Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace


È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.

Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.

Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.

Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.

La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.

Nuovi, diocesi e vescovo

Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.

Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.

La nuova diocesi

Virgilio Pante il giorno della sua consacrazione episcopale a Maralal

La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.

In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.

Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.

Cercando la pace

Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.

Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.

Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».

Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.

Una leonessa adotta una gazzellina di orice. gennaio 2002.

Una sfida infinita

Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.

Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.

Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.

Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.

Visita alla chiesa di Kawap distrutta per lotte tribali. Chiesa costruita da padre Cornelio Dalzocchio

Le armi della pace

L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.

Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».

Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».

E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.

Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».

Villaggio abbandonato per guerre tribali

Risultati

«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».

Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».

Una Chiesa sempre più incarnata

L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.

All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.

Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.

Benedizione del Dormitorio della Pace per le ragazze. 19/5/2012

Scuola e salute

Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.

Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.

Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.

I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.

Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.

Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.

Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace.

Gigi Anataloni
(1 – continua)

Mercato Pokot e Samburu, luogo di incontro, dialogo e collaborazione




Con l’odore delle pecore. Padre Gazzera, nuovo vescovo coadiutore di Bangassou


Lui è un innamorato del Paese. Ma la nomina a vescovo non se l’aspettava. La crisi storica in Centrafrica colloca questo Stato in fondo a tutte le classifiche di sviluppo. La ricetta, per padre Aurelio, è investire nell’educazione dei  giovani. Per un futuro di pace.

Un missionario in prima linea. Un sacerdote che ha vissuto gran parte della sua vita in uno dei Paesi più instabili al mondo. Aurelio Gazzera, religioso dell’ordine dei Carmelitani e oggi vescovo di Bangassou, è uno di quei «pastori con l’odore delle sue pecore addosso», che piacciono tanto a papa Francesco. A testimoniarlo è la sua stessa biografia. Nato a Cuneo, ha lasciato ben presto la provincia Granda per entrare giovanissimo nel seminario minore dei Carmelitani scalzi di Arenzano. Già nella sua formazione di sacerdote (sarà ordinato nel 1989) trascorre un anno nella delegazione carmelitana centrafricana. Ma è dal 1992 che il suo destino si lega più strettamente al Centrafrica dove ricopre diversi incarichi: assistente al seminario minore della missione Yole (1992-1994), direttore del primo ciclo del medesimo seminario minore (1994-2003) e poi parroco di San Michele di Bozoum (2003-2020) e superiore della delegazione dei carmelitani scalzi (2014-2020).

Dal 2003 diventa responsabile della Caritas di Bouar e, dal 2020, è membro della comunità di Baoro, incaricato dei cristiani dei villaggi della savana e direttore della scuola meccanica di Baoro.

La «fiera» di Bozoum

A Bozoum crea un evento unico per tutto il Paese: la fiera agricola. «Vengo dalla provincia di Cuneo, una terra contadina, e in Africa ho incontrato contadini – spiega padre Aurelio -. Qui coltivano manioca, fagioli, arachidi in piccoli campi. Si tratta di un’agricoltura di sussistenza che permette di raccogliere il minimo per la sopravvivenza delle famiglie. Esistono però coltivazioni più estese di riso. Ed è un elemento positivo perché il riso ha un buon mercato, si vende bene e può garantire entrate alle famiglie di coltivatori». E proprio per creare un mercato, padre Aurelio nel 2004 si inventa, insieme a Secours Catholique (Caritas francese), la fiera. Una iniziativa che, da allora, si è ripetuta ogni anno, nonostante le difficoltà che il Paese stava attraversando.

«Nel 2024 – osserva padre Aurelio -, la fiera agricola e pastorale di Bozoum si è tenuta dal 26 al 28 gennaio. Siamo arrivati alla 19a edizione. La fiera è un unicum in Rca: non c’è niente di simile in tutto il Centrafrica. È uno spazio di esposizione e vendita di prodotti agricoli, cui partecipano le cooperative della regione. I più lontani sono venuti da Ngaundaye, Ndim e Bocaranga: regioni molto toccate dalle violenze. Ed abbiamo voluto a tutti i costi aiutarli a venire».

La fiera è un’occasione per vendere e acquistare prodotti agricoli, macchinari e sementi. Il giro d’affari di quest’anno è di 80 milioni di franchi cfa (120mila euro). «È una cifra considerevole – continua padre Aurelio -, in un Paese dove il reddito pro capite è intorno ai 400 euro annui».

Repubblica centrafricana. Fedeli durante una messa a Bema, Bangassou. Foto Aurelio Gazzera

Socialità e dialogo

«La fiera non è solo un evento commerciale. Gli stand sono una festa di colori e di sorrisi. Il lavoro di tanti mesi trova qui la bellezza dei prodotti, la gioia di esporre (e di mostrare l’aspetto positivo dell’agricoltura) e la soddisfazione di vendere tanto in poco tempo.

Qui non c’è differenza tra cristiani o musulmani, tra persone di diverse etnie. C’è uno splendido clima di amicizia e di confronto».

La guerra e papa Francesco

La Repubblica Centrafricana è un Paese senza sbocco sul mare che, da anni, lotta contro conflitti e instabilità. La nazione è stata scossa da molte guerre civili e colpi di stato, causando una crisi umanitaria che ha colpito milioni di persone. Il conflitto più recente è iniziato nel 2012, quando una coalizione di gruppi ribelli conosciuta come Seleka ha rovesciato il governo del presidente François Bozizé. La Seleka, composta principalmente da musulmani, ha iniziato a prendere di mira le comunità cristiane, tra le quali sono nate in risposta le milizie note come «anti balaka».

Il conflitto è stato caratterizzato da violenza diffusa, violazioni dei diritti umani e lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone.

Nel 2015, papa Francesco ha aperto la Porta Santa della Cattedrale di Bangui, la capitale centrafricana, dando il via all’anno Santo. «Bangui diviene la capitale spirituale del mondo – ha detto Francesco -. In questa terra sofferente sono rappresentate tutte le sofferenze del mondo. Per Bangui, per tutti i Paesi che soffrono la guerra, chiediamo la pace: tutti insieme chiediamo amore e pace». E ha poi aggiunto: «A tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo, io lancio un appello: deponete questi strumenti di morte; armatevi piuttosto della giustizia, dell’amore e della misericordia, autentiche garanzie di pace».

La visita di papa Francesco e l’apertura della Porta Santa a Bangui avevano fatto sperare in una svolta, ma le tensioni sono continuate.

Gruppi di ribelli oggi controllano quasi i due terzi del territorio nazionale, mentre le risorse naturali (legname, oro, uranio, ecc.) hanno attirato le attenzioni di numerose potenze straniere. «A pagare questa situazione di incertezza è la popolazione civile che vive nel terrore che si possano ripetere le tensioni e, con esse, possano tornare violenze, saccheggi, distruzioni – spiega padre Aurelio. Gli ultimi dodici anni sono stati terribili per il Centrafrica e le persone non vogliono rivivere quello stato di devastazione e timore continui. Qui da noi le autorità sono già fuggite in zone più sicure. La popolazione si sente abbandonata».

Il Paese è tra i più poveri al mondo, con alti livelli di insicurezza alimentare, malnutrizione e malattie. Il conflitto ha interrotto la produzione agricola e il commercio, portando a un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari e della fame diffusa. «Il governo centrale non è in grado di sostenere l’economia – continua padre Aurelio -. Manca la sicurezza, mancano le infrastrutture. Ricche piantagioni di caffè, tabacco e pepe sono state abbandonate perché è impossibile portare i prodotti sui mercati. I contadini sono così costretti a vivere con quel poco che coltivano vicino a casa».

Aurelio vescovo in Rca

padre Aurelio con monsingnor Juan Josè Aguirre, in visita in Spagna.. Foto Aurelio Gazzera

Il 23 febbraio scorso padre Aurelio è stato nominato vescovo coadiutore di Bangassou da papa Francesco. Una notizia che lo ha sorpreso. «Più leggo e studio, e più mi sento piccolo e incapace, e non all’altezza – ha scritto in una lettera inviata al vescovo di Cuneo-Fossano, diocesi da cui proviene -. Il ministero episcopale è un affare serio! […] Ho accettato per amore di Dio. E mi vengono alla mente le parole tra Gesù e Pietro, dopo la Risurrezione: “Gli disse per la terza volta: Simone di Giovanni, mi ami? Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo. Gli rispose Gesù: Pasci le mie pecorelle (Gv. 21,17)”. Ho accettato per amore della Chiesa. L’anello che il vescovo porta, è segno di questa fedeltà. Dalla Chiesa ho ricevuto tutto: la Fede, la Speranza, la Carità».

Padre Aurelio ha accettato anche per amore del Centrafrica: «È un Paese “non facile” (qui usa un eufemismo, nda). Sono 33 anni che il Signore mi ha fatto la grazia di viverci. Non ho ancora capito tutto. Anzi. Ma lo amo, come amo la diocesi di Bangassou che mi è affidata, data in sposa. Momenti di gioia, momenti di dolore. Un mosaico di bellezza e di sofferenza, di semplicità e di complicazioni. Di volti, di sorrisi, di bambini, di giovani e di adulti».

Una zona complessa

La diocesi di Bangassou si trova in una regione molto difficile, scossa ancora da forti tensioni. «Dopo il referendum costituzionale (del 30 luglio 2023, ndr) – continua padre Aurelio -, a livello centrale si è affermata un po’ di stabilità. Nel Nord Ovest e nel Sud Est, anche se i combattimenti si sono fatti un po’ più radi, le tensioni non sono scomparse.

Nella mia diocesi ci sono due aree particolarmente rischiose: una è Bakouma, nei pressi di un importante sito di uranio, dove a inizio aprile sono state uccise decine di persone; l’altra è Mboki, attaccata e occupata dai ribelli e dove si sono registrati scontri con gli anti balaka Azande a Ni Kpi Be.

Queste tensioni hanno profonde conseguenze sulla popolazione. Non parlo solo dei problemi economici. Adulti e bambini vivono nella costante paura di attacchi e massacri. Lo stress legato a questi fatti è alto e incide anche sulla psiche delle persone».

Repubblica centrafricana. una classe della scuola primaria di Nyakari (Bangassou). Foto Aurelio Gazzera

Russi e cinesi

In tutto il Centrafrica è molto forte la presenza straniera. Esaurita l’influenza francese, ex potenza coloniale, hanno preso gradualmente spazio i russi e i cinesi. Entrambi hanno una forte presenza nel Paese. Pechino è più discreta ed è interessata soprattutto alla gestione e allo sfruttamento (spesso selvaggio) delle risorse naturali (legno, oro, uranio, ecc.). Mosca invece ha una presenza più evidente soprattutto in campo militare. Di fronte alla crescente insicurezza, il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra ha offerto ai russi ampie concessioni sulle miniere in cambio della protezione militare dei mercenari di Mosca. «La loro presenza è molto evidente – osserva padre Aurelio -. Nel Paese si vedono un po’ ovunque sia tecnici sia militari russi. Non si nascondono e conducono politiche e alleanze locali che, spesso, non sono allineate alle strategie del governo centrafricano».

Secondo padre Aurelio, «bisogna disarmare i cuori e le mani. E poi questo è un Paese che ha bisogno di infrastrutture, di sviluppo. Invece non si vede nessun impegno. Le strade sono sempre più disastrate, nella capitale stessa. Se si pensa che per percorrere 750 chilometri ci vogliono un paio di settimane in macchina, nella stagione secca, vuol dire che la carenza è grande. Ci vorrebbe un impegno più serio, non tanto da parte della comunità internazionale quanto dalle autorità locali». Padre Aurelio, però, è ottimista. «Lavoriamo molto attraverso l’educazione dei giovani. Siamo convinti che è proprio attraverso la formazione delle nuove generazioni che si può costruire un futuro migliore. È un cammino lungo, ne siamo convinti, ma è l’unica strada per cambiare davvero, nel profondo».

I fedeli sono molto legati alla Chiesa cattolica. La devozione è forte. «Come Chiesa cattolica – conclude padre Aurelio – cerchiamo di stare sempre a fianco delle persone, di essere presenti e di condividere le loro sofferenze. La Chiesa cattolica lavora per incoraggiare tutti i tentativi di soluzione pacifica dei conflitti e per portare una parola di speranza in un Paese che pare avere perso la fiducia nel futuro».

Enrico Casale

Repubblica centrafricana. Strada nella diocesi di Bangassou. Foto Aurelio Gazzera

Archivio

Marco Bello, Centrafrica, Regioni contro la guerra, MC aosto 2022

 




Allamano. Il dono della vocazione


Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni, celebrata nella IV domenica di Pasqua, papa Francesco invitava a «considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita».

Il beato Allamano considerava la vocazione missionaria come un dono straordinario di Dio al punto di ritenere «fortunati» quei giovani che avevano sentito il suo invito a seguirlo sulla via della missione. «Egli – diceva il fondatore dei missionari della Consolata ai suoi – vi ha chiamati all’apostolato per sola sua bontà. L’ha fatta a voi questa grazia, a preferenza di tanti altri che ne erano più degni e che vi avrebbero forse corrisposto meglio. E perché proprio a voi? Perché vi ha amati di un amore particolare. Ha fatto con voi ciò che fece con quel giovane del Vangelo: “E Gesù fissatolo, lo amò e gli disse: vieni e seguimi” (Mc 10,21). Ecco che cosa è la vocazione! È questo sguardo di predilezione di Gesù».

La risposta alla vocazione spinge tante persone a consacrarsi e a offrire la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano.

Annunciare il Vangelo a quanti non lo conoscono, spezzare la propria vita, insieme al pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio: è questo il Dna della vocazione missionaria seminato nel cuore di tanti giovani dal beato Allamano.

La crisi di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nel mondo occidentale a cui assistiamo oggi, tra le altre cause, è certamente determinata dalla crisi di identità di cui soffre l’uomo moderno che porta a cercare la propria realizzazione in surrogati che alla lunga si rivelano incapaci di soddisfare il desiderio di felicità che abita il cuore delle persone.

«Ascoltare la chiamata divina – scrive ancora papa Francesco – lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso, è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro. La nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo».

Sergio Frassetto

Seminatori di consolazione

Contemplando l’icona della Consolata, come faceva l’Allamano dal coretto del Santuario, suor Maria Luisa Casiraghi evidenzia le caratteristiche, i valori e i sentimenti che noi missionari siamo chiamati a incarnare per essere presenza di consolazione nel mondo.

Dal «coretto» il fondatore la contemplava

Noi missionari e le missionarie ci possiamo definire: «Seminatori e seminatrici di consolazione attraverso vie e modi che lo Spirito e le contingenze della vita ci fanno intravedere». Per fare questo cammino bisogna affidarci alla Consolata, dialogare con lei, accogliere le intuizioni dello Spirito.

Ma come? Quando desideriamo conoscere qualcuno cerchiamo di incontrarlo, parlargli, stare il più possibile in sua compagnia per carpire i suoi segreti, arricchirci della sua esperienza, accogliere i suoi consigli.

Il fondatore in questo ci è modello. Sappiamo infatti quanto tempo lui trascorreva in preghiera nel coretto del santuario della Consolata contemplando l’icona a lui e a noi tanto cara per comprendere meglio la volontà di Dio, il cammino da intraprendere e per avere il coraggio e la forza di realizzare ciò che Dio voleva da lui.

Penso che nel coretto del Santuario della Consolata, mentre contemplava il volto di Maria, il fondatore vedesse tratteggiati gli atteggiamenti e i lineamenti che noi missionarie e missionari avremmo dovuto incarnare per portare la consolazione alle persone nei luoghi e nelle situazioni che avremmo incontrato nel nostro cammino. Contemplando l’icona di Maria il fondatore focalizzava le sue virtù e meditava come noi, suoi figli e figlie, che avremmo portato nel mondo il suo nome, dovevamo viverle.

Come davanti a uno specchio

Mi sono posta più volte davanti all’icona della Consolata come davanti a uno specchio per cogliere qualche particolare che mi suggerisse i passi ancora da fare, i cammini da iniziare, gli atteggiamenti da vivere per divenire sempre di più una presenza di consolazione. E, contemplando questa icona, sono stata colpita da vari particolari, soprattutto dalle mani del bambino Gesù: una mano tiene stretto il pollice della Madre che così s’intreccia con la sua e l’altra indica a noi Maria. In questo intreccio di mani scorgo ciò che il fondatore spesso sottolineava quando ci incoraggiava a rivolgersi e a pregare la Consolata. Egli diceva: «È importante avere fiducia nella Consolata: senza di lei possiamo fare poco o nulla, con lei tutto. Fìdati della Madonna, è tua madre! Voglile bene! Senza di lei non si può volare e camminare nella santità. La nostra ala in più è lei, la madre di Gesù, la Consolata».

Essere «conche» per essere «canali»

Un secondo messaggio che ho visto scaturire contemplando Maria lo collego a un’altra espressione del Fondatore in cui affermava: «A riguardo del prossimo dobbiamo essere conche, non solo canali. Ma riguardo ai beni materiali dobbiamo essere solamente canali e non conche». La prima attitudine di Maria che emerge dai Vangeli è quella dell’accoglienza che fa posto allo Spirito, che si svuota per lasciarsi guidare da lui sulle strade di Dio.

Questo è l’atteggiamento che il fondatore voleva che noi coltivassimo per diventare conche e fonti vive. Essere conche ripiene di Spirito aiuta a comprendere l’importanza poi di divenire canali in cui scorrono generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la missione in modo autentico ed efficace.

I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare nella corrente, nel canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date». Solo così la missione diventa annuncio della consolazione, del dono che Dio fa al mondo: il suo unico figlio, tanto amato, offerto per la salvezza di tutti, un figlio che Maria ha rivestito della sua natura umana.

Seminare la buona notizia

Ancora: Maria, in questa icona non tiene il bambino stretto a sé, ma lo offre all’umanità. Il suo atteggiamento è rivolto anche a noi: non tenere stretta la buona notizia della salvezza, ma seminarla nelle pieghe del quotidiano per trasformare l’ordinario in straordinario. L’annuncio non nasce da noi, ci viene donato affinché lo condividiamo con parole, gesti, silenzi… come Maria ha fatto nella sua vita: poche parole, molti gesti per aprire cammini e orizzonti nuovi e tanti silenzi, non sterili, ma che hanno generato vita.

E termino con l’augurio fatto parecchi anni fa ai missionari e alle missionarie dall’allora arcivescovo di Torino, il cardinale Anastasio Ballestrero. Diceva: «Quando si è portatori di un annuncio di consolazione non si può esserlo autenticamente senza un entusiasmo che brucia dentro, senza un fervore totale che investe la vita e senza un ardore che non conosce stanchezza. Il popolo di Dio e tutti i popoli hanno bisogno di vedere che i missionari e le missionarie sono così: creature incandescenti che dovunque arrivano accendono il desiderio di Dio e dovunque passano lasciano un segno profetico profondo, efficace e fecondo». E, a questo segno, noi missionari e missionarie della Consolata diamo il nome di «consolazione».

Suor Maria Luisa Casiraghi

Ho speso tutto

Quando nel 1880 l’Allamano assunse la direzione del Santuario della Consolata, questo si presentava brutto e decadente, così, nel 1883 diede inizio a lavori di restauro esterno dell’edificio, su disegno dell’ingegnere Giovanni Battista Ferrante, che riportò il complesso alle linee originarie dell’architetto Filippo Juvarra. I lavori furono ultimati nel 1885. A convincere l’Allamano della necessità di intervenire nuovamente con lavori più radicali sull’edificio fu la prospettiva delle grandiose feste che si sarebbero dovute celebrare nel 1904, in occasione dell’ottavo centenario del ritrovamento dell’immagine della Consolata da parte del cieco di Briançon, avvenuto il 20 giugno 1104, secondo un’antica tradizione. Il progetto dei restauri fu affidato all’architetto Carlo Ceppi e i lavori di trasformazione furono compiuti tra il 1899 e il 1904. Attraverso l’inserimento di quattro cappelle ovoidali, sistemate attorno all’esagono guariniano, e la realizzazione di altri interventi architettonici e decorativi, la chiesa assunse una forma maestosa che dall’esterno si arricchiva di cupolini e volute, a coronamento delle nuove cappelle, mentre all’interno risplendeva di marmi e stucchi dorati così come la conosciamo oggi.

Per preparare il progetto dei restauri fu scelto il principe degli architetti torinesi, il conte Carlo Ceppi. «Ma, mio caro canonico, – fu il preambolo dell’architetto al Camisassa – che cosa possiamo fare qui? Siamo strangolati in tutti i modi». «Signor conte – replicò il Camisassa -,  il Juvarra sfondò le pareti e creò quel magistrale ampliamento dove fece sorgere l’altare della Vittoria. Come ha fatto lui perché non possiamo fare anche noi altrettanto ai fianchi?». «La cosa è fattibile, e la faremo», concluse l’architetto, e si mise all’opera.

All’architetto che gli faceva presente che non sarebbe bastato un milione, l’Allamano rispose: «Ne metteremo due, tre, purché Torino abbia un santuario degno della sua Patrona».

«Quando io facevo restaurare il santuario – confidò l’Allamano – (ebbene, c’è andato un bel milione, sapete) qualcuno diceva: “Uh, che spreco! Perché adoperare del marmo così prezioso? Marmo d’Egitto? Si potrebbe mettere marmo finto come in quell’altra chiesa!…”. Ed io dicevo: “Per il Signore, per la Madonna non è mai troppo, non si spreca mai”. Alcuni mi dicevano: “Perché cambiare il pavimento? Mettere marmo di prima classe? […]. Quando si tratta della Madonna non bisogna aver paura anche di fare dei debiti, di fare delle imprudenze, e poi con la Consolata non si fanno delle imprudenze. Io per la Consolata ho speso tutto».

La riflessione conclusiva dell’Allamano svelò da dove egli prendeva l’ispirazione e il coraggio: «I lavori, con visibile protezione di Maria, furono deliberati proprio il 10 dicembre 1898, festa della S. Casa di Loreto, quasi per farci notare che “Lei stessa si è edificata la casa”. […]. Questa non è opera nostra, ma è proprio opera della Madonna».

Giuseppe Allamano, per le feste centenarie della Consolata, oltre ai lavori di restauro del tempio, volle regalare alla Vergine due preziose corone di brillanti che furono apposte al quadro. Le celebrazioni centenarie iniziarono l’11 giugno 1904 per terminare il 20, festa della Consolata. Il giorno 19 si svolse la processione per le vie della città, con la partecipazione di sei cardinali, 23 vescovi e 104 parroci, oltre alle congregazioni religiose e ai fedeli in numero incalcolabile. Il giornale «La Stampa» fece questo commento: «Certo è riuscita una manifestazione religiosa imponente che non ha precedenti nella memoria dei torinesi».


POSTULATORE > P. GIACOMO MAZZOTTI

Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:
POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
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Madagascar. Mission impossible (o quasi)


La «grande isola» è come un ponte tra l’Africa e l’Asia. Porta in sé contrasti e difficoltà, oltre a tanta bellezza. Iniziamo questa serie dall’ultimo paese nel quale hanno messo piede i «figli» di Giuseppe Allamano.

«Ormai è venuto il tempo di una missione più discreta, umile, solidale, propositiva, fondata più sull’essere che sul fare» (cfr. dalla presentazione degli atti del capitolo generale dei Missionari della Consolata del 2017).

La genesi

Nel 2012 il vescovo di Abanja, monsignor Rosario Vella, salesiano, passa alla casa Generalizia a Roma. Mi cerca perché le suore Battistine gli hanno parlato bene di noi. Io all’epoca ero superiore generale dei Missionari della Consolata. Mi dice: «perché non venite ad aprire in Madagascar, è una missione ad gentes, adatta a voi. Venite nella nostra diocesi».

Io gli rispondo: «È una bellissima idea, ma noi stiamo lavorando a livello continentale, per cui per aprire una missione in un nuovo paese, mi piacerebbe sentire cosa pensa il consiglio continentale dell’Africa dell’istituto». «Ma come, un generale non può decidere?», dice lui. Io presento l’idea al consiglio, che ci lavora quasi due anni.

Nel 2016, una prima delegazione va in Madagascar a incontrare il vescovo e vedere il possibile luogo di missione. Ne fanno parte il vice superiore generale padre Dietrich Pendawazima, il consigliere per l’Africa padre Marco Marini, e padre Hyeronimus Joya, all’epoca superiore del Kenya, a rappresentare il consiglio d’Africa.

Ma facciamo un passo indietro. Nel 2010, quando ero vice superiore generale, io ero andato a trovare il nostro confratello padre Noè Cereda (recentemente scomparso, ndr) nella capitale Antananarivo. Lui era lì perché aveva lavorato come responsabile all’Emi (Editrice missionaria italiana), e aveva avuto un contratto per pubblicare i libri per le scuole elementari e medie dello Stato. Quando ha lasciato l’Emi, dati i suoi contatti, si è trasferito in Madagascar, a lavorare con delle suore. Mi ero dunque fatto un’idea del Paese.

Motivazioni

Ma perché il Madagascar? Per noi rispondeva a una delle nostre inquietudini come missionari della Consolata. Oggi tutto è missione e il significato dell’«ad gentes» è in crisi. Non si capisce più esattamente quale sia l’identità concreta dell’andare «alle genti». Diciamo che sono i luoghi dove bisogna annunciare il Vangelo per la prima volta. In Madagascar i cattolici sono una minoranza (circa il 16%, ndr).

Una seconda motivazione era che questo Paese è un ponte che unisce l’Africa all’Asia. La popolazione è in parte di origine africana e in parte austronesiana (come i popoli di Malaysia e Indonesia, ndr).

Il terzo elemento di interesse era quello dare occasione ai nostri missionari africani di realizzare una missione tutta africana.

Difficoltà

Quando i nostri primi tre sono partiti nel marzo 2019, sono andati dal vescovo di Ambanja e hanno iniziato a imparare la lingua. Si trattava del congolese Jean Tuluba, l’ugandese Kizito Mukalazi e il keniano Jared Makori. Come africani non hanno avuto grosse difficoltà a comprendere la cultura. Ma dopo qualche mese il vescovo è cambiato, monsignor Vella è stato trasferito e siamo rimasti per un paio di anni con un amministratore apostolico, che però stava in un’altra diocesi e aveva molto altro da fare. I nostri sono stati lasciati un po’ soli. Questo aspetto ha penalizzato la nostra missione.  Quando abbiamo fatto la visita con la nostra delegazione si è dunque pensato di aprire nel Nord del Paese, a Beandrarezona, dove i nostri sono arrivati nell’ottobre 2020. Abbiamo subito visto che si tratta di una missione puramente ad gentes: è proprio un luogo fuori dal mondo.

Durante la stagione delle piogge, per sei mesi all’anno, non si può neppure arrivare con la macchina. Inoltre, l’unica auto che c’è in zona è la nostra. Nella cittadina dove stiamo, le case sono molto vicine tra loro, perché chi vi abita non aveva mai pensato che potesse passare un mezzo, quindi non c’è una vera strada. Anche le comunicazioni sono difficoltose: per usare il telefono cellulare, i missionari devono andare su una montagna.

Inoltre, la nostra è stata la prima presenza missionaria straniera in assoluto. Prima c’era solo un gruppo di suore malgasce che, ancora oggi, gestiscono una scuola. Forse come prima apertura in un paese nuovo è stata un po’ un azzardo.

Quando ho fatto la mia ultima visita canonica, nel luglio 2022, abbiamo confermato che la missione di Beandrarezona è quella dove vogliamo stare. Allo stesso tempo abbiamo rinforzato l’idea di aprire una nuova comunità nella capitale Antananarivo. Abbiamo infatti visto che in Madagascar, tutto si gioca in capitale, quindi una nostra presenza lì è fondamentale. Non soltanto per gli aspetti pratici ma anche per essere riconosciuti e significativi. Molte congregazioni presenti nel Paese non sanno neppure che esistiamo.

Missione povera

È una missione povera, le entrate sono limitate, anche per mantenere il minimo di strutture non è facile. I tre missionari sono rimasti per tre anni in una famiglia il cui papà era direttore della scuola. Loro si sono ristretti e ci hanno lasciato due stanze con una specie di cucina. Solo recentemente abbiamo fatto fare una casa e poi anche una scuola, che potrebbe dare un senso alla missione e una piccola entrata economica. Il luogo ci definisce, ovvero certe scelte ci definiscono. Essere in Madagascar in questo momento storico è una scelta di campo, da ad gentes, tra i più poveri e abbandonati. La forza di questo Paese è il turismo, ma si concentra sulle coste mentre all’interno la popolazione vive in una povertà estrema.

Adesso padre Kizito ha cambiato destinazione, mentre due padri giovani si stanno preparando per integrare il gruppo.

Provocazione

Questa nuova modalità di missione, si presenta con pochi mezzi. Si esplicita in tre punti: stare con la gente, avere meno potere e più condivisione. Il missionario non deve essere il solito straniero potente che risolve tutto. Questa è però una fatica per i giovani, che sono portati a essere protagonisti.

Bisogna trovare le condizioni per riuscire a stare o, al contrario, capire le condizioni che ti obbligano ad andare via.

La missione oggi chiede una grande conversione: si fa fatica a individuarla, è diversa da quella di una volta, ed è difficile portarla avanti.

Stefano Camerlengo

 




Costa d’Avorio. Addio padre Matteo

Il missionario della Consolata italiano padre Matteo Pettinari, quarantaduenne, nato a Chiaravalle (Ancona) e cresciuto a Monte San Vito, è deceduto nel pomeriggio del 18 aprile 2024, a causa di un grave incidente stradale avvenuto a Niakara, villaggio dell’area centro nord della Costa d’Avorio, quando l’auto che lui guidava si è scontrato con un autobus di linea. Padre Matteo lascia il padre Pietro, la sorella Francesca, il fratello Marco e cinque nipoti. La mamma Roberta è mancata tre anni fa.

Il Papa Francesco, durante i saluti dopo il Regina Caeli, nella domenica del Buon Pastore (21 aprile), ha voluto ricordare la figura del missionario generoso: «Con dolore ho appreso la notizia della morte, in un incidente, di padre Matteo Pettinari, giovane missionario della Consolata in Costa d’Avorio, conosciuto come il missionario ‘instancabile’ che ha lasciato una grande testimonianza di generoso servizio» – ha detto il Pontefice, invitando a pregare per la sua anima.

Un missionario con lo spirito dell’Allamano
Sul terribile incidente che ha causato la morte di padre Matteo, preziosa è la testimonianza di padre Stefano Camerlengo che, dopo aver terminato il suo mandato come Superiore Generale, era stato destinato, pochi mesi fa, alla Costa d’Avorio e proprio con padre Matteo erano insieme responsabili della parrocchia di Dianra.
In un messaggio ha condiviso con noi quegli ultimi momenti vissuti insieme a padre Matteo. «Davanti a una persona giovane, buona e un missionario instancabile, come ha detto il Papa Francesco, non ci sono altre parole da aggiungere. Uno vuole vivere questo momento nel silenzio, come ho detto questa mattina alla nostra gente in chiesa; silenzio nella comunione tra di noi, nella fraternità e nella preghiera», dice padre Stefano e poi racconta cosa era successo giovedì 18 aprile, quando padre Matteo ha avuto il tragico incidente, sulla strada che, attraversando il Paese, collega il Nord con la capitale Abidjan, sulla costa atlantica.
«Di fronte a un triste evento come questo cosa impariamo? – si chiede padre Stefano -. Sono situazioni che non hanno risposta e che capiremo solo quando saremo con il Signore. Abbiamo davanti una persona buona e generosa che si è donata, un missionario della Consolata con lo spirito dell’Allamano: amore e passione per la gente, voglia di promozione umana per fare crescere le persone; oltre a una grande intelligenza che gli ha permesso di essere aperto a tutti e amico di tutti. Celebriamo la morte di un uomo che, come buon pastore, si è speso per le sue pecore che conosceva, con la preoccupazione anche per quelle che non stavano nell’ovile e le cercava. Credo che questo sia il ricordo più bello di padre Matteo».
«In comunione fraterna, preghiamo il Signore per il suo riposo eterno e che, per intercessione della Madonna della Consolata, conceda a noi e alla sua famiglia consolazione e pace. Imploriamo per lui dalla misericordia di Dio la luce della Risurrezione» – si legge nella nota pubblicata venerdì 19 aprile dal Superiore generale, padre James Lengarin e dal segretario imc, padre Pedro Louro.
La notizia ha lasciato una grande tristezza per l’improvvisa scomparsa del giovane missionario, pieno di energia e molto attivo nella missione in Costa d’Avorio, dove lavorava dal 2011 e, nel 2022, era divenuto Superiore Delegato per l’Istituto. «Nel grande dolore, ci ancoriamo alla speranza della risurrezione, testimoniata in modo splendido dalla vocazione e dalla vita di Padre Matteo» – rende noto dalla Diocesi di Senigallia la sua comunità di origine con cui manteneva stretto rapporto con progetti in favore della popolazione ivoriana. Attraverso i social, aggiornava sui progressi e gli aiuti che arrivano per la missione.
«Sei volato in cielo ed ora con mamma vegliate su di noi. Il tuo ricordo sarà sempre nel mio cuore e nessuno potrà portarmelo via» – ha scritto su Facebook la sorella Francesca, postando una foto del fratello Matteo in missione, con una bimba in braccio.
Diversi mezzi di comunicazione in Italia hanno riportato notizie e messaggi di cordoglio. Un punto di riferimento era a Monte San Vito padre Matteo, a cui era molto legato e dove tutta la sua famiglia è conosciuta e apprezzata. «La comunità di Monte San Vito – ha scritto il Comune – si stringe profondamente addolorata attorno alla famiglia Pettinari per l’improvvisa perdita di Padre Matteo. Ogni iniziativa in programma verrà rinviata a data da destinarsi» – ha affermato il sindaco Thomas Cillo -. Solo una grande fede può dare spiegazioni a certi eventi e per chi rimane c’è solo immenso dolore».

Amava la preghiera e la Parola di Dio
Padre Alexander Likono, imc, che ha lavorato con padre Pettinari per 13 anni, lo definisce «un uomo di grande fede che amava veramente la preghiera e la Parola di Dio» – dice e aggiunge – «Anche se arrivava stanco, non lasciava mai il suo impegno di preghiera».
Padre Alexander racconta che insieme avevano organizzato la formazione in Costa d’Avorio, poi avevano lavorato nei centri sanitari di Marandallah e Dianra Villaggio. Padre Matteo è stato il suo Vice superiore per tre anni e recentemente erano nella stessa comunità di Dianra.
«Ricordo la sua passione e il suo entusiasmo per la missione, la sua energia e il desiderio di donarsi completamente per il regno di Dio, la salvezza e il benessere di tutte le persone. Era un vero figlio dell’Allamano e della Consolata. Abbiamo perso un missionario molto intelligente e capace di fare tante cose con precisione e ordine» – ricorda padre Alexander.
Altre caratteristiche in lui erano il dialogo e l’amicizia. «Padre Matteo era amato da tutti: dai vescovi, preti, confratelli, religiosi e religiose, autorità civili e tradizionali, dai cristiani e anche dai non cristiani. Aveva un cuore grande capace de vedere i bisogni degli altri, facendo il possibile per aiutarli. Sempre era disponibile, anche quando era stanco, o ammalato» – assicura padre Alexander.

Una chiesa per mostrare la bellezza della fede
Presenti dal 2002 nella diocesi di Odienné (Nord della Costa d’Avorio), in zona musulmana e animista, i Missionari della Consolata accompagnano oggi la crescita della Chiesa locale, arricchendola con edifici per l’istruzione e ospedali sanitari. Nel 2019, a Dianra Village è stata inaugurata la nuova chiesa parrocchiale dedicata a san Joseph Mukasa, uno dei martiri d’Uganda, nato nel 1860, martirizzato nel 1885 e proclamato santo nel 1964. Completata dopo tre anni di lavori, la chiesa è umile, ma bella e fa parte del progetto Pietra rossa. «Se qualcosa deve parlare di Dio, allora deve parlare il linguaggio di Dio, che è la comunione», aveva detto padre Pettinari all’architetto-capo del progetto di costruzione della chiesa, Daniela Giuliani. Lo raccontava lei stessa in una intervista del febbraio 2023 a L’Osservatore Romano. Parole di incoraggiamento, quelle del religioso, che sono state di grande ispirazione per l’architetto, che proviene dalla sua stessa diocesi: «Padre Matteo mi ha insegnato la via della Chiesa».
Nel Dossier sulla Costa d’Avorio, appena pubblicato sulla rivista Missioni Consolata (aprile 2024), padre Matteo così aveva raccontato la missione: «Insieme alle persone con cui condividono questa meravigliosa avventura, i missionari visitano i villaggi per l’annuncio del Vangelo, si aprono alle ricchezze delle culture che li accolgono, realizzano progetti educativi (alfabetizzazione serale e scolarizzazione) e di appoggio all’economia domestica (microcredito per donne e apicoltura). Sperimentano lo stupore della fraternità interreligiosa di cui è intessuto il loro quotidiano e, inoltre, amministrano un centro sanitario che oggi fornisce diversi servizi: dispensario, maternità, studio dentistico, laboratorio analisi, centro trasfusioni, salute mentale, accompagnamento di persone sieropositive e affette da tubercolosi, centro nutrizionale e telemedicina in cardiologia».
Proprio come desiderava il fondatore, il beato Giuseppe Allamano, i missionari «annunciano il Vangelo con opere di promozione umana». La sensibilità e lo sforzo per sviluppare un’evangelizzazione «inculturata» sono confluiti nella costruzione della chiesa di Dianra Village, secondo padre Matteo, «per dire la bellezza della fede» come spiega nel suo articolo. «Questa chiesa è un’ulteriore testimonianza fatta architettura e arte, capace di parlare della bellezza di Dio e della vita nuova in Cristo a chiunque la contempli (…). La sfida di inculturazione che abbiamo raccolto in questo spazio liturgico crediamo possa raccontare la sfida della missione stessa nel mondo».

Breve biografia
Padre Pettinari, dopo un periodo nel seminario di Ancona (Italia), era entrato nell’Istituto dei Missionari della Consolata, dove aveva concluso la sua formazione. Al termine dell’anno di noviziato a Bedizzole (BS), la professione dei voti temporanei, il 27 agosto 2006. Si era poi specializzato in teologia biblica a Madrid, in Spagna. Prima dell’ordinazione sacerdotale, dal 2007 al 2009 aveva svolto uno stage pastorale a Sago, in Costa d’Avorio, Paese che aveva mparato ad amare, scegliendolo poi, più tardi, nel servizio missionario.
Ritornato a Madrid, aveva fatto la professione perpetua l’8 dicembre 2009; ordinato diacono il 28 febbraio 2010, era diventato sacerdote l’11 settembre 2010 nella cattedrale di Senigallia. Da allora aveva trascorso 17 anni di professione religiosa e 13 di sacerdozio.
Dopo un periodo di animazione missionaria in Europa, nel 2011 era stato inviato in Costa d’Avorio, Paese che già conosceva e dove ha trascorso la maggior parte della sua vita missionaria, in particolare a Sago, San Pedro e Dianra Village.
Qualche anno fa, in un’intervista a La voce misena, periodico della diocesi di Senigallia, padre Matteo aveva detto: «Quello che l’Africa mi ha insegnato è di vivere la vita non a partire dai problemi che ci sono o che non ci sono, che potrebbero esserci o non esserci, ma dalle relazioni che, comunque e sempre, sono il sale, la gioia, la ricchezza del quotidiano. Io amo dire quando sono a Dianra – aggiungeva – che abbiamo mille problemi, ma mille e una soluzione, nel senso che le difficoltà, le crisi, la precarietà di ogni tipo non dovrebbero condizionare lo slancio con cui si affrontano le giornate».

La presenza di consolazione in Costa d’Avorio
L’Istituto della Consolata è presente in Costa d’Avorio dall’inizio del 1996. Attualmente lavorano nel Paese 14 missionari nelle diocesi di Odienne e di San Pedro e nell’archidiocesi di Abidjan. Le comunità imc sono in totale sei (San Pedro, Abidjan, Dianra, Grand-Zattry, Marandallah e Sago). La comunità formativa di specializzazione, ad Abidjan, accoglie cinque studenti professi.
L’impegno per la consolazione ha preso forma in alcune opere: la scuola primaria di Sago (2007), i centri sanitari di Marandallah (2007) e Dianra Village (2012), il microcredito per donne e apicoltura a Dianra e Marandallah (2013). A partire dal 2023, a San Pedro, funziona un Centro di Animazione e Spiritualità Missionaria, promozione vocazionale, mediazione culturale e formazione giovanile.
Padre Matteo ha partecipato attivamente a questa storia di consolazione. Nella domenica del Buon Pastore e celebrando la 61ª Giornata Mondiale di preghiera per le Vocazioni, siamo grati a Dio per il dono della sua vocazione religiosa e missionaria. Siamo anche riconoscenti alla sua famiglia per aver «regalato» un figlio alla missione della Chiesa nel mondo e per la presenza arricchente di padre Matteo nella nostra famiglia Consolata.
Il nostro «missionario instancabile» che ha creduto nella Risurrezione e nella vita eterna, e ha compiuto la sua missione come sacerdote religioso della Consolata possa contemplare in eterno la luce di Cristo Risorto e intercedere per noi.

Jaime C. Patias

Pubblicato in: www.consolata.org




Congo Rd. Padre Flavio, i Pigmei e i «verdi fratelli silenziosi»

«Qui davanti alla missione c’è la piccola piantagione di caffè che coltivo con i pigmei. È in piena fioritura, un esercito di api nella gioia e un profumo immenso. Come quello che si fa con il cuore e profuma la nostra vita». Flavio Pante, missionario della Consolata, ci manda le foto degli arbusti nel verde. Considera la natura una preziosa collaboratrice nel lavoro a Bayenga.

Le api ronzanti sui fiori a grappoli sono una benedizione. Per il miele? Quanto al miele, «ancora non ci siamo. I pigmei lo raccolgono in foresta sugli alberi e non pensano agli alveari. Con il tempo, troveremo un apicoltore che ci introduca un po’ alla volta. Ma la funzione di questi insetti è importantissima già di per sé: garantiscono l’impollinazione, delle papaie, degli avocado, di altre piante nutrienti».
Nell’ottica delle produzioni locali, la piantagione di caffè che qui chiameremmo «a chilometro zero» è una buona idea: «La bevanda serve alla missione, ma anche alla gente del posto. La tostatura è artigianale, su griglie con la brace sotto. Per i bantu il caffè mattutino, senza zucchero (non lo hanno), è normale. Anche i pigmei lo bevono, ma meno; forse per loro è un’usanza acquisita».

Alcuni Pigmei alle prese con il lavoro agricolo, a Bayenga, Rdc.

Padre Flavio precisa che le piantagioni commerciali in zona sono sparite: «Con tutte le guerre e invasioni degli ultimi decenni si è verificata una situazione di instabilità e insicurezza. Così gli investitori, soprattutto greci e ciprioti, che tenevano le piantagioni con la collaborazione di congolesi, hanno pensato che questo settore non fosse più sicuro. Aggiungiamo la svalutazione e altri fattori economici. Le piantagioni (di caffè e altro) non più curate, sono state “conquistate” dalla foresta. E le strade, cessato il traffico dei camion, si sono ristrette a piste».

Quale è il rapporto dei pigmei, popolo della foresta, con gli alberi, che padre Flavio chiama «verdi fratelli silenziosi che regalano frutti e ombra»? Ecco: «I pigmei non piantano gli alberi, non è nella loro cultura; è la foresta stessa che si rigenera. E allora, è importante avviarli (con un compenso per quanto piccolo) a queste attività. Per esempio, un vivaio in cui pianti i semi di caffè, poi li trapianti, e quando crescono gli arbusti devi togliere l’erba sottostante – sennò le piante ingialliscono e non producono. Coinvolgiamo le persone in tutte le fasi, nell’ottica della pedagogia del fare».

Fra le attività della missione, con le popolazioni bantu e i pigmei, padre Flavio spiega di aver introdotto un’altra pratica: «Procurare loro piccole piantine o semi, di papaie, di avocado che piantano non lontano dalla loro capanna per avere con il tempo i frutti. Anche solo due o tre alberi per famiglia. Ma è l’inizio di un cammino che magari ci porterà in futuro ad avere un frutteto in comune».
Padre Flavio illustra i numerosi altri servizi dei «grandi e silenziosi fratelli verdi»: «Per noi, almeno nella mia zona, dove non c’è la segnaletica, gli alberi secolari sono un riferimento negli spostamenti. C’è anche un’altra funzione. La nostra zona è molto soggetta a fulmini. Ebbene sono questi grandi alberi a proteggerci, sono loro che pagano e si bruciano sotto i fulmini…» Non solo: «Attenuano la forza del vento – qui la pioggia viene sempre portata dal vento – proteggendo i tetti delle nostre case e capanne. Ci aiutano veramente». Infine, «nella foresta i tronchi caduti possono fare da ponte sui torrenti tumultuosi e fangosi».

Marinella Correggia

Pubblichiamo questo articolo oggi, 16 gennaio, festa del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Piante di caffè piantate dai pigmei di Bayenga. In questo periodo sono in piena fioritura.




Kenya. Una terra estrema


L’area del lago Turkana è una zona isolata, nella quale il clima la fa da padrone. Non piove mai, anche
quando in altre zone si verificano alluvioni. È difficile procurarsi medicine e il cibo scarseggia sempre più. Anche andare a scuola è un’impresa. Eppure la gente non rinuncia a lottare.

«Qui i bambini non sanno che cos’è la pioggia. Perché non l’hanno mai vista!». Padre Mark Gitonga, missionario della Consolata a Loyangalani, sulle rive del lago Turkana, parla spesso per immagini. Immagini che, in questa terra estrema e affascinante del nord del Kenya, sono più efficaci di tante parole. Come «pioggia», appunto, «che per noi è solo un vocabolo nel dizionario».

Non la vedono da anni a Loyangalani, sulla sponda est di quello che è il lago desertico più grande al mondo: un vasto e luccicante specchio d’acqua, adagiato nella parte settentrionale della Great Rift valley – la più larga, lunga e cospicua frattura della crosta terrestre -, battuto dal vento e circondato dal nulla.

Il lago Turkana si trova in una delle regioni più inospitali del Paese: vaste distese di rocce laviche e sabbia, punteggiate qua e là da solitarie acacie. Qui, dove le temperature superano spesso i 50 gradi, si intrecciano e a volte si scontrano le vite di varie comunità di allevatori nomadi – in particolare Turkana, Samburu e Rendille – che, a causa della prolungata siccità, hanno perso circa l’80% del bestiame. Mentre gli El molo, che sono considerati la più piccola etnia dell’Africa e vivono in due villaggi lungo le rive del lago, cercano faticosamente di sopravvivere di pesca, nonostante le difficoltà sempre più grandi dovute ai cambiamenti climatici. Cambiamenti che sono all’origine anche di fenomeni estremi come, in altre zone del Paese, le devastanti inondazioni di fine ottobre e inizio novembre. Senza che qui scendesse una goccia di pioggia.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Isolati

«In questo momento siamo completamente isolati», racconta padre Mark a fine novembre. Insieme al diacono congolese Jacques Lwanzo garantisce una piccola presenza missionaria in quello che è un luogo simbolo per i Missionari della Consolata, che arrivarono fin qui oltre settant’anni fa sulla via verso l’Etiopia. Ancora oggi, padre Mark – che vive qui stabilmente dal 2019 – accompagna la piccola comunità cristiana, composta da circa cinquemila fedeli sparsi su un territorio vastissimo, e realizza molte iniziative in campo sanitario e soprattutto educativo, per provare a stare accanto alla gente delle contee Samburu e Marsabit e a dare un’opportunità di istruzione ai bambini che ne rappresentano il futuro. «Per qualche settimana sarà difficile muoversi – conferma il missionario -: l’acqua proveniente dalle montagne e l’esondazione di alcuni fiumi hanno provocato molti allagamenti e reso impraticabili le vie di comunicazione. Già in situazione normale le strade sono in cattive condizioni e alcune piste non sono percorribili a causa dell’insicurezza provocata dagli scontri tra comunità». Questi conflitti sono ulteriormente aumentati negli ultimi anni proprio a causa della grave emergenza provocata dalla siccità con conseguente perdita del bestiame, aumento dei prezzi e una crisi umanitaria senza precedenti.

Innalzamento delle acque. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Uno strano fenomeno

Ad aggravare la situazione, si è aggiunto un altro fenomeno complesso e ancora non completamente indagato dagli scienziati che riguarda direttamente il lago Turkana, le cui acque si stanno rapidamente innalzando, nonostante la mancanza di piogge. Pare sia legato non solo ai cambiamenti climatici, ma anche alle sorgenti sotterranee e ai movimenti delle placche tettoniche che provocano un analogo innalzamento di altri laghi della Rift Valley. A questo fenomeno si legano anche alterazioni della salinità del lago con riflessi sulle specie animali e vegetali che ci vivono, e anche sulla vita della gente.

Uno dei due villaggi degli El molo, ad esempio, quello di Tumkende, si ritrova oggi diviso in due: una parte sulla riva e un’altra che, a causa dell’inalzamento dell’acqua, è diventata un’isola. Anche la scuola e la chiesa sono minacciate: «Abbiamo già dovuto ricostruire la cucina e alcune aule, mentre ormai non si riesce più a entrare in chiesa perché l’acqua è arrivata sino alla porta», ci dice padre Mark, mentre ci mostra alcuni vecchi edifici che emergono appena dal lago.

Per le popolazioni, inoltre, è diventato ancora più difficile pescare, perché occorre allontanarsi sempre di più dalla riva per trovare il pesce. E se gli El molo, che sono tradizionalmente dediti alla pesca, riescono ad avventurarsi in acque più profonde, i Turkana, che sono fieri pastori e si sono avvicinati al lago solo perché hanno perso il bestiame, rischiano spesso la vita. Nessuno di loro, infatti, sa nuotare e per pescare usano esili zattere costruite con qualche tronco di palma, nonostante il forte vento e le onde spesso alte.

È una terra estrema in tutti i sensi quella del Turkana: una terra dove vita e morte si sfiorano continuamente. «La situazione umanitaria è catastrofica – ribadisce padre Mark -. Essere malnutriti è diventata la normalità per donne e bambini. E gli uomini non stanno molto meglio». In effetti, si fatica a capire come la gente riesca a sopravvivere. A maggior ragione ora che le alluvioni hanno distrutto quel poco che rimaneva loro a disposizione. Secondo le agenzie dell’Onu, «le inondazioni hanno danneggiato terreni agricoli, bestiame e attività commerciali, mettendo in pericolo i mezzi di sussistenza nelle aree nordorientali già colpite da siccità prolungata. I bisogni prioritari sono ripari, cibo, acqua e servizi di primo soccorso».

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Emergenza diffusa

L’emergenza riguarda non solo alcune zone del Turkana, ma anche le contee di Isiolo, Mandera, Marsabit, quella di Garissa più a sud est e quelle di Lamu e Mombasa verso la costa. Anche i due grandi campi profughi di Dadaab (contea di Garissa) e di Kakuma (contea di Turkana) – entrambi con oltre 270mila persone – sono stati colpiti e hanno registrato morti e feriti. Migliaia di persone già sradicate dalle loro terre sono di nuovo in fuga. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), «quasi 25mila persone nel campo di Dadaab sono state interessati dalle inondazioni e molte hanno cercato rifugio nelle scuole e nelle comunità vicine. Alcuni rifugiati hanno aperto le loro case per ospitare i nuovi sfollati, riducendo molte famiglie a una condizione di sovraffollamento. Le strade allagate hanno ostacolato gli spostamenti, rendendo particolarmente difficile l’accesso ai servizi per i più vulnerabili, tra cui le donne incinte che devono raggiungere gli ospedali. Nel campo di Kakuma, un centinaio di famiglie sono state costrette a spostarsi in aree più sicure a causa della massiccia erosione del suolo provocata dalle piogge».

Tutto ciò ha causato anche una situazione igienico-sanitaria molto preoccupante: «Centinaia di latrine sono state danneggiate, mettendo le persone a rischio di malattie infettive, tra cui il colera». Queste inondazioni fanno seguito alla più lunga e grave siccità mai registrata, il cui impatto è ancora drammatico in tutto il Corno d’Africa, dove più di 23 milioni di persone già soffrivano la fame e più di 5 milioni di bambini erano gravemente malnutriti, secondo il World food programme (Wfp).

Malnutrizione. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Cibo e medicine

Per la gente del Nord Kenya convivere con la mancanza di cibo è diventata la quotidianità ormai da diversi anni. A pochi chilometri da Loyangalani, alcune operatrici sanitarie provano a distribuire degli alimenti terapeutici per i bambini più piccoli. Sono loro a spostarsi da una comunità all’altra, perché la gente non riesce neppure a recarsi nei pochi dispensari presenti nei centri più grossi, come Loyangalani, appunto, o Moite più a nord. Oppure non ha nemmeno pochi spiccioli per pagare le medicine. Sempre che queste siano disponibili.

Un’infermiera consegna alcune bustine di cibo energetico a un bimbo di sei anni che pesa solo sei chili. Sua madre sembra pure lei una bambina, anche se porta le tradizionali collane e gli orecchini che la identificano come donna sposata. «Quando tornano nelle capanne, ne mangiano anche le mamme – ci fa notare l’infermiera -, ma che cosa possiamo fare? Pure loro non hanno niente…». Non c’è cibo e non ci sono medicine. «Da diversi mesi il governo non manda nulla», mentre padre Mark fa quello che può per rifornire almeno il dispensario della parrocchia, ma i pazienti sono pochissimi perché quasi nessuno è in grado di pagare cure e medicinali, per quanto costino cifre irrisorie. Se poi qualcuno sta veramente male, deve recarsi a Marsabit, a più di cinque ore di viaggio su piste dissestate, con una sorta di ambulanza che quasi nessuno può permettersi. E che comunque adesso non potrebbe muoversi a causa degli allagamenti con piste trasformate in fanghiglia.

Scuola. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Le scuole

Sul fronte istruzione le cose non vanno meglio. La missione cattolica gestisce otto scuole con circa 800 studenti. Il governo dovrebbe pagare gli insegnanti, ma sono pochissimi quelli a carico del sistema pubblico. Per tutti gli altri ci devono pensare i genitori o la parrocchia, con l’aiuto di qualche Ong. «In questa regione – fa notare padre Mark – circa il 90% delle persone scolarizzate lo deve ai missionari della Consolata che sono stati qui». Anche lui ha particolarmente a cuore il tema dell’istruzione, come strumento prioritario per «pensare a migliorare globalmente la situazione e le condizioni di vita delle popolazioni locali».

Per il momento, però, la situazione è alquanto precaria: «Da mesi il governo non ci manda il cibo per la mensa», si lamenta Teresalba Sintiyan, direttrice delle scuole elementari cattoliche di Loyangalani. «Istruzione e salute sono le grandi sfide di questo territorio e riguardano innanzitutto le bambine e donne che continuano a essere discriminate e marginalizzate. Non hanno voce, non vengono mandate a scuola e sono forzate a sposarsi giovanissime. La crisi climatica, poi, ha aggravato la situazione e accresciuto i conflitti intercomunitari».

È d’accordo padre Mark: «Quella dell’educazione è la grande sfida e la grande soluzione – dice convinto -. Ed è quello che mi tiene qui». Per questo non risparmia energie per garantire un’istruzione al maggior numero possibile di bambini e bambine.

Le strutture, a volte, sono molto rudimentali, piccole capannucce fatte di rami e paglia, mentre nei centri più grandi, come Loyangalani e Moite, sono in muratura e spesso prevedono anche uno studentato per permettere a quelli che vengono da lontano di poter frequentare le lezioni. «Purtroppo ancora oggi molte famiglie non mandano i bambini a scuola perché non ne capiscono l’importanza. Se lo fanno, a volte, è solo perché possano avere almeno una tazza di porridge al giorno».

A Moite, tutti devono contribuire alla cucina portando un po’ di quel bene preziosissimo che è l’acqua. Non appena albeggia, file di bambini si recano nel greto disseccato di un fiume, dove alcune ragazzine un po’ più grandi scavano nella sabbia finché non trovano un po’ d’acqua. Con alcune tazze riempiono pazientemente le piccole taniche degli alunni che le depositano nella cucina con il fuoco a terra prima di recarsi in classe.

Dall’inizio dello scorso anno, il cibo è fornito dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, che ha avviato proprio qui e in due villaggi vicini un progetto di sostegno nutrizionale per i piccoli allievi.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Teresa

«Stiamo combattendo con le poche forze e le poche risorse che abbiamo per risollevarci», ci dice Teresa Lopowar Etapar, che è la prima e unica donna laureata di questo villaggio grazie ai missionari. Teresa, che è veterinaria, ha deciso di mettere i suoi studi e le sue competenze a servizio della sua comunità. Un esempio e uno stimolo importanti per tanti giovani del posto. Non sono molti, infatti, quelli che tornano da queste parti una volta che sono partiti per altre regioni del Kenya. Lei però, come altri che i missionari hanno fatto studiare, ha voluto rimettersi in gioco qui, per il bene della sua gente.

Attualmente, il missionario sostiene altri 150 studenti in diverse scuole superiori del Kenya, grazie all’ospitalità di tante famiglie locali e al sostegno dei benefattori italiani, che purtroppo, però, si è molto ridotto dopo la pandemia di Covid-19.

«L’insicurezza alimentare è gravissima – ci fa notare Teresa -. Molta gente, nel suo cuore, vorrebbe tornare a dedicarsi alla pastorizia e alla vita che ha sempre fatto. Le comunità hanno chiesto alle autorità della contea di risarcirle del bestiame morto a causa della siccità, ma per ora hanno ricevuto solo promesse».

Qui, sul lago Turkana – come un po’ ovunque in Kenya – ci sono molto malcontento e molta disillusione rispetto alla classe politica locale e nazionale. Tante promesse, appunto, e pochissimi fatti concreti. Tutto il Paese è afflitto da una grave crisi economica acuita dall’innalzamento dei prezzi. Una situazione che ha un impatto ancora più drammatico in regioni poverissime, isolate e abbandonate come quelle del nord.

Lo scorso 25 novembre, il presidente William Ruto ha voluto dare un segno di solidarietà alle popolazioni del lago, recandosi personalmente a Loyangalani in occasione del tradizionale Festival culturale che si è svolto nonostante le difficoltà logistiche. Il presidente, arrivato in elicottero, ha lanciato un piano d’azione (2023-2027) per contrastare il cambiamento climatico con la partecipazione delle comunità locali, piegate da una crisi senza precedenti. Ma poi è volato via. E molti temono che, con lui, si siano involate anche le sue promesse.

Anna Pozzi

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Guerra in Tigray. Le braci restano accese


La guerra interna in Etiopia è durata due anni. È intervenuta l’Eritrea e diverse altre potenze estere si sono «posizionate», in particolare fornendo armi. Un anno fa, la firma del cessate il fuoco, ma il conto delle vittime è elevatissimo e il Tigray è da ricostruire.

Due anni di combattimenti intensi. Di avanzate e di ritirate da ambo le parti. Di battaglie tra creste vertiginose e valli aspre. Una guerra fratricida, piena di vendette maturate in anni di tensioni represse. Un conflitto che ha fatto scricchiolare le fondamenta dell’Etiopia. Nel Tigray, tra il 2020 e il 2022, si sono confrontati l’esercito federale, che rispondeva agli ordini del governo di Addis Abeba, e le milizie tigrine, agli ordini del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Ma tra gli attori sono comparsi anche le milizie amhara e l’esercito eritreo (che oggi è ancora presente nel territorio etiope). A un anno dalla firma del cessate il fuoco che cosa è rimasto sul terreno? Qual è l’eredità di quei durissimi 24 mesi che hanno segnato la regione settentrionale del Paese?

Le radici

Facciamo un passo indietro. La guerra in Tigray è scoppiata nel 2020, ma le radici del conflitto sono molto più profonde. I tigrini sono stati il nerbo delle forze che hanno destituito, negli anni Ottanta e Novanta, Menghistu Hailè Mariam. Alleate agli eritrei hanno condotto una guerriglia che ha deposto il «negus rosso», ha portato all’indipendenza dell’Eritrea e alla nascita, in Etiopia, di un regime di cui proprio i tigrini sono stati il centro per quasi un trentennio. Decenni duri nei quali dall’alleanza con gli eritrei si è passati a un’aperta contrapposizione tra Addis Abeba e Asmara, culminata nella guerra del 1998. Una guerra, quest’ultima, che, anche quando le armi sono state messe a tacere, ha lasciato un lunghissimo strascico di tensioni tra Etiopia ed Eritrea.

Solo l’avvento al potere del premier Abiy Ahmed (2018) ha portato a una svolta. Il nuovo leader, di etnia oromo, ha siglato una storica pace con l’Eritrea (nello stesso anno) e ha progressivamente messo ai margini il Tplf, che ha perso sempre più potere e si è arroccato nella propria regione di appartenenza. Le continue frizioni tra il governo federale di Addis Abeba e il Tplf hanno portato a un conflitto aperto nel gennaio del 2020. L’esercito federale ha condotto un’offensiva che ha, inizialmente, messo in un angolo le milizie tigrine. Solo nel giugno 2021 lo stato maggiore di Macallè è riuscito a prendere l’iniziativa e a lanciare una controffensiva che ha portato i propri reparti a 200-300 chilometri da Addis Abeba.

Nel frattempo, la disputa ha visto scendere in campo nuovi attori. A fianco del governo federale si sono schierate le milizie amhara, la seconda etnia dell’Etiopia che si contende con i tigrini alcune zone di confine tra le due regioni. Pochi mesi dopo è scesa in campo, a fianco del premier Abiy, anche l’Eritrea che, come abbiamo visto, aveva un antico conto da saldare con la dirigenza tigrina, ma, soprattutto, aveva pretese territoriali su una zona che confina tra Eritrea e Tigray. A supportare i tigrini è invece arrivato l’Esercito di liberazione oromo (Ola), formazione armata della frangia più estremista del popolo oromo (l’etnia più numerosa dell’Etiopia).

Gli scontri sono stati durissimi e a subire le conseguenze più forti è stato il Tigray. Senza corrente elettrica, senza collegamenti al web, senza medicine e con cibo scarso a scontare gli effetti più duri dei combattimenti è stata la popolazione civile. Amnesty International ha anche, a più riprese, denunciato i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati soprattutto dai soldati eritrei nel nord del Tigray. Accuse rigettate da Asmara, ma che sono state confermate anche dai Medici per i diritti umani e dall’Organizzazione per la giustizia e la responsabilità nel Corno d’Africa che hanno denunciato le continue aggressioni sessuali, durante e dopo il conflitto, perpetrate dagli eritrei a danno delle donne tigrine.

(Photo by Michele Spatari / AFP)

Fine del conflitto

Nel 2022, il Tigray ha iniziato a cedere di fronte all’offensiva dell’esercito federale. Tra agosto e settembre 2022, l’entrata in scena dei velivoli senza pilota forniti ad Addis Abeba da Turchia, Iran ed Emirati arabi uniti ha permesso un’offensiva dell’esercito federale che ha messo in ginocchio i miliziani tigrini. Impossibilitati a sostenere ulteriormente lo scontro, i vertici del Tplf hanno quindi accettato di sedersi al tavolo in colloqui di pace mediati dall’Unione africana.

Il 2 novembre 2022 Addis Abeba e Macallè hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine al conflitto. Il bilancio di due anni di guerra è tragico. Secondo alcune stime sarebbero state circa 500mila le vittime, alle quali si aggiungerebbero due milioni di sfollati interni.

Il Tigray è distrutto, ma anche lo Stato federale avverte forti scricchiolii nel suo assetto istituzionale. «Addis Abeba – riporta una ricerca dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano – ha sempre sottolineato il carattere di questione interna [del conflitto], rivendicando la propria piena sovranità nazionale e il connesso diritto e dovere, in quanto governo legittimo, di applicare la legge su tutto il territorio nazionale, imponendo quindi l’autorità centrale sulla ribellione “terrorista” del Tigray». Una visione che mette in dubbio la costruzione federale dello Stato a vantaggio di un forte potere centrale. «Il Tplf – continua la ricerca Ispi – ha insistito nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo ritenuto illegittimo per essere rimasto in carica nel 2020 dopo la scadenza del suo mandato, il duro intervento armato con violazioni indiscriminate a danno dei civili e il prolungato isolamento del Tigray che ha causato una gravissima crisi alimentare e umanitaria».

Contadino che ara , sui 3000 mt.

L’internazionale

La guerra in Tigray ha però avuto anche forti ricadute internazionali. L’Europa ha subito preso le distanze da Addis Abeba, e Bruxelles ha imposto un embargo delle armi tanto verso l’Etiopia quanto verso l’Eritrea. Gli Stati Uniti, un tempo fedeli alleati del premier Abiy, si sono dimostrati molto critici nei suoi confronti. Una tensione che ha raggiunto il culmine con la sospensione dell’Etiopia dall’African growth and opportunity act, la legge statunitense che prevede agevolazioni commerciali in favore dei Paesi che rientrano entro certi canoni prefissati. A trarne vantaggio sono state la Cina e la Russia. Pechino ha dimostrato subito un sostegno incondizionato ad Addis Abeba e ha criticato sia le sanzioni sia l’interventismo di Usa e Ue. Anche la Russia ha sostenuto il premier Abiy parlando della guerra come «un affare interno» nel quale non interferire.

Altri due attori «minori» hanno tratto beneficio dal conflitto: la Turchia e l’Iran. Ankara ha riallacciato rapporti, fino ad allora freddi, con Addis Abeba. E ciò le ha garantito fruttuosi contratti nel settore della difesa, che hanno fruttato alle casse dei colossi turchi della sicurezza 51 milioni di dollari nel solo 2021. Non dissimile l’atteggiamento di Teheran che, come sottolinea la ricerca Ispi, «ha visto nelle tensioni tra Stati Uniti e Addis Abeba un’opportunità per mantenere profondità strategica nel Corno d’Africa».

Alba di luna sulle case tra eucalipti

La testimonianza

«L’Etiopia è lo specchio delle emergenze dell’Africa. Il Nord, al confine con il Somaliland, è stato investito da ondate di siccità. Il Sud è stato colpito dalle inondazioni. A Ovest devono fare i conti con 500mila rifugiati sudsudanesi e nella regione di Gambella con 80mila rifugiati sudanesi. E poi il Tigray che è uscito provato da due anni di guerra civile», a parlare è Giovanni Putoto, medico, responsabile della programmazione del Cuamm medici con l’Africa, organizzazione da anni impegnata nell’assistenza medica nel continente. Putoto è reduce da un recente viaggio in Tigray dove la sua organizzazione è stata chiamata a intervenire per supportare il sistema sanitario locale duramente colpito dalla guerra.

La tensione, racconta, non è terminata. I tigrini devono fare i conti con le rivendicazioni dei vicini amhara su territori confinanti. Non solo, ma devono continuare a sopportare la presenza dei reparti eritrei che non hanno abbandonato il territorio etiope. «Nel nostro viaggio – continua – non abbiamo visto militari eritrei. Sappiamo però che ci sono. Ce lo hanno testimoniato numerosi tigrini che abbiamo incontrato. Occupano ampie fasce di territorio al confine tra Etiopia ed Eritrea. Asmara non ha firmato l’accordo di pace e la loro presenza è un dossier che deve ancora essere affrontato e risolto da Addis Abeba».

Gran parte dei morti, spiega Putoto, sono stati civili: uomini, donne, bambini vittime degli scontri e delle privazioni causate dal conflitto. A questi si aggiungono gli sfollati. Sono migliaia, perlopiù concentrati nelle periferie delle città. Solo nel nord ovest del Tigray sono 400mila, la maggior parte all’interno dell’abitato di Shire. Le condizioni della popolazione sono drammatiche. La malnutrizione acuta e grave è elevata, soprattutto nei bambini. Una situazione aggravata dalla sospensione degli aiuti in cibo da parte del Programma alimentare mondiale disposta a seguito dello scandalo della sottrazione di derrate da parte delle autorità etiopi.

I leader tigrini hanno denunciato la morte per inedia di almeno 50mila persone a causa del mancato arrivo degli aiuti alimentari. Cifre che non possono essere verificate, ma che tracciano la situazione drammatica della regione. «Il sistema sanitario è al collasso – osserva Putoto -. In tutto il Tigray un solo ospedale è in grado di fare parti cesarei e trasfusioni di sangue, parametri minimi per stabilire se una struttura sanitaria funziona. Gli altri ospedali sono chiusi o sono stati intenzionalmente distrutti dalle truppe eritree. Solo il 20-30% dei centri sanitari è operativo. Il personale sanitario è deceduto o non lavora perché senza retribuzione. Mancano quindi operatori e farmaci. Le uniche strutture che funzionano sono quelle di proprietà della Chiesa cattolica che hanno fatto un lavoro preziosissimo. Anche le scuole sono chiuse. I ragazzi e le ragazze crescono per strada, lontano dalle aule».

Il Tigray ha di fronte a sé la necessità di ricostruire. «È una sfida enorme – continua Putoto – perché non si tratta solo di riabilitare le infrastrutture distrutte o danneggiate, ma di ricreare i quadri professionali che sappiano guidare questa ricostruzione. C’è tantissimo da fare per restituire ai tigrini un sistema scolastico, sanitario e produttivo funzionante».

Enrico Casale


Scuola Tecnica: Studenti che fanno pratica, p. A. Vismara osserva. Anni settanta.

La storia di un missionario formatore in Etiopia

Una vita in seminario

Padre Antonio Vismara ha dedicato la sua vita all’Etiopia, pur avendo lavorato anche in Kenya e Italia. La sua vocazione è stata quella di fare il formatore di altri missionari. E ha pure avuto la fortuna di avere a fianco un gruppo di appoggio inossidabile.

Padre Antonio Vismara è nato nel 1942 a Ossona, in provincia di Milano. Terzo figlio, dopo un fratello e una sorella. Ottenuto il diploma da disegnatore tecnico scopre la vocazione e intraprende il percorso per diventare missionario. Nel giugno del 1972 è ordinato sacerdote. Alla fine dello stesso anno parte per l’Etiopia e inizia la sua missione a Meki.

Lo incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata a Torino, dove vive dal 2021.

«Fin dall’inizio il fondatore (Giuseppe Allamano) ha sognato l’Etiopia, ma noi (missionari in quel paese, ndr) diciamo che questo sogno non si è mai realizzato», ci confida con un sorriso sornione.

Perché? Gli chiediamo. Oggi ci sono diversi missionari etiopici nell’istituto, questo è già un bel risultato. «Il governo non ha mai realmente accettato i missionari, volendo piuttosto progetti di sviluppo sociale. E neppure la Chiesa ortodossa ci ha mai voluti – continua padre Antonio -. Noi eravamo sul posto con dei visti di lavoro, realizzavamo progetti, e a fianco abbiamo fatto chiese, parrocchie, comunità cristiane, che sono molto attive anche oggi». Le difficoltà per ottenere visti e permessi di soggiorno ci sono sempre state, ma negli ultimi anni si sono inasprite. È quasi un dire: «bastiamo noi, non vogliamo più stranieri».

Oltre a diversi missionari etiopi e alcuni keniani, come missionari della Consolata oggi sono presenti nel paese padre Edoardo Rasera, padre Marco Martini e fratel Vincenzo Clerici.

Padre Antonio apprezza molto i missionari etiopi: «Sono molto fedeli, perché attingono dalla lunga tradizione dei monaci».

Ma andiamo con ordine. Padre Antonio ha iniziato il suo lavoro a Meki, sede del vicariato nel 1973, poi ha lavorato anche a Modjo, nello stesso vicariato. I suoi incarichi sono stati fin da subito nel campo della formazione dei nuovi missionari, ruolo che ha mantenuto sempre: «Una vita in seminario», ci dice ridendo. Seguiva gli aspiranti missionari con lezioni sulla spiritualità dell’istituto, incontri personali, e con il discernimento. Aveva studiato teologia tra Torino e Washington e aveva fatto anche un corso per formatori.

«Negli anni Ottanta lavoravo con il vescovo Yohannes Woldegiorgis. Quando il vescovo morì (nel 2002, ndr), mi chiesero di sostituirlo. Ma dissi loro, “no, qui ci vuole un etiope”. L’Etiopia è troppo complicata, occorreva un locale per districarsi», dice, quasi a giustificarsi.

Dopo l’Etiopia, ha lavorato per tredici anni al seminario di Bravetta a Roma, e poi otto in Kenya, al seminario di Nairobi.

È nel 2005 che viene richiamato in Etiopia dove è diventato superiore regionale e, successivamente, formatore al seminario di Addis Abeba: «Tenevo lezioni sulla nostra identità come missionari della Consolata, al pomeriggio, dopo i corsi universitari. Poi ero a disposizione per i cosiddetti dialoghi personali, perché la teologia insegnata in classe pone delle domande, ma la scuola soltanto non può rispondere perché sono questioni troppo personali». L’ultimo periodo etiopico il missionario lo ha passato nuovamente a Modjo.

In tutti questi anni padre Antonio è stato accompagnato da un gruppo di amici, il «Gruppo Meki». Costituitosi nel 1973 a Ossona, nella sua parrocchia di provenienza, è composto da volontari, lo ha sempre appoggiato raccogliendo e inviando fondi per i suoi progetti sul campo, e facendo qualche visita. «Il gruppo è ancora attivo, dopo cinquant’anni. Io scrivo loro e vado a trovarli regolarmente. Loro continuano ad appoggiare le missioni a Meki», conclude con soddisfazione.

Marco Bello

Viaggio a Weragu per la consacrazione della nuova Chiesa : con il Vescovo Abraha Destà e P. Antonio Vismara ( sup. reg. ) . Il Ponte sul Fiume Shinchillè , che collega Derolle . P. A. Vismara e il Vescovo Abraha Destà e uno dei meccanici .

 




Il volto svelato


È arrivato il tempo, ed è ora, nel quale il veleno della morte
si tramuta in una bevanda dolce.
Il velo che copriva il volto dell’umanità, di ogni popolo,
di ogni famiglia, di ogni singolo è strappato.
Anch’esso tramutato in fragrante pane saporito.
Il mio volto illuminato dal Tuo.
Il Tuo volto di bambino che porta
a compimento la promessa.
Quella fatta fin dal primo giorno di vita sulla Terra:
«Eliminerà la morte per sempre» (Is 25, 6-10).
È arrivato il tempo in cui le lacrime del lutto
sono accarezzate via dalle dita dell’Amato,
dalla Parola dell’Amante, dal soffio dell’Amore.

Buon Avvento e buon Natale
perché sia il tempo nel quale svelare
il nostro volto autentico
da amico.

Luca Lorusso


Goditi Amico in anteprima attraverso le immagini.
Per gustarlo fino in fondo, accedi al sito amico.rivistamissioniconsolata.it

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Una storia americana


I Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946, in Canada l’anno seguente. La loro attività ha conosciuto anni d’oro, ma anche una fase di declino. Oggi i gruppi missionari dei due paesi del Nord America si sono uniti al Messico per affrontare assieme una nuova sfida, difficile ma entusiasmante.

Il Vangelo di Matteo – «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (28,9) – e il Vangelo di Marco – «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (16,16) – testimoniano che i primi discepoli di Gesù di Nazareth erano consapevoli di aver ricevuto dal Risorto il mandato di andare ad annunciare la sua parola in tutto il mondo.

Se questa evangelizzazione rimase confinata negli ambienti ebraici fin dai primi anni, san Paolo sentì il dovere di portare la buona notizia ai pagani: in Rm 1,1 si presenta come un «apostolo messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio». Gli Atti degli Apostoli raccontano i viaggi missionari di Paolo in Turchia, Grecia, Roma, e forse in Spagna. Nella sua lettera ai Galati, capitolo 2, Paolo spiega che Pietro fu mandato ai Giudei, mentre lui stesso fu mandato ai Gentili.

Questa epopea missionaria ebbe un tale successo che, all’inizio del IV secolo, l’intero impero romano sarebbe diventato cristiano e per secoli le comunità cristiane avrebbero creduto che il loro mandato missionario fosse completo e il Vangelo fosse stato annunciato a tutte le nazioni.

Dipinto raffigurante la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680).

Il mondo è più grande

Fu nel XV e XVI secolo che ci si rese conto di quanto, oltre i limiti dell’Occidente, ci fosse ancora una moltitudine di esseri umani da raggiungere. In questa consapevolezza, ebbe un ruolo importante l’uomo che sarebbe diventato patrono delle missioni, San Francesco Saverio, il primo missionario gesuita e il primo missionario in Giappone.

I missionari iniziarono, quindi, a unirsi ai conquistadores portoghesi e spagnoli nella loro ricerca di nuove rotte verso l’Asia. Quando poi si comprese che la terra è rotonda e che la strada può prendere anche la direzione verso Ovest, i missionari accompagnarono i colonizzatori – soprattutto portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi – che si stabilirono nelle Americhe.

Ciò provocò una querelle che oggi è difficile da comprendere:  la cosiddetta «disputa di Valladolid» tra Juan de Sepulveda (1490-1573) e Bartolomé de Las Casas (1484-1566).

Il primo riteneva che gli amerindi non fossero esseri umani e, di conseguenza, non ci si dovesse preoccupare delle loro anime e che potessero essere considerati come bestiame o schiavi; il secondo, al contrario, credeva che anch’essi fossero esseri umani con un’anima e, quindi, era necessario predicare loro il Vangelo perché potessero essere salvati.

In ogni caso, durante il primo secolo di colonizzazione delle Americhe, gli studiosi stimano che quasi il 90% degli indigeni scomparì, principalmente a causa di malattie contagiose portate dai coloni europei, ma anche a causa della violenza.

Dipinto rappresentante l’uccisione dei missionari gesuiti francesi avvenuta nella Nuova Francia, a metà del 1600, per mano delle popolazioni autoctone.

Evangelizzazione dal Sud al Nord America

Gradualmente, le Chiese cristiane costituirono comunità in tutta l’America con coloni provenienti dall’Europa.

In America Latina, nel XVI secolo, le comunità cristiane fondarono varie città: Buenos Aires nel 1536, Rio de Janeiro nel 1565, Cartagena (Colombia) nel 1533 e Quito nel 1534.

In Nord America, il cristianesimo prese piede con gli espolratori europei. Già nel 1524 l’italiano Giovanni da Verrazzano arrivò nei pressi di New York, che venne però fondata soltanto nel 1609 dagli olandesi  che le diedero il nome di New Amsterdam.

L’evangelizzazione di questa parte delle Americhe fu opera dei missionari spagnoli in California, di quelli anglicani negli Stati Uniti e dei francesi in Canada. Tra i primi si ricorda Junipero Serra (1713-1784), un francescano che papa Francesco ha dichiarato santo il 23 settembre del 2015.

Nel 1534, l’esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) scoprì il fiume San Lorenzo. Fu però solo nel 1608 che ci fu il primo insediamento permanente – Québec (Ville de Québec) – per merito di un altro esploratore transalpino, Samuel de Champlain (1567-1635). Ciò che Champlain cercava era un pied-à-terre per acquistare le pellicce portate dagli indiani. Lo stesso obiettivo del commercio può essere visto come motivo della fondazione nel 1634 di una seconda città sulle rive del San Lorenzo, Trois-Rivières.

Québec fu la città dove operò la mistica francese Marie Guyart (Marie de l’Incarnation, 1599-1635, proclamata santa nel 2014). Santo è anche il suo primo vescovo, François de Montmorency-Laval (1623-1708). La sua diocesi copriva praticamente tutto il Nord America. Diversa è la storia della fondazione di Montréal, nata sotto il nome di Ville Marie (oggi quartiere della città canadese noto come Old Montréal, ndr), come missione presso gli aborigeni. Questo è il motivo per cui molti dei suoi fondatori sono stati riconosciuti beati o santi.

L’interno della cattedrale di Notre Dame a Montreal. Foto Timothy I. Brock – Unsplash.

Popoli indigeni e martiri

I primi sacerdoti vennero per prendersi cura dei nuovi coloni.  Tuttavia, molto presto i gesuiti e i recolletti (della famiglia francescana, ndr) iniziarono a voler evangelizzare gli aborigeni della Nuova Francia (nome di una vasta area del Nord America colonizzata dai francesi, ndr). Ebbero un certo successo con gli Uroni, ma penetrarono molto poco tra gli Irochesi, dove visse la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), la cui tomba si trova nella piccola chiesa all’interno della riserva di Kahnawake, appena a sud ovest di Montréal.

Il conflitto tra Irochesi e Uroni fece vittime anche tra i missionari. Tra il 1642 ed il 1649, otto missionari di origine francese subirono il martirio: sei sacerdoti gesuiti (Isaac Jogues, Antoine Daniel, Jean de Brébeuf, Gabriel Lallemant, Charles Garnier, Noël Chabanel) e due coadiutori laici (René Goupil e Jean de La Lande). Tutti furono dichiarati santi nel 1930.

Secondo Statistics Canada, dei quasi due milioni di aborigeni censiti in Canada, circa la metà afferma di non avere alcuna affiliazione religiosa, mentre poco più della metà sono cattolici. E qui si apre una questione delicata. Come ha dimostrato la «Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione» nel suo rapporto finale del 2015, i missionari, specialmente attraverso le «scuole residenziali» (scuole per indigeni; ne scriveremo in un futuro dossier, ndr) hanno collaborato a un «genocidio culturale», che avvelena ancora le relazioni tra le diverse comunità indigene e il resto del Canada, comprese le Chiese.

In The History of Québec Catholicism, lo storico Jean Hamelin parla di «colonialismo spirituale» e di «ambiguità dell’attività missionaria»: «Le missioni sono presentate come una questione di orgoglio nazionale».

Dopo la sconfitta francese nella battaglia delle pianure di Abramo nel 1759, i canadesi francesi sopravvissero raggruppandosi attorno alla Chiesa cattolica per sfuggire ai tentativi di assimilazione ed eliminazione culturale da parte dei nuovi governanti inglesi.

È questa Chiesa franco canadese che diventò una delle Chiese più missionarie del mondo: a metà del XX secolo, il Québec, con più di cinquemila missionari (1 missionario ogni 1.120 cattolici), seguiva soltanto l’Irlanda (un missionario ogni 457 cattolici), l’Olanda (uno ogni 556) e il Belgio (uno ogni 1.050 cattolici).

La residenza dei Missionari della Consolata a Montreal. Foto IMC Montreal.

I Missionari della Consolata

Fu in questo contesto che i Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946 e in Canada nel 1947.

Non sorprende quindi che i padri Bartolomeo Durando (1901-1992) negli Stati Uniti e Luigi Amadio (1916-2010) in Canada ebbiano avuto difficoltà a trovare vescovi disposti ad accoglierli nelle loro diocesi.

Alla fine, i primi Imc si stabilirono in California e in una riserva indiana in Ontario. I primi accettarono di lavorare nelle parrocchie, ma ben presto la congregazione si rese conto che ciò non corrispondeva agli obiettivi ricercati, che erano l’animazione vocazionale e missionaria e la raccolta di donazioni per le missioni.

A tal fine, negli anni Novanta, l’istituto si trasferì negli Stati Uniti orientali e nella provincia canadese del Québec. Negli Stati Uniti furono importanti anche le attività di formazione e specializzazione, non solo per sacerdoti e fratelli, ma anche per i laici disponibili a dedicare qualche anno alla missione. Venti americani e una dozzina di canadesi diventarono missionari Imc.

Una veduta della città di Québec, fondata nel 1608 e considerata il primo insediamento urbano nel Nord America. Foto Timothee Geenens – Unsplash.

Gli anni d’oro

L’età d’oro dell’attività missionaria Imc in Nord America furono gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985.

C’erano allora più di cinquanta Imc negli Stati Uniti e più di trenta in Canada. Negli Stati Uniti venivano pubblicati nove periodici, mentre in Canada erano almeno quattro.

Tra il 1976 e il 1986, Notre Dame Hall, il nostro Centro di animazione missionario di Montréal, inviò 1,86 milioni di dollari in assistenza finanziaria a più di dodici paesi di missione. Solo nel 1979, negli Stati Uniti, 257 parrocchie in 46 diocesi furono visitate per le giornate missionarie, che raccolsero circa 200mila dollari per le missioni. E il settore dell’assistenza missionaria inviava circa 150mila dollari all’anno per tutti i tipi di progetti missionari. Una trentina di studenti di origine africana vennero a studiare negli Stati Uniti.

La reazione al declino

Il declino è avvenuto molto rapidamente: la vocazione è scomparsa completamente  negli anni Novanta e in questi due paesi nordamericani il numero delle comunità è passato da quindici a solo due negli Stati Uniti, e i membri da 60 a una decina ora in due comunità: una nel New Jersey e una in California.

Anche in Canada ci sono due comunità, una a Toronto e la seconda a Montréal con otto missionari Imc, sempre più spesso di origine straniera.

Per rivitalizzare la presenza in Nord America, la Direzione generale dell’istituto ha unito le circoscrizioni di Canada e Stati Uniti con quella del Messico (paese nel quale l’istituto è entrato nel 2008) formando, quindi, un’unica delegazione religiosa. Nelle nuove missioni messicane operano attualmente otto missionari, distribuiti su due comunità: una a Guadalajara (stato di Jalisco) e un’altra a Tuxtla Gutiérres (nello stato meridionale del Chiapas, vicino al confine guatemalteco).

Jean Paré*

 * Missionario della Consolata canadese (Montréal, 1945), dopo gli studi a Montréal, Torino, Roma e Parigi, padre Jean Paré ha insegnato in Canada, Congo Rd e Italia (Università Urbaniana) e lavorato come giornalista in riviste ed emittenti radio (Radio Canada e Radio Ville Marie). Oggi vive e lavora a Montréal.


Le riviste Imc di Canada e Stati Uniti

Anima missionaria

Sono la responsabile delle tre riviste che l’Istituto Missioni Consolata pubblica nel Nord America: Réveil missionnaire (Rm, per il Canada francese), Consolata missionaries (Cmc, per il Canada inglese) e Consolata missionaries US (Cmus, per gli Stati Uniti, in inglese). Oltre alla sottoscritta, il nostro comitato di redazione comprende un redattore laico, Domenic Cusmano (italiano), e un redattore religioso, padre Jean Paré. Il primo è giornalista per le due riviste inglesi, mentre il secondo firma alcuni articoli e scrive di spiritualità, giustizia nel mondo e dialogo interreligioso. A turno, facciamo (in verità, più in passato che attualmente) i cosiddetti viaggi missionari sul campo sia per raccogliere materiale giornalistico sulle varie comunità Imc nel mondo sia per vedere i progetti per i quali raccogliamo fondi.

Il comitato di redazione pianifica le tre pubblicazioni che presentano un contenuto quasi identico. In Canada escono sei numeri all’anno, e precisamente cinque riviste di 16 pagine e un calendario di 32 pagine. Gli Stati Uniti, invece, producono quattro numeri all’anno, cioè tre di 16 pagine e un calendario. La tiratura di ogni numero è tra le 3.500 e le 5.000 copie.

Le riviste sono un essenziale strumento di comunicazione tra i Missionari della Consolata e tutti i nostri amici e benefattori. Ci permettono, infatti, d’informare i lettori sulle attività della missione, sulle storie di successo e, naturalmente, sulle molte sfide che i missionari devono affrontare ovunque essi operino. L’obiettivo è anche quello di rendere i lettori consapevoli della situazione dei più poveri e di toccare la loro anima missionaria.

Ghislaine Crête