Quando il vescovo di Inhambane ha annunciato che anche Guiúa sarebbe stata meta del pellegrinaggio giubilare, ci siamo sentiti più che imbarazzati. Certo il titolo di «Santuario di Maria Regina dei Martiri» era stato conferito con tanto di decreto vescovile tre anni fa. Ma il Santuario è appena il cimitero dei nostri catechisti martirizzati nel 1992 con una cappella che ci riunisce ogni 22 del mese per venerae la memoria e il 22 di marzo per il grande pellegrinaggio diocesano.
Essere meta del giubileo vuol dire pellegrinaggio, indulgenza e anche «porta santa». Dove troviamo una porta santa nel deserto di Guiúa?
Padre Gabriele Casadei, uomo di grandi idee e realizzazioni, ha fatto due colonne di mattoni all’entrata del Cimitero dei Martiri, in fondo al grande viale. Ma le porte? In un container spedito anni fa da amici di Lissone (Lecco), c’erano giunte delle grandi lastre di lamiera che erano rimaste nel magazzino perché non avevamo la più pallida idea di come utilizzarle. Ecco, finalmente realizzato il loro destino: diventare la porta santa. Una volta poste una accanto all’altra, appoggiate ai due pilastri, chiudono bene il passaggio al santuario e fanno un figurone. Non è la bellezza della porta, abbiamo spiegato ai fedeli, ma è l’atto di entrare da quella porta nel santuario, come pellegrini bisognosi della misericordia del Signore, che conta. E così abbiamo iniziato la celebrazione.
Ci siamo radunati attorno alla fontana con la statua della Madonna benedicente, e abbiamo iniziato: lettura del Vangelo e della Bolla del papa. Erano tanti i nostri cristiani: la maggior parte proveniente dai villaggi lontani fino a 30 Km. Albertina, anziana catechista di Ngala, era partita alle tre del mattino, assieme a quasi tutto il villaggio. Così pure Filomena, Jacinto, Felizmeta si erano messi in viaggio a piedi sulle dune della nostra terra, per arrivare presto alla missione. Bambini, giovani, adulti e anziani. Vedendo donna Simplícia che, curva su se stessa, reggendosi appena col suo bastone, camminava lentissimamente, ultima nella processione, mi sono chiesto: «Chi glielo ha fatto fare?». La risposta mi è subito venuta: «Solo il Signore e la sua Misericordia, Lui solo». Poi la processione è iniziata con tutta la solennità del caso. Non avevo un piviale viola, ma uno bianco, donato da qualche sacerdote lombardo, arrivato anch’esso con un container: bellissimo. Avevo pensato di indossarlo il giorno del Corpus Domini per la processione, ma aveva piovuto così tanto che non avevo voluto bagnarlo. Questa è stata la sua occasione. Croce, incenso, Vangelo, come il papa in san Pietro, e la processione si è snodata lungo i viali della missione verso il Cimitero dei Martiri. I fedeli cantavano con fervore e gioia, senza stancarsi: le litanie dei santi, canti di giubilo, canti di misericordia… non sentivamo i raggi violenti del sole, né il freno della sabbia.
Davanti alla porta santa un profondo silenzio. Il tamburo, quello che si usa per gli annunci importanti, rullava lungamente. «Io sono la Porta», dice Gesù nel Vangelo. Io ho pregato: «Aprite la porta della giustizia», e il popolo ha risposto: «I giusti entreranno in essa». Per tre volte ho battuto col martello, e la porta finalmente si è aperta. Applauso, canto, poi in ginocchio in silenzio. Silenzio profondo di preghiera. «Il Signore ci doni la sua Misericordia». Davanti a noi, un bellissimo quadro del Gesù Misericordioso che tutti accoglie col suo cuore che emana luce e calore. Quindi, bagnando la mano nell’acqua benedetta e segnandosi col segno della croce, i fedeli entravano nel santuario, ordinatamente con devozione, preghiera e canto. Nella cappella non ci stavamo tutti. Il sole di dicembre era davvero cocente, ma alcune nuvole e brezza leggera alleviavano la calura, e così, seduti attorno alla cappella, tutti con tanta devozione hanno partecipato alla santa messa.
«Il Dio di misericordia ci perdona e ci accoglie. Adesso, attraversata ancora questa porta, torniamo alle nostre case e portiamo a tutti, in casa e nel villaggio, compassione e misericordia».
Sandro Faedi
DA GUIÚA PER LA MISSIONE
Un altro gruppo di 14 famiglie, formate nel Centro Catechistico Nazionale di Guiúa, ha ricevuto il mandato missionario, per le diocesi del Mozambico.
«Ricevete la Bibbia, annunciate con la parola e la vita il nome del Signore Gesù». Con queste parole il vescovo di Inhambane, mons. Adriano Langa, durante la Messa del 26 novembre scorso ha inviato 14 famiglie di catechisti alle proprie comunità di origine, dopo il corso realizzato in Guiúa.
Guiúa, è un piccolo villaggio a 12 km dalla città di Inhambane, in Mozambico, sede della omonima diocesi, dove nel 1970 si aprì il Centro di Promozione Umana per formare alla leadership sociale e religiosa i laici più dinamici e inviarli nei villaggi più lontani e remoti della regione. Il centro fu attivo fino al 1987, quando un gruppo di guerriglieri lo assaltarono uccidendo il catechista Peres Manuel e rapendo molti altri, rilasciati solo dopo alcuni mesi. Era la lunga guerra civile.
Nel 1992, quando già il dialogo tra le parti in conflitto era ben avanzato, il centro fu riaperto. Ma nella notte tra il 21 e 22 marzo dello stesso anno ci fu un altro attacco. I guerriglieri sequestrarono tutti, grandi e piccoli, e li radunarono in una radura a 3 km dal centro. Là, furono interrogati, maltrattati e infine barbaramente trucidati. I morti furono 23. Sono i Catechisti Martiri di Guiúa, le cui tombe sono meta di pellegrinaggi e venerazione. Dodici anni dopo, nel 2004, il Centro Catechistico riaprì con 17 famiglie, segnando l’inizio di una nuova tappa nella vita della chiesa del Mozambico.
Al corso appena terminato hanno partecipato 14 famiglie da tre diocesi, per un totale di 70 persone. I catechisti hanno studiato teologia, pastorale, storia, politica e legge al mattino, mentre al pomeriggio hanno fatto pratica di agricoltura, falegnameria, meccanica, informatica per prepararsi a essere animatori della vita sociale e cristiana dei loro villaggi. Le signore, oltre che in teologia e catechesi, hanno migliorato le loro conoscenze di cucina, puericultura, cucito, infermieristica. I bambini si sono sistemati nelle varie scuole secondo l’età. La chiesa missionaria che ha portato a maturità la giovane chiesa africana, può stare tranquilla. Questi fratelli e sorelle, neo catechisti, continueranno con buon spirito evangelico il lavoro che Gesù ha lasciato ai suoi, con dinamismo e creatività, per annunciare a tutti che Lui è il Signore.
S. F.
Concilio Vaticano II: La missione anima della chiesa
Testi di Antonio Bonanomi, Gaetano Mazzoleni, Diamantino Guapo Antunese Gianfranco Testa.A cura di Gigi Anataloni
Il 7 dicembre 1965, nell’ultima sessione del Concilio Vaticano II è stato approvato quasi all’unanimità il decreto Ad Gentes. La «missione» diventava cittadina di diritto nella vita della Chiesa, innescando un processo di rinnovamento che sta trovando nuova vitalità proprio ai nostri giorni grazie a papa Francesco, il papa venuto «dall’altro mondo».
Sono passati 50 anni da quel giorno, però ricordo come fosse ieri la forte emozione spirituale con cui da giovane missionario ho letto quel documento. Sentivo che esso accettava le sfide e la necessità del cambiamento, e che faceva passare le missioni dalla periferia al cuore della Chiesa. Vi era evidente la presa di coscienza della nuova realtà del mondo e della Chiesa e lo sforzo per dare a questa novità una risposta. Stavano cadendo molti imperi del Nord con la conquista dell’indipendenza da parte di molti paesi, specialmente in Africa e in Asia. Le culture non europee e le religioni non cristiane esigevano un riconoscimento e un posto nei nuovi scenari mondiali. Allo stesso tempo si faceva ogni giorno più evidente il nuovo volto della Chiesa: un volto con diversi colori per il nascere e il crescere delle Chiese dei vari Continenti.
Personalmente, fin dalla prima lettura, ho considerato il decreto Ad Gentes non come un punto di arrivo ma come un punto di partenza: eravamo all’inizio di una nuova tappa della evangelizzazione. Questo è divenuto per me più evidente col Sinodo sulla evangelizzazione del 1974 e poi con l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (1975) di Paolo VI. Vi si sentiva il profumo di un nuovo stile e di una nuova spiritualità missionaria, attenta ai segni dei tempi e quindi in ascolto degli impulsi dello Spirito santo.
Nel 1976 è apparso, coi tipi delle Edizioni Paoline, il libro del frate cappuccino svizzero, Walbert Bülhmann: La terza Chiesa alle porte. Dopo la prima Chiesa dell’Oriente e la seconda Chiesa dell’Occidente (europea-romana) stava nascendo la terza Chiesa, quella del Sud.
Purtroppo molti in Europa non hanno saputo vedere e accettare con gioia il nuovo che nasceva nel Sud e hanno continuato a piangere il vecchio che moriva nel Nord. Questo si è fatto evidente nell’enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio (1990), pubblicata in occasione dei 25 anni dell’Ad Gentes. A partire da quella enciclica molti hanno pensato e scritto che l’Ad Gentes aveva fallito nel suo proposito di promuovere lo spirito missionario della Chiesa. Però non era vero. In realtà stava morendo una tappa dell’evangelizzazione, quella che aveva avuto la Chiesa europea come protagonista, e ne stava iniziando una nuova.
Questa nuova tappa si è manifestata pubblicamente con l’elezione di papa Francesco, il papa venuto dal Sud. La terza Chiesa, che nel 1976 era alle porte, è entrata in casa. Egli ha realizzato questa nuova tappa, oltre che con la sua testimonianza di vita, anche con le sue parole e specialmente con l’esortazione Evangelii Gaudium (2013.)
Alla luce di questa esortazione possiamo dire che quello che l’Ad Gentes aveva detto 50 anni fa si sta facendo realtà, però in una maniera diversa da quello che si pensava. È una delle tante sorprese dello Spirito Santo.
Il papa venuto dal Sud presenta questa nuova tappa dell’evangelizzazione come parte del cammino di una «Chiesa in uscita». Un uscire che si realizza in diversi ambiti:
Uscita da una «Chiesa – fortezza», che proteggeva i suoi fedeli dai pericoli della cultura moderna, verso una «Chiesa – ospedale da campo» che si preoccupa di tutte le persone ferite, senza badare alle loro situazioni morali o ideologiche.
Uscita da una «Chiesa – istituzione», centrata in se stessa, verso una «Chiesa – movimento», aperta al dialogo universale, con altre Chiese, religioni e ideologie.
Uscita da una «Chiesa – gerarchia», creatrice di disuguaglianze, verso una «Chiesa – popolo di Dio», nel quale tutti sono fratelli e sorelle uniti in una immensa comunità fraterna.
Uscita da una «Chiesa – autorità» ecclesiastica, lontana dai suoi fedeli, a cui rischia di voltare le spalle, verso una «Chiesa – Buon Pastore», che cammina in mezzo al popolo, che ha l’odore delle pecore e il profumo della misericordia.
Uscita da una «Chiesa – papa» di tutti i cristiani e dei vescovi, che governa con il Diritto canonico, verso una «Chiesa – vescovo» di Roma, che presiede nella carità, e solamente così diventa papa della Chiesa universale.
Uscita da una «Chiesa – maestra» di dottrine e di norme, verso una «Chiesa – madre», tenera e misericordiosa, con le porte aperte per incontrarsi con tutti, senza guardare la loro appartenenza religiosa, morale o ideologica, ponendo al centro le periferie esistenziali.
Uscita da una «Chiesa – ricca» di potere sacro, di pompe e di vestiti solenni, di palazzi apostolici e titoli nobiliari, verso una «Chiesa – povera» e per i poveri, spogliata di simboli di onore, serva e profeticamente contraria al sistema di accumulazione del denaro, l’idolo che produce sofferenza, miseria e morte.
Uscita da una «Chiesa che parla» dei poveri, verso una «Chiesa che cammina» con i poveri, dialoga con loro, li abbraccia e li difende.
Uscita da una «Chiesa – equidistante» di fronte ai sistemi politici ed economici, verso una «Chiesa che si schiera» a favore delle vittime e chiama per nome i responsabili delle ingiustizie; una Chiesa che invita a Roma i rappresentanti dei Movimenti sociali mondiali per discutere con loro su come creare possibili alternative.
Uscita da una «Chiesa – disciplina», dell’ordine e del rigore, nello stile degli scribi e dei farisei, verso una «Chiesa misericordia» impegnata nella rivoluzione della tenerezza e della cura, secondo l’esempio del Buon Samaritano.
Uscita da una «Chiesa triste», «con faccia da funerale», verso una Chiesa che vive la gioia e la speranza del Vangelo.
Uscita da una «Chiesa senza il mondo», che ha permesso che nascesse un mondo senza Chiesa, verso una «Chiesa – mondo», sensibile al problema dell’ecologia e del futuro della casa comune, la madre terra.
Si tratta di formare una Chiesa nuova, che ritorni alla scuola di Gesù, che viva e dia testimonianza del messaggio essenziale del Vangelo e si faccia collaboratrice di Dio nella costruzione di un mondo nuovo che sia sacramento del Regno.
Nasce così la missione nuova della Chiesa del Sud: la missione dei discepoli missionari. Impegnati con la loro vita nella liberazione dei poveri, nella inculturazione del Vangelo, nel dialogo interreligioso, nella cura del Creato.
Il seme gettato dall’Ad Gentes e concimato dall’Evangelii Nuntiandi si è convertito in albero nell’Evangelii Gaudium.
Antonio Bonanomi
Missionario della Consolata, formatore e animatore in Italia fino all’inizio degli anni ‘80, poi, per oltre trent’anni, missionario in Colombia tra gli indios Nasa del Cauca e consulente delle Conferenze episcopali latino americane (Celam).
I retroscena, dagli appunti di mons. Angelo Cuniberti, imc
Vittoria! Obiettivo raggiunto
di Gaetano Mazzoleni
Nel ricordo del 50° anniversario del decreto conciliare Ad Gentes e della conclusione del Concilio Vaticano II, presentiamo – attingendo dalle sue note autografe – il contributo dato da mons. Angelo Cuniberti, allora vicario apostolico del Caquetá, Colombia, a una più profonda comprensione della dimensione missionaria della Chiesa durante le frenetiche fasi che hanno portato all’approvazione del documento. Aspetti inediti e sconosciuti.
Scorrendo le numerose e fitte pagine delle memorie di mons. Angelo (detto Lino) Cuniberti, tra i tanti temi, due, la missione e la chiesa dei poveri, risaltano e si distinguono per la loro importanza e attualità. Due temi che furono senza dubbio i cardini dell’attività pastorale di mons. Cuniberti ed ebbero una importante incidenza anche sullo stile di vita dei suoi collaboratori, i missionari della Consolata.
Per mons. Cuniberti l’incontro con la missione e il povero non fu il risultato di una riflessione astratta e teorica, fatta a tavolino, o di una analisi sociologica e, meno che mai, ideologica. L’incontro con la missione e la povertà, meglio, con i poveri, si realizzò e si sviluppò invece attraverso l’esperienza pastorale missionaria degli innumerevoli viaggi (correrie) fatti visitando i villaggi, avvicinando e conoscendo le persone, le singole persone, le situazioni, i problemi, vivendo da povero tra i poveri e con i poveri, condividendo personalmente la povertà e l’emarginazione. Il tema della missione e dei poveri era nel suo Dna da sempre, come testimonia l’adozione del motto evangelico che avrebbe orientato la sua vita sacerdotale «… mi ha mandato ad evangelizzare i poveri» (Lc. 4,18), e quello episcopale «Dei nuntius» (messaggero di Dio).
La missione e le missioni
«La Chiesa è missionaria nella sua essenza… La Chiesa non è se non per la missione. La Chiesa deve ritornare al suo stato di missione… Ogni pagina del Concilio dovrebbe vibrare con questa idea missionaria». Queste furono alcune delle affermazioni, raccolte da mons. Cuniberti, che risuonavano nell’aula conciliare, premonitrici di un profondo cambiamento dell’essere della Chiesa.
Mons. Lino approdò al Concilio Ecumenico Vaticano II provenendo dall’esperienza missionaria di frontiera del vicariato apostolico di Florencia-Caquetá (Colombia). Egli vibrava per le «missioni». Questo atteggiamento interiore lo aveva portato alla decisione di lasciare il ministero sacerdotale nella diocesi di Mondovì per entrare nei missionari della Consolata.
Destinato alla Colombia, anche se impegnato nell’animazione vocazionale in varie regioni attorno a Bogotà, aveva coltivato tacitamente nel suo cuore la speranza di aggiungersi al gruppo dei missionari della Consolata che, dal 1952, lavoravano nella «missione» del Caquetá, il territorio amazzonico colombiano affidato allora alla responsabilità pastorale di mons. Antonio Torasso. La «missione» del Caquetá era il sogno di p. Lino Cuniberti.
Con la sua nomina a succedere a mons. Torasso, dopo la morte prematura di questi, entrò a far parte della Conferenza episcopale colombiana e del Comité de Misiones (Comitato delle Missioni), l’organizzazione che raggruppava i vescovi missionari della Colombia le cui giurisdizioni erano in territori marginali, la otra Colombia, in cui oltre all’attività pastorale avevano anche la non indifferente responsabilità morale e pratica della direzione dell’istruzione pubblica.
Il territorio del Caquetá, già frontiera geografica ed ecologica nella foresta amazzonica del Sud del paese, in quegli anni era oggetto anche di un esperimento sociale di riforma agraria con cui il governo nazionale pensava di far fronte alla pressione dei cinturoni di povertà delle città del centro del paese. Un progetto di colonizzazione che attirava una massa di desesperados de la tierra i quali occuparono disordinatamente la selva amazzonica, avventurandosi a confrontarsi con un habitat difficile, sognando di possedere un pezzo di terra su cui ricostruire la vita. Con la realtà della migrazione interna, la regione del Caquetá rappresentava non solo una periferia geografica, ma soprattutto una periferia economica e socio culturale.
Padre conciliare
Il 4 dicembre 1963 si era solennemente conclusa la II sessione del Concilio Vaticano II. Durante tutte le giornate di lavoro della prima e della seconda sessione, mons. Cuniberti aveva seguito le sorti di vari schemi dei documenti, soprattutto di quello sull’attività missionaria, del quale erano apparse ben quattro redazioni, ma sempre molto brevi, lacunose e non corrispondenti all’aspettativa dei vescovi missionari.
Nel febbraio 1964, in preparazione alla III sessione, i vescovi ricevettero un nuovo schema sulle «missioni». Anche questo però, come i precedenti, ancora molto povero e imperfetto. I vescovi mandarono le loro osservazioni. Lo schema fu modificato ancora una volta e, poco prima dell’inizio della III sessione, giunse ai vescovi un ulteriore testo ridotto a sole tredici proposizioni. Mons. Angelo sbottò: «Questo testo oltre ad essere insignificante … è un testo che fa indignare».
Ottobre 1964: un incontro «storico»
A settembre i vescovi tornarono a Roma per la terza fase del Concilio Ecumenico. Il 27 ottobre mons. Anibal Muñoz Duque, presidente della Conferenza episcopale colombiana, ricevette l’invito dal p. Roger Etchegaray (il futuro cardinale, presente al Concilio come esperto per la Conferenza episcopale francese) a un incontro «apud Seminarium gallicum», cioè presso il Pontificio Seminario francese in via Santa Chiara a Roma. Invitati erano i delegati delle Conferenze episcopali più interessate a discutere l’insoddisfacente schema di documento sull’attività missionaria della Chiesa. Mons. Duque, in aula, trasmise l’invito a mons. Cuniberti scrivendo di propria mano: «Designato: mons. Angelo Cuniberti, vicario apostolico di Florencia».
Mons. Angelo si preparò con impegno per quell’incontro. Fin dall’inizio aveva lavorato perché il Concilio presentasse e lanciasse grandi idee sulla natura della Chiesa che «è essenzialmente missionaria» (Ad Gen. 35). Prese così i contatti preliminari con gli altri delegati di ben 22 Conferenze episcopali dei cinque continenti.
All’inizio della riunione tutti si presentarono. Erano presenti solo tre italiani. In primo luogo si trattò la storia e le vicissitudini dello schema sulle missioni che, dopo molteplici redazioni (aveva già raggiunto la 6a redazione), era ridotto a sole tredici proposizioni. Così come presentava, il testo era proprio ai minimi termini, anemico, come se le «missioni» fossero un’appendice folcloristico della Chiesa, mentre invece la dimensione missionaria avrebbe dovuto essere l’aspetto più importante, se fosse stato ritenuto vero ciò che aveva già scritto il Concilio Vaticano I: «la Chiesa presenta nella sua evangelizzazione il motivo della sua credibilità».
Si analizzarono allora le ragioni di tale riduzione ai minimi termini e si cercò di capire l’ansia manifestata da vari vescovi di terminare finalmente il Concilio, già arrivato al terzo anno di lavori. Dato che era già stata annunciata una quarta sessione per l’anno successivo, 1965, tutti i presenti si impegnarono a ottenere in quei giorni l’apertura di un dibattito in aula sullo schema affinché fosse bocciato con un bel «non placet» dalla maggior parte dei Padri conciliari. Si propose quindi di far posticipare l’approvazione dello schema alla sessione successiva per avere così il tempo, con la collaborazione di tutti, di prepararne uno completamente nuovo.
Dopo essersi assicurati interventi vigorosi di personaggi di grosso calibro quali il cardinal Bea (del Segretariato per la promozione dell’Unità dei cristiani) e alcuni cardinali presidenti di conferenze episcopali: Frings (Germania), Suenens (Belgio), Rugambwa (Tanganika) e Léger (Canada), tutti si impegnarono in una campagna «capillare» per richiedere che quel miserabile schema non fosse approvato.
Si discussero alcuni punti e linee essenziali. Il nuovo schema non sarebbe risultato esaustivo, ma avrebbe dovuto contenere i principi essenziali, sostenuti dall’autorità del Concilio come tale. Successivamente sarebbero intervenute le commissioni post-conciliari per stabilirne l’applicazione.
I giorni seguenti alla riunione del 27 ottobre ci fu una straordinaria attività per contattare quanti più vescovi fosse stato possibile allo scopo di convincerli a votare «non placet». Il 30 ottobre mons. Cuniberti e il p. Roger Etchegaray si incontrarono per fare una prima valutazione del potenziale di voti assicurati.
Ostruzionismo
La 116a Congregazione plenaria del 6 novembre 1964 fu caratterizzata dalla presenza di papa Paolo VI e da una celebrazione eucaristica in liturgia etiopica accompagnata da canti ritmati da tamburi. Coordinò i lavori, come presidente di turno, il card. Julius August Doephner, «annuente Pontefice», consenziente il papa, come sentì il bisogno di far notare mons. Felici, segretario generale del Concilio. Nella sua allocuzione papa Paolo VI sottolineò che «abbiamo scelto per la Nostra presenza questo giorno, nel quale la vostra discussione verte sullo Schema delle Missioni. A preferirlo Ci ha persuasi la particolare gravità e importanza dell’argomento al quale ora applicherete le vostre menti e i vostri animi». E aggiunse: «A questo sacro Concilio incombe tra l’altro l’insigne compito di tracciare nuove vie, studiare nuovi mezzi, stimolare una nuova attiva tensione per diffondere più largamente e più fruttuosamente il Vangelo». Intervenne il card. Agagianian (della Chiesa cattolica armena) con un vibrante discorso a favore delle missioni, concluso dicendo che, in generale, il testo piaceva, anche se avrebbe dovuto essere arricchito. Era un invito esplicito ad approvare le misere tredici proposizioni per non prolungare oltre la discussione, congedare così le missioni e passare a un altro argomento.
Iniziarono così gli interventi programmati. Il card. Léger si rammaricò per le molte lacune e carenze presenti nel testo che definì semplicemente «povero». Seguirono i cardinali Rugambwa e Bea, i quali aiutarono l’assemblea a riflettere profondamente sul grande disegno di Dio, aprendo grandi orizzonti. Il tempo stringeva e la discussione fu rinviata al giorno seguente.
Il 7 novembre proseguirono gli interventi sul tema «missioni». I card. Frings, Alfrink (Olanda) e Suenens ricordarono («tirano colpi di cannone», scrisse poi mons. Cuniberti) che, in tutto, la Chiesa d’Olanda contava cinquemila missionari e 70 vescovi in terra di missione. Un vescovo indonesiano, mons. Kaiser, affermò esplicitamente che si doveva rifare un altro schema partendo da zero.
Un vescovo rodesiano, mons. Lamont, con uno stile e un tono speciale, iniziò affermando che i missionari aspettavano qualcosa di molto più sostanzioso dal Concilio. Quelle povere tredici proposizioni erano come «ossa arida et sicca». Gesù afferma: «Ignem veni mittere», cioè fuoco! (sono venuto a portare il fuoco, Lc 12,49, ndr). «E qui, invece di una stupenda splendida luce pentecostale, si finisce per avere solo un lumicino fumigante».
Altri vescovi si susseguirono per richiedere decisamente una «magna carta», una costituzione o un decreto molto solenne. Si sollevò pure la voce di un padre conciliare dal Brasile che si scagliò contro gli esperti dalle opinioni divergenti, concludendo che «per metterli d’accordo c’è una bella soluzione: mandarli tutti a lavorare nelle missioni».
Esaurito in aula il tempo utile di lavoro, rimase sospeso e aperto il dibattito sul tema delle missioni per essere ripreso successivamente.
Vittoria
Il 9 novembre, con un centinaio di relatori ancora in attesa di intervenire, la stessa commissione ad hoc prese l’iniziativa di ritirare lo schema senza la votazione. Ci fu un frenetico applauso. Ma mons. Felici, segretario generale, si appellò ai regolamenti e la presidenza ordinò che si procedesse alla votazione.
Risultato della votazione: 1.601 voti contrari e solo 311 a favore. Lo schema venne rimandato alla quarta sessione! Vittoria! Si era raggiunto l’obiettivo prefisso nella riunione del 27 ottobre.
Al lavoro per preparare un documento degno delle missioni.
Gaetano Mazzoleni
Missionario della Consolata, antropologo, ha lavorato in Colombia, dove è stato fondatore e direttore del Centro Indigenista di Florencia-Caquetá.
Testo adattato dalle «Memorie di mons. Angelo Cuniberti»
Vaticano II: Episcopato africano, una minoranza attiva che Fa udire la sua voce
Tra passato e futuro
di Diamantino Guapo Antunes
Quando l’11 ottobre del 1962 si aprirono le porte del Concilio, l’episcopato africano era presente con 295 prelati. Nel 1965, alla conclusione del Concilio, il loro numero era aumentato fino a 311. Per comprendere l’azione e il contributo dei vescovi d’Africa al Concilio è necessario conoscere chi essi erano e quali le loro principali esigenze. L’episcopato in Africa era in un periodo di transizione: i vescovi missionari, dopo avere «impiantato» la Chiesa, si preparavano a cedere la loro responsabilità a quelli locali. Questi erano chiamati a continuare l’opera missionaria e a consolidare la Chiesa. Una transizione che si realizzò senza rottura con il passato, ma ereditandolo e migliorandolo.
I vescovi «africani» che parteciparono al Concilio erano, in grande parte, di origine europea quasi tutti provenienti dalle nazioni che avevano colonizzato il continente: Francia, Belgio Inghilterra, Portogallo, o di nazioni con forte dinamismo missionario come Irlanda, Italia, Olanda. Fatte poche eccezioni, quasi tutti erano membri di Istituti religiosi. La maggior parte era arrivata in Africa ancora giovane, essendo stati alcuni di loro i pionieri dell’evangelizzazione nei territori affidati alla loro responsabilità pastorale. Era un episcopato giovane. Essendo pastori di comunità cristiane da poco fondate, il loro ministero si concentrava quasi esclusivamente nel lavoro di fondazione delle strutture indispensabili per la loro crescita e il loro consolidamento. Oltre tutto erano uomini pratici, conoscitori degli usi e costumi dei popoli dei quali erano pastori e animati da grande zelo pastorale. Grande parte di quei vescovi erano coscienti di avere compiuto la loro missione e quindi disposti a rinunciare in favore di vescovi locali, sostenuti in questo anche dagli Istituti missionari.
Vescovi africani
Quando si aprì il Concilio, i vescovi nativi del continente erano settanta. Durante il Concilio il loro numero aumentò tanto che nell’ultima sessione erano già ottantasei. Nel 1965 ventotto paesi avevano almeno un vescovo nativo. Il Congo era il paese africano con il maggior numero di vescovi autoctoni. ben dieci.
Alcune caratteristiche distinguevano da tutti gli altri: l’età, la preparazione teologica e la prudenza pastorale. Era un episcopato molto giovane e di diocesi o vicariati di recente fondazione. Eccetto quindici, tutti gli altri avevano meno di cinquant’anni e appartenevano alla generazione che aveva rivendicato e assunto l’indipendenza del continente. Quasi tutti erano stati ordinati negli ultimi dieci anni prima del Concilio, e ben metà di essi (32) nel periodo preparatorio (1959-1962).
Sebbene fossero una minoranza, occupavano già i luoghi chiave e avevano assunto la responsabilità di dirigere la Chiesa cattolica a livello nazionale e continentale. Molti di loro avevano fatto gli studi teologici in Europa, soprattutto a Roma nell’ateneo di Propaganda Fide. Un’altra caratteristica, già presente nei «vota» (i desideri o auspici) inviati da alcuni alla commissione preparatoria, era il loro equilibrio e la loro prudenza pastorale, senza posizioni radicali sull’indigenizzazione della Chiesa, le sue strutture e la sua liturgia. Le idee espresse alla vigilia del Concilio nelle lettere pastorali, nelle interviste e negli articoli, non erano polemiche o estremiste, caratterizzate com’erano da un grande equilibrio, e focalizzate soprattutto sul carattere pastorale del Concilio, sulla necessità di attualizzare la legge canonica, sull’aggiornamento della liturgia e dei metodi di evangelizzazione. Il fatto che l’episcopato africano fosse eterogeneo e parlasse lingue diverse non impedì che si creasse uno spirito di comunione tra i differenti gruppi e le loro sensibilità e che agissero in forma organizzata a vantaggio degli interessi della Chiesa cattolica in Africa e nel Madagascar.
L’annuncio del Concilio e suo impatto
Il 25 gennaio 1959, papa Giovanni XXIII fece conoscere il suo progetto di convocare un Concilio. Alcuni mesi dopo, affidò la sua preparazione a una commissione con il compito di contattare i vescovi per avere proposte e temi da inserire nel documento preparatorio al Concilio. La consultazione interessò 259 vescovi dell’Africa, dei quali allora solo 36 erano africani.
La sorprendente notizia della convocazione di un Concilio ebbe un forte impatto in Africa. L’analisi delle proposte inviate dai vescovi dell’Africa ci permette di constatare che essa fu accolta con entusiasmo. Per la prima volta l’Africa sub sahariana sarebbe stata presente in un Concilio e per di più rappresentata da alcuni vescovi autoctoni. Vista la situazione del continente e delle sue Chiese locali, un Concilio con caratteristiche pastorali ed ecumeniche era opportuno e rappresentava un’occasione storica per il rinnovamento della Chiesa.
Emancipazione dal colonialismo e indipendenza
Con circa 25 milioni di fedeli alla vigilia del Concilio, la Chiesa cattolica in Africa viveva un periodo di crescita e di africanizzazione (inculturazione e indigenizzazione). Il Concilio Vaticano II si svolse in un periodo di importanti trasformazioni sociopolitiche. Infatti, in quel periodo, furono fatti i passi decisivi per lo smantellamento del colonialismo e la conseguente emancipazione politica di molti stati. Così Concilio e decolonizzazione si influenzarono a vicenda.
La decolonizzazione scatenò un rinnovamento nella vita ecclesiale. Per attenuare il suo colore occidentale e rispondere alle esigenze dell’inculturazione e dell’autenticità, la Chiesa cattolica si sforzò nel riformare le sue strutture, nel rinnovare i suoi metodi pastorali e di rivedere la sua attitudine in relazione al mondo culturale e religioso africano.
Le proposte nella fase preparatoria
Le proposte dell’episcopato africano rivelavano le preoccupazioni sentite dalla Chiesa cattolica africana alla vigilia del Concilio. I temi erano i seguenti: aggiornamento liturgico, il ruolo dei laici nella Chiesa e la collegialità dei vescovi. Il tema dell’aggiornamento liturgico fu quello che raccolse il maggior consenso e ricevette il maggior numero di proposte concrete.
Il rinnovamento, il rispetto alla cultura dei popoli da evangelizzare e l’incorporazione della stessa nel cristianesimo fu un tema molto presente nelle proposte fatte dall’episcopato africano. Era urgente spogliare il cristianesimo della sua veste occidentale per accogliere i valori, le espressioni e i simboli propri delle varie culture africane. Il tutto era definito come indigenizzazione, inculturazione, africanizzazione o autenticità africana, con proposte che sollecitavano un maggior uso delle lingue locali e l’introduzione di simboli, gesti e musiche africane nella messa.
Oltre le proposte dei vescovi, la chiesa africana si preparò per il Concilio con alcune iniziative di carattere teologico – pastorale orientate da sacerdoti e laici africani impegnati in congressi e pubblicazioni. Il Concilio era sentito come un’eccellente opportunità per stimolare l’africanizzazione della Chiesa. Si può quindi affermare che la Chiesa cattolica in Africa, attraverso le attività dei suoi pastori e l’impegno dei suoi fedeli, accolse con gratitudine, si preparò con interesse e si sforzò per fare sentire le sue proposte, segnali di una chiesa viva e partecipativa.
Africanizzare la Chiesa
La crescita della Chiesa cattolica non soltanto accompagnò le trasformazioni sociopolitiche ma anche contribuì, a suo modo, a prepararle e promuoverle. Con l’istituzione di una gerarchia ecclesiastica locale e la nomina di vescovi africani, il processo di africanizzazione della Chiesa fece un salto importante e decisivo. La Santa Sede favoriva il movimento d’indipendenza dei popoli africani.
Nel campo della riflessione teologica – pastorale si fecero passi significativi per una maggior incarnazione del cristianesimo. Come alternativa alla teologia occidentale era nata la «teologia africana» che rivendicava il diritto dei cristiani a pensare ed esprimere il cristianesimo in termini africani. La Chiesa rispondeva così alle critiche dei settori intellettuali locali e internazionali che prevedevano la scomparsa del cristianesimo con la fine del colonialismo.
Un gruppo in crescita
Dei 295 vescovi dell’Africa con diritto di partecipare al Concilio, 265 parteciparono alla prima sessione del Concilio. Rappresentavano approssimativamente l’11% del totale dell’assemblea conciliare costituita da circa 2500 membri. Era una buona percentuale se teniamo presente che l’Africa contava allora appena 25 milioni di cattolici, cioè il 4,6% dei circa 540 milioni di cattolici allora esistenti. Le chiese locali con maggiore numero di padri conciliari erano: Congo (41), Tanganika – oggi Tanzania (23), Africa del Sud (21), Nigeria (17). Il numero di padri conciliari africani aumentò nella seconda sessione, passando da 265 a 303. Durante il Concilio morirono 21 padri conciliari dell’Africa e Madagascar. Durante l’ultima sessione nell’aula conciliare c’erano 311 padri che rappresentavano le chiese locali dell’Africa.
Gli interventi
Durante il Concilio ci furono 2175 interventi orali sui 16 documenti. I vescovi dell’Africa fecero 170 interventi in tutto (7,8%) e appena una minoranza di essi ebbe la possibilità di parlare (70). Alcuni, come portavoce dell’episcopato africano, intervennero varie volte e altri si fecero notare per la loro apertura pastorale e teologica. I vescovi che intervennero più volte furono i seguenti: L. Rugambwa (Kukoba, Tanganika): 15 interventi; Sebastião Soares Resende (Beira, Mozambico): 10 interventi; E. Zoghby (Nubia, Egitto): 10 interventi; D. Huley (Durban, Africa del Sud): 9 interventi.
In totale, gli interventi non furono molti, tuttavia ebbero un impatto qualitativo superiore alla sua quantità. Questo impatto si deve principalmente a due ragioni: manifestavano la posizione di un gruppo di vescovi, non di un singolo, e riflettevano la situazione e le esigenze concrete delle loro chiese locali. La vivacità dell’episcopato africano era espressione della sua giovinezza e del dinamismo delle chiese locali che rappresentavano.
La missione e la chiesa locale
Durante le prime congregazioni generali gli interventi dell’episcopato africano si concentrarono principalmente sulle questioni liturgiche e pastorali, come, per esempio, il tema caldo dell’adattamento (l’inculturazione). Possiamo affermare che gli aspetti caratteristici delle proposte dei vescovi dell’Africa relativi o legati alla teologia missionaria erano contenuti in argomenti di natura pastorale, ma si nota un’evoluzione nel corso del Concilio stimolata dall’arricchimento progressivo del dibattito ecclesiologico. Il decreto Ad Gentes sull’attività missionaria fu il documento per il quale i padri conciliari dell’Africa diedero il contributo più significativo. I loro interventi aiutarono a elaborare un nuovo concetto di missione. Questa non è monopolio degli istituti missionari, ma è una responsabilità di tutta la chiesa che è per natura missionaria. L’attività missionaria ha come oggetto specifico il nascere e crescere di nuove chiese locali che sono il segnale della piena cattolicità della chiesa. Le chiese locali, frutto dell’attività missionaria, non devono essere una semplice copia della chiesa evangelizzatrice, ma devono assumere un’identità che tenga in conto delle realtà in cui sono radicate per mezzo di un processo di adattamento e incarnazione. A loro volta le giovani chiese devono diventare soggetto di evangelizzazione. Questa nuova visione di «Missione», come interscambio tra chiese sorelle, crea necessariamente un nuovo concetto più vivo ed attivo di chiesa locale.
Imparare per trasmettere
Ma più che parlare, i vescovi dell’Africa sentirono la necessità di ascoltare le posizioni degli altri episcopati per imparare dalla loro esperienza. La presenza discreta e silenziosa della maggior parte di loro non era sinonimo di disinteresse, era un silenzio attivo. Seguivano con attenzione il dibattito, studiavano i testi, prendevano nota.
Si preoccupavano di informare i loro cristiani sullo sviluppo dei lavori conciliari per così coinvolgerli e motivarli ai cambiamenti che li avrebbero toccati. Per mezzo dei loro scritti, lettere, articoli nei giornali, davano a conoscere la propria attività nel Concilio, così come i contatti con gli altri vescovi e con organismi internazionali. Manifestavano anche le loro impressioni sul Concilio, sottolineando i fatti e i risultati più importanti: la sua dimensione universale, la riforma liturgica, l’inculturazione, il dialogo ecumenico, ecc.
Diamantino Guapo Antunes Missionario della Consolata portoghese, attuale superiore delle comunità Imc in Mozambico; ha scritto lo studio «Concílio Vaticano II, o contibuto do Episcopado de África e Madagáscar», Edizioni Missioni Consolata, Torino 2001.
Chiesa missionaria e Concilio Vaticano II
Un documento pietra miliare di una storia infinita
di Gianfranco Testa
Mai come oggi, nella Chiesa riunita attorno a papa Francesco, si è presa coscienza che l’avvenimento di cinquanta anni fa, il Concilio Vaticano II, è vivo e interpella noi tutti a proseguire un cammino di cui l’Ad Gentes, riportando la «missione» nel cuore della Chiesa e ricordando che ogni cristiano è per sua natura missionario, è stata non un punto di arrivo, ma un punto di partenza.
Per le piazze e le strade di Roma, il Concilio si manifestò subito, all’immaginario collettivo, con un volto ecumenico, universale, grazie all’avvicendarsi di vescovi provenienti da diverse latitudini e di «diversi colori». Quelli latinoamericani non si fecero notare granché, ma quelli asiatici e africani s’imposero all’attenzione della gente. La Chiesa mostrava, così, almeno il suo folclore, non necessariamente la sua missionarietà.
In un primo momento, nei dibattiti conciliari, sembrò quasi che il tema della missione non fosse urgente. Esso si trovava già sottinteso nel documento Lumen Gentium sulla natura della Chiesa, pubblicato dallo stesso Concilio nel novembre 1964, e non sembrava esserci la necessità di renderlo esplicito. Eppure le perplessità sull’attualità e l’opportunità della missione erano forti e presenti in tutta la Chiesa. Non tutti, infatti, vedevano di buon occhio l’ansia di convertire le persone. In più l’opera missionaria era messa in discussione anche dal grande movimento contro il colonialismo, sfociato nell’indipendenza di molti paesi, soprattutto africani. Si pensava che fosse giunto il momento in cui ogni paese programmasse la propria politica e la propria religione.
Alcuni rappresentanti delle chiese orientali, poi, erano preoccupati perché la chiesa occidentale sembrava più interessata alle forme organizzative che all’essenza e alle ragioni profonde della missione. Il nome stesso dell’organismo ecclesiale incaricato di guidare e animare la missione universale, «Propaganda Fide», suscitava dubbi.
Quando, grazie alla richiesta di alcuni padri conciliari, venne presa la decisione di redigere un documento specifico sulla materia, la sua stesura fu travagliata e segnata da diversi rifiuti, al punto che si parlò di una «storia inusitatamente turbolenta» del documento. Nonostante ciò, il 7 dicembre 1965, al momento della promulgazione, l’Ad gentes fu il decreto approvato con la maggioranza più larga, con appena 5 voti contrari.
La Commissione che aveva preparato il decreto sull’attività missionaria della Chiesa si era basata su quanto già espresso nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, ma ne aveva sviluppato i temi in modo originale e profondo.
La Chiesa, come un corpo vivo, deve crescere e manifestare la sua energia vitale, e la missione ne è l’essenza stessa, non la ricerca di un semplice aumento numerico dei suoi membri. Una simile visione di missione interessa tutto il popolo di Dio e non solo alcuni circoli o istituti specializzati. La relazione tra questa nozione ampia di missione e quella specifica di missione ad gentes è, allora, precisata dal fatto che la seconda è l’attuazione dell’unica missione, nelle circostanze, nei luoghi e nelle realtà sociali più diverse.
I contenuti e le ragioni
Se la Chiesa è definita come «sacramento universale di salvezza» vuol dire che la sua funzione di segno e di strumento della salvezza di Dio non ha confini, è universale, per tutti i tempi, i popoli, le lingue, i luoghi. La Chiesa da sacramento-mistero diventa missione.
Con l’Ad gentes si mettono le basi per una teologia della missione che nasce nella stessa Trinità: il Padre manda il Figlio perché sia salvezza per tutti, e questi offre lo Spirito perché tutto sia riassunto nell’amore del Padre.
La Chiesa prende forma nelle varie Chiese locali, che, pur nella loro povertà di mezzi e di personale, sono chiamate a essere, anch’esse, protagoniste della missione. La missione, dal canto suo, è servizio all’uomo, non a quello astratto, filosofico, uguale in tutto il mondo, ma a quello concreto, che, pur mantenendo l’uguaglianza di diritti e di doveri, è diverso di luogo in luogo, per la cultura, le tradizioni di cui è impastato, la concezione della vita e della morte, il rapporto con il sacro.
L’attività missionaria non è altro che la manifestazione e la realizzazione del piano divino nel mondo e nella storia (Ag 9). Non spetta al missionario né alla Chiesa decidere che cosa sia la missione perché il volto della missione è stato delineato da Gesù Cristo. A noi spetta la genialità dell’attuazione, non la fantasia dell’invenzione. La missione precede i missionari e la Chiesa stessa.
Sono affermazioni, quelle contenute nel decreto conciliare, che esigono una revisione del pensiero e dell’azione: si passa dall’atto di impiantare (a volte semplicemente trasferire) la Chiesa, a quello di immergersi nella profondità del progetto divino, a cui si deve continuamente rendere conto.
La storia e le storie
Prima del Concilio tutto era semplice. C’erano i paesi di missione e i missionari che sapevano cosa bisognava fare: portare un po’ di benessere, rendendo civili «gli altri», e, nella misura del possibile, fare l’impossibile per battezzarli e farli diventare cristiani. Si cercava di trapiantare la propria chiesa di origine in Africa, in Amazzonia o in Asia, con gli stessi paramenti, vestiti per i chierichetti, novene, feste, santi e devozioni. Eppure già nel 1659 Propaganda Fide raccomandava: «Cosa potrebbe essere più assurdo che trasferire in Cina
la civiltà e gli usi della Francia, della Spagna,
dell’Italia o di un’altra parte d’Europa?
Non importate tutto questo, ma la fede che non respinge e non lede gli usi e le tradizioni di
nessun popolo, purché non siano immorali».
Tutto era iniziato in modo spettacolare, e degno di imitazione, con Paolo, ma poi, con il passare dei secoli, evangelizzata l’Europa, la missione era stata finalizzata soprattutto alla conversione degli eretici e, cosa molto difficile, dei musulmani.
A metà del secondo millennio, la perdita di una porzione d’Europa, passata sotto l’influenza di Lutero, fu compensata dalla massiccia conquista, a forza di spada e di croce, dell’America Latina. Spagna e Portogallo sfornarono frati cattolici, Inghilterra e Olanda pastori riformati. Il mondo fu condotto a Dio, per sua gloria, sotto varie etichette. Il primo che arrivava faceva di tutto perché la sua porzione di gregge non fosse sequestrata dagli altri. Non mancarono esempi luminosi, ma certo il metodo era assai poco cristiano. L’evangelizzazione unita alla colonia fu poi criticata, e con ragione.
L’evangelizzazione più recente, nascosta sotto l’apparenza di una migliore civiltà, fu anch’essa criticata. Se il Concilio volle far notare che «la Chiesa proibisce severamente di costringere o di indurre e attirare alcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede» (Ag 13), lo fece perché questo succedeva e si sentiva la necessità di denunciarlo.
Dopo il Concilio
È vero, il Concilio mise delle basi luminose nel cammino missionario della Chiesa, ma da quelle basi chiare scaturì una crisi, che coincise con la più ampia crisi della cristianità e della società. Venticinque anni dopo, l’enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II parlò di uno «slancio indebolito»: si era detto che tutta la Chiesa era missionaria e che tutto era missione, si era cominciato a parlare di missione del catechista, del gruppo dei cantori, dell’organizzatore dei tornei di calcio parrocchiali, delle signore che spazzavano la chiesa, ecc., ma allora, che cos’era la missione? Per fare chiarezza e delimitare il campo si era aggiunta l’espressione «ad gentes», cioè «alle genti». Ma dove si trovavano «le genti», o, più popolarmente, i pagani? Al bar e all’università, ad esempio, o per strada, allo sballo del sabato notte e nei nuovi templi del consumismo.
I contorni dell’azione missionaria diventarono meno netti, meno facili da decifrare in modo univoco, e questo generava un certo spaesamento. Intanto la strada che era stata aperta stimolava la riflessione. Allora, abbandonato l’esagerato risalto dato alla Chiesa, si cominciò a parlare soprattutto di annuncio di Cristo. E Cristo, era unico salvatore, o salvatore di tutti gli uomini? Nel primo caso l’accento cade sull’esclusività (unico, via tutti gli altri), nel secondo caso, al contrario, sull’inclusività (nessuno è escluso dalla salvezza di Gesù, a meno che la rifiuti).
Una frase che cominciò a risuonare dopo il Concilio affermava che «forse non è necessario che tutti diventino cristiani, ma è necessario che a tutti sia offerta l’esperienza di Gesù». È più o meno quello che affermava Paolo VI quando scriveva «gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentirneri, grazie alla misericordia di Dio, ma potremo noi salvarci se trascuriamo di annunziare il Vangelo?» (En 80).
Non mancò chi disse: «Gesù va bene, ma il cristianesimo, come lo conosciamo, no, perché è troppo segnato dalla cultura occidentale. Se le prime comunità ebbero la saggezza di accettare che i Vangeli fossero quattro, e non uno solo, quattro buone notizie riferite a Gesù, come potremmo noi avere la pretesa di proporre un unico catechismo per tutti i continenti, le lingue e le culture? Annunciamo il Regno, questo ha fatto Gesù, e questo deve fare la Chiesa se vuole essere missionaria».
Speranze e delusioni
Più si rifletteva sulla missione, più questa diventava vera, ma anche, allo stesso tempo, evanescente. C’era perfino da scoraggiarsi. Ecco perché il papa nel 1990 parlò di uno «slancio indebolito».
Alcuni elementi del Concilio prendevano sempre più forma: in tutti i popoli ci sono i germi, i semi del Regno. Gesù l’aveva presentato così: un piccolo seme, che già si trova in ognuno, profondamente immerso nella cultura. Non è trasportato da fuori. Quando il missionario arriva, deve abbandonare i suoi programmi per scovare, difendere e aiutare quel seme a crescere. La Chiesa è chiamata a inculturarsi per diventare «chiesa negra, indigena, asiatica», con i propri modi di esprimersi, mantenendo come suo unico criterio la fedeltà al Regno di Dio.
Ovviamente nel dibattito c’era chi faceva l’avvocato del diavolo: «Non c’è il pericolo che, invece di un grande affresco, alla fine il Regno risulti un mosaico confuso, fatto di tanti piccoli pezzi separati tra di loro che perdono di vista l’insieme? Inoltre, il seme del Verbo, è seminato solo nelle culture o anche nelle religioni, che delle culture sono parte fondamentale?».
Un altro documento dello stesso Concilio, la Dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane, Nostra Aetate, apriva all’incontro rispettoso con le varie realtà religiose. Ma la considerazione per esse era un mezzo utile o un fattore di confusione nell’impegno missionario? I teologi cercarono di destreggiarsi tra dialogo e missione, dialogo e annuncio, con il timore che il dialogo potesse diventare una strategia nuova e più raffinata di «conquista» delle persone. Che fare? Si doveva allora tacere riguardo alla superiorità della fede in Cristo per dialogare con tutti?
Si iniziò a considerare tutte le religioni come realtà che offrono salvezza. Non allo stesso modo, ma ognuna contiene gli elementi sufficienti per dare, in quella certa realtà e cultura, le risposte necessarie alle persone. Tutte le religioni sono strade di salvezza, come aveva sostenuto anche Paolo VI: «Gli uomini si potranno salvare anche per altre strade». Il problema della salvezza è un problema che lasciamo a Dio. Non diciamo che questa o quella religione sia la migliore, semplicemente ringraziamo Dio che, attraverso tanti mezzi e strumenti diversi, le persone incontrino risposte per realizzare se stesse.
Nuovi linguaggi e contenuti
Se ne è fatta di strada da quando il Concilio ha parlato di dialogo, di semi del Verbo, di inculturazione. Forse il cammino non piace a tutti. Forse si è andati troppo lontano o, forse, fuori percorso. Ma tant’è: la missione continua a essere il laboratorio di esperienze nuove, in cui certi esperimenti hanno fortuna e altri sono un disastro, alcuni sono accettati e altri no, anche se interessanti, come lo erano state le riduzioni gesuitiche del Sudamerica o il tema dei riti cinesi ai tempi di Matteo Ricci.
Il pluralismo religioso ci mette di fronte alla realtà: ai popoli non mancano le religioni, espresse in forme culturali, in strutture cultuali, in miti e dottrine, in esigenze morali, ma le diverse fedi puntano a un’unica meta: vivere il Regno, cioè la comunità fraterna in cui ci si trova tutti uniti, in un rapporto di intimità con l’unico Padre.
La Chiesa è il segno del Regno, ma finché essa dà risalto soprattutto alla dottrina, alla gerarchia, alla verità e non al Vangelo, sarà semplicemente una religione come le altre, forse più strutturata e organizzata delle altre. «Tra voi non sarà così», diceva Gesù: egli chiedeva qualcosa di diverso da un corpo ben ordinato. Non esigeva l’assenza di peccato, la sua pratica era di vicinanza proprio con i peccatori, ma voleva che i suoi fossero totalmente estranei a ogni forma di potere, di apparenza o di divisione in classi: «Voi siete tutti fratelli».
Ecco allora che la missione non porta la Chiesa ai popoli, ma avvia i popoli, con il colore vitale che ciascuno ha, verso una Chiesa che, superata la sua fisionomia religiosa, sia espressione del Regno, della famiglia di Dio: tutti figli, tutti fratelli.
Jonathan Sacks, gran rabbino della Gran Bretagna afferma: «La missione della religione è la speranza», così come Pietro scriveva in una sua lettera: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). Lenire la sofferenza esistenziale degli esseri umani è sempre stato il grande affanno del Dio biblico, del Dio di Gesù e anche di quello di Muhammad, dei Veda e delle religioni attente alla realtà della persona umana. La missione è credere che la salvezza, la vita, la speranza sono aspirazione e diritto di tutti.
La primavera di Francesco
Un papa che viene dalla fine del mondo, dove la missione è la quotidianità, non poteva non mettere nei credenti lo spirito dell’«Andate a tutte le genti». Parole come «periferie, poveri, cultura dello scarto, sporcarsi le mani, odorare di pecore», sono entrate nel linguaggio ecclesiale. Certo, non è detto che siano diventate vita vissuta per i cristiani e neppure per i missionari: si richiede una profonda conversione, bisogna uscire dalle fortezze (conventi, parrocchie, strutture), per vivere in mezzo alla gente, per partecipare alla sua storia che è sempre, già, una storia di salvezza, dove si mescolano speranze e delusioni, eroismo e peccato, e dove, in ogni caso, il protagonista è lo Spirito, non l’individuo e neppure la chiesa, che non cerca la propria sopravvivenza, ma la capacità di servizio.
A noi è affidato il compito di portare a maturazione la presente primavera. La missione come speranza è compassione, non è indicare il cammino da compiere, ma camminare insieme.
Gianfranco Testa
Missionario della Consolata che ha operato in Argentina ai tempi della dittatura, poi in Italia, in Nicaragua e in Colombia; oggi è in Italia dove ha fondato l’Università del Perdono, per promuovere la prassi e la spiritualità del perdono soprattutto in realtà dilaniate dalla guerra o da tradizioni che esaltano la vendetta e la violenza.
Sul Concilio Vaticano II vedi il dossier «La Chiesa si scoprì tutta missionaria» (MC 10/2012) pubblicato in occasione del 50° dell’inizio dello stesso.
2 Istituti, 1 Missione
Stesse domande, due intervistati: la superiora e il superiore generali delle missionarie e dei missionari della Consolata, eredi, insieme, del beato Giuseppe Allamano.
Suor Simona Brambilla è brianzola, cinquant’anni, infermiera e psicologa, a fine anni Ottanta sceglie la missione ad gentes e diventa missionaria della Consolata. Nel 2011 è eletta superiora generale. I suoi modi tranquilli e un’apparente timidezza incuriosiscono i suoi interlocutori, almeno quanto la luce, la gioia e l’entusiasmo che ha negli occhi quando racconta della missione e del suo Istituto.
Padre Stefano Camerlengo, marchigiano Doc ma cittadino del mondo, cinquantanove anni, ordinato sacerdote il 19 marzo del 1984 a Wamba, Congo RD, nel 2011 è eletto superiore generale dei missionari della Consolata. Ciò che colpisce di padre Stefano è l’entusiasmo irrefrenabile, l’amore, la dedizione alla missione, e un’apertura mentale plasmata dal pensiero del beato Allamano.
Quando ha scelto di diventare missionario/a? Cosa l’ha spinto/a a lasciare tutto per dedicarti a Dio e alla missione? E perché proprio in questo Istituto?
SUOR SIMONA – Ho deciso quando avevo circa 22 anni e lavoravo come infermiera professionale in un ospedale. Il contatto coi malati ha suscitato in me una serie di domande sul senso della vita e della sofferenza. Da lì è iniziato il mio avvicinamento al Signore e il progressivo e intenso desiderio di consacrarmi a Lui. Ero indecisa tra la clausura e la missione ad gentes. Ho conosciuto i Missionari della Consolata e, dopo un cammino di accompagnamento spirituale con uno di loro, ho chiesto di conoscere le Suore Missionarie della Consolata. A 23 anni sono entrata nel mio Istituto e… eccomi qua. Da allora sono passati, velocissimi, altri 27 anni!
PADRE STEFANO – La storia della mia vocazione è molto semplice e molto «umana». Ancora molto giovane ho sentito la necessità di condividere la mia vita con i più poveri, da questa spinta iniziale è nato tutto il resto. Sono stati i poveri che mi hanno portato a Gesù, e poi è stato Gesù che mi ha riportato ai poveri. Per questo dono ringrazio in primo luogo il Signore che mi ha fatto «degno» di questa «sublime vocazione», come la chiama il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. In secondo luogo, ringrazio i miei confratelli missionari che mi hanno aiutato e plasmato sulle orme della missione, e infine ringrazio tutte le persone che ho incontrato finora nella mia vita che mi hanno aiutato a essere quello che sono, senza dimenticare la mia famiglia che con la sua presenza e vicinanza mi ha insegnato i valori che contano e che non si dimenticano più. Ho scelto l’Istituto dei Missionari della Consolata perché sono stati i primi missionari che ho incontrato sulla mia strada e che, ora, amo come la mia vera famiglia.
Mi racconti l’emozione più grande che ha provato girando il mondo e incontrando tante realtà in questi anni.
SUOR SIMONA – C’è un’emozione che provo tante volte visitando i nostri posti, i nostri popoli: è quella di sentirmi accolta, di ricevere tantissimo. Questo mi fa sentire piccola davanti a tanta gratuità. L’emozione di arrivare alla missione di Arvaiheer in Mongolia e trovare donne, vestite col bellissimo abito tradizionale, che ci offrono la loro bevanda tipica e la sciarpa blu in segno di accoglienza. Di arrivare a Vilacaya, Bolivia, e trovare i rappresentanti del popolo indigeno che ci ornano con pannocchie di mais e un aguayo (panno tipico boliviano, coloratissimo) in segno di benvenuto; di arrivare a Gibuti e trovare i ragazzi del centro di alfabetizzazione di Ali Sabieh coi loro maestri che per dimostrare l’amore verso le nostre sorelle ci decorano le mani con impasto di henna… e tanti, tanti gesti di accoglienza che ci fanno sperimentare come la missione è davvero uno scambio, è un dare e un ricevere.
PADRE STEFANO – In questi anni di servizio all’Istituto, in cui mi trovo a visitare tanti paesi, tante comunità e tanti missionari, la cosa che più mi emoziona è la forza della debolezza. Mi meraviglia sempre e mi fa cadere in ginocchio a ringraziare, vedere che piccoli uomini in posti sperduti e difficili, con pochi mezzi, tra tantissimi problemi, possono cambiare la storia di un popolo, di un gruppo, sono riferimento e segno di speranza per tanti, sono luci accese in mezzo alla notte del mondo. Un’altra emozione forte te la danno sempre i bambini. Lo sguardo dei bambini, la loro gioia di vivere, la loro pura bellezza sono sempre e ovunque un’emozione fortissima che ti riempie il cuore e ti fa camminare.
Infine, mi piace ricordare che, come missionario, mi sento sempre a casa sua dovunque sia e dovunque vada. Che spettacolo poter trovare sempre delle persone amiche che ti accolgono, ti fanno trovare il calore di una famiglia. Che dono grande l’organizzazione e lo spirito missionario.
Come vede il futuro dell’Istituto. Quali sono secondo lei i punti di forza e quali, qualora ci fossero, le debolezze?
SUOR SIMONA – Un punto di forza è senza dubbio la vivacità del nostro carisma, la missione rivolta ai non cristiani nel segno della Consolazione. L’identità nostra, il nostro Dna è vivo, originalissimo, e chiede di esprimersi oggi in forme nuove, diverse. È sempre se stesso e proprio per questo capace di rinnovarsi, di rivelare aspetti inediti a seconda delle epoche, delle culture, delle circostanze. Un altro aspetto di forza è la passione missionaria che davvero non ci manca.
Di debolezze ne abbiamo. Una è rappresentata dalle quotidiane sfide della vita comune, che chiamano ciascuna di noi a uscire da se stessa, verso la «mistica dell’incontro», vissuta non solo con l’altro là fuori, ma prima di tutto, con la sorella dentro casa nella fruttuosa convivialità delle differenze. Siamo in cammino, un cammino non facile ma che assolutamente vale la pena di percorrere. Non si può pensare la missione se non a partire dalla comunione.
Il futuro dell’Istituto? Lo immagino luminoso. Dico luminoso, non grandioso. Stiamo diminuendo numericamente, ridimensionando e ridisegnando le nostre presenze, in vista di un rilancio secondo il fine specifico dell’Istituto che è la missione ad gentes nel segno della Consolazione. Per il futuro vedo un Istituto piccolo, umile, gioioso di essere ciò che è chiamato ad essere, impegnato a «fare bene il bene, senza rumore».
PADRE STEFANO – Personalmente non sono eccessivamente preoccupato per il futuro dell’Istituto, sono più attento alla qualità dell’Istituto. Mi guida una frase della grande santa Edith Stein, Benedetta della Croce: «Noi spesso non sappiamo dove Dio ci conduce. Ma sappiamo che è Lui a condurci. E questo ci basta!». L’Istituto è opera di Dio, è nelle sue mani. Era questa la certezza dell’Allamano e sulla sua scia anche la nostra. I punti di forza della nostra famiglia missionaria sono diversi. Prima di tutto la persona dei missionari. Nelle nostre Costituzioni diciamo chiaramente che «la persona del missionario è il primo bene dell’Istituto», la meraviglia più grande è incontrare questi testimoni, e vederli vivere e lavorare con gioia e generosità nei luoghi più sperduti e difficili dell’umanità. Legata alle persone c’è anche la ricchezza dell’interculturalità: appartenere a diversi popoli e culture e cercare di essere segno insieme della comunione e della solidarietà universale, vivendo e servendo insieme la missione, è un grande messaggio per la nostra società oggi. L’Allamano parlava di «spirito di famiglia».
Certamente siamo umani e, grazie a Dio, non siamo perfetti. Abbiamo anche noi le nostre difficoltà e i nostri problemi a essere fedeli alla grande vocazione che Dio ci ha donato. Anche noi combattiamo ogni giorno con le nostre piccole e grandi infedeltà e fragilità, con il nostro individualismo che rende, a volte, dura la vita comunitaria, con una mancanza di spiritualità forte, per cui ci lasciamo prendere dai modi e dai ragionamenti del mondo. Inoltre, facciamo fatica ad aprirci e accogliere il nuovo, il rinnovamento…
Si parla di crisi di vocazioni, secondo me dovremmo parlare di crisi di valori e d’identità in Europa. Cosa ne pensa?
SUOR SIMONA – Sì, la crisi di vocazioni mi sembra un segno, un aspetto di qualcosa di molto più vasto. E non solo in Europa. Certamente questo fenomeno ci fa pensare. Che cosa stiamo proponendo? Il Vangelo è bello. Il nostro carisma, intuito e accolto dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e poi trasmesso a noi, è un tesoro inesauribile; la vocazione a essere Missionaria della Consolata è vocazione alla gioia. E allora, perché il calo vocazionale? Al di là di tutte le analisi sociali, credo che occorra chiedersi: che cosa proponiamo? Che cosa si vede e si legge sui nostri volti, nei nostri rapporti, nelle nostre scelte concrete? Non si tratta di colpevolizzarci. Ma di responsabilizzarci e di risvegliarci, sì. Non saremo mai, credo, un istituto dai grandi numeri e sono convinta che il discernimento vocazionale debba essere un processo molto serio, approfondito e esigente in tutte le sue fasi: «La porta stretta per entrare e larga per uscire» diceva l’Allamano. Per questo non spero in grandi numeri, ma nel coltivare in profondità la chiamata di quelle giovani donne che portano nel loro cuore «il Dna della Consolata», donne a cui possiamo proporre una vita che è davvero bella e intensissima. Non ho detto facile, ho detto bella, che è molto diverso.
PADRE STEFANO – Circa la crisi vocazionale in Europa non ho molte letture sociali e psicologiche da fare, ma appare evidente la crisi di valori che blocca ogni ideale e sogno. Soprattutto, per me, c’è una crisi della gratuità e della donazione: siamo in una società dove tutto ci è dovuto e in cui io non devo niente; senza la gratuità non si capisce la vocazione, la donazione, l’attenzione all’altro. L’assenza di gratuità provoca anche una mancanza di amore verso i poveri, gli ultimi, gli esclusi. Quando si è troppo piegati su se stessi non si può più dare spazio agli altri; quando i miei problemi sono più grandi e importanti di tutto, non posso chinarmi sulle sofferenze degli altri; quando si perde la compassione non ho più passione per la vita e per la fede e vivo male.
Quali sono le realtà del suo Istituto che secondo lei hanno bisogno di maggiore attenzione e sacrificio?
SUOR SIMONA – Accennavo prima al processo del ridisegnare le presenze. Siamo un Istituto con «lavori in corso», in ristrutturazione, in ripensamento, proprio per essere fedeli nell’oggi al dono originario e originale che abbiamo ricevuto più di 100 anni fa. In questo processo abbiamo riscoperto come fondamento biblico l’icona evangelica della vite e dei tralci. Ogni vite che voglia produrre buon vino ha bisogno di molte cure, tra cui la potatura. Ecco, occorre saper potare i tralci giusti e curare i germogli giusti. La vite potata piange, ma il pianto della vite è preludio a nuovi tralci, a nuovi grappoli, a vino nuovo.
PADRE STEFANO – Ce ne sono diverse perché siamo sempre in cammino e dobbiamo cercare di migliorare, di andare avanti. Ma posso fermare la mia attenzione su tre aspetti che oggi sono più urgenti.
La formazione:
oggi più di ieri siamo chiamati a curare la formazione dei nostri giovani missionari per ben preparare l’avvenire. Senza una buona formazione non possiamo realizzare una buona missione. I giovani di oggi sono molto più preparati di noi di ieri, ma sono anche figli del loro tempo, per cui dentro di sé vivono profonde contraddizioni e fragilità.
Inoltre, c’è tutto un cambiamento sociale che necessita di introspezione e comprensione. In poche parole, oggi dobbiamo studiare molto per capire come funziona la realtà e che cosa possiamo fare per cambiarla o migliorarla. Anche i cambiamenti della teologia e della prassi missionaria meritano grande attenzione e riflessione e tutto questo rientra nella formazione che oggi preferiamo chiamare continua. Continua appunto, per significare che non ci si dovrebbe fermare mai, che lo studio, la riflessione, l’approfondimento dovrebbero essere il nostro pane quotidiano e la base su cui fondare tutto il nostro servizio alla gente nella missione.
La vita comunitaria:
è chiamata a essere il segno più importante e profetico della missione di domani. Le nostre comunità sono espressione dell’interculturalità e per questo sono un grande segno e progetto di solidarietà per un mondo nuovo e migliore. Tuttavia, anche se riconosciamo che è l’elemento fondamentale, tutti sappiamo che è uno degli aspetti più difficili da vivere in profondità. Sinceramente siamo ancora lontani dall’ideale, a volte viviamo la vita fraterna solo «sulla carta» o seguendo ciascuno il proprio gusto. Tutto questo è inconciliabile con la nostra vocazione e dobbiamo sempre essere vigilanti. Questa situazione necessita di una rivitalizzazione della vita fraterna in comunità, tenendo presente che questo è uno dei termometri principali per verificare la qualità della nostra vita evangelica.
L’economia:
la crisi economica, se da un lato è positiva perché ci permette di recuperare alcuni valori fondamentali e l’umanità di ognuno, dall’altro ci fa cadere in un’eccessiva preoccupazione per noi stessi, per la nostra sopravvivenza. Credo che sia un aspetto importante da curare per una conversione profonda. Il futuro della vita consacrata e della missione ce li giochiamo nell’economia. La crisi ci «obbliga» a rivedere il nostro stile e metodo di fare missione, ci invita a maggiore sobrietà e condivisione con la gente, a fare progetti e cammini decisamente insieme e in cordata con i popoli, le comunità e le persone che serviamo, e non da soli, da protagonisti. Un cammino questo che nello stesso tempo deve prendere in considerazione la difficoltà reale di reperire fondi per realizzare la missione e per dare un minimo di stabilità alle comunità.
Ecco, in sintesi, alcuni aspetti che reputo importanti da approfondire perché su questi si fonderà la vita consacrata per la missione di domani, almeno credo. Molto è il lavoro e ardua la fatica che ci attende su questi temi, ma merita la pena porre mano all’opera, perché dall’attenzione alla qualità dipenderà la fecondità della nostra missione e della nostra vita.
Come pensa possano aiutare i laici e cosa potrebbero fare per l’Istituto?
SUOR SIMONA – Abbiamo diversi tipi di rapporto coi laici… ci sono gli amici, i benefattori, i volontari, e ci sono i «Laici missionari della Consolata», ai quali ci lega un particolare rapporto di fraternità nel carisma. Nel senso che i Lmc condividono con noi suore e con i confratelli missionari il dono dello stesso carisma, vissuto secondo le modalità proprie della vocazione specifica di ciascuno. Il primo aiuto che sicuramente essi ci offrono è quello dell’essere parte di una unica famiglia, con tutte le possibilità di dialogo, confronto e crescita nella comunione che questa appartenenza comune ci dona.
PADRE STEFANO – Prima di parlare dei laici nell’Istituto e della loro importanza, vorrei sottolineare un atteggiamento che, reputo, dovrebbe essere alla base di tutto, e cioè la simpatia per il mondo, per la società in cui viviamo. La nostra missione comporta anche una simpatia con la società alla quale desideriamo portare la bella notizia del Vangelo, una simpatia che ci permette di entrare in dialogo con gli uomini e le donne di oggi per incontrarli e per condividere il Vangelo. La simpatia ci conduce ad avere una visione positiva del contesto e della cultura nella quale siamo immersi, scoprendo nella nostra realtà le opportunità inedite della grazia che il Signore ci offre per la nostra missione. In questo modo la missione sarà un cammino di andata e ritorno che comporterà l’atto di dare, ma anche quello di ricevere, in attitudine di dialogo fecondo e costruttivo. Con questo atteggiamento di simpatia possiamo valorizzare anche la presenza dei laici e l’importanza del loro ruolo e servizio nella Chiesa e nell’Istituto. La presenza dei laici è fondamentale nella missione, essi sono l’espressione di un carisma che non appartiene a un gruppo ma che va condiviso con tutti. Il carisma più è donato e più è credibile, fecondo e visibile. Nella diversità dei ministeri tutti i cristiani sono chiamati a rispondere generosamente al Signore che chiama ad annunciare la Buona Novella ai vicini e ai lontani. Oggi siamo chiamati a promuovere una missione condivisa con i laici, con le altre comunità religiose e con tutte le forze d’impegno per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato. Certamente per arrivare a questo è necessaria una conversione profonda che ci faccia superare la mentalità «clericale» che tuttora ci portiamo dentro, in modo che i laici possano esercitare il loro diritto e dovere di partecipare alla conservazione, all’esercizio e alla professione della fede ricevuta e della missione condivisa.
Animazione missionaria. Come l’Istituto la sta portando avanti e cosa pensa dei nuovi metodi di comunicazione come i social network (Facebook, Twitter)? Potrebbero essere d’aiuto?
SUOR SIMONA – Beh, questa per noi è una domanda che si colloca nell’ambito dei «lavori in corso». Credo che anche nell’animazione missionaria la dimensione della comunione sia essenziale: comunità aperte, accoglienti, spazi di ascolto, di preghiera, di riflessione e di azione concertata (in unità di intenti, direbbe l’Allamano!), dove si veda, si assapori il carisma della Consolata in azione.
Vediamo la necessità di aperture missionarie nel mondo virtuale, nelle reti sociali. Stiamo pensando come fare per esserci di più e meglio, in questo mondo. Non abbiamo ancora risposte, ripeto, siamo nei «lavori in corso».
PADRE STEFANO – Per una buona animazione missionaria sono fondamentali due cose: la testimonianza e la forza del Vangelo. Senza testimonianza evangelica missionaria della nostra vita non c’è un’autentica animazione. Ma la missione è fondata sulla forza del Vangelo. Se il Vangelo non ci riscalda il cuore e non lo conosciamo, le nuove tecniche non potranno fare nulla autonomamente. Personalmente credo che non ci sia cosa migliore del Vangelo come metodologia di animazione missionaria ma considerando il contesto sociale in cui viviamo oggi, ritengo che sia anche importante servirsi dei nuovi mezzi di comunicazione affinché la Parola e la missione arrivino a tutti, anche ai lontani. E su questo abbiamo già un problema, perché oggi noi facciamo fatica a entrare in contatto con i giovani e i lontani, abbiamo bisogno di creatività e fantasia evangelica, abbiamo bisogno di «sporcarci le mani di fango» per condividere con gli ultimi la loro situazione e allora saper narrare il Vangelo dell’esperienza, e non solo quello delle parole. La strada dell’animazione missionaria oggi è quella della vita vissuta e condivisa nelle aeree più difficili e povere del mondo. Come missionari dovremmo rimanere costantemente in contatto con la realtà della nostra gente e sentirci «mendicanti di senso». Ma troppo spesso siamo lontani dalla realtà, chiusi nelle nostre sicurezze, rispondiamo a domande che nessuno pone.
Per rispondere alle esigenze della missione attuale è necessaria una grande sensibilità sociale. In questo modo il contatto con la realtà, letta con gli occhi della fede, indicherà il progetto che il Signore propone per noi. È necessario leggere attentamente i segni dei tempi e dei luoghi, e lasciarsi interpellare da questi. L’impegno nella animazione missionaria comporta una profonda conversione personale, comunitaria e pastorale, altrimenti siamo come «cembali squillanti». La missione è sempre nel segno della speranza: speranza fondata in Cristo e nel Vangelo. Sperando contro ogni speranza. Una speranza d’origine pasquale che certamente avrà futuro perché fondata in Lui. Vivendo e facendo così ci saranno, certamente, ancora giovani generosi che sceglieranno di dare la vita per il Vangelo e per i poveri.
Voglio terminare con un messaggio di san Francesco, a me particolarmente caro in questo tempo, perché lo considero d’ispirazione riguardo la nostra presenza costruttiva nella storia attuale e guida della Chiesa e del nostro Istituto. Egli scriveva ai suoi frati inviati in missione: «Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? Contro i Saraceni non possiamo lottare perché non possediamo armi. E poi che cosa si ottiene combattendo? Non possiamo lottare contro gli eretici perché ci mancano argomenti dialettici e preparazione intellettuale. Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere al servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».
Che questo sia il nostro cammino e la nostra strada!
Romina Remigio
Italia/Perù: Torno laggiù e mi uccideranno
Ucciso il 25 agosto 1991 nei pressi di Santa, sulle montagne di Chimbote, in Perù, da due membri di Sendero Luminoso, don Alessandro Dordi verrà proclamato Beato il 5 dicembre prossimo.
Nato il 22 gennaio 1931 a Gromo San Marino, in alta Val Seriana, missionario fidei donum della diocesi di Bergamo, prima di partire per il Perù nel 1980 era stato al servizio della diocesi di Chioggia dal 1954, anno della sua ordinazione sacerdotale, quando andò ad aiutare le popolazioni del Polesine colpite dall’alluvione, al 1965, ed era stato prete operaio e cappellano dei migranti italiani in Svizzera dal 1965 al 1979. Nonostante le minacce esplicite ricevute da parte del movimento guerrigliero, decise di rimanere in Perù. Durante l’ultimo viaggio in Italia salutò i suoi famigliari dicendo loro: «Addio, adesso torno laggiù
e mi uccideranno».
Non ho conosciuto don Sandro, ma, considerando quello che è stato raccontato su di lui e i suoi scritti, mi piace pensare che, se fosse ancora tra noi, prendendo l’Evangelii Gaudium di papa Francesco tra le mani, avrebbe il volto luminoso di chi trova conferma a tutte le sue scelte, di chi, con meraviglia, scopre che da sempre è stato condotto dal Signore.
Quella domenica 25 agosto 1991 don Sandro aveva un appuntamento già fissato da tempo. Un pretesto per chi lo voleva uccidere, un segno per lui, prete contento di essere prete, pur con l’imbarazzo di non sentirsi all’altezza.
È stata questione di brevissimo tempo: l’impatto terribile con la durezza del cuore, lo smarrimento davanti alle armi, il desiderio di trovare una mediazione, «Per favore, non fatelo», la voce strozzata in gola davanti ai suoi aguzzini, e poi l’abbandono fiducioso.
Il silenzio che solitamente avvolge la morte, per don Sandro è rotto dall’intensità della sua testimonianza evangelica. Ucciso lungo la strada verso la parrocchia di Santa, ancora oggi continua il suo cammino nel sangue: sì, perché qualche ora più tardi, una suora bergamasca giunta sul luogo dell’assassinio, ha raccolto un pugno di terra impastato di sangue. Oggi è la reliquia più preziosa che portiamo con noi nella fedeltà al mandato missionario.
La missione nasce dalla dinamicità della fede.
Alessandro Dordi, figlio della terra bergamasca, nato il 22 gennaio 1931, respira da subito quel senso del dovere che scaturisce dall’essenzialità dell’esperienza cristiana e dalla sobrietà della vita di montagna. È il secondogenito di una famiglia che alla fine conterà 9 figli. La profondità di spirito che viene dall’ascolto della natura lo accompagnerà sempre, nell’austera vita del seminario e della formazione, nelle esperienze del Polesine, della Svizzera e poi del Perù, sicuramente tappa, quest’ultimo, in cui esprimerà tutta la maturità della sua adesione al progetto di Dio.
La comprensione della povertà come luogo teologico diventa sempre più concreta man mano che il servizio sacerdotale gli permette di immergersi nella storia degli uomini. I contesti in cui lavora sono davvero diversi: il Polesine segnato dall’alluvione del 1951 lo vede protagonista del quotidiano, capace di un ascolto che ricompone le contrapposizioni, pellegrino nelle case della parrocchia con il «cartoccetto» della cena, pedalatore instancabile per raggiungere un infermo o condividere un dramma familiare. Lo stupore sul volto di chi lo conosce sarà, anche dopo la sua morte, una prova di tutto questo. La Svizzera ridisegna i confini del ministero di don Sandro, ma non il suo cuore che vi farà l’esperienza del lavoro in fabbrica, della condivisione dei disagi dei migranti italiani, dell’ordinarietà della cura della fede. Anche le fratture dell’io, con le paure esistenziali dei momenti di fragilità, non risparmiano il respiro di don Sandro che, grazie alla paternità del vescovo, e all’affetto fermo della mamma, trova una risposta positiva alla sua ricerca di un servizio sempre più intenso.
In Svizzera, tra i migranti italiani si colloca il discernimento che lo spinge oltre oceano. È al termine di un viaggio di ricognizione con il confratello don Sergio, oggi arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra in Bolivia, che una mano di grazia lo aiuta a trovare casa a Santa, nella diocesi di Chimbote in Perù. Adesso la missione assume le caratteristiche dell’ad gentes, proprio il paradigma dell’azione pastorale della Chiesa.
E la storia immerge volti e racconti nel cuore del missionario.
L’amicizia sincera e fraterna con Gustavo Gutierrez, padre della teologia della liberazione, è un po’ come lo scrigno da cui don Sandro attinge per impegnarsi senza limiti nelle opere e nella pastorale, nell’intento di proporre ai suoi fedeli una predicazione concreta, calata nella storia, capace di raggiungere il cuore e la vita della gente, dei poveri soprattutto. Camilla, sua fedele collaboratrice dai tempi della Svizzera, racconterà le sue liturgie quotidiane: dapprima cariche di silenzi, poi con poche parole che riconducono il Vangelo a una famiglia, un ammalato, un disoccupato, un senza Dio, un giovane e a chi può avere più bisogno di una Parola di Grazia. La liturgia non può che diventare storia, altrimenti si riduce ad archeologia. Ed è prendendosi cura dei piccoli e degli ultimi che la liturgia realizza la dimensione profetica che le è propria, e apre gli orizzonti della speranza. Sa bene don Sandro che non si tratta di trovare qualcosa di consolatorio davanti alle fatiche della vita, qualcosa come la promessa di un contentino finale se «farai il bravo». C’è di mezzo il Regno di Dio, una cosa talmente importante da disegnare la speranza di popoli interi, da segnare per sempre il cammino di ogni vita. Questa responsabilità lo accompagna nel pellegrinaggio del ministero lasciando emergere, di volta in volta, attenzioni e gentilezze proprie di un cuore grande. Infaticabile in Polesine, presente in Svizzera, libero in Perù.
La rivoluzione del Vangelo è portatrice di pace.
Don Sandro sperimenta l’odio sulla sua pelle. Anni dopo la sua uccisione, il suo esecutore, raggiunto in carcere dal Vescovo di Chimbote, ammetterà l’odio che correva nel sangue di quel Sendero luminoso che voleva far tesoro dei poveri a proprio beneficio e sentiva di dover combattere, fino al sangue, la verità del Vangelo.
Don Sandro rimane al suo posto, nonostante le minacce, la morte dei due frati polacchi all’inizio di quel suo ultimo mese di agosto del 1991, l’aria sempre più rarefatta, le scritte sul muro di cinta che recitano: «Straniero, il Perù sarà la tua tomba».
Emerge un tratto caratteristico di don Sandro, talmente disarmante da sembrare persino infantile: il cuore libero. Pronto a partire in un baleno per il Polesine dopo pochi giorni dall’ordinazione, ancora avvolto nella festa della rugiada del sacerdozio, capace di offrire agli emigrati italiani in Svizzera una disponibilità di attesa e fiducia, convinto di rimanere accanto al suo popolo peruviano con il sudore di sangue che solo la paura può generare ma che si terge con la fedeltà alla propria vocazione. L’obbedienza è per lui «croce e delizia»: un abbandonarsi alla fedeltà di Dio, un ritrovarsi inspiegabilmente protagonista di una storia più grande di quanto credesse. È il suo un protagonismo «umile», alla ricerca di quelle ragioni che appartengono al cuore e alle quali è impossibile ogni imposizione. Per questo il suo rapporto con i vescovi è sempre onesto, schietto, libero, persino «disobbediente» nella passione per la ricerca, quando si tratta di partire per il Perù. «Per essere utili a se stessi e agli altri – scrive a un amico – occorre avere dentro delle giuste motivazioni». E il suo cuore è capace di tanto che il Vescovo non ha timore di accompagnarlo con la sua benedizione.
Il missionario è una vita che annuncia.
Non ci piove, occorre buttarsi dentro a capofitto. «Per essere missionari – scrive in una lettera del 2 febbraio del 1982 – occorre essere umili, per questo si parla di scambio e servizio. È bene lavorare con molta discrezione, eliminando il comprensibile orgoglio di chi sa di più. Deve scomparire ciò che è proprio dell’italiano, dello spagnolo, del francese e dell’americano, per diventare solo membri del popolo che si serve… Noi missionari dobbiamo imparare a controllarci, a non fare confronti, a mostrare anche nelle critiche un grande amore per il popolo».
Segnato dalla vocazione missionaria, don Sandro chiede da subito di lasciare spazio a questo spirito universale negli anni degli studi teologici, quando nel 1952 viene accolto nel seminario del «Paradiso», la comunità sacerdotale missionaria nata nel 1949 dal cuore immenso di don Fortunato Benzoni e dalla sapiente profezia del vescovo Adriano Beareggi, presenza qualificante nella Chiesa di Bergamo. Preti «votati» alla missione a 360°, a servizio delle diocesi più povere di sacerdoti, presenti nei luoghi di migrazione, promotori della nuova evangelizzazione.
L’ordinazione, che avviene il 12 giugno del 1954 per don Sandro e per altri 26 giovani, tra i quali altri quattro, oltre a lui, della Comunità Missionaria del Paradiso, sigilla tutto questo anche grazie alle parole generose che il vescovo Giuseppe Piazzi consegna loro: «Il sacerdozio è il compimento dell’opera redentrice del Cristo, la quale si è operata sulla Croce… Il sacerdote che vuole fare del bene… che vuole convertire a Cristo… deve voler mettersi vicino alla Croce di Gesù, anzi salirvi sopra col suo sacrificio e con la sua sofferenza».
«È un martire», dice il vescovo Giulio Oggioni la mattina del 26 agosto 1991, giorno solenne per la Chiesa di Bergamo per il ricordo liturgico del suo patrono S. Alessandro, all’inizio della celebrazione di quel giorno, aggiungendo poi, il 1° settembre, nel momento in cui la salma di don Sandro viene adagiata davanti all’altare della cattedrale: «Don Sandro, sei tornato nella cattedrale dove hai ricevuto il ministero pastorale. Sei tornato quasi per dirci che come la chiesa cattedrale è la matrice di tutte le chiese diocesane, così essa è la matrice di tutto il nostro ministero in qualsiasi luogo lo si eserciti. Sei partito da qui, hai esercitato il tuo ministero in Italia e in Svizzera e ultimamente a Santa, in Perù, sempre però come presbitero della tua diocesi. Ho detto spesso che i presbiteri diocesani devono vedere nei loro missionari l’espressione più eccellente della loro missionarietà e tu, ora, sei tornato per dircelo non a parole, ma coi fatti. I due colpi mortali che ti hanno colpito al cuore e alla testa sono la testimonianza di amore e di fede, sono un insegnamento che difficilmente si cancellerà nel nostro cuore e nel nostro intelletto. Per questo sarai per noi una immagine e un modello di come si è ministri e servitori dei fratelli».
Oggi la Chiesa ci riconsegna don Sandro Beato: un uomo, un prete, un missionario, un martire, un impasto di testimonianza di fede, un invito. Sì, proprio l’invito rivolto a ciascuno di essere discepoli missionari, perché il seme dei martiri è fecondità di vita nuova, è la gioia del Vangelo, appunto un Vangelo di gioia.
don Giambattista Boffi
direttore del Cmd di Bergamo
Giambattista Boffi
La «mia» Irene
23 Maggio 2015, a Nyeri, beatificazione di suor Irene Stefani. Nyaatha, la mamma misericordiosa, sarà proclamata beata dal cardinal John Njue di Nairobi, legatissimo alle missionarie della Consolata e ai missionari a cui deve la sua educazione. La cerimonia si svolgerà nel campus della Dedan Kimathi University di Nyeri. La prima beatificazione in assoluto in Kenya, dove da secoli si attende il riconoscimento della santità dei 149 martiri di Mombasa, massacrati nel 1631.
Suor Irene Stefani, nata Mercede, una delle prime missionarie della
Consolata, ha dato la sua vita per amore di Cristo, consumandosi fino
all’ultimo. Condivido con voi alcuni pensieri molto personali.
Ho incontrato suor Irene che ero ancora un ragazzino appena dodicenne. Bazzicando attorno all’altare come fedelissimo chierichetto, mi sono imbattuto in un giovane missionario scherzoso e dinamico che, saputa la mia passione per i libri, me ne ha passati «a gogò». Erano «I racconti della brughiera», «I romanzi del brivido» e le vite di missionari e missionarie in Africa, letture che integravano la mia passione per l’avventura, alimentata sui libri di Vee, Salgari e compagni. Un libro spesso, copertina azzurra con due scarponi bene in vista mi prese gli occhi e il cuore. «Gli scarponi della gloria» di suor Giampaola Mina raccontavano di una bresciana e valsabbina come me, una che, come me, aveva bevuto le acque del fiume Chiese. Lessi quel libro di un fiato, e poi lo rilessi ancora e ancora. Lo conservo tutt’ora, foderato con la classica carta marron del tempo. Un incontro per la vita. Due anni dopo entravo anch’io in seminario.
La «mia» Irene è una ragazzina di un paese di montagna adagiato vicino a un piccolo lago da cui esce il fiume Chiese. È un paese di confine. Poco più in là c’è il Trentino che a quei tempi era sotto l’Impero Austroungarico. Da lì i garibaldini erano partiti nella terza guerra d’indipendenza nel loro tentativo di liberare Trento. Una grande rocca domina Anfo, collegata a una serie di fortificazioni sulle montagne vicine. Migliaia di soldati vanno e vengono. La ragazzina si chiama ancora Mercede. È abituata agli scarponi e al lavoro duro. La famiglia è numerosa, il papà nonostante abbia una locanda e commerci in vino, non naviga nell’oro. Questo tempra il carattere della ragazza sana e robusta, formata al lavoro, alla disciplina, alla fede e alla preghiera. Attiva in parrocchia, si lascia contagiare da quel giovane prete missionario, padre Angelo Bellani, che ha l’Africa nel cuore e sta partendo per il Kenya. Ventenne, nel 1911, Mercede va a Torino e diventa suora alla scuola dell’Allamano: uno che vuole che i suoi missionari siano prima di tutto dei santi. Parte per l’Africa a fine 1914. E si trova gettata nel vortice della guerra, la «grande guerra» che insanguina anche Kenya e Tanganika, opponendo inglesi e tedeschi, mentre anche al suo paese, Anfo, vicino al fronte, la chiesa è trasformata in ospedale militare. Lei e le sue sorelle missionarie sono buttate in quel mare di sofferenza che sono gli ospedali militari dove i soldati di ultima categoria, i forzati dei trasporti, i portatori (carriers appunto) muoiono a migliaia. Si parla di 500mila arruolati a forza e 200mila morti. L’esperienza più dura per lei è a Kilwa Kivinje, un posto sperduto a 300 km a Sud di Dar-es-Salaam, un porto di trafficanti omaniti che razziavano schiavi nell’interno del Tanganika. I morti sono talmente tanti che ogni sera vengono accatastati sulla spiaggia perché la potente marea dell’Oceano Indiano dia loro sepoltura. La montanara è instancabile e senza paura. Un angelo per i carriers. Li conosce per nome, li cura, li consola, dono loro il suo splendido sorriso, li accompagna fino alla fine.
La foto più bella di lei è stata scattata proprio a Kilwa. Il fotografo l’ha bloccata nel pieno dell’azione. L’ha chiamata a posare mentre era impegnata a curare qualcuno. In mano ha una garza, al collo il crocefisso. Interessante quel crocefisso. Non è in posizione da cerimonia, ma da lavoro. Così, col cordino stretto alla gola, poteva essere facilmente gettato dietro le spalle perché non impedisse di chinarsi sugli ammalati e curae le ferite o pulie i corpi martoriati. E quel sorriso che oltre alla bellezza del viso irradia tutta la gioia e la serenità di una donna cui non pesa dedicarsi agli altri perché ha il cuore pieno di Gesù. Ho sempre amato quella foto. L’ho capita di più quando grazie alle nuove tecnologie ne ho fatto emergere i dettagli e ho guardato Irene negli occhi. Una vera missionaria, pronta al servizio del suo Signore che la chiama nei poveri, negli ammalati, nelle persone meno amate. È una donna coraggiosa, conosce la paura, ma l’amore le da tutto il coraggio necessario per gesti di grande gratuità e libertà. Così, nel buio della notte africana, alla luce delle stelle, sulla spiaggia dove una catasta di morti attende l’onda impietosa dell’Oceano che ruggisce contro la barriera corallina, Irene cerca tra i corpi il suo Othiambo (colui che è nato la sera tardi) dato per morto, ma ancora vivo, per farlo rinascere Omondi (nato all’alba) in Paradiso.
È lo stesso coraggio che qualche anno dopo, sulle colline di Gekondi, la spinge alla ricerca degli anziani portati a morire in foresta, in pasto per le iene o altri caivori come il leone o il ghepardo. La foresta. Incute timore di giorno, tanto più di notte. Foresta sono le pulci che ti mangiano le gambe, le formiche caivore su cui è meglio non mettere i piedi, i serpenti, le iene, i mille rumori che ti mettono i brividi. Ma niente ferma la sua passione per chi soffre, chi è ridotto a scarto, sia esso un anziano morente o un bambino abbandonato.
È lo stesso coraggio che trasforma la maestrina in paladina dell’educazione delle ragazze, che va a stanare nei villaggi e sostiene quando lottano pacificamente con i loro genitori che si rifiutano di mandarle a scuola.
L’icona di suor Irene sono i suoi scarponi. Non si portano per stare in casa, in salotto, nella quiete della cappella, nell’intimità del convento. Gli scarponi sono strada, sentirnero, sassi, fango. Sono arrampicarsi sulle erte colline, passare tra le ruvide erbacce, percorrere piste infangate, calpestare le spine. Sono essere in strada per amore, sulle orme di Cristo, alla maniera di Cristo, alla ricerca del suo volto nascosto negli umili, nei poveri, nei sofferenti.
Per questo ho amato questa missionaria dal cuore grande. E mi ha colpito la sua obbedienza. Ha chiesto al padre il permesso per diventare missionaria. E alla sua superiora quello di offrire la sua vita. Le due decisioni fondamentali della sua esistenza. Chiede il permesso non per debolezza, ma per vera umiltà. L’umiltà di chi è cosciente di non essere padrona assoluto della propria vita, ma solo serva per amore. E vuole donare tutto. Fino alla fine.
Gigi Anataloni
Cenni biografici
La biografia di suor Irene è di una semplicità sconcertante. Il 22 agosto 1891, di sabato, quinta di 12 figli, nasce ad Anfo, un paesino del bresciano sulle sponde del lago d’Idro. Battezzata il giorno dopo, è educata alla fede da genitori ferventi cattolici. Una volta cresciuta, diventa zelatrice dell’Apostolato della preghiera e insegna catechismo in parrocchia.
Nel 1905 padre Angelo Bellani, missionario della Consolata, visita Anfo prima della sua partenza per la missione del Kenya. Tra le ascoltatrici attente c’è anche la nostra, quattordicenne, che aveva già manifestato il desiderio di farsi missionaria.
Nel 1907 le muore improvvisamente la mamma, Annunziata. Nel 1909 il padre si risposa e Mercede si trova bene con Teresa, la nuova mamma. Memore dell’incontro con padre Bellani, alla notizia che a Torino sono nate le suore missionarie della Consolata, Mercede chiede al padre il permesso di farsi missionaria. Vinte le sue resistenze con l’aiuto del parroco, don Capitanio, il 19 giugno 1911, ventenne, parte per Torino. Veste l’abito da suora e prende il nuovo nome di «Irene» nel 1912; conclusi i due anni noviziato nel gennaio 1914, si dedica poi alla preparazione per l’Africa e lo studio delle lingue. Il 28 dicembre parte per il Kenya e il 31 gennaio 1915 arriva a Mombasa, dove, salutando la sua nuova terra, esclama «Tokumye Yesu Kristo!», ovvero «Sia lodato Gesù Cristo!», l’unica frase, per il momento, che conosce in lingua kikuyu.
Appena il tempo di inserirsi e di imparare la lingua locale ed è inviata con altri missionari e missionarie negli ospedali militari dove si curano i carriers, i portatori a servizio dell’armata inglese in guerra con i tedeschi che controllano il Tanganika. Prima a Voi, in Kenya, e poi a Kilwa Kivinje, Lindi e Dar-es-Salaam in Tanzania, per quattro anni (1915-1919) Irene si spende come crocerossina (insieme a quarantacinque altri missionari e missionarie della Consolata e Vincenzine del Cottolengo) in quelle anticamere della morte dove venivano curati migliaia di giovani africani arruolati a forza.
Nel 1920 la troviamo a Gekondi (pron. Ghecondi), nella regione centrale del Kenya, dove si butta nell’insegnamento nella scuola per ragazze e nella visita ai villaggi. Infaticabile e scattante, visita i malati, consola i morenti, recupera i bambini abbandonati, convince i genitori a lasciare che le loro figlie vadano a scuola, segue un gruppo di ragazze desiderose di consacrare la vita a Gesù, e tanto di più. La gente comincia a chiamarla «Nyaatha» (mamma misericordiosa).
Nel settembre 1930, dopo l’annuale settimana di preghiera e ritiro a Nyeri, chiede alla sua superiora il permesso di offrire la sua vita per la missione. Nel frattempo, a Gekondi scoppia la peste. Suor Irene ne è contagiata assistendo un ammalato. Muore il 31 ottobre 1930, a 39 anni. Sepolta prima nel cimitero dei missionari al Mathari, alla periferia di Nyeri, è stata poi posta in un’urna di marmo rossastro nella chiesa della parrocchia del Mathari stesso. Dopo la beatificazione sarà trasferita nella cattedrale di Nyeri, dedicata alla Consolata. (Gi.A.)
Terra di frontiera, terra di nessuno, terra di tutti Rumuruti: una cosmopoli «remota»
di Henry Onyango e Gigi Anataloni
Rumuruti si trova pochi decimi di grado sopra l’equatore nel cuore del Laikipia Plateau, distretto di Laikipia Ovest, sulla strada che porta da Nyahururu a Maralal, al termine dei 40 km asfaltati che la separano da Nyahururu, sosta quasi obbligatoria prima di affrontare l’incognita degli altri 120 km di sterrato che portano a Maralal su una strada impegnativa durante il periodo secco e impossibile nella stagione delle piogge.
Il Liakipia Plateu è una immensa area di savana ricchissima di animali: mandrie enormi di zebre, branchi di elefanti che migrano stagionalmente seguendo le piogge, gazzelle e antilopi di ogni tipo, scimmie, serpenti, coccodrilli, leoni e leopardi, e chi più ne ha più ne metta. L’Ewaso Narok è il fiume principale della regione. Nasce dalle falde del Monte Kenya, crea una magnifica cascata, Thomson’s Fall, si disperde nelle zone paludose dette Ewaso Swamp poco più a Nord della cittadina di Rumuruti. Girando lentamente verso Est si unisce alle acque limacciose del fiume Ewaso Nyiro che attraversa il Samburu Park e, passato il ponte di Archer’s Post, continua ancora in una vastissima zona semiarida alimentando le Lorian Swamps. Infine, in Somalia si unisce al Jubba River.
I fiumi e la vicinanza del Monte Kenya, ricco di acque, hanno creato un ambiente ricchissimo di ogni tipo di fauna. Fino alla fine dell’Ottocento gli animali ne erano i padroni assoluti, disturbati di tanto in tanto soltanto dai Maasai o dai Samburu con le loro mandrie, mentre i Kikuyu e i Meru erano arroccati sulle fertili falde del Monte Kenya e dell’Aberdare.
Dal colonialismo all’indipendenza
L’arrivo degli inglesi, all’inizio del secolo scorso, alterò gli equilibri. Cacciati i Maasai, costretti a vivere nel Sud del Kenya, e spinti i Samburu sulle loro aride montagne più a Nord, i coloni bianchi, si stabilirono (settle in inglese, da cui il nome settlers per indicare i coloni) nella zona in maniera esclusiva. Divisa la terra in enormi proprietà di migliaia di ettari, la fecero lavorare da contadini e pastori provenienti da ogni parte del Kenya. Questi lavoratori non erano liberi nei loro movimenti, ma avevano un passaporto speciale da presentare a ogni controllo della polizia. Nessun altro africano, se non i lavoratori, poteva vivere là.
Dopo l’indipendenza, nel 1963, i terreni dei coloni furono riscattati dal governo inglese e ceduti al governo del Kenya. Mentre nelle zone più fertili della Nyandarua County, divisi in piccoli appezzamenti, furono venduti a prezzi simbolici ai contadini kikuyu, nella più arida e disabitata Laikipia County furono accaparrati da grandi latifondisti sia keniani che stranieri.
Si stima che il Laikipia Plateau sia di 10.000 chilometri quadrati, circa 2 milioni e mezzo di acri secondo le misurazioni locali. È l’area con il maggior concentramento di proprietari non africani, soprattutto della nuova «aristocrazia» inglese e americana. Con loro ci sono alcuni baroni locali, politicamente molto influenti. Venti proprietari possiedono il 74% di tutta la terra disponibile. Ci sono circa 36 grandi e piccole proprietà che vanno dai piccoli ranch o fattorie da 5.000 acri (20 km2), a enormi estensioni dagli orizzonti infiniti di oltre 100.000 acri (400 km2). Molte di queste proprietà sono oggi trasformate in santuari per gli animali e meta di turismo. Una delle proprietà più grosse, il Laikipia Ranch, di 100 mila acri (oltre 400 km2, 40.000 ettari, chiamato anche Ol Ari Nyiro Ranch, fattoria delle acque nere), appartiene alla «baronessa» Kuki Gallman, una scrittrice italiana naturalizzata in Kenya, che comperò l’area nel 1974 trasformandola poi in un santuario per gli animali selvatici, con esemplari del raro rinoceronte bianco e della bellissima zebra grevy dalle strisce sottili, che sono a rischio di estinzione. La proprietà confina con la missione di Rumuruti.
Finito il colonialismo, i Maasai e Samburu cominciarono a ritornare con le loro mandrie in quelle terre che loro considerano ancestrali, tollerati dai ricchi latifondisti che chiusero gli occhi al sorgere di piccoli insediamenti ai margini delle loro proprietà, nelle ampie aree riservate alle strade (da costruire), anche per rispondere ai bisogni dei loro lavoratori. Presto tornarono anche altri pastori nomadi, come i Borana e i Somali da Est, i Kalenjin e i Pokot da Ovest, i Turkana e gli Ndorobo (cacciatori e raccoglitori nelle grandi foreste) da Nord, attirati dai grandi pascoli offerti dal plateau. Sorsero qua e là dei piccoli agglomerati di povere costruzioni in legno in stile Far West: qualche bottega in cui si trovava di tutto, gl’immancabili bar, una scuoletta-asilo – che all’occasione diventava anche cappella – costruita dai missionari.
Poi negli anni Ottanta si cominciarono a vendere alcune delle grandi proprietà. Suddivise in centinaia di piccoli appezzamenti per rendee il costo accessibile, furono vendute a società cornoperative di contadini senza terra di ogni provenienza, privilegiando a volte questo o quel gruppo etnico. L’area divenne anche zona di rifugio per tanti altri cacciati dalle proprie regioni a causa dei conflitti etnici che di tanto in tanto ancora oggi infiammano il Kenya. Tra questi, le famiglie di rifugiati provenienti dalla Rift Valley per cui la Conferenza episcopale del Kenya ha acquistato i terreni nel 2008.
La «strada remota»
Il tranquillo villaggio di Rumuruti, così racconta la storia, fu scelto dal governo coloniale inglese come stazione amministrativa e sede di una grande prigione per la sua posizione a un importante incrocio di strade. Ma da dove viene questo nome? Si racconta che i coloni bianchi, i quali regolarmente facevano la strada da Nyahururu a Maralal, chiamassero remote route (strada remota) la pista che univa i due centri. I locali trasformarono l’espressione inglese facendola diventare Rumuruti.
Importante un tempo solo come centro per le fattorie dei settlers e punto di entrata controllato al territorio dei Samburu, oggi Rumuruti è la sede amministrativa del distretto. Cresciuto da villaggio a cittadina per l’aumento della popolazione e il nuovo status, non ha però le infrastrutture necessarie, come banche, alberghi, servizi sociali o altre comodità. È certamente in crescita, pur essendo in un ambiente geograficamente difficile e segnato da grandi problemi di convivenza e distribuzione della ricchezza. La posizione geografica ne fa un centro commerciale importante, con un ricco mercato del bestiame che ogni giovedì, in due località della periferia, richiama gente di tutte le tribù.
La popolazione di Laikipia West sembra povera, ma al mercato il denaro che cambia di mano è tanto. La gente arriva un po’ da ogni parte con mezzi di fortuna o mezzi pubblici per vendere e per comperare. Il giovedì Rumuruti prende vita. Anche i pastori che vanno nelle zone più lontane in cerca di pascolo per le loro greggi vi tornano per il giorno di mercato a vendere qualche animale o a comperare tutto quanto è necessario alla loro famiglia.
Il mercato del bestiame (capre, pecore e mucche) apre presto e chiude presto, e nel pomeriggio l’area è deserta. I mercanti contano i loro soldi, e i pastori, anche se stanchi, si mettono sulla via del ritorno per stare con le loro mandrie. Ma dove depositano i nomadi il loro denaro? C’è una sola banca nel paese, e loro non ci mettono mai piede.
Realtà plurietnica
Rumuruti è una realtà plurietnica con due componenti principali: i gruppi etnici dei pastori, attirati dai grandi pascoli offerti da Laikipia Ovest, e i gruppi degli agricoltori che nella vendita dei ranches hanno visto la possibilità di acquistare terre nuove specialmente per le giovani famiglie, ormai impossibilitate a vivere nei sovraffollati campetti dei loro padri nelle regioni di origine.
Mentre i contadini sono più aperti alla novità e al progresso, le comunità di pastori hanno preservato le loro tradizioni secondo le quali è vitale avere grandi mandrie. Questo fa sì che una famiglia di pastori che acquista un campo, non si accontenti mai di avere un numero di capi proporzionato alla proprietà, ma cerchi di moltiplicarlo sentendosi in diritto di invadere i terreni confinanti quando il proprio è esaurito. Creando così infinite ragioni di conflitto. In più, secondo la tradizione, i morans (i giovani guerrieri) una volta potevano far razzie per accumulare la ricchezza personale necessaria per sposarsi. Quelli che tornavano a casa a mani vuote erano considerati buoni a nulla. Così almeno stavano le cose tra i Samburu, Turkana e Pokot (i gruppi etnici più numerosi). Al giorno d’oggi ci sono ancora residui di questa cultura, i cui effetti si vedono nelle razzie locali, come spiega il presidente del Consiglio parrocchiale di Rumuruti, Emmanuel Achila. I conflitti, però, nascono anche per l’accesso alle scarse risorse naturali quali i pascoli e i pozzi. A questo bisogna aggiungere anche il problema dei confini.
Mancanza di istruzione
Secondo padre Nicholas Makau, viceparroco di Rumuruti e incaricato dell’ufficio di Giustizia e Pace dei missionari della Consolata, molta violenza giovanile va attribuita anche alla mancanza di istruzione e di lavoro.
Nonostante che le scuole locali siano tra le migliori, il livello di alfabetizzazione è ancora molto basso perché molti ragazzi di età scolare sono obbligati dalla famiglia a occuparsi del bestiame. Per troppi genitori la ricchezza materiale è più importante dell’istruzione. Altri lamentano che gli studi creano dei giovani ribelli alle tradizioni e mettono idee strane nella testa delle ragazze, in più studiano senza scopo, perché poi non trovano lavoro.
Ignoranza e mancanza di lavoro certamente alimentano le tensioni tribali. Le tribù in cui l’istruzione è ben avviata godono di maggior prestigio. È un fatto, quando si cerca impiego, soprattutto negli enti governativi, chi è andato a scuola è avvantaggiato sugli altri. È facile, allora, vedere che le comunità i cui figli studiano fanno la parte del leone sul mercato del lavoro.
Ma la mentalità degli anziani vuole che le opportunità di impiego siano distribuite proporzionalmente secondo l’appartenenza etnica e non secondo il merito. E qui sta il nocciolo di tanti altri problemi. David Koskey, un membro del «Comitato per la Pace» della missione, ne fa notare l’incongruenza: «La polizia sta per reclutare nuove leve. Secondo gli anziani deve essere arruolato un numero uguale di giovani da ogni tribù per mantenere l’equilibrio». Il rischio è di avere poi dei poliziotti completamente analfabeti e impreparati al loro servizio. Ma una distribuzione di impiego etnicamente non equilibrata genera una disuguaglianza politica, in cui i gruppi più forti tentano di limitare lo sviluppo degli altri.
Sedentarizzare
La Chiesa cattolica di Rumuruti incoraggia da sempre i nomadi a diventare sedentari, prendersi un pezzo di terra e imparare l’agricoltura così da ridurre la loro dipendenza dal bestiame. Un certo numero di nomadi ha già cominciato a fare così, per quanto strana sembri la cosa. La Chiesa è intervenuta ad aiutare le vittime della violenza esplosa nel post-elezioni a risistemarsi, altre famiglie hanno acquistato terra diventando azionisti di società create apposta per aquistare i latifondi messi in vendita. Tante vittime della violenza che fece seguito alle elezioni del 2007 trovarono rifugio temporaneo nel recinto della parrocchia, ma dopo l’acquisto di cento acri di terreno la missione poté rilocarne 1.500 di cui la maggioranza ora si dedica all’agricoltura. Padre Makau ci dice che rimane ancora il problema di molti acquirenti che non riescono a prendere pieno possesso delle fattorie, per il fatto che i loro padroni legali non sono presenti e non si sa dove trovarli, per cui la transi-zione di proprietà non può essere completata.
Altri conflitti sorgono quando gli animali dei nomadi invadono i campi dei coltivatori distruggendone il raccolto. Oltre all’invasione accidentale di animali domestici ci sono anche le visite di animali selvatici. Non pochi agricoltori hanno il loro terreno vicino al corridoio di migrazione degli elefanti che quando passano mangiano tutti i raccolti, golosissimi come sono di granoturco.
A Rumuruti i matrimoni tra membri di tribù diverse stanno aumentando e favoriscono la coesione pacifica contribuendo a modificare la mentalità ancestrale che male accettava queste unioni, soprattutto nei tempi di tensione fra le varie tribù. Elizabeth Lomeno, mezza Samburu e Turkana, è ora sposata a un Luya. È già nonna e assicura che le cose sono ora cambiate e che la gente non teme più di sposarsi fuori della propria tribù. «Personalmente, auguro che le mie figlie e nipoti siano sempre libere di sposarsi con chi vogliono», dice Elizabeth.
2.
La Parrocchia della santa famiglia Uscire verso i poveri,
Costruire la pace
di Stephen Mukongi
Da cappella sperduta nella savana a fiorente missione e polo di pace e riconciliazione: l’impresa dei missionari della Consolata di trasformare una regione di grandi contrasti e divisioni in una comunità sul modello della Santa Famiglia (Familia Takatifu), cui la missione è dedicata.
L’ombra degli alberi della parrocchia di Rumuruti offre un sospirato sollievo dalla calura insopportabile del plateau a cavallo dell’equatore. Gli alberi piantati da padre Antonio Bianchi (classe 1922) negli anni Novanta, hanno profondamente cambiato l’ecologia del luogo la cui vegetazione, all’arrivo dei missionari della Consolata nel 1991, consisteva sì e no di una mezza dozzina di alberi del pepe (schinus molle) attorno alla casetta di legno in cui abitavano.
Rumuruti è oggigiorno una parrocchia enorme, con un territorio che da Sud-Ovest a Nord-Est misura oltre cento chilometri, e con ben 27 cappelle sparse nella grande piana semiarida che fa da ponte tra gli altipiani della sviluppata e ricca zona agricola centrale attorno al Monte Kenya e l’arido Nord abitato prevalentemente da pastori nomadi e seminomadi.
Nata come cappella di Nyahururu (una missione fondata nel lontano 1954 dai missionari della Consolata, passata poi ai sacerdoti fidei donum della diocesi di Padova e diventata diocesi nel 2002), quando divenne parrocchia nel 1991 aveva già una bella chiesa in muratura dedicata alla Santa Famiglia (Familia Takatifu) e la casetta dei missionari. Da allora la missione ha conosciuto un continuo sviluppo per rispondere alle necessità del luogo. Al presente è una piccola cittadella che comprende un centro pastorale per gli incontri di formazione dei catechisti e dei vari operatori pastorali e leader comunitari, un asilo, una modea scuola con elementari e medie, la scuola secondaria femminile, il dispensario, il convento delle suore Dimesse (fondate a Vicenza nel 1579 dal venerabile Antonio Pagani), la falegnameria, un’officina, un grande orto, diversi campi da gioco, un salone polivalente, più l’indispensabile pozzo per dare acqua potabile a tutto il complesso.
Sviluppo umano integrale
Il territorio in cui opera la missione è caratterizzato da tutte le speranze che la frontiera ispira ma anche da tutti i drammi e le conflittualità che una società in continuo cambiamento si porta dietro, accentuate da una natura apparentemente suggestiva ma in realtà segnata dai capricci del tempo, per cui improvvise o prolungate siccità possono distruggere i raccolti o alterare gli equilibri tra pastori e agricoltori. La regione è costantemente provata da tanti mali: razzie di animali, diffusione di armi leggere, povertà endemica, pratiche tradizionali come la mutilazione genitale (che non giunge agli estremi dell’infibulazione) delle donne e i matrimoni precoci, mancanza di abitazioni adeguate, insufficienza di servizi sociali educativi e sanitari, corruzione, stato precario delle strade e insicurezza.
Questo spinge la Chiesa a darsi come compito prioritario la formazione umana e lo sviluppo sociale, come dice padre Mino Vaccari, parroco dal lontano 1994, quando padre Luigi Brambilla, primo missionario della Consolata a Rumuruti, fu trasferito a Nairobi. Suo aiutante attuale è il keniano padre Nicholas Makau, succeduto ai padri Antonio Bianchi, grande pollice verde, Domenico Galbusera (classe 1930) e Juan Puentes (colombiano del 1946, deceduto prematuramente nel 2010).
La scuola
Nel programma di sviluppo primeggia l’educazione con la costruzione di scuole, allo scopo di aiutare la popolazione a diventare attiva nella lotta alla povertà. Si comincia con l’asilo perché, se si prendono i bambini fin da piccoli, si mettono delle basi serie per la loro crescita. Poi con la scuola ci deve essere il collegio perché molti ragazzi arrivano da zone molto distanti oppure sono figli di nomadi che si spostano di continuo. Il collegio riesce anche a garantire quell’alimentazione adeguata che troppe famiglie molto povere o impoverite non riescono a provvedere.
L’asilo Familia Takatifu, accanto alla chiesa, è stato una delle prime opere costruite per preparare i piccoli alla scuola primaria. Oggi tutte le 27 cappelle hanno il loro asilo che di domenica serve anche come cappella.
Costruire le scuole è stato relativamente «facile», tenendo conto dell’ampia rete di amici e benefattori che si è creata attorno alla missione. Non così facile è invece far sì che i bambini frequentino regolarmente la scuola. Moltissimi genitori non capiscono ancora i benefici dell’istruzione e ignorano la legge del paese che prevede la scuola obbligatoria per tutti. Presi dai problemi di sopravvivenza, se mandano i figli a scuola, si aspettano che lo stato o la Chiesa li mantengano e li educhino gratuitamente.
Anne Munyi, la segretaria della parrocchia, conferma che oggi la missione aiuta circa mille studenti indigenti, di cui venti sono all’università, una quarantina frequentano varie scuole superiori, una quindicina le scuole tecniche, mentre la maggior parte sono ancora nella scuola primaria o matea. Anne spiega che il programma di aiuto scolastico si occupa delle necessità primarie dei ragazzi, ma quando ci sono situazioni disperate si occupa anche delle loro famiglie.
Un modello da imitare
La scuola elementare Familia Takatifu, iniziata con la prima classe nel 1997 come evoluzione necessaria dal primo asilo parrocchiale, è il fiore all’occhiello della missione ed è diventata modello da imitare per tutte le altre scuole dell’area. Quando nel 2005 partecipò per la prima volta agli esami nazionali dell’ottava classe (equivalente alla nostra terza media, ndr), si qualificò terza tra le altre duecento primarie di tutto il distretto, come attesta Peter Mbugua, preside della scuola. Nel 2013 ha migliorato ancora salendo al secondo posto.
Il professor Mbugua attribuisce il successo all’impegno del corpo docente e alla buona disciplina degli scolari. Fa notare quanto la Chiesa abbia contribuito al miglioramento di Rumuruti e riconosce a padre Vaccari il merito di aver voluto la struttura per l’istruzione dei figli della gente locale. «Come questa, anche le altre scuole sostenute dalla parrocchia, hanno validamente contribuito ad affrontare i tanti problemi che ancora sfidano la comunità, come la povertà endemica, l’analfabetismo, e l’ignoranza».
La parrocchia sostiene anche alcune scuole statali. Esempi di questo sono il convitto femminile Maria Consolata presso la scuola di Sosian e il collegio misto di Matigari, pensato appositamente per i figli dei nomadi, per cui la missione ha acquistato il terreno.
Le suore Dimesse dirigono la scuola superiore femminile St. Anthony Pagani che sta davanti alla chiesa parrocchiale. Queste suore, presenti da anni a Nyahururu servivano Rumuruti con una clinica mobile già quando era ancora una semplice cappella. Avendo poi stabilito una sede fissa poco dopo l’arrivo dei missionari della Consolata, ora, oltre alla scuola, dirigono il dispensario della missione e provvedono tanti servizi preziosi per la salute della comunità e nella rete di piccoli dispensari che si vanno creando per rispondere alle esigenze di una popolazione in continua crescita (vedi box).
Acqua
La mancanza di acqua potabile è un’altra piaga della regione. La parrocchia ha già provveduto sette pozzi di acqua purificata che garantisce acqua potabile per tutto l’anno. Il primo pozzo fu quello scavato nella missione stessa, profondo oltre cento metri. A esso è collegato un sofisticato sistema di potabilizzazione, perché gran parte delle acque sotterranee di queste aree, che hanno un suolo di origine vulcanica – il grande vulcano spento che è il monte Kenya domina sempre l’orizzonte -, sono molto ricche di fluoro e questo causa gravi problemi ai denti e alla struttura ossea delle persone (osternofluorosi), soprattutto dei bambini.
La parrocchia costituisce anche un punto di riferimento super partes e sicuro, e come tale è diventata il centro di tante attività sociali. L’ampio salone si presta a molteplici attività: campo da gioco per energici toei di pallavolo, teatro per spettacoli scolastici, auditorium per competizioni di cori, sala gioco per bambini, luogo di incontro per riunioni sociali della popolazione locale, dormitorio per i rifugiati, deposito per cibo in periodi di fame e anche magazzino per i fertilizzanti che il governo provvede di tanto in tanto ai contadini del posto.
Pace e riconciliazione
La pace e la riconciliazione sono una delle preoccupazioni principali. È prioritario fare di tutto per creare più armonia tra i membri delle varie tribù che vivono in Rumuruti. Ancora di recente (2014) si sono verificati nella zona degli scontri tribali apparentemente pilotati da figure politiche. La tensione è continua e cresce soprattutto in concomitanza di elezioni politiche locali o nazionali.
Durante la quaresima del 2008, oltre 4.000 persone si rifugiarono per mesi nei cortili della missione e nelle aule scolastiche, a causa di scontri e razzie che causarono morti e distruzioni.
Per questo la parrocchia, insieme ad altri gruppi, è seriamente impegnata in attività che promuovano la soluzione dei conflitti e costruiscano una pace duratura sia a Rumuruti che nelle altre zone a rischio. Proprio nel territorio della missione la Conferenza episcopale del Kenya aveva allora acquistato una delle grandi fattorie per sistemarvi più di trecento famiglie che erano state sloggiate a forza dalla loro terra nella Rift Valley durante gli scontri che hanno sconvolto la nazione dopo le elezioni di fine 2007. E la missione, di suo, ha sistemato altre 1.500 persone.
Malgrado i cristiani contribuiscano ai progetti di sviluppo e alle attività ordinarie, la parrocchia è ancora lontana dall’autosufficienza. Senza l’aiuto di una vasta rete di benefattori, l’incredibile sviluppo di Rumuruti non sarebbe stato possibile. E neppure sarebbe possibile quella vasta rete di progetti educativi e sanitari di cui tutti, indistintamente traggono beneficio. «Noi guardiamo ai bisogni della gente, e non alla loro religione», dice con forza padre Mino. «La nostra parrocchia è tutta per i poveri, proprio come vuole papa Francesco».
3.
Un universo multietnico Convivere in pace o perire
di Henry Onyango
Una terra contesa da uomini e animali, agricoltori e pastori, latifondisti e senza terra. Ci sono spazi immensi e molte opportunità, angoli di paradiso e distese brulle, ma l’acqua è scarsa e molto dipende dai capricci del tempo. La grande piana che gravita attorno a Rumuruti è una terra di contrasti e tensioni, che hanno già causato morte e distruzioni. L’impegno per la pace e la riconciliazione è essenziale per il suo futuro.
«Ongea lugha ya taifa», parla la lingua della nazione, fu l’invito che padre Mino Vaccari si sentì rivolgere quando, arrivando per la prima volta a Rumuruti, salutò i cristiani in kikuyu, come era abituato a fare a Tetu, vicino a Nyeri, dove era stato parroco per tanti anni. Avrebbe imparato ben presto che la sua nuova parrocchia era abitata da molte comunità provenienti da una ventina di etnie diverse, tutte molto suscettibili a ogni discriminