abilità del Camisassa».

Il Camisassa, di fatto, era il dinamismo in persona, con una competenza spiccata per le «cose pratiche».

Testimonia padre Antonio Borda Bossana, membro del secondo gruppo partito per il Kenya: «Il salone del Convitto sopra la sacrestia divenne un bazar di ogni cosa necessaria alla vita dei missionari. È lui (il Camisassa, ndr) che pensava a tutto e tutto provvedeva, lui che si recava nei negozi a scegliere e contrattare le merci. L’economo e i preti addetti al Santuario alle sue dipendenze erano tutto il giorno di corsa per eseguire le sue commissioni, massime quando s’approssimava il tempo di spedizione delle merci».

Incontro con un capo che gli presenta il figlio per farlo ammettere nella scuola detta «Collegio dei principini» per la formazione dei giovani leaders del futuro.

Nella visita alle missioni del Kenya

Dieci anni dopo la partenza dei primi missionari, e poco dopo la fondazione delle Missionarie della Consolata nel gennaio 1910, i missionari in Kenya reclamavano una visita del fondatore perché conoscesse bene la situazione, valutasse risultati, chiarisse problemi per poi affrontare insieme il cammino da fare. L’Allamano non era in condizione di lasciare il Santuario e la sua salute non gli permetteva un viaggio così impegnativo. Mandò così il suo più fedele collaboratore che partì da Torino l’8 febbraio 1911. Giunto in Kenya a marzo 1911 vi restò fino ad aprile 1912, rientrando a Torino il 26 di quel mese. Scopo del viaggio: aumentare l’entusiasmo dei missionari, rinsaldare la loro buona volontà, approfondire la loro spiritualità e confortarli con la sua presenza, sostenendoli nelle difficoltà e negli insuccessi. A sessant’anni circa, era arzillo come un giovane, con il largo cappello di sughero, in abiti rurali, pronto al lavoro e sempre fresco, come nulla gli mancasse.

Nonostante la lentezza della posta a quei tempi, tenne costantemente informato l’Allamano sulle sue attività, creando una fitta corrispondenza e chiedendo i suoi consigli su situazioni difficili.

Parlando del programma della visita all’Africa del Camisassa, l’Allamano avrebbe ricordato che: «Vi andò per parlare ai missionari, sia in privato nelle singole stazioni, sia in pubblico durante i Santi spirituali esercizi, ed intendersi con essi sulle Costituzioni, Regolamento, esercizi di pietà, vita comune, ecc., secondo un formulario che avevamo preparato di comune accordo».

Il Camisassa diede grande impulso e aiuto ai lavori materiali. In diverse sue lettere autografe ai missionari si notano, tracciati a penna, rapidi schizzi di macchinari o di attrezzi di lavoro. Prima di spedire il materiale in Africa, a volte progettato sulla base delle indicazioni dei missionari stessi, il Camisassa si preoccupava di istruire per lettera gli interessati che lo avrebbero adoperato. Sono particolarmente dense di questi disegni le lettere che scrisse nel 1911, durante la sua visita alle missioni del Kenya, perché poteva constatare di persona le necessità e controllare i lavori.

Camisassa a Gaighanjiru con (da sx) suore vincenzine, padre G Perlo, fratel Umberto Arossa, suora cottolenghina, padre Angelo Bollani, canonico Camisassa, padre T Gays, padre G Cavallero, fratel Bezzole Luigi, padre Vignoli e suor Scolastica del Cottolengo

Nella segheria installata nella foresta di Tuthu, sotto la guida del coadiutore Benedetto Falda, si costruirono diverse case prefabbricate, che furono le prime abitazioni in legno per il personale delle missioni.

Provvide a realizzare gli altarini portatili perché i missionari potessero sempre celebrare la messa, anche durante i viaggi. Nell’archivio dell’Istituto è conservata copia del disegno, opera sua, di un altare portatile composto da 22 pezzi smontabili e facili da assemblare per la celebrazione.

La più bella conclusione a questo punto siano le due lettere scritte dal Camisassa e dall’Allamano al termine della visita in Africa.

Scrisse il Camisassa: «Le accoglienze cordialissime da parte vostra eran cose che poteva già aspettarmi ben conoscendo quanto affetto avete sempre nutrito verso la mia povera persona, quale debole cooperatore di quell’anima santa che tutti siam fortunati di chiamare col dolce nome di Padre».

Scrisse l’Allamano: «Il felice ritorno del sospirato Vice Superiore fu un momento di gioia per me e per tutti nell’Istituto. […] Vi rinnovo i ringraziamenti per le festose accoglienze che gli avete fatte e per la docilità con cui avete accettato quanto egli credette di dirvi pel vostro maggior bene».

Confondatore

Non c’è dubbio che gli Istituti fondati dall’Allamano ritengono, con ragione, il Camisassa loro «confondatore», come era già denominato quando l’Allamano era vivo, il quale per primo, volle dargli il più ampio riconoscimento chiamandolo confondatore egli stesso, vale a dire: «Fondatore con lui, fondatore unitamente a lui».

In due documenti ufficiali datati 2 ottobre 1909, si parla di «due fondatori» e sono firmati da entrambi i canonici Allamano e Camisassa.

Il primo è la supplica al Papa per ottenere l’approvazione dell’Istituto, di modo che divenisse di diritto pontificio. Essa incomincia: «Beatissimo Padre, i sottoscritti fondatori dell’Istituto della Consolata […]» (cfr. Lett., V, 278).

Il secondo è la petizione alla Congregazione dei religiosi, per lo stesso motivo.

«Aveva l’arte di nascondersi»

L’umiltà fu la sua virtù prediletta. Nascondeva costantemente se stesso per mettere gli altri in luce. Mai parlava di sé e di quanto faceva. Pochi lo conoscevano di nome, pochissimi di vista (Da Giuseppe Ronco, Il confondatore aveva l’arte di nascondersi, in https://giuseppeallamano.consolata.org). «Ho sempre ammirato in lui una umiltà profonda, si faceva uno studio di nascondersi sempre dietro l’ombra del Rettore. La sua preoccupazione era di scomparire, di essere ignorato» (mons. Rostagno).

Sperimentava la beatitudine di essere secondo.

Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare da queste sue affermazioni proferite durante la malattia e dopo la morte dell’amico: «Per lui ho offerto la vita, ma vale niente»; «Senza di me potete fare, ma senza di lui, no»; «Tocca a me fare i suoi elogi. Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».

Ciò che colpisce non è solo la collaborazione, ma anche lo stile con cui questa collaborazione venne attuata per così tanti anni. Uno stile indicato dalle parole dell’Allamano già citate: «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto». Si comprende allora perché diceva: «Non dimenticate quest’uomo!» (Padre Aquileo Fiorentini, Missionari di Gesù Cristo per la gioia del mondo, come Paolo e i suoi collaboratori, Bollettino ufficiale 125, gennaio 2009).

Con il gruppo dei futuri catechisti.

Tessitore di fraternità

Conosciamo bene l’attaccamento sincero e il servizio incondizionato che il Camisassa dedicò ai due Istituti missionari, con particolare attenzione a quello delle suore.

La nuova casa dei missionari fu inaugurata il 23 ottobre 1909, mentre il 29 gennaio 1910, si diede inizio alle suore «Missionarie della Consolata».
Si preoccupò che anche le suore avessero una casa e si prese cura della sua costruzione. Il 4 settembre 1922 la comunità delle Missionarie della Consolata poté entrare nella propria Casa Madre.

Nella Lettera Circolare del 26 agosto 1922, il fondatore, comunicando ai missionari la dolorosa notizia della morte del Camisassa, così si esprimeva: «Egli viveva per voi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Le sue ultime parole, che disse nel suo testamento, furono di unione fra i missionari e le missionarie». La sua vita fu la testimonianza più bella di quell’unione. Il suo amore era per tutti senza distinzione.

Fu un umile maestro di vita che si prodigò per il bene dei due Istituti, affinché vivessero in comunione. Il suo servizio fu caratterizzato dalla sincerità, dalla fiducia e dalla correzione fraterna, dal vivere l’unità di intenti nella collaborazione e corresponsabilità, quello che oggi chiameremmo lo spirito della sinodalità.

Il beato Allamano e il canonico Camisassa con i sacerdoti convittori.

La morte

Il 18 agosto, verso sera, come svegliandosi da un sogno, il canonico Giacomo Camisassa si guardò intorno e fece cenno a suor Virginia Barra, che lo assisteva, di dargli il suo Crocifisso, lo stesso fece con padre Carlo Francesco Sciolla che la aiutava. Legò insieme i lacci dei due Crocifissi e li tenne sul cuore mentre guardava intensamente il padre e la suora. Cercò di parlare e dire qualcosa, ma non riuscendo lo aiutarono: «Significa che i padri e le sorelle devono restare uniti nell’amore reciproco?». «Sì; sì; questo è tutto…», rispose. Poi, continuando a tenere lo sguardo sui presenti, disse: «È il padre (Allamano, ndr) che vi ha legati». «E lei desidera che noi rimaniamo sempre così uniti; è giusto?». «Sì, è il mio desiderio, ma è il padre che lo vuole». Continuò a baciare i Crocifissi, stringendoli al cuore.

In quel momento, l’Allamano entrò nella stanza. Non capì cosa stesse accadendo e, così, chiese loro di sciogliere i Crocifissi. Il malato dimostrò di soffrire per questo.

Appena venne a conoscenza di ciò che era capitato, l’Allamano disse: «Se solo avessi saputo, non avrei mai chiesto di slegare i due Crocifissi. Li avrei tenuti com’erano a testimonianza delle sue intenzioni».

Scrisse ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne».

Più tardi scrisse ancora: «Quell’azione fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a essa: è sacra».

Erano circa le 20, una sera calda e umida. Tutti erano a cena, tranne suor Emerenziana e suor Ambrosina che assistevano il malato che era preso dalla smania di alzarsi per «andare all’Istituto». Nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi barcollanti e cadde: era morto.

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922,

«Era maturo per il cielo»

«Carissimi e carissime in N. S. G. C. (Nostro Signor Gesù Cristo, ndr)

Mi trema la mano, il cuore si gonfia e gli occhi versano lacrime nell’indirizzarvi questa breve lettera. Il nostro caro Vicerettore e Vice Superiore non è più tra noi e non lo rivedremo che in Paradiso. Spirò placidamente la sera del 18 corr. mese, con tutti i conforti religiosi e le cure più affettuose. Quale perdita per il santuario e più per l’Istituto e le Missioni! Vedevamo necessaria la sua esistenza e pregammo la nostra SS. Consolata a prolungargli per qualche tempo la vita. Molti, io pure, hanno offerto la propria vita perché fosse conservata quella del nostro caro.

La SS. Consolata non credette di esaudire le comuni preghiere. Era maturo per il cielo. Aveva compiuto la sua santa e laboriosa giornata e poteva dire con san Paolo: Cursum consummavi, in reliquo reposita est mihi corona justitiae (ho terminato la corsa, … mi resta solo la corona di giustizia, ndr). Pronunciate con me il fiat all’imperscrutabile volontà di Dio, e sia in suffragio della bell’anima.

In tanto dolore ci consolarono le prove di stima e di affetto che tutta Torino diede a Lui umile e da molti sconosciuto. La sepoltura fu un trionfo. Egli viveva per noi e per le nostre Missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Pregate per Lui ed anche per me desolatissimo che nel nome della SS. Consolata vi benedico».

Così scrisse l’Allamano ai missionari e missionarie per dare l’annuncio della morte di Giacomo Camisassa, per la quale soffrì molto (Lettera n. 1580, da Candido Bona (a cura di), Quasi una vita, lettere scritte e ricevute dal beato Giuseppe Allamano, Vol IX/1 p. 448). Allora confessò umilmente che, in quel momento, aveva come «perduto tutte due le braccia». «Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».

La morte del Camisassa fu un colpo molto sentito, così per dodici mesi consecutivi, nel giorno 18 di ogni mese si celebrò in Casa Madre una messa solenne. Nella nona ricorrenza, il 18 maggio 1923, la santa messa fu cantata da monsignor Gaudenzio Barlassina, tornato dal Kaffa, in Etiopia. Il venticinque luglio, festa di san Giacomo, tutte le comunità di Casa Madre andarono al cimitero a celebrare una santa messa e a visitarne la tomba.

«Proruppe in un pianto dirotto»

Il canonico Nicola Baravalle così espresse la propria ammirazione per l’Allamano, con il quale aveva collaborato molti anni: «Ricordo quella sera nella quale eravamo tutti addoloratissimi, sia per la perdita del grande canonico Camisassa, come per la ripercussione che tale dipartita avrebbe avuto sul Servo di Dio. Assistette all’agonia ed alla morte senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato, proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio. Rialzatosi, prese le disposizioni del caso; restò per qualche tempo impressionato, ma non ebbe più una lacrima, e non ritornò più sul fatto. Solo si rese più appartato, dovendo supplire a quanto faceva il Camisassa».

Anche le Missionarie della Consolata colsero le reazioni dell’Allamano dopo la morte del suo amico. Nel breve incontro alla Consolata del 3 settembre 1922, l’amanuense annotò, tra parentesi «(Andiamo noi alla Consolata perché pioveva)», e poi al termine delle poche righe: «(Ritornando a parlare del Sig. Vicerettore) Sì, non mi sembra vero che non ci sia più, ma penso che c’è il suo spirito. Pensate a far tutto come voleva lui, e pregate per lui».

I suoi figli e figlie, anche quelli lontani, compresero perfettamente e condivisero lo stato d’animo del loro padre. A nome di tutti loro, così scriveva dal Kenya il vicario apostolico monsignor Filippo Perlo all’Allamano: «[…] il suo buon esempio non può non apportare anche a noi conforto e incoraggiamento. Grazie anche per questo».

L’urna con i resti del Camisassa sullo sfondo, a sinistra, della tomba di Giuseppe Allamano nella chiesa santuario dedicato al beato Allamano in Torino.

Uno accanto all’altro

Dal 2001, le spoglie mortali del Camisassa riposano accanto a quelle dell’Allamano. L’urna di zinco è contenuta in un elegante cofano di legno. Dietro il cofano, in lettere d’oro, si possono leggere queste parole: «Un amico fedele è un balsamo (Si 6,15). Tale è stato Giacomo Camisassa per l’Allamano. Di lui ha detto l’Allamano: “Ci siamo sempre amati in Dio”. “Abbiamo promesso di dirci sempre la verità e lo abbiamo sempre fatto”. “Viveva per noi e per le nostre missioni”. “Ha sempre e solo lavorato per amor di Dio”. “Non dimenticate quest’uomo”». L’Allamano e il Camisassa, che ora riposano l’uno accanto all’altro, sono meta di filiali visite da parte dei Missionari e delle Missionarie della Consolata e di molta gente.

Giuseppe Ronco

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922, davanti al santuario della Consolata


Apostoli con la parola e il lavoro

Lettera a fratel Benedetto Falda nella segheria della missione di Tuthu

Torino, 8 marzo 1904

Carissimo fratel Benedetto,
ho ricevuto ieri la tua lettera del 3 febbraio scorso. Non puoi credere quanto mi abbia fatto piacere sapere che l’andamento alla segheria procede benissimo e tu sei sempre felice del tuo lavoro. Persuaditi che quello è un vero apostolato, tanto quanto il sacerdote che predica. L’impressione che il lavoro fa sugli Akikuyu, il movimento febbrile delle macchine, onora presso di loro il lavoro e sveglia la brama di imitarvi, d’imparare affin di migliorare le loro condizioni di vita. […]

Sai, Benedetto, perché ti dico queste cose? Perché tu e quanti sono con te vi persuadiate che, come coadiutori, siete veri missionari, anche facendo il falegname, il muratore, il contadino o altro. Per fare bene la vostra parte dovete lavorare con spirito di fede, volentieri, allegri, concordi e sempre intenti al pensiero che Dio vi vede, intenti a dare il buon esempio.

Con spirito di fede: col pensiero che Dio vede, fare le cose come se aveste accanto Gesù e dovesse esaminarvi se fate bene e se vi approvi.

Volentieri: cioè, come foste mai stanchi; mai perdere tempo!

Allegri: sempre col sorriso sulle labbra, mai di cattivo umore. Qualche volta può darsi che non lo siate, ma non fatelo trasparire. E poi, mai tratti duri con gli Africani!

Concordi: trattarvi a vicenda con carità, aiutandovi scambievolmente; insomma essere un cuore solo, un’anima sola, come veri fratelli nel Signore Gesù.

Buon esempio: gli indigeni hanno occhi semplici, ma tutto vedono, tutto osservano, fanno ciò che voi fate. […] Guai se scandalizzaste uno di loro! Applicate le parole di Gesù al vostro ambiente. […] Finisco!

Voglio solo aggiungere che il Signor Rettore, leggendo la tua lettera, è rimasto molto contento, gioisce quando gli dici che i tuoi ti vogliono bene. Ciò significa che si vanno affezionando a te, a tutti. Sì, cerca di affezionarteli, per poter dire, anche sul lavoro, brevi parole di esortazioni, su Dio che premia i buoni… Sono parole e, dice il Signor Rettore, che, se dette con fede, ti fanno apostolo. Così dice il Rettore: «essere apostolo con la parola e con il lavoro».

Can. G. Camisassa

La turbina installata a Tuthu da fratel Benedetto con materiali e istruzioni fornite dal Camisassa.

Un uomo dalla fede adamantina

Testimonianza di fratel Benedetto Falda sul Camisassa, Torino, 2 giugno 1944

Rev.mo Padre Gays,
In referenza alla sua domanda di mettere in carte quel che ricordo del nostro amatissimo Can. Camisassa, mi permetto di scriverle quel che più mi si impresse nella mia mente.

Conobbi il Rev.mo Sig. Vicerettore, così nominato da tutti i confratelli all’Istituto, dal primo giorno che ebbi la fortuna di essere posto a contatto col Rev.mo Nostro Fondatore. Mi ricordo che mi colpì la sua affabilità, non dico paterna, ma fraterna, anzi, quasi di compagno. Essendo in quei giorni preoccupato di cercare un meccanico per inviare in Africa con le nuove macchine mi ebbe subito caro e mi pose a parte dei suoi progetti condivisi completamente da me, entusiasta dei suoi ideali che feci miei.

Lettera autografa del Camisassa al fratel Luigi Falda.

Stante la scarsità del tempo (4 mesi in tutto, per la mia preparazione e quella delle macchine) si occupò personalmente a farmi avere conoscenze per aver occasione di impraticarmi di segheria di cui ero affatto digiuno. Ebbi modo di constatare con quale praticità e facilità e accuratezza trattava gli affari […] dal trattare con l’ingegnere per l’amplificazione del Santuario [al dare] ordini all’economo, don Gunetti, per riguardo al vino in cantina e […] vedere se le lime che io avevo comperato erano del giusto taglio per affilare le seghe di acciaio […]. Aveva tracciato progetti d’impianti che poi ai disegni che ne facevo, correggeva colla medesima cura e competenza, come correggerà le bozze del Periodico, andando fino alle minuzie, non con pedanteria, ma con la competenza che lo rendeva atto a correggere anche i disegni dei marmi dell’impresario Catella.

Quell’che più mi impresse si fu che la sua attività lo faceva avaro del tempo […].

Quando arrivai in Missione, ebbi campo di mettere in pratica i consigli praticissimi che Egli mi aveva dato alla partenza, ma pochi mesi dopo il mio arrivo colà mi scriveva una lettera, mi pare del mese di settembre (1904), che la S. V. R. ricevette da me qualche mese fa. In quella mi ammoniva amorevolmente che io mi tenevo troppo riservato nello scrivere e mi diceva: «Come va che dopo tanto combinato per quel macchinario, non mi fai parola? Riguardo allo spirituale scrivi sovente al Sig. Rettore, ma pei lavori voglio da te lettere particolareggiate e lunghe e frequenti». […]

Dopo qualche mese, mi giunsero disegni e particolari di una casa a due piani, che voleva come modello, fosse eseguita per l’abitazione dei Missionari. Ma i particolari erano così minuziosi e copiosi ed eseguiti con tale perizia, che pensavo dove avesse fatto gli studi per essere così pratico di falegnameria e di accorgimenti propri solo a tecnici provetti. Nell’1908, nella mia venuta a Torino, ebbi agio di osservare la costruzione della Casa Madre di Corso Ferrucci (allora chiamato via circonvallazione, ndr), lavoro colossale che egli concepì e diresse con una diligenza e competenza non comune. […]

Lo rividi nel 1911-1912 nel Kenya, nella sua visita che fece colà. […]

Per il lavoro di Missione, poi, aveva un culto speciale – interessandosi della vita nostra di Missione come se non avesse avuto altro scopo nella sua vita. […] E nelle sue lettere non si riservava solo di parlarmi di lavori, ma conservai per lungo tempo una sua lunga lettera di quattro pagine in cui mi animava nel proseguire con lena nel servizio della Missione, con parole tanto infiammate di amore per Dio e per le anime che ne fui tocco al cuore!

Lo rividi nel 1920 nella mia venuta in Italia; dopo 18 anni, mi accorsi che il lavoro e gli anni cominciavano a contare sulla sua forte fibra, ma il suo sguardo e la sua parola era[no] ancora quelle di tanti anni addietro, tutto vivezza e tutto slancio per quel che riguardava l’Istituto, che certamente considerava come parte sua creatura […]. Ebbi per Lui sempre un’affezione speciale e un’ammirazione illimitata; lo considerai sempre un uomo dalla fede adamantina […]. Credo che il suo motto fosse «Tutto per la gloria di Dio». Gradisca, Rev.mo Padre i miei più affettuosi saluti nel Signore.

 Coad. Benedetto Falda


Date essenziali

27 settembre 1854
Nascita di Giacomo Camisassa a Caramagna Piemonte (Cn) – Italia.
(data registrata in comune; nel registro del battesimo risulta invece nato alle ore 23 del giorno 26 settembre, ndr)

Ottobre 1868
Entra all’Oratorio di don Bosco, a Torino, per i corsi ginnasiali.

22 ottobre 1871
Veste l’abito chiericale nella chiesa parrocchiale di Caramagna.

15 giugno 1877
Ordinato sacerdote nel duomo di Torino, da mons. Lorenzo Gastaldi.

8 luglio 1879
Si laurea in Teologia, a pieni voti.

3 ottobre 1880
Su invito del can. Giuseppe Allamano, diventa economo nel Santuario della Consolata.

15 giugno 1887
Il card. Gaetano Alimonda, lo nomina uno dei sette membri della Facoltà di Diritto canonico e civile.

7 luglio 1892
Nominato «Canonico onorario».

20 ottobre 1895
Viene confermato membro aggiunto della Facoltà legale, col titolo di «avvocato».

Gennaio 1899
Esce il primo numero del periodico «La Consolata», ideato e fondato dal Camisassa.

10 maggio 1902
Accompagna, fino a Marsiglia, la spedizione dei primi quattro Missionari della Consolata per il Kenya.

19 giugno 1905
È nominato «Canonico effettivo».

8 febbraio 1911
Inizia la visita alle missioni del Kenya.

26 aprile 1912
Rientra a Torino dal viaggio in Kenya, dopo una sosta a Roma.

18 agosto 1922
Muore presso il Santuario della Consolata.

15 novembre 1976
La sua salma viene trasferita nella cappella mortuaria dell’Istituto (Camposanto generale di Torino).

5 ottobre 2001
Le spoglie mortali del Camisassa vengono solennemente collocate accanto al sepolcro dell’Allamano, nella chiesa santuario di Casa Madre a Torino.

Preghiera per l’anno del Camisassa

Foto classica del canonico Giacomo Camisassa

Grazie, Signore, per aver donato
alla nostra famiglia missionaria
la presenza discreta, operosa e benedicente
del canonico Giacomo Camisassa.

Egli, uomo di Dio,
uomo di comunione e collaborazione,
in sintonia con il beato Giuseppe Allamano
sostenne la nascita e lo sviluppo
degli Istituti missionari della Consolata.

Donaci, Signore, di imparare dal nostro Confondatore
l’arte della vera amicizia fraterna,
la silenziosa operosità,
l’umiltà di chi cerca Dio con tutto il cuore
e la dedizione entusiasta alla missione
nella quale Dio, nella sua bontà, ci coinvolge.

Lo chiediamo a Te, Signore Gesù,
il Figlio missionario del Padre,
che vivi e regni con Lui e lo Spirito Santo
nei secoli dei secoli. Amen!

 

 


Hanno firmato questo dossier:

Giuseppe Ronco, missionario della Consolata. Ha servito due periodi in Zaire – Rd Congo (1973-1977 e 1985-1987). Formatore dei teologi a Rivoli (1977-1985). In Canada, a Montréal, dal 1987 al 2007. A Roma dal 2007 al 2018. Ora è in Casa Madre a Torino. Per questo dossier si è avvalso anche di lettere e comunicazioni interne dei superiori generali delle missionarie e dei missionari della Consolata.

A cura di Gigi Anataloni, direttore di MC dal 2010.

Foto di questo dossier

Dall’Archivio fotografico Missioni Consolata (AfMC) a Torino. Quelle scattate in Kenya sono di monsignor Filippo Perlo.

Testi

Nei dossier ci sono molte citazioni di testimonianze di Missionari e Missionarie della Consolata e altri sacerdoti della diocesi di Torino. Gli originali sono nell’archivio generale dei Missionari della Consolata a Roma, spesso frutto delle ricerche e degli studi del compianto padre Francesco Pavese.

P Pavese a Tuthu con la ruota idraulica che faceva funzionare la segheria di fratel Benedetto Falda .

 




Sussurrare


Il 10 luglio la piccola Chiesa cattolica in Mongolia compirà trent’anni. È la data in cui è «rinata» in quel paese dove pure il cristianesimo era arrivato oltre un millennio fa. È una Chiesa piccola, quella mongola, neanche 1.500 cattolici e due preti nativi, ma è giovane e bella e piena di speranza e vitalità. In più, proprio in questi giorni, ha ricevuto un dono inaspettato: il suo vescovo, monsignor Giorgio Marengo, missionario della Consolata, compare nella lista di coloro che verranno nominati cardinali nel prossimo Concistoro del 27 agosto. Sarà il più giovane.

Quella mongola è una Chiesa di periferia che «sussurra il Vangelo al cuore dell’Asia», come scriveva padre Giorgio nel giugno 2018 su MC. «La missione sta nel mettere in comunicazione il “cuore” con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un “sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia”, prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un “paradigma” missionario».
E continuava: «Il verbo “sussurrare” allude a una relazione. Nel nostro caso, una relazione con Dio ricevuta come dono e coltivata come scelta d’intimità, preghiera, dialogo vitale. Noi missionari siamo chiamati a sussurrare al cuore di Dio e a lasciare che Colui che ci manda a essere sue epifanie presso i popoli asiatici sussurri al nostro cuore. Siamo chiamati a metterci in relazione con le persone alle quali siamo inviati, alla vicinanza, all’immersione nel loro mondo.

Due persone si sussurrano a vicenda qualcosa solo quando sono in confidenza. Non si sussurra all’orecchio del primo che capita. E quello che si comunica nel sussurro è qualcosa di profondo, di vitale, che esige un certo pudore, un’aura di mistero, oltre che di rispetto».

Sussurrare non è una strategia, né una tattica, ma un modo di essere e di relazionarsi con gli altri. Richiede confidenza, rispetto, familiarità, fiducia. È vicinanza e intimità. Per questo, forse, può diventare un verbo di grande rilevanza oggi, quando invece i messaggi, se messaggi sono, vengono urlati, imposti, lanciati come bombe. Più «urlati» sono, più like ricevono, più visualizzazioni contano, più «veri» appaiono per chi li riceve. Senza lasciare spazio per la riflessione, l’approfondimento e il confronto.
Sussurrare diventa anche una sfida per quei politici che lanciano slogan per dire tutto e il contrario di tutto con l’occhio agli indici di ascolto e ai consensi elettorali. È una provocazione per i grandi della terra che pensano di comunicare con quindici metri di tavolo tra loro o di conquistare il mondo a suon di cannonate.

Papa Francesco, quando parla di una «Chiesa in uscita», dimostra di avere a cuore la sfida del «sussurrare il Vangelo». Non più una chiesa di potere, ma una «famiglia». Una vera «parrocchia» (che etimologicamente vuol dire «vicinato»), cioè comunità di vicini, i quali si parlano, si ascoltano, si incontrano, hanno cura gli uni degli altri e dell’ambiente. Persone che reagiscono al terribile anonimato della nostra società che mette gli uni contro gli altri nello stesso palazzo, che isola le famiglie, che proibisce ai bambini di giocare nel cortile – se mai c’è – e costringe a far festa con amici e famigliari nei ristoranti o nei centri commerciali, perché l’appartamento è troppo piccolo per accogliere tutti e, soprattutto, si rischia di disturbare. Una società che non permette più nemmeno di piangere i propri cari nell’intimo della casa, e incoraggia invece ad affidarsi alle efficentissime (e falsamente personalizzate) «case del commiato» che offrono, tutto incluso, anche il servizio religioso.

La logica del sussurro contesta il rumore, l’esibizione, la pubblicità, la fretta. Ama il silenzio, l’incontro personale. Il sussurro non usa la forza, non fa tappare le orecchie, ma apre il cuore. È vicinanza e rispetto. Non giudica. Sussurrare è come il vento tra le foglie. È esserci senza imporsi, senza mettersi al centro, rispettando i tempi dell’altro, senza pressioni e ricatti.

Il sussurro è il modo con cui Dio ci parla, con una Parola che va al cuore. «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20)».




Madagascar,

La lunga strada della missione


Immersi in paesaggi mozzafiato ma con enormi problemi di viabilità, la missione si fa anche con le suole delle scarpe. La gente è accogliente. I cristiani pochissimi e giovani. La voce dell’esperienza diretta.

Le meraviglie di Dio sono enormi. In modo straordinario hanno rafforzato la nostra piccola fede, reso facili le nostre lotte quotidiane e ci hanno dato un’incredibile speranza di guardare al futuro. Hanno facilitato i nostri viaggi, l’attraversamento di villaggi, fiumi, torrenti e foreste, salendo e scendendo le ripide colline del comune di Beandrarezona. Hanno fatto accadere l’inatteso e l’impossibile.

Ci troviamo nella regione di Sofia, nella provincia di Mahajanga, nel distretto di Bealalana. La regione di Sofia ha una superficie di 52.504 chilometri quadrati (come due grosse regioni italiane), con una popolazione approssimativa di 985mila abitanti. Il municipio di Beandrarezona è costituito da tre comuni rurali con una popolazione di 51.170 persone di cui 716 cattolici. Il novanta per cento dei cattolici sono giovani e bambini.

Il gruppo etnico dominante è quello degli Tsimihety, che sono prevalentemente agricoltori e coltivano riso, tabacco, arachidi, fagioli, mais. L’agricoltura viene effettuata su piccola scala utilizzando metodi tradizionali. Questo comune è uno dei luoghi più poveri della regione di Sofia. La povertà è sentita più duramente tra i giovani che sono la maggioranza. Non esistono reti stradali che favoriscano la circolazione delle persone e dei prodotti agricoli verso i mercati locali.

Comunità lontane

Il programma di evangelizzazione casa per casa e di visita dei villaggi è in corso di realizzazione. È una buona esperienza incontrare persone nel loro ambiente quotidiano. L’accoglienza è finora positiva e la gente apprezza queste visite. Questa attività richiede resistenza e determinazione. Bisogna infatti camminare attraverso sentieri, fiumi e terreni collinari. La maggior parte delle persone sono amichevoli e disponibili.

Ci sono quarantacinque villaggi lontani l’uno dall’altro tra i 20 e i 90 chilometri. Non ci sono strade, quindi, per lo più, facciamo queste grandi distanze a piedi. La nostra comunità cristiana più lontana è a 90 chilometri dalla sede di Beandrarezona: si tratta di una camminata di due giorni. Abbiamo anche visitato per la prima volta nuovi villaggi nell’area della nostra missione. È stata un’avventura perché alcuni non erano mai stati visitati da nessun sacerdote, mentre altri villaggi avevano visto un missionario solo prima del nostro arrivo nel 2018, quando ancora c’erano i frati cappuccini. Il numero di cristiani in una cappella esterna varia da 5 a 30. Tuttavia, ci sono villaggi dove non c’è un solo cattolico. Ogni cappella ha un catechista. Questi sono uomini di buona volontà, scelti dai cristiani del luogo per condurre le celebrazioni domenicali, pianificare e organizzare preghiere, come il rosario, e infine prendersi cura del pezzo di terreno dove sorge la cappella.

Per la scelta dei catechisti sono stati presi in considerazione i seguenti elementi: in primo luogo devono essere persone con una buona reputazione nella comunità e, in secondo luogo, devono saper leggere e scrivere. Questi catechisti non hanno alcuna formazione catechetica e, in casi estremi, alcuni di loro non sono neppure battezzati. Può sembrare strano, ma questa è la nostra realtà. I catechisti che devono ancora essere battezzati sono aiutati da cristiani anziani a formare i catecumeni, mentre si sottopongono essi stessi a formazione.

Diverse cappelle esterne hanno strutture semi permanenti che sono in uno stato fatiscente, mentre altre usano come luogo di culto e riunione delle strutture di fortuna messe a disposizione da cristiani nelle loro fattorie. La parrocchia, per rendere più stabili le singole comunità dovrà acquistare appezzamenti di terra in diversi villaggi: non avere un luogo di culto permanente è infatti destabilizzante.

Generalmente, ci sono pochissimi adulti nelle comunità cristiane, e questo rende molto difficile l’autofinanziamento allo scopo di acquistare terreni.

Bisogno di formazione

La formazione delle comunità cristiane è in corso. Il nostro obiettivo è quello di creare un senso di appartenenza e partecipazione alla parrocchia. I catechisti stanno seguendo sessioni di formazione che permettono loro di svolgere meglio i loro compiti. Sono stati esposti diversi temi, come la vocazione di un catechista, il suo ruolo in una comunità cristiana e nella parrocchia, l’importanza della preghiera nella vita cristiana. Inoltre, concetti semplici di liturgia come l’anno liturgico, i colori e i diversi momenti e gesti della messa, riflessioni sulle letture domenicali, e così via. Gli incontri sono programmati ogni tre mesi e durano quattro giorni, e si svolgono nella sede centrale. A causa delle lunghe distanze, i catechisti arrivano il martedì e partono la domenica mattina dopo la messa. Ogni catechista condivide le sue esperienze e il lavoro svolto negli ultimi tre mesi.

Abbiamo attivato i programmi di formazione per i bambini e i giovani, che consistono in seminari, sport, istruzioni catechetiche. Il fatto che la maggioranza dei cristiani siano giovani è un buon segno per un futuro luminoso del distretto missionario.

La maggior parte dei genitori non sono cristiani, ma non hanno problemi a vedere i propri figli partecipare alle attività della chiesa, frequentare le lezioni di catechismo e ricevere i sacramenti. Tuttavia, non riconoscono la domenica come un giorno di culto e dedicato alle attività della chiesa, e spesso costringono i loro figli a lavorare nei campi, rendendo difficile la realizzazione delle attività durante i fine settimana. Non abbiamo strutture fisiche dove organizzare alcune di queste attività, soprattutto durante la stagione delle piogge, e questo ostacola il buon funzionamento dei programmi di formazione.

Inculturazione

Abbiamo celebrato la fahamadiana (esumazione) dei morti. Perché l’idea di vita eterna per i Malgasci è collegata alla tomba ancestrale, ovvero passato e futuro convergono nella tomba di famiglia. L’astrologo di famiglia determina i giorni di esumazione. Le ossa vengono riassemblate nella loro posizione originale e poi avvolte in nuovi sudari. I discendenti sono invitati a ballare con gli antenati. È una grande festa per la famiglia e l’intero villaggio.

Le piaghe da combattere

La povertà e l’analfabetismo sono i nemici più pericolosi della popolazione di Beandrarezona e  si fanno sentire a tutti i livelli della vita. In questo contesto, i più a rischio sono le bambine e i bambini, perché non possono soddisfare i bisogni di base. Le ragazze sono forzate a mettersi in gioco in rapporti sessuali con adulti, i quali promettono loro un futuro migliore che, alla fine, è solo un miraggio. Queste ragazze spesso rimangono incinte e diventano madri in tenera età.

Per il ragazzo l’educazione non è una priorità. L’accento è posto sul numero di figli che si sono generati, sul numero di mucche e risaie acquisite come proprietà. In molti casi, il bambino viene coinvolto in piccoli crimini e nell’abuso di alcol e droghe (come il rongony). Così povertà e analfabetismo ostacolano lo sviluppo di questa comunità.

Diverse iniziative sono state prese, anche se il percorso è ancora molto lungo e accidentato. Alcuni obiettivi sono stati raggiunti e si lavora per arrivare a molti altri.

Questo viaggio missionario richiede coraggio, determinazione e sostegno da parte di ognuno di noi. Ringraziamo Dio per il suo straordinario potere e la sua opera nella nostra vita. Non possiamo dimenticare la sua bontà e le sue benedizioni su di noi durante questi tempi di Covid-19. Ancora una volta, la nostra gratitudine va a colui che ci sta dando speranza in questi tempi difficili rafforzandoci per i suoi scopi.

 Kizito Mukalazi


Archivio MC


 




Suor Carola Cecchin «mware muega»


La vita di questa suora del Cottolengo, in Kenya dal 1905 al 1925, è un inno alla carità, un’esistenza spesa a servizio dei più poveri, dei più bisognosi, avendo cura del prossimo nella concretezza del quotidiano tanto da essere chiamata dai Kikuyu e dai Wameru «mware muega» (suora buona*).

La vita di Maria Carola fu realmente conformata a Gesù Cristo, rinunciando a se stessa e vivendo con fedeltà gli impegni assunti con la sua professione religiosa di suora cottolenghina, prima in Italia e poi come missionaria in terra africana. Ma la prima terra di missione, come donna consacrata, fu la vita semplice e umile nella cucina del convento: «È là che si formò, che imparò lo spirito di sacrificio; è là che incominciò ad essere missionaria, a guadagnare anime a Gesù». Ciò che vale non è «fare il missionario», ma «essere missionario» nei tempi e nei modi che Dio e l’obbedienza richiedono.

Unita a Cristo

Il legame con Gesù fu la costante della storia di Maria Carola fin da ragazza e poi come giovane suora, e andò crescendo in modo straordinario nella sua lunga marcia missionaria. «Il pensiero che potrò in qualche modo concorrere a far dilatare il Regno di Gesù mi riempie di riconoscenza verso di Lei e verso il Signore, io offro fin da questo momento tutta la vita mia». Con queste parole, il 19 marzo 1904, chiese a padre Giuseppe Ferrero, successore del Cottolengo, la possibilità di essere inviata come missionaria in Africa. Desiderio che si realizzò il 28 gennaio dell’anno successivo. Pagò il suo legame con l’Africa attraverso il superamento di se stessa, la rinuncia non solo al male, ma anche agli affetti e alle cose più care. Una potatura che la segnò fino alla fine della vita perché il dono di sé era autentico e non effimero o interessato, come dice un canto: «L’amore vero è un taglio sul vivo, se non vogliamo dare il di più». […]

Nella sua offerta fatta il 6 gennaio 1899, solennità dell’Epifania, quando emise la professione religiosa, tenendo una candela in mano, formulò questa preghiera che anticipò quanto avrebbe vissuto poi: «Che il mio corpo si consumi come questa cera, o Gesù, scompaia dopo aver tanto fatto e sofferto, né di me resti traccia quaggiù come nulla resterà di essa! Che della mia anima, come da questo lucignolo, emani luce e calore: luce radiosa per me nella conoscenza Tua, calore infuocato per il prossimo che dovrò amare tanto da dimenticare me stessa, per poterlo beneficare, edificare e portare a Te, o Gesù, Amore mio Divino! A Te che scelgo per mia porzione nel tempo e nell’eternità».

Obbediente allo Spirito

[…] Suor Maria Carola, grazie alla sua fede e al sacrificio costante di sé, rifulge per la sua straordinaria capacità di sapere coniugare in modo mirabile l’annuncio del Vangelo e la promozione umana, ottenendo frutti di conversione spirituale e di liberazione umana e sociale. L’occupazione a cui suor Maria Carola attendeva con amore erano i catechismi in missione e a domicilio. Quale conforto provava e come si sentiva animata a nuovi sacrifici, nel poter dire: «Eccoti, Gesù, sono Tue queste anime, regna in esse sovrano!». E in quei villaggi sentiva l’altezza della sua vocazione, il dovere di pregare il Padrone della vigna, e il desiderio che il seme gettato germogliasse e giungesse presto a maturità. Era più che persuasa che soltanto dal lavoro della grazia dipende la conversione delle anime. «Noi lavoriamo – diceva – ci affatichiamo, Gesù muove i cuori, Gesù illumina le menti; Gesù è il gran Ladro d’amore; Egli solo sa rubare, e rubare, e rubar bene».

È bello riconoscere che suor Maria Carola, in forza della sua conformazione a Cristo e senza che lei se ne rendesse conto, diventò per i suoi e le persone incontrate una «traduzione dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire».

È bello ricordare la conversione del capo del popolo kikuyu. Nei pressi della missione di Tuso c’era il villaggio del gran capo del Ghekoio (così si scriveva allora, prima che si imponesse la traslittetrazione inglese, ndr), Karoli che era entusiasta di muare Karola, perché diceva: «Porta il mio nome». Quando poi capì che la mware cucinava molto meglio delle sue numerose mogli, la simpatia si accentuò e giornalmente le inviava carni da cuocere, farina e zucchero, burro per la confezione di paste dolci. E suor Karola lo trattava con mille riguardi nell’intento di far conoscere di più il cristianesimo. E infatti le sue speranze non furono deluse: il seme da lei gettato, benedetto dal Signore, germogliò e fruttificò nel 1916, quando Karoli ricevette il battesimo. […]

Per lei l’azione missionaria non fu «un palo secco da innaffiare», ma un’opera di Dio germogliata nel cuore della foresta. Era convinta che il seme della Parola, gettato in quella regione impervia e isolata, avrebbe dato frutti di carità e di rinnovamento.

Testimone della fede

[…] Suor Maria Carola conosceva molto bene gli elementi fondamentali della fede, che in passato erano noti a ogni bambino, perché li aveva appresi nella cerchia famigliare e alla scuola di santi sacerdoti ed educatori. Lei aveva imparato fin da ragazza, da giovane religiosa e poi da intrepida missionaria che «per poter vivere e amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarlo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione e il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola».

Ecco perché tutta la sua vita fu un annuncio continuo del Vangelo e della dottrina cristiana. Ogni occasione fu opportuna per indicare la salvezza nel nome di Gesù e di Maria. Sia cucinando, sia assistendo i malati, sia medicando, sempre la parola evangelica da lei seminata nell’intimo delle persone scese come medicina che cura le ferite e le piaghe dei cuori e delle anime.

Quanto lavorò. Non vi fu capanna, anche lontana, che non fosse visitata, e più volte, da lei; ma il suo prezioso compito fu il nucleo delle catecumene; quanta pazienza nell’impartire i principi della fede, nell’abituarle alla vita cristiana. E una volta cristiane era tutta di loro, giorno e notte, pronta sempre a confortarle, a far da madre a loro e ai loro bambini.

Era una donna di grande fede che sapeva trasmettere l’amore per il Signore pur nella difficoltà della lingua, sia nel catechismo che nei rapporti con la gente.

La sua fede era nutrita dalla Parola di Dio, da solide letture e da intensa preghiera e adorazione.

[…] Tutte le sue fatiche le offriva al Signore per le anime senza badare alla salute, al pericolo.

Presto beata

La beatificazione di questa missionaria del Vangelo (probabilmente in ottobre o novembre di quest’anno, ndr), ci aiuta a ricordare che le missioni hanno il loro centro nell’annuncio della salvezza nel nome di Gesù. Suor Maria Carola non era una dotta, un’intellettuale, ma con il suo annuncio toccò i cuori della gente, perché ella stessa era stata toccata nel cuore dalla grazia dello Spirito. E lo fece nel modo che le era più naturale, senza tanti artifici o metodi speciali. […]

«Per la salvezza delle anime»

Merita ricordare che suor Maria Carola lavorò instancabilmente per la salvezza delle anime, attraverso uno zelo e una dedizione incondizionata, fino al dono della sua vita. Oggi il termine «anima» sembra essere diventato una prerogativa esclusiva della psicologia e il parlare della «salvezza delle anime» sembra una cosa antiquata. […] Suor Maria Carola si preoccupava dell’uomo intero, delle sue necessità fisiche e spirituali. Con il suo esempio e il suo messaggio ci ricorda che «noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima».

Quante anime salvate. Quanti bambini salvati da morte sicura. Quante ragazze e donne difese nella loro dignità. Quante famiglie formate e custodite nella verità dell’amore coniugale e famigliare. Quanti incendi di odio e di vendetta estinti con la forza della pazienza e la consegna della propria vita. E tutto vissuto con grande zelo apostolico e missionario. Le persone che ebbero la grazia di incontrarla fecero l’esperienza di una donna e di una consacrata che non solo compiva coscienziosamente il suo lavoro, ma che non apparteneva più a se stessa. Una disponibilità continua, una dedizione rinnovata ogni giorno ai piedi dell’altare, una consegna fino al sacrificio supremo della vita per la riconciliazione e la pace.

Ella avrebbe voluto sacrificarsi per tutti, dicendo, più coi fatti che con la parola: «Darò a tutti le mie forze finché avrò vita e poi morirò contenta». «Sono tutte anime, sono nostre le anime di tutto il mondo».

L’esame delle ragazze che desiderano ricevere il battesimo.

Suor Carola: madre

Dalle testimonianze (raccolte per la causa di beatificazione, ndr) traspare un tratto distintivo di suor Carola: quello della maternità. Donandosi interamente a Dio, lei non aveva certo rinunciato al sublime senso della maternità, anzi lo rivendicava a sé con tutto il suo peso, le sue conseguenze, le angosciose trepidazioni. Con la tenace capacità di sperare a ogni costo, fu madre per tutti. Erano in tanti a riconoscere che la maternità che suor Carola manifestava verso tutti era un riflesso vivo della bontà della Madre di Dio e della sua cura per ogni suo figlio.

C’è una fotografia di suor Carola che è come l’icona della sua vita: quella in cui tiene tra le sue mani due neonati (foto pag. 24), quasi a significare che le sue mani furono grembo di vita. Questa suora cottolenghina servì l’amore e la difesa della vita, soprattutto la più fragile e vulnerabile, camminando nella via tracciata da san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Una donna che testimoniò i misteri cristiani dell’incarnazione e della redenzione: nella fotografia, la capanna sullo sfondo ci ricorda la grotta di Betlemme; le mani di suor Carola, che custodiscono e mostrano le due creature, sono come la mangiatoia che accolse il neonato Figlio di Dio fatto uomo nell’umiltà e nella povertà della nostra condizione. La croce che la missionaria porta sul petto è il richiamo a una vita consegnata e consumata nella grazia di Gesù Salvatore a favore di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Le donne e le madri che accompagnano suor Carola rappresentano la sua dedizione per la difesa, la promozione della dignità della donna. Colpisce infine come in questa immagine suor Carola appaia così conformata alla missione e alla gente a lei affidata da assumere lei stessa tratti quasi africani.

Passaggio del Mar Rosso

La sua esistenza, vissuta nel segno della fede e della missione, terminò tra le acque del Mar Rosso dove il suo corpo fu lasciato a causa della morte sopravvenuta il 13 novembre 1925. Un mare che ricorda l’esodo, il cammino verso la terra promessa. Suor Carola visse un battesimo che la configurò pienamente al Signore Gesù nel suo sacrificio pasquale. Fu una donna redenta e collaboratrice della redenzione fino al dono totale di sé, quasi in una specie di olocausto come profeticamente aveva pregato il giorno della sua prima professione religiosa e come aveva scritto nella domanda per poter partire come missionaria. Soprattutto all’Africa, ferita d’ogni parte da germi d’odio e di violenza, da conflitti e da guerre, questa donna proclama la speranza della vita radicata nel mistero pasquale, esorta a perseverare nella speranza che dona il Cristo risorto, vincendo ogni tentazione di scoraggiamento. […]

Suor Carola ci dice che la Chiesa annuncia la Buona Novella non solamente attraverso la proclamazione della Parola che ha ricevuto dal Signore, ma anche mediante la testimonianza della vita, grazie alla quale i discepoli di Cristo rendono ragione della fede, della speranza e dell’amore che sono in essi.

Grazie alla testimonianza evangelica e cottolenghina di suor Maria Carola Cecchin «le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore».

Pierluigi Cameroni

* Letteralmente mware indica una ragazza non sposata, con allusione alla sua bellezza e vitalità. Abbiamo scritto la parola all’italiana, come si pronuncia, perché nella grafia inglese, imposta nei primi decenni del 1900, si scrive mwari. Una suora è una donna non sposata.


Testi tratti e adattati da:

  • «Carola Cecchin: donna di comunione e di pace», commemorazione della venerabile suor Maria Carola di don Pierluigi Cameroni, postulatore generale della Famiglia salesiana di don Bosco, Torino, Cottolengo, 28 novembre 2021.
  • rivista Incontri;
  • sito web del Cottolengo: www.cottolengo.org
    e delle suore cottolenghine: www.suorecottolengo.it

Ringraziamo suor Antonietta Bosetti, postulatrice della causa di beatificazione di suor Carola, per averci fornito il materiale e le informazioni necessarie.

Le foto sono dell’Archivio fotografico IMC, scattate probabilmente da monsignor Filippo Perlo.


Amare sino alla fine

Breve biografia

Fiorina Cecchin nasce a Cittadella (Pd) il 3 aprile 1877, da Francesco Cecchin e Antonia Geremia, settima di dieci figli, di cui i primi due morti in tenerissima età. Fiorina apprende dai suoi cari – dalla mamma in primo luogo – ad amare il Signore e a pregare ogni giorno.

Non ha nulla di particolare che la distingua dalle compagne, anzi viene descritta «senza foggia e colore», non bella fisicamente, ma semplice e determinata. Ama la solitudine e la preghiera. A 18 anni matura il desiderio di consacrarsi. Il suo parroco si rivolge alle suore del Cottolengo di Bigolino (Tv), dove è subito accettata e incaricata di prendersi cura di un gruppo di bambine orfane, servizio che svolge con tenerezza e cuore di mamma. La superiora accoglie la sua richiesta di abbracciare la vita religiosa per essere unicamente di Dio e del prossimo e l’accompagna a Torino, alla Piccola Casa.

Il 27 agosto 1896, entra nella Congregazione delle Suore di san Giuseppe Cottolengo (dette anche Suore Vincenzine della Piccola Casa della Divina Provvidenza). Veste l’abito religioso e inizia il noviziato il 2 ottobre 1897 prendendo il nome di suor Maria Carola. Nell’Epifania del 1899 fa la professione religiosa.

Per qualche anno, dal 1899 al 1905, presta servizio in qualità di cuoca a Giaveno, nel collegio affidato agli Oblati di Maria dove è ammirata per «l’obbedienza, l’umiltà, il suo spirito di preghiera, virtù rese attraenti dalla sua carità perché sempre disposta a sacrificare se stessa per essere di sollievo e conforto a tutti». Viene poi trasferita nella cucina centrale della Piccola Casa di Torino, dove serve, con dedizione esemplare, le suore che ritornano in Casa Madre per cure. Lì vede partire per il Kenya il primo gruppo di otto suore Vincenzine (il 25 aprile 1903) e poi il secondo di dodici (il 24 dicembre 1903) per coadiuvare i primi Missionari della Consolata che avevano sentito l’esigenza di avere personale femminile per l’evangelizzazione.

Il 19 marzo 1904 fa domanda scritta di poter partire anche lei per le missioni. La richiesta è accolta e il 28 gennaio 1905, a 28 anni, parte con la terza spedizione formata da sei suore cottolenghine e da tre missionari.

Arrivata a Mombasa il 19 febbraio, in treno raggiunge Limuru, appena oltre Nairobi, sull’altopiano che si affaccia alla Rift Valley. Lì si ferma alcuni mesi per ambientarsi. A fine giugno viene mandata a Tuthu (scritto Tuso, all’italiana), la prima missione fondata nel giugno 1902, dove rimane fino all’agosto del 1909 e conosce bene anche il gran capo dei Kikuyu, Karòli. Va poi per circa un anno a Iciagaki, e dal luglio 1910 fino alla fine del 1916 è a Mogoiri, dove lavora con padre Gaudenzio Barlassina, già incontrato a Tuthu.

Nel 1916 è trasferita a Wambogo (che diventerà poi Gekondi). La Prima guerra mondiale infuria anche in Africa, gli Inglesi, per la loro guerra, arruolano a forza oltre 500mila carriers (portatori), dei quali ne muoiono oltre 200mila. I missionari e le missionarie, comprese le Missionarie della Consolata arrivate in Kenya nel 1913, come la beata Irene Stefani, partono per curarli negli ospedali da campo in Kenya e Tanganyka. Parte anche suor Rachele da Wambogo e suor Carola prende il suo posto.

Nel settembre 1920 passa dalla terra dei Kikuyu al Meru, dall’Ovest all’Est del Monte Kenya. Nuova terra, un nuovo popolo e nuova lingua da imparare.

A Tigania (Meru), superiora di una comunità di quattro suore, si dimostra donna saggia e prudente, «attiva ma non dissipata, seria ma non ruvida, schietta ma non imprudente; era di una pietà così soda e soave insieme da mostrare la santa libertà di spirito che le era tutta propria; con la stessa disinvoltura afferrava il mestolo o il rosario; era sempre la stessa con le consorelle, con gli estranei, con i missionari, sia nei giorni di tregua che nelle incombenze più difficili e più pressanti». Ma qui, oltre i disagi e le fatiche, una malattia dolorosa e debilitante, diagnosticata come enterocolite sanguigna, le procura gravi sofferenze. Lei però è sempre pronta, sempre disponibile a uscire, a visitare i malati nei villaggi, a catechizzare con le parole e i gesti le giovani, i poveri. Tigania vede i suoi ultimi eroismi e la sua totale immolazione al Signore. Davvero, come Gesù, «amò i suoi sino alla fine» (Gv 13,1).

Dal 1919 in poi, i superiori della Piccola Casa dispongono il rientro delle suore a Torino, per gravi dissapori soprattutto con monsignor Filippo Perlo, vicario apostolico, parzialmente risolti grazie all’intervento di papa Benedetto XV. Il vescovo Perlo, pur riluttante, obbedisce all’ordine del papa, e le suore rientrano in Italia a gruppi di otto. Suor Maria Carola, pur sofferente ormai da anni, è l’ultima a lasciare l’amata missione con la consorella suor Crescentina Vigliano. Dopo 290 km a piedi fino a Nairobi, raggiunge in treno Mombasa dovei si imbarca sul piroscafo Porto Alessandretta il 25 ottobre 1925, destinazione Italia, Torino Piccola Casa.

Durante il viaggio si aggrava e muore il 13 novembre sullo stesso piroscafo ed è sepolta nel Mar Rosso nel tratto compreso tra Massaua e Suez. Ha 48 anni.

Gigi Anataloni

In evidenza i luoghi dove suor Carola ha operato. Cartina dell’area attorno al monte Kenya disegnata da padre Michel Camisassi negli anni ’30.




Kirghizistan. Dove le montagne toccano il cielo


«Tutto era pronto per partire per il Kirghizistan»: così avevamo informato i lettori di questa rivista, ormai due anni fa, ma solo dopo tanto tempo di attesa, a metà agosto del 2021, finalmente, le Missionarie della Consolata hanno potuto stabilirsi nel paese, dopo aver aperto una prima comunità nel Kazakistan nel 2020.

Già sembrava che questa missione «non s’avesse da fare». Prima c’è stata l’impossibilità a viaggiare per il Covid, poi la difficoltà nell’ottenere i visti.
Io, suor Ivana, ho ricevuto il visto nel dicembre 2020. Appena ricevuto sono dovuta entrare immediatamente nel paese per evitare di perderlo. Le mie sorelle, suor Judith Kikoti (del Kenya) e suor Adanech Mitiku Shawo (etiope), l’hanno ricevuto solo agli inizi di agosto 2021 e finalmente anche loro sono partite.
Sono stati tempi di grande incertezza, ma che sicuramente ci hanno insegnato, ancora una volta, che la Missione è di Dio, che i suoi tempi e cammini sono perfetti, e che la nostra pazienza non è mai troppa.

Ed eccoci allora in Kirghizistan, paese dell’Asia centrale abitato da circa 6,5 milioni di persone, per la maggior parte musulmane. Precisamente siamo a Jalalabad (Žalal-Abad), come l’omonima città pakistana o afghana, zona Sud Occidentale del paese, a poca distanza dal confine con l’Uzbekistan, nella missione dove sono presenti due gesuiti polacchi, che accompagnano i pochi cattolici di questa zona.

L’inserimento in una nuova realtà richiede tempi lunghi per la conoscenza sia della lingua che della cultura e della storia del paese. Quest’ultima è una chiave di lettura importantissima della realtà in cui ci troviamo; perciò, attualmente siamo impegnate su questi fronti, ma anche nella «costruzione» della nostra comunità religiosa. Dopo questa prima fase del «vedere e conoscere», successivamente faremo un discernimento sui cammini da intraprendere, previa una riflessione in dialogo con l’amministratore apostolico, padre Anthony James Corcoran, sj. Il fatto di essere in loco ci offre già la possibilità di testimoniare la nostra fede.

Mettere su casa

Gli inizi, soprattutto se così tanto desiderati e sospirati, sono sempre belli. La gioia di tornare a riunirci come comunità dopo diversi mesi, e di avere finalmente raggiunto la nostra terra promessa, ci ha dato quella giusta carica di entusiasmo per incominciare a entrare in questa nuova e sfidante realtà. È un paese mussulmano, dove l’appartenenza a quella che fu l’Unione Sovietica è un ricordo ormai lontano, soprattutto per il 50% della popolazione che ha meno di 25 anni, e nelle zone nelle quali i cosiddetti «russi» (vengono chiamati così tutti i discendenti di europei presenti nel paese), che fino agli anni ‘90 erano numerosi, sono ormai pochi.

Il Kirghizistan è immerso in una stupenda natura, dove gli incontaminati paesaggi montani, il cielo terso, gli aspri crinali e gli ondulati pascoli estivi popolati da pastori che vivono al riparo delle loro yurte, sono di una bellezza affascinante.

Il «mettere su casa» è stata una bella occasione per una conoscenza sul campo di questa realtà. Siamo le prime suore che abitano in Jalalabad e sicuramente, le prime che si sono avventurate nel bazar (grande mercato popolare) e ai mercati.

Questa città è la terza per grandezza e importanza del paese con i suoi 100mila abitanti. Ma l’aspetto esteriore e la mentalità della sua popolazione è più da villaggio, e il suo bazar è il centro della vita commerciale e anche sociale.

Il nostro modo di vestire e i nostri visi, destano molta curiosità tra le bancarelle: pochi ci identificano come «monache», molti invece ci chiedono chi siamo, da dove veniamo, se abbiamo marito e figli (1), e che cosa facciamo. Certo, ci vedono anzitutto come possibili clienti straniere, per cui le buone maniere sono di obbligo, anche se alcuni ne approfittano per aumentare i prezzi, ma in molti casi abbiamo sentito grande apertura e simpatia nei nostri confronti, e siamo anche state aiutate.

In strada con la gente

Le «matschiutke», i piccoli pulmini da 15 o 18 posti a sedere, che utilizziamo per spostarci nella città, sono per noi, non solo un mezzo di trasporto, ma un osservatorio della realtà in cui siamo inserite. Questi mezzi pubblici sono molto usati, economici, comodi. Anche i bambini delle scuole li usano, in quanto qui, come in tutto il paese, non esiste un trasporto scolastico dedicato. Dallo scarso flusso di auto private, anche nelle ore di punta, capiamo che la macchina è un bene che poche famiglie si possono permettere (2), e al Sud vedere una donna al volante è ancora abbastanza raro.

Ci ha piacevolmente sorprese il constatare come nelle «matschiutke» sia viva la cultura di lasciare il posto alla persona più anziana. È interessante notare come un adolescente seduto lasci il posto anche a un giovane di 30 anni. Questo significa per noi avere sempre un posto assicurato. Inoltre, in questi mezzi di trasporto, come anche nel bazar, non si sentono schiamazzi o persone che parlano forte al telefono, anzi sembra tutto ovattato.

Arrivo di suor Judith Kikoti (dx) e suor Adanech Mitiku Shawo accolte all’aereoporto di Biskek da suor Ivana e dall’amministratore apostolico del Kirghizistan padre Anthony James Corcoran, sj (2° dx) e un confratello, il 18 agosto 2021.

Tre lingue diverse

A differenza del Nord del paese, dove ancora molti parlano russo, qui al Sud è raro sentire parlare questa lingua. Qui predominano il kirghiso e l’uzbeco, anche se i venditori qualche parola la conoscono, fortunatamente per noi, soprattutto se hanno più di 40 anni e hanno vissuto nel tempo dell’Unione Sovietica, quando era obbligatorio parlare in russo, pena il carcere e multe salate. Questo ci ha fatto subito capire che abbiamo una grande sfida davanti a noi: non solo imparare il russo, che è la lingua utilizzata nelle comunità cristiane, ma necessariamente anche il kirghiso e l’uzbeco.

Abbigliamento

Dicevo che il nostro abbigliamento è strano per le persone locali, in quanto quasi tutte le donne, vestono secondo la loro cultura, ossia con vestiti lunghi e con il velo islamico, ad eccezione delle giovani, soprattutto le universitarie, delle donne impiegate in uffici o scuole, e delle poche «russe» che vestono all’europea.

Ci sono tanti modelli di veli: quelli che nascondono solo i capelli e quelli che coprono anche il viso. Il velo è un accessorio che ci aiuta a distinguere, a parte i tratti del viso, se una donna è kirghisa o uzbeca: le donne kirghise, infatti, portano il velo legato alla nuca, ed è sempre molto colorato o bianco (questo colore identifica le novelle spose). Invece quelle uzbeche portano un velo fermato nella parte anteriore della testa che copre tutto il collo ed è di tonalità più scura.

C’è però in questi anni una crescita della tendenza, che alcuni chiamano moda e altri la identificano come un segno di radicalizzazione islamista, per la quale molte giovani donne e bambine indossano il velo con una specie di cuffia sotto, tipo passamontagna che contorna il viso.

Anche gli uomini sono soliti coprire il capo: i Kirghisi usano, specialmente nelle feste o negli incontri importanti, il «Kalpak», un cappello a cono in feltro bianco con i bordi di diversi colori e decorazioni ricamate, che tradizionalmente informa sull’età e la posizione sociale di chi lo indossa. Gli Uzbechi invece indossano quotidianamente il «tubeteica», una specie di zucchetto, generalmente di colore scuro (verdone, grigio, nero o blu), con o senza ornamenti ricamati bianchi o grigi.

Pastori e contadini

Qui al Sud del paese convivono Kirghisi e Uzbechi. Questi ultimi sono quasi un milione, rappresentano il 14% della popolazione di tutto il paese. Hanno lingua, tradizioni e stili di vita molto diversi: i Kirghisi (3) erano, e lo sono ancora attualmente (se non tutti fisicamente, ma almeno nella mentalità, come mi diceva un’amica kirghisa), un popolo nomade, dedicato all’allevamento di cavalli, mucche e pecore, mentre gli uzbechi un popolo più sedentario dedicato tradizionalmente all’agricoltura e al commercio. I due popoli, al tempo dell’Unione Sovietica, vivevano pacificamente dividendo gli spazi di questa regione, i primi sulle montagne e i secondi nelle pianure. Ma con la caduta dell’Urss, avendo stabilito i confini delle nuove repubbliche indipendenti a tavolino e, in molti casi, prendendo le strade esistenti come le linee di frontiera, molti Uzbechi si ritrovarono in territorio kirghiso. Come tutti gli altri abitanti nati in Kirghizistan appartenenti ad altre minoranze etniche, il loro passaporto è kirghiso con la specificazione della nazionalità di origine. Questo significa che: se tuo padre è uzbeco tu sarai sempre uzbeco, se tuo padre era russo, tu sarai per la società sempre russo, e, di conseguenza, questo porta a uno sbarramento nell’accedere agli incarichi pubblici e/o di rilevanza nella società (4). I due popoli, anche se sottostanno alle leggi della stessa nazione, di fatto vivono una vita separata: ci sono negozi, ristoranti, moschee e scuole separate, queste ultime per garantire a ciascuno il diritto all’apprendimento della propria lingua. In questo momento la convivenza è pacifica, ma solo nel 2010 Jalalabad e la vicina città di Ošh (a 100 chilometri di distanza) furono teatro di gravi scontri tra le tue etnie, perché molti Kirghisi sentivano che la loro sovranità era minacciata dagli Uzbechi, che per le loro capacità imprenditoriali, si stavano arricchendo nella loro terra. Il bilancio di quegli scontri fu pesante: secondo fonti non ufficiali, più di 3mila morti, 9 su 10 Uzbechi, case date in fiamme, e tante persone fuggite all’estero.

Un seme piccolo piccolo

Immersa in questa realtà del Sud del paese c’è la nostra Chiesa Cattolica, due piccole comunità parrocchiali formate da «russi» (5), una in Jalalabad, che raccoglie anche i parrocchiani dei villaggi vicini, e una a Ošh, per un totale, almeno nei registri parrocchiali, di cento persone, ma in realtà sono molte meno.

La storia della Chiesa in Kirghizistan è recente, comincia ufficialmente nel 1997, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, per volere di papa Giovanni Paolo II, quando fu affidata ai gesuiti. Lo scopo del loro arrivo era esclusivamente l’accompagnamento spirituale dei fedeli cattolici che si trovavano in queste terre e che, durante gli anni sovietici, erano stati costretti a vivere la loro fede di nascosto per l’ateismo di stato. Negli anni ‘90 i cattolici presenti in queste terre erano molti, ma a causa di una non facile situazione economica, di difficoltà ad accogliere il nuovo stato delle cose, ossia essere comandati da Kirghisi, della paura di possibili vendette da parte di questi ultimi e per le politiche di accoglienza dei paesi di origine, come tanti «russi» di altre religioni, sono andati via. Come dicono con rammarico alcuni dei nostri parrocchiani cinquantenni che hanno vissuto il cambiamento: «Adesso siamo pochi, ma una volta sì che eravamo tanti!». I motivi di chi è rimasto sono essenzialmente tre: o aveva un buon lavoro, o era troppo povero per affrontare la migrazione, o non ha avuto il coraggio di andarsene e ricominciare vita da un’altra parte.

Purtroppo, i nostri giovani, senza prospettiva di lavoro, se possono, lasciano il paese appena maggiorenni. Oggi la nostra Chiesa è un piccolo gregge, visto da Kirghisi e Uzbechi come una religione straniera per i «russi», accompagnato da sette gesuiti, un prete diocesano slovacco Fidei donum, cinque sorelle francescane e noi tre suore Missionarie della Consolata, distribuiti in tre zone del paese.

Le sfide che si presentano davanti a noi, e le domande, sono tante: quale futuro per la Chiesa cattolica in questo paese? Come aiutare il cammino di riconciliazione tra questi popoli? Risposte non ne abbiamo, ma ciò che conta ora è accogliere e amare questa realtà ed essere docili ai cammini che Dio ha preparato per noi qui in Kirghizistan, dove finalmente siamo arrivate.

Ivana Cavallo

Note

1 Per i Kirghisi e gli Uzbechi presenti in questa zona, è assurdo che una donna non abbia marito, tanto è vero che una vedova poco tempo dopo la morte del marito deve risposarsi, perché c’è la credenza che una donna non sposata porti energia negativa alla famiglia.

2 La situazione economica nel paese è molto difficile. Secondo l’ultimo censimento, su sei milioni di abitanti, più di un milione è all’estero per lavorare e inviare soldi alla famiglia. Gli stipendi sono molto bassi, per cui è normale che chi lavora come dipendente, abbia più di un lavoro.

3 Nel 1970 solo il 14% dei Kirghisi viveva nelle città, di fatto i cattolici cin­quantenni dicono che quando loro studiavano, poteva esserci uno o al massimo due bambini kirghisi in classe, il resto erano tutti russi. Nel 2009 la percentuale era salita già al 30%.

4 I Kirghisi, per la prima volta nella storia, nel 1990 si organizzano come stato, un processo non facile che si rispecchia anche nella fatica di arrivare alla stabilità politica e allo sviluppo economico, causata soprattutto dalla forte corruzione, dovuta in parte a un mancato senso della concezione della proprietà privata. Infatti, fino a 30 anni fa i Kirghisi hanno sempre vissuto sulle montagne, e chi arrivava per primo occupava i pascoli per il proprio bestiame, e quindi non avevano mai avuto bisogno di organizzarsi come stato. L’educazione scolare e il servizio pubblico sanitario sono una eredità dei tempi dell’Unione Sovietica.

5 Queste terre dell’Asia Centrale ai tempi dell’Unione Sovietica, videro crescere la loro popolazione di russi (qui intesi come quelli provenienti veramente dalla Russia), tedeschi, polacchi, ucraini, ceceni, tatari, curdi, etc., sia perché meta delle deportazioni di massa di molti popoli che vivevano nei territori dell’Urss, considerati pericolosi e sovversivi negli anni della Seconda guerra mondiale, sia perché negli anni successivi c’era una grande offerta di lavoro nelle miniere e nelle fabbriche aperte dal regime in queste terre, senza contare tutti i funzionari che venivano direttamente dalla Russia.




Giuseppe Frizzi. Il «minatore» umile e appassionato


La malattia ha portato via senza preavviso un altro missionario del Mozambico. Un bergamasco semplice, che ha amato il popolo a cui è stato mandato, i Macua Xirima (o Scirima), con tutto il suo cuore e, ancor più, con tutta la sua intelligenza.

Ho conosciuto padre Giuseppe Frizzi, missionario della Consolata, ventuno anni fa in Mozambico, a Maúa, nella provincia del Niassa. Maúa è stata la mia prima – e fino a oggi unica – esperienza di missione ad extra. Viverla al fianco di un missionario dello spessore umano, spirituale e apostolico di padre Frizzi ha costituito per me una vera benedizione e una straordinaria opportunità di trasformazione e crescita nella mia vocazione di missionaria della Consolata. Da allora, pur essendo stata chiamata ben presto ad altri servizi fuori dal Mozambico, ho sempre seguito da vicino, con viva partecipazione, profondo interesse e ammirazione, il suo percorso missionario e il suo instancabile impegno pastorale e di ricerca sul fronte etnografico, etnologico, linguistico ma soprattutto teologico e missionario.

Chiesa di San Luca a Maua

Maúa, più che un luogo

Vorrei spendere una parola sul contesto di Maúa, partendo da quanto ho vissuto durante la mia permanenza là e nei successivi contatti fino ad oggi, nell’intento anche di situare quanto cercherò di esprimere circa la mia esperienza con, e di, una persona eccezionale come «padre Frizzi» (come era da tutti chiamato).

Arrivata a Maúa nell’anno 2000, mi inserisco nell’équipe missionaria della parrocchia di san Luca. L’équipe è formata da padri, fratelli e suore, tutti missionari e missionarie della Consolata. Padre Frizzi è il parroco. L’équipe ha la sua sede in Maúa, ma serve decine e decine di comunità cristiane sparse nel distretto omonimo e in altri confinanti facenti capo alla parrocchia di san Luca, che in quegli anni attende pure ad altre tre parrocchie a loro volta suddivise in decine di comunità cristiane animate da ministri laici.

La popolazione del distretto di Maúa e di quelli limitrofi è per la stragrande maggioranza di etnia Macua Xirima. È una etnia bantu caratterizzata da una cosmovisione, un’antropologia e una teologia assolutamente originali e affascinanti, radicate nella percezione della femminilità e della maternità come assi portanti dell’universo, percezione che si traduce anche in una particolare struttura sociale matriarcale, matrilineare e matrilocale e in una spiritualità dalle chiare connotazioni femminili e materne.

Evangelizzazione inculturata

La linea pastorale scelta dall’équipe missionaria, in accordo con la diocesi, è caratterizzata da un’attenzione particolare all’evangelizzazione inculturata. Arrivare a Maúa significa venire a contatto con una sensibilità pastorale segnata in modo particolare dalla percezione del cammino che Dio ha già percorso col popolo Macua Xirima, dal rispetto di questo cammino e da una proposta evangelica chiara e dialogica. Tale proposta, mentre offre necessariamente un salto di qualità nella relazione con Dio e tra le persone, gode di valorizzare, approfondire e lasciarsi istruire dal tesoro dell’esperienza che il popolo ha vissuto con Dio nella storia, espressa dalla religione tradizionale e dalla cultura in generale.

In questo contesto pastorale si inserisce il Centro studi Macua Xirima (in portoghese: Centro investigações Macua Xirima – Cimx) iniziato da padre Giuseppe che ne è il direttore, unendo questa sua attività a quella di parroco fino alla fine dell’anno 2020.

Durante la mia permanenza a Maúa, ho avuto l’opportunità di collaborare con padre Frizzi al Cimx oltre che nella pastorale. Poiché il Cimx ha un ruolo fondamentale nello splendido percorso missionario che lo Spirito ha suscitato e guidato a Maúa e dintorni, è opportuno spendere qualche parola per illustrarne l’origine, la natura e le caratteristiche.

Il Centro Studi

Arrivato in Mozambico nel 1975, dopo il dottorato in teologia biblica e una breve permanenza in Portogallo e in Inghilterra, negli anni 1979-1986 padre Frizzi si trova nella missione di Cuamba, circa 150 km a Sud di Maúa. Sono gli anni difficili del governo di ispirazione marxista, della nazionalizzazione delle missioni, della guerra civile. Padre Frizzi, come gli altri missionari e missionarie, è sottoposto a limitazioni della libertà di movimento da parte delle istituzioni di governo. Utilizza questo periodo per lo studio della lingua macua e l’organizzazione di materiale etnografico e linguistico già raccolto da missionari e missionarie negli anni precedenti. Nel 1982, egli pubblica la prima edizione del messale festivo in lingua macua xirima, il Masu a Muluku.

Con il trasferimento a Maúa, presso la parrocchia di san Luca, nel 1987 padre Frizzi inizia la raccolta più sistematica del materiale etnografico, coadiuvato da un gruppo di collaboratori locali. Nasce così, senza fare rumore e quasi inosservato, il Centro investigações Macua Xirima (Cimx). In un certo senso, il Cimx è un po’ il cuore della parrocchia di san Luca e del percorso missionario in quel contesto.

In quel contesto si è creato un po’ per volta un clima umano fatto di calore, fiducia e reciprocità nel quale fluisce un autentico e fecondo dialogo. A quel clima contribuisconono tutti gli aspetti del lavoro impostato dal padre: la famigliarità con il materiale tradizionale, l’allenamento progressivo a verbalizzarne le tematiche, lo sforzo di tradurre la Parola di Dio in lingua xirima, attraverso discussioni appassionate e a volte infuocate sulla scelta dei vocaboli ma anche sul significato delle parole. Ma poi anche il confronto costante tra persone diverse nei gruppi di traduzione, elaborazione e revisione dei testi. Ultimo, ma non meno importante, anche il rapporto quotidiano tra padre Frizzi, gli altri missionari, le missionarie e i collaboratori del Centro, corroborato da una storia vissuta assieme per lunghi anni, anche nei momenti duri della guerra, dell’incertezza e della disperazione.

Centro di umanità

In questo clima umano ho la grazia di essere accolta e di goderne le potenzialità e i frutti. Anche molti ricercatori, studenti, missionari e missionarie di varie nazionalità, esperienze e appartenenze religiose, possono abbeverarsi lungo gli anni al pozzo inesauribile e ricchissimo di Maúa. Qui apprezzano il patrimonio scientifico e spirituale depositato nel materiale raccolto e soprattutto nei cuori dei collaboratori locali del Centro, lasciandosi coinvolgere e trasfigurare dallo Spirito che fluisce, con soavità e abbondanza, in questa appassionante esperienza missionaria. Godono dell’accoglienza semplice, amabile, familiare dei missionari e delle missionarie della Consolata, scoprendo, con meraviglia e gratitudine, la grandezza umilissima e riservata, la sapienza profonda e disarmante, la fiamma ardente e dolce, la luce limpida e discreta che traspariva dalla persona di padre Frizzi, sempre pronto ad ascoltare, condividere, dialogare, accompagnare alla scoperta dei tesori che Dio semina e fa crescere nella persona e nel popolo.

I Frammenti

L’ultima pubblicazione di padre Frizzi e del Cimx ha visto la luce alla fine del 2020. Si tratta di un’opera originalissima, densa e sostanziosa: Fragmentos e segmentos da biosofia e biosfera xirima (Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima). Essa rappresenta un nuovo frutto maturo di oltre quarant’anni di esperienza missionaria tra il popolo Macua Xirima. Scrive l’autore nell’introduzione a questa sua opera: «La pubblicazione dei “Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima” presuppone la lettura attenta del volume Murima ni ewani exirima – Biosofia e biosfera xirima, pubblicato nel 2008, perché vuole esserne la continuazione e il complemento esemplificato. È un’altra, forse l’ultima, tappa importante del lungo cammino iniziato nell’anno 1937, con l’arrivo dei primi missionari e missionarie della Consolata nel Sud del Niassa. Capire e parlare la lingua xirima era condizione necessaria per comunicare e evangelizzare. Alcuni missionari non solo si sforzarono di parlare la lingua xirima, ma si dedicarono alla ricerca filologica attraverso l’elaborazione di grammatiche e dizionari, penetrando nella struttura della lingua e contribuendo alla conoscenza della stessa. Col tempo, comparvero i primi lavori di ricerca e di traduzione in campo liturgico, catechetico e biblico. […] Nutro la certezza che anche questi Frammenti e segmenti potranno favorire il consolidamento delle radici culturali xirima perché diventino in futuro capaci di innalzare antenne aperte alla pluralità linguistica e culturale a livello locale, nazionale e mondiale».

Minatore cronico

Padre Frizzi, come un appassionato ricercatore di pietre preziose, un «minatore cronico», come lui amava definirsi, ha sondato e scavato con amore e riverenza il terreno umano e spirituale dei Macua Xirima, accogliendo e raccogliendo i tesori che ne emergevano. Ha sperimentato con gioia che il primo atto missionario è il raccogliere più che il seminare, mietendo ciò che Dio ha seminato e fatto crescere nel cuore della persona e del popolo lungo il suo cammino storico e spirituale.

Ha vissuto la beatitudine del missionario evangelizzato da coloro che evangelizza, nella dinamica di un fecondo, intenso e coinvolgente scambio di doni.

Ha varcato la porta della Luce tornando a Colui che lo ha inviato e consegnando a Lui il raccolto straordinario, sovrabbondante, di una vita di appassionata ricerca e di profonda unione con Dio, vissuta nella gioia evangelica e nella gratitudine più genuina anche in mezzo a vicende molto dolorose e drammatiche. Nella semplicità, sobrietà ed essenzialità, ha imparato a distinguere ciò che è importante da ciò che è effimero, nell’impegno convinto e fervoroso a costruire sempre ponti di comunione, ad aprire strade di congiunzione, a tessere legami di vera fraternità.

La tomba di un Buono

I funerali di padre Frizzi si sono svolti il 3 novembre 2021 nella chiesa di Nzinje a Lichinga e poi è stato sepolto nel cimitero del santuario della Consolata di Massangulo. Il suo corpo è stato accolto nel grembo fertile della terra rossa del Niassa. La sua vita è ora pienamente trasfigurata dalla luce lieta e avvolgente dell’abbraccio di Dio Padre e Madre, ardentemente desiderato, cercato, trovato, amato, annunciato, celebrato lungo la sua intensissima vita.

Un proverbio macua recita: Pixa murima nlitti nawe khannìxa. La fossa in cui si seppellisce la persona buona/mite/trasparente/santa (=pixa murima) non è profonda.

Molti anni fa, chiedendo ai collaboratori del Cimx di Maúa qualche delucidazione circa questo proverbio, mi venne spiegato che nessuno ha piacere né fretta di separarsi dal pixa murima, ossia da chi è buono/mite/trasparente/santo. Per questo, quando egli muore, si fa fatica a scavargli la fossa e chi comincia a farlo perde in fretta l’energia in seguito al dispiacere. Perciò la fossa non riesce a essere profonda. Inoltre, non è necessario seppellirlo molto in profondità, anzi, meglio lasciargli la possibilità di uscire senza troppa difficoltà dalla tomba, se volesse, per tornare nel mondo dei vivi, ove sarebbe sempre più che benvenuto.

suor Simona Brambilla, Mc

Sepoltura e tomba nel cimitero della Consolata a Massangulo

 


Breve biografia

 

Padre Giuseppe Frizzi nasce a Suisio (Bg) il 14 maggio 1943. Entrato giovanissimo tra i Missionari della Consolata, emette la prima professione religiosa nel 1963 e nel 1969 viene ordinato sacerdote a Roma.
Dopo i primi studi di filosofia e teologia a Roma, nel 1973 consegue il dottorato in teologia biblica presso la Westfälische Wilhelms Universität di Münster (Germania) con una tesi su Mandare/inviare in Luca – Atti.
Padre Frizzi viene inviato in Mozambico nel 1975 e vi rimarrà fino alla morte. Per molti anni è parroco della parrocchia di san Luca a Maúa e direttore del Centro studi Macua Xirima della diocesi di Lichinga, situato nella stessa parrocchia. Lì coniuga in modo ammirevole e armonico un intenso e gioioso impegno pastorale, anche nel periodo drammatico della guerra civile, con un inesauribile dinamismo di preghiera, riflessione, studio, dialogo a vari livelli. Matura una lunga e profonda esperienza nel campo della evangelizzazione inculturata, della ricerca etnografica, linguistica, antropologica culturale e missiologica, che sfocia anche in molte pubblicazioni.

Nel 2009, padre Frizzi viene insignito della laurea Honoris causa in missiologia da parte della Pontificia Università Urbaniana in Roma. Dopo una brevissima malattia, padre Frizzi torna alla Casa del Padre il 30 ottobre 2021, proprio ai vespri della memoria liturgica della Beata Irene Stefani, missionaria della Consolata, alla quale era spiritualmente legatissimo e per la cui causa di beatificazione aveva dato il suo fondamentale contributo.

S.B.

IL CIMX:
un centro di ricerca e incontro interculturale

Il Centro investigações Macua Xirima, fin dagli inizi, ha perseguito diverse piste di ricerca:

  • catechesi, bibbia e liturgia (1);
  • lingua, educazione, cultura (2);
  • scultura, pittura, architettura (3).

Il Cimx, fino a questo momento, è stato un organismo flessibile e di tipo familiare con la sua sede principale in alcuni locali della parrocchia di Maúa, che conservano lo stile semplice e sobrio dell’ambiente in cui sono inseriti. In questi locali, alcuni computer costituivano gli strumenti di lavoro dei collaboratori addetti a ricevere e archiviare il materiale proveniente dai ricercatori sul campo.

Questi erano persone di Maúa e dintorni che, in accordo con padre Frizzi, si recavano nelle varie comunità locali partecipando a riti, conversando con gli anziani, i saggi e i terapeuti tradizionali, e raccogliendo così materiale orale che registravano su audiocassette oppure trascrivevano su quaderni. Il materiale veniva consegnato al padre che ne prendeva visione e operava una prima selezione eliminando le ripetizioni. Vieniva quindi archiviato in formato cartaceo e digitale con rispettiva traduzione in portoghese.

Il Cimx è stato pure la sede della commissione locale per la traduzione della Bibbia in lingua macua xirima: lavoro durato una decina d’anni, che ha visto coinvolti padre Frizzi e una decina di collaboratori locali, uomini e donne, animatori di comunità cristiane.

Ancora, il Cimx è stato sede delle commissioni per l’elaborazione e revisione di varie pubblicazioni xirima in campo linguistico, catechetico, liturgico ed educativo.

Al Cimx hanno fatto riferimento vari artisti, pittori e scultori della Scuola d’arte san Pietro Claver, che operano in diverse località del distretto di Maúa e limitrofi.

Siamo fiduciosi che possa continuare nella sua missione.

S.B.

1 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:

  • il Catechismo degli adulti e dei bambini (1986); il Messale festivo – Masu a Muluku, seconda e terza edizione (1986 e 1999);
  • l’edizione ampliata e illustrata del libro di canti e preghiere – Mavekelo ni Itxipo (1986 e riedi­zione nel 2003);
  • il Nuovo Testamento – Watana wa nanano e il Libro dei salmi – Masalimu (1998);
  • la vita di Gesù illustrata – Yesu Atata ni Namuku, nell’edizione italiano/macua (2000), portoghese/macua (2002) e inglese/macua (2007);
  • La Bibbia in lingua xirima – Bibliya Exirima (2002).

2 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:

  • Mwana Mutthu Owo! (2002), un’antologia illustrata bilingue di racconti e proverbi tradizionali, ora in uso nelle scuole;
  • il Dicionário Xirima-Português e Português-Xirima (2005);
  • Murima ni Ewani Exirima – Biosofia e Biosfera Xirima (2008), una presentazione monumentale della cosmologia xirima attraverso testi tradizionali di proverbi, rac­conti, miti e riti;
  • Fragmentos e Segmentos da Biosofia e Biosfera Xirima (2020), una compilazione di temi significativi della cultura xirima, esplorati dall’autore attraverso la raccolta di testi rilevanti per la cosmovisione del popolo (approccio etnografico), l’analisi degli stessi (approccio etnologico) e il confronto con temi biblici e cristiani (approccio teologico – dialogo interreli­gioso).

3 La Scuola d’arte san Pietro Claver è parte integrante del Cimx. Ad essa si ri­fanno artisti locali che nel campo della scultura e della pittura sanno dare un contributo originale, espressione della loro cultura. In particolare, i crocifissi lignei scolpiti da questi artisti sono apprezzati in Mozambico e all’estero. Le illustrazioni delle pubblicazioni del Cimx sono tutte opere di artisti locali. Anche l’architettura delle nuove chiese e i lavori di recupero ed abbellimento delle vecchie chiese dopo la restituzione alla diocesi da parte dello stato, nella zona di Maúa e dintorni, si sono avvalsi di vari elementi culturali e dell’uso creativo di materiale locale.

Disegni Makua Sirima a matita sull’argomento della Beata Irene.

Il disegno Macua Xirima a matita, di Afonso Murupala, sull’argomento della Beata Irene, presentato a Roma durante l’incontro IMC, MC e LMC nel 13° Capitolo generale IMC, è un esempio dell’arte sviluppata nel Cimx. Questo il significato:

  • Suor Irene è una missionaria conosciuta in tutto il mondo per il suo casco coloniale. L’artista trasforma il casco coloniale e ne fa un cappello parigino, tanto elegante da attirare l’ammirazione dei due soldatini.
  • L’elegante e simpatico cappello, insieme alle ali del grande Spirito, adombrano l’immenso cuore materno della Nyaatha (madre di mi­sericordia) keniana e della Pwiyamwene (madre del popolo) mozambicana.


Grazie padre Frizzi,  fratello nostro

La perdita così repentina di una persona come padre Frizzi lascia in chi lo ha conosciuto da vicino un grande vuoto e dolore assieme a una viva,  immensa, profondissima gratitudine per aver avuto il privilegio, la grazia e l’onore di averlo incontrato e di aver condiviso con lui un tratto di cammino. A nome mio personale e dell’istituto delle Missionarie della Consolata desidero esprimere il nostro sentito e commosso grazie al carissimo padre Giuseppe Frizzi, fratello nostro.

Sì, padre Frizzi, proprio questo termine ha caratterizzato e cadenzato la tua presenza tra noi Missionarie della Consolata: fratello. Quante sorelle, dopo averti incontrato, mi hanno espresso questo commento: «Padre Frizzi è proprio un fratello». Ti abbiamo sentito e ti sentiamo così. Profondamente, autenticamente, inconfondibilmente fratello. Ti abbiamo visto avvicinarti a noi in tanti modi e occasioni, sempre col tuo fare rispettosissimo e umile, col tuo sguardo attento e discreto, col tuo sorriso timido, genuino e disarmante, col tuo cuore sensibilissimo e disponibile, ardente e mite, con la tua mente vulcanica, lucida, acuta e penetrante, con la tua parola sobria, stimolante e soave, con il tuo spirito libero, trasparente, effervescente e delicatissimo, capace di elevarsi ad altezze impensabili e di inabissarsi nelle profondità più recondite del Mistero di Dio e delle creature.

Ti abbiamo visto varcare la soglia di tante nostre comunità, e dei nostri cuori, con somma discrezione e altrettanta premurosa vicinanza: in ogni incontro con le Sorelle nelle varie assemblee, momenti di formazione comunitaria, Esercizi spirituali e altre piccole e grandi occasioni che ti abbiamo chiesto di condividere con noi, in Mozambico, in Kenya, in Tanzania, in Guinea Bissau, in Italia, in Brasile, in Bolivia. Con gioiosa e pronta disponibilità sei venuto, in punta di piedi, sei entrato in sintonia col nostro cammino, lo hai respirato, lo hai fatto in qualche modo tuo, benedetto e illuminato con la tua presenza, sempre umile, semplice, calda, dolce e affidabile, salda e tenera.

Missionario spigolatore

Quante volte, durante questi nostri incontri, ci hai parlato della missione, aiutandoci a leggere, specialmente attraverso il Vangelo di Luca, le coordinate di un cammino missionario consolatino all’insegna del dialogo, del tessere ponti, del divenire, come amavi chiamare te stesso, «cronici minatori», cioè persone che scavano, che vanno in profondità in se stesse e nel contatto con l’altro, rintracciando tesori nascosti, intercettando il movimento dello Spirito che danza in ogni cuore e in ogni popolo, cogliendo con stupore, gioia e gratitudine, il cammino di Dio nel cuore della persona e della cultura, dove il Signore, come amavi dire «è di casa e a casa».

Ci hai segnato la via di una missione nel segno dell’umiltà di chi si china a spigolare nel campo, raccogliendo quanto Dio ha già operato, mentre getta il seme del kerigma che feconda il terreno umano.

Missionario con lo zaino

L’ultima volta che ci hai fatto dono della tua presenza è stata in agosto 2021, a Nairobi, per un’importante assemblea a livello di Africa. Lì ci dicevi, tra l’altro:

«La missione non è subito seminare, ma mietere, mietitura, messe. Il Seminatore è Dio, gli inviati i mietitori. Il seme della mietitura è di Dio oppure Dio stesso, i mietitori lo raccolgono nel loro zaino. La messe è immensa, i mietitori sono pochi. La vocazione dell’inviato è speciale, singolare, rarissima…».

Ti piaceva tanto la metafora dello zaino, e commentando il Vangelo di Luca sottolineavi che noi missionari e missionarie siamo chiamati a partire e arrivare presso il popolo a cui siamo inviati con lo zaino vuoto, per lasciarcelo riempire dai tesori che Dio vorrà donarci nel contatto con l’esperienza spirituale di quel popolo, entrando con rispetto e gratitudine nella sua casa vitale.

Anche in quest’ultima occasione, a Nairobi lo scorso agosto, come spesso facevi, sei tornato sulla dimensione del ritorno dalla missione, ricordandoci che l’inviato sempre ritorna al Mittente, e vi ritorna con lo zaino pieno. Commentavi così il brano evangelico del ritorno dei discepoli dalla missione (Lc 10,17-24):

«Mietendo dalla messe di Dio già arata e coltivata, gli inviati non possono ritornare se non con lo zaino pieno di meraviglie di Dio, conosciuto di casa e a casa là dove sono stati inviati. Insomma, inviati a mietere ritornano da mietitori con il cuore che trabocca di gioia […]. Gesù invita l’inviato a deporre lo zaino, a svuotarlo per riempirlo di contenuti definitivi e non più transitori legati alla dinamica della missione, ma ora legati all’estasi finale della missione, all’estasi trinitaria, nella quale l’inviato ritorna al Mittente e si immerge in Lui in simbiosi e osmosi estatica e instatica, in profonda conoscenza e adorazione del mistero trinitario, ‘beatificato’ e trasfigurato».

Il tronco – fonte battesimale della chiesa di Nipepe dove è avvenuto il miracolo della Beata Irene

Beata Irene

Carissimo Fratello nostro, è così che ora ti sentiamo e vediamo: per lunghi anni hai riempito lo zaino del tuo cuore e del cuore di molti e molte spigolando nel campo missionario che Dio ti ha donato, tra il popolo Macua.

Hai intercettato la danza dello Spirito nell’anima profonda di questo amatissimo popolo, mietendo e seminando Vangelo; hai gioito e ci hai fatto gioire delle meraviglie che Dio aveva seminato e fatto crescere nel suo campo che è lo spirito della persona e della cultura, hai restituito a noi che ti abbiamo conosciuto i frutti splendidi che hai raccolto.

E tutto questo non lo  hai fatto da solo. Lo hai fatto coltivando un’esperienza profonda di Dio, lo hai fatto in comunione con tanti fratelli e sorelle con cui hai tessuto relazioni di autentico scambio di doni, lo hai vissuto in compagnia di una Sorella straordinaria: la beata Irene, che ti ha stimolato, illuminato, ispirato in tutto il tuo cammino missionario, fino a raggiungerti nell’ora del ritorno e a volerti con sé per celebrare in Cielo la sua Festa, il 30 ottobre scorso. Lì, nel Cielo, accompagnato per mano da Irene, hai portato, Fratello, il tuo zaino pieno, per restituirlo tutto a Dio e in Lui immergerti, assaporando ora in pienezza l’abbraccio dell’Amore tenerissimo e forte della Trinità, in lei beatificato e trasfigurato.

Celebrazione del funerale di padre Giuseppe Frizzi nel Santuario della Consolata di Massangulo.

Grazie, Fratello nostro! Dal grembo di Dio Madre, dove ora dimori, continua a sorriderci, animarci, accompagnarci, benedirci, ispirarci. Amen, alleluia.

suor Simona Brambilla, Mc


Da archivio MC

 

 




Nel cuore e alle frontiere d’Europa

Il vecchio continente è il «qui e ora» della missione. Per i Missionari della Consolata è il luogo delle radici, della sorgente del loro carisma. Sempre più è vera frontiera di testimonianza, annuncio e consolazione.

Non come lupi solitari, ma come tessitori di reti.

«Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (Laudato si’, n. 17).

Questa breve citazione di papa Francesco, tratta dall’enciclica Laudato si’, sarebbe potuta essere il cappello sotto cui collocare tutta la riflessione della prima Conferenza della neonata Regione Europa dei Missionari della Consolata.

Questo incontro, iniziato in streaming lo scorso mese di maggio e conclusosi in presenza a Fátima (Portogallo) dal 20 al 24 settembre 2021, ha di fatto sancito l’unione in un’unica circoscrizione (iniziata giuridicamente due anni fa) delle nostre comunità di Missionari della Consolata in Italia, Polonia, Portogallo e Spagna.

Ne è nato un documento interessante, il Progetto missionario regionale, una sorta di vademecum che, definendo in modo chiaro alcuni obiettivi, cerca di individuare criteri e linee di azione per giungere a una nuova comprensione, e quindi a un nuovo orientamento di ruolo e azione, del missionario della Consolata oggi in Europa.

Momenti della Conferenza e veduta dei partecipanti

Il contesto

Come emerge chiaramente dalla citazione di papa Francesco, il confronto con l’hic et nunc, il «qui e ora» della missione, deve essere l’imprescindibile punto di partenza come anche l’auspicato traguardo dell’impegno missionario nel continente.

La Conferenza ha ribadito l’importanza di dedicare tempo e attenzione all’analisi del contesto, in modo che essa possa diventare atteggiamento e metodo, ispirazione e prassi.

È inutile ricordare come la missione in Europa sia stata caratterizzata fino a non molti anni fa da una dimensione totalmente opposta: era una missione ibi et post, «lì e dopo», che si svolgeva altrove, e per la quale in Europa ci si preparava, tanto da un punto di vista accademico professionale, quanto economico e strutturale.

La Conferenza regionale ha scelto di focalizzare il proprio lavoro sull’analisi della realtà, nella consapevolezza che è il contesto che sceglie noi, ci interpella come cristiani e missionari, ci obbliga a prendere decisioni, orientare la preghiera, ispirare l’azione.

Mentre scrivo, svariati paesi dell’Europa sono nuovamente sfidati da una crescita esponenziale del Covid, le cui conseguenze economiche e sociali generano un malcontento popolare difficile da controllare e per giunta cavalcato in modo opportunista e strumentale da frange estremiste e xenofobe.

Al confine orientale dell’Unione europea va in scena una tragedia umana di dimensioni epocali con migliaia di migranti esposti ai rigori dell’inverno, che rischiano di morire di freddo, stenti o botte al confine tra Polonia e Bielorussia.

Reticolati e muri diventano la cifra delle nostre relazioni, mentre la Cop26 ha lasciato senza risposta gli interrogativi circa la volontà dei governi di assumere impegni concreti e soprattutto urgenti e credibili nei confronti della salvaguardia del pianeta (cfr il Dossier di questo numero).

In soli dieci giorni tutti questi fatti sono stati oggetto di cronaca, hanno rappresentato il «qui e ora», uno scenario in cui anche il missionario può dire la sua. Anzi, è chiamato a farlo.

11.11.2021 – Fot. Irek Dorozanski / DWOT

Dal Marocco alla Bielorussia

Ecco allora che, qualcuno dice profeticamente, la prima Conferenza della Regione Europa Imc ha dato il visto buono all’apertura della comunità di Oujda, in Marocco, vicino al confine con l’Algeria. Il Marocco non è in Europa, ma Oujda è, oggi, un punto di approdo per chi ha appena terminato di attraversare il deserto e arriva in condizioni di grande bisogno a un punto cruciale del suo viaggio della speranza verso l’Europa. Sono stati i nostri confratelli in Spagna, da anni parte di una rete/osservatorio sui movimenti migratori nel Mediterraneo, a spingere affinché l’Istituto scegliesse un impegno concreto in questa realtà.

La stessa Conferenza ha dato il via libera alla volontà dei missionari della Consolata in Polonia, di aprire una seconda comunità, in una città a trenta chilometri dalla frontiera con la Bielorussia.

Nel 2008, il nostro Istituto aveva scelto di dare vita a una presenza in Polonia per essere germe di universalità e interculturalità in una Chiesa tradizionalmente molto forte, ma che sentiva il bisogno di essere maggiormente stimolata nella propria dimensione missionaria.

Sarebbe dovuto anche essere un primo passo verso un’ulteriore apertura nell’Est Europa. Oggi, è significativo essere presenti come segno di fraternità universale in quella frontiera simbolo della chiusura delle nostre frontiere e dei nostri cuori.

Senza il bisogno di tante parole, le nostre comunità interculturali, formate da confratelli provenienti da tre diversi continenti, annunciano che la logica del Vangelo è quella del ponte, non certo quella del muro o del cavallo di frisia.

Ovviamente, è importante formarsi in maniera adeguata a questa missione. Il Progetto missionario regionale europeo ha ben chiaro che soltanto chi saprà usare in modo armonico Bibbia e giornale, spiritualità e attenzione alla realtà, riuscirà a penetrare le pieghe di una cultura in continua evoluzione e rispondere a sfide importanti come quelle che la Chiesa sta vivendo oggi in Europa: la perdita di significato e di credibilità, la marginalizzazione, l’essere divenuti minoranza.

Educarsi alla missione in Europa, oggi richiede il coraggio di cambiare paradigma formativo, associando alla ricerca di una spiritualità forte, costruita sull’incontro costante e profondo con la Parola, l’inserimento in comunità che siano allo stesso tempo apostoliche e formative, in cui la ricerca di una buona preparazione accademica si sposi con un’approfondita conoscenza della realtà e delle persone che la compongono.

Climate March

Carisma

Va da sé che la bontà o meno del Progetto regionale, la sua assunzione da parte delle comunità di missionari della Consolata e la messa in pratica nelle varie attività regionali, dipenderanno in gran parte dalla capacità che le comunità avranno di rileggere e interpretare il carisma del nostro istituto alla luce dell’oggi.

Le nostre comunità Imc in Europa, in particolare quelle in Italia, sono depositarie di un patrimonio spirituale e carismatico importante. Esse vivono e operano nei luoghi dove tutto ebbe inizio, ma guai se questi si trasformassero in una sorta di museo spirituale, dove trovare una collezione di cimeli con i quali crogiolarsi nel ricordo dei «bei tempi andati».

Oggi il nostro Istituto, come del resto altre congregazioni fondate più o meno nello stesso periodo (a cavallo fra 19° e 20° secolo), sta vivendo un’esperienza particolare: da una parte l’estinzione di una generazione di missionari che ha conosciuto o è stata molto vicina alle fonti dirette del carisma, le ha studiate e tramandate, alcune volte pubblicando testi che sono ancora imprescindibili per chi vuole conoscere la storia e lo spirito delle nostre missioni; dall’altra l’emergere di una nuova generazione di missionari che corre il rischio di perdere il legame vitale con la storia dell’Istituto e quindi di non essere capace di trasmettere con efficacia l’eredità spirituale di chi ci ha preceduto.

La Regione Europa Imc ha il dovere di continuare a essere «culla» del carisma, ma deve altresì essere anche «girello», strumento attraverso cui il pensiero di Giuseppe Allamano e le intuizioni significative dei missionari cresciuti sotto le sue ali, vengono portati per le vie della nostra missione di oggi nel continente. Pensieri e intuizioni depurati di tutto quanto non è più attuale e creativamente nutriti delle nuove e dinamiche manifestazioni dello Spirito.

Manifestante alla protesta contro il mandato vax protesta con cartello con messaggio “Nessun vaccino forzato”

Le parole della missione

Come comprendere e declinare, allora, alcune parole che fanno parte del nostro bagaglio missionario alla luce di dove e di quanto stiamo vivendo?

La parola annuncio, per esempio, attraverso la quale il missionario riscopre oggi, anche in Europa, il suo ruolo di araldo del Vangelo, di messaggero del primo annuncio, di testimone di Cristo, presentato a chi non lo ha incontrato prima o a chi, forse, ne ha soltanto sentito parlare in tempi ormai lontani.

Oggi, il missionario, per essere tale, per poter continuare a fregiarsi di un titolo che gli viene attribuito in virtù di una vocazione specifica, non può abdicare alla missione di cercare «i lontani», anche quelli che si trovano dietro l’angolo, di entrare in dialogo con quelle frange di umanità che non hanno mai frequentato, o non frequentano più, i nostri abituali recinti.

Come comprendere oggi la parola consolazione? L’assemblea dei missionari riuniti in Conferenza ha cercato di leggere la portata attuale di questo termine che è parte del nostro nome, parola con la quale ci presentiamo. Le nostre comunità non cessino di essere presenza viva, autentica e prossima a chi sta sempre ai margini, affamato di compassione e condivisione.

Che senso possiamo dare oggi alla parola parrocchia, perché indichi una realtà che sia un segno distintivo del nostro modo di vivere la missione ad gentes, soprattutto nelle periferie delle città europee?

Come ricomprendere il termine economia, riferita alla vita materiale delle nostre comunità Imc, in modo che diventi non soltanto uno strumento funzionale all’organizzazione della vita e delle opere dei missionari, ma sia una vera e propria dichiarazione di intenti nella testimonianza di giustizia, impegno per la pace e salvaguardia della casa comune nella quale viviamo?

Riempire le parole di un significato nuovo e attuale, non lasciare che risuonino vuote, fare in modo che parlino veramente alla testa e al cuore delle persone che incontriamo, è una delle prime condizioni per dare corpo alla nostra missione in Europa.

Celebrazione eucaristica presieduta da padre Alvaro Pacheco

Camminare insieme

Sappiamo che la strada da percorrere non è facile.

I missionari della Consolata riuniti a Fátima non hanno peccato di ingenuità, e sono stati ben contenti di ritrovarsi insieme in un luogo benedetto dalla presenza della Vergine Maria, loro protettrice, per affidare ancora una volta a lei le scelte impegnative che li attendono dietro l’angolo.

Alcune circostanze del contesto europeo non vanno prese sottogamba, e obbligano chi dirige oggi il cammino della Regione a fare i salti mortali per riuscire ad armonizzare l’utopia con il disincanto, la provvidenza con il realismo.

In alcuni casi saremo certo obbligati a puntare al ribasso: la nostra missione è oggi più povera di risorse, tanto umane quanto economiche, rispetto al passato; ciò avviene per tante e diverse ragioni che vanno dalla perdita, nella società, del senso religioso e dell’affezione verso il mondo missionario, al crollo di fiducia (soprattutto delle generazioni più giovani) verso la Chiesa vista come istituzione.

Stiamo diventando (fisicamente e metaforicamente) più anziani e, con l’età, non mancano gli acciacchi. Questo ci obbliga a «dimagrire», a spendere energie in un processo di spoliazione tanto doloroso quanto inevitabile. Questo fenomeno, non serve nascondersi dietro un dito, condizionerà le scelte attuali e future e andrà tenuto sempre presente per poter progettare una missione che sia anche fattibile.

Tuttavia, non siamo esentati dal sollevare la testa guardandoci intorno. Dobbiamo continuare a dire: «Possiamo», se lo vogliamo, e, soprattutto, se crediamo fermamente che lo vuole il Signore. Lui non farà mancare il suo aiuto nei momenti di aridità, di «impantanamento», di difficoltà anche drammatica, come tante volte ha dimostrato nel passato. A noi sta il compito di provarci sempre e comunque.

Nel corso dei prossimi mesi, MC vi porterà a spasso per alcune delle nostre comunità in Europa, perché vogliamo condividere con voi alcuni tentativi già in atto di vivere l’ad gentes alla luce dei tempi e dei luoghi in cui siamo inviati ad annunciare il Vangelo.

Saranno questi percorsi, accompagnati dalla viva voce dei missionari che li hanno intrapresi, a spiegare con chiarezza, sicuramente meglio delle parole di questo articolo, che cosa intendiamo per missione in Europa oggi.

Nel fare questo, inoltre, non nascondiamo il nostro desiderio di coinvolgere in questa avventura anche voi che, in questo momento, state leggendo MC.

L’invito a seguirci che vi rivolgiamo, vuole, infatti, sancire un altro dei criteri che il Progetto regionale reputa fondamentali per vivere la nostra missione nella gioia ed efficacemente: fare rete, non pensare di voler costruire il Regno di Dio da soli, camminare con altri.

La Chiesa oggi chiama questo stile «sinodalità», e dà a esso così tanta importanza da aver deciso di istituire un Sinodo su questo tema, e di voler dedicare il tempo che intercorrerà tra adesso e la sua celebrazione (ottobre 2023) a un cammino di ripensamento della Chiesa sulla base del coinvolgimento comunitario. La missione oggi in Europa non può essere fatta da «lupi solitari»; non è più il tempo per camminare da soli.

A questo riguardo, nel ribadire che il vero agente della missione è la Chiesa locale, la Conferenza dice che, pur preservando le nostre specificità e il nostro carisma, è soltanto all’interno di essa e in comunione con essa che la nostra missione sarà gioiosamente efficace, gratificante e, chissà, magari anche profetica.

Il nostro stile di presenza in un mondo caratterizzato sempre più dalla multiculturalità ci apre a bellissime esperienze di collaborazione in tutto il Continente, tanto nel catecumenato, quanto, più in generale, nella catechesi degli adulti, nella formazione dei catechisti e nella pastorale migranti.

In contesti, anche ecclesiali, tentati dalla chiusura e dall’autoreferenzialità, il nostro apporto negli uffici missionari delle varie diocesi può essere (e di fatto lo è) valorizzato come una boccata d’aria fresca. Sempre e soltanto nel momento in cui, però, la chiesa locale diventi veramente famiglia, compagna di viaggio.

Infine, sempre nello spirito della sinodalità, la nostra missione in Europa deve continuare a guardare fuori dal proprio orto. Grazie alla generosità e al sacrificio di tanti, le nostre comunità hanno potuto costantemente dare una mano a quelle degli altri continenti. Secondo il principio che si può aiutare le nuove chiese sia partendo che donando, molti nostri benefattori ci hanno permesso di non essere estranei a tante situazioni di dolore e necessità nel mondo.

Chiediamo però che questa disposizione, sempre attiva nel sostenere progetti di sviluppo, programmi di formazione e sostegno a distanza, crei rapporti di interscambio con altre realtà del mondo che, grazie al dono della loro cultura e delle loro tradizioni, possano aiutarci a far comprendere e accogliere alle nostre chiese il dono dell’altro.

Ugo Pozzoli
* Regione Europa Imc

Visione generale del Santuario di Fatima dalla spianata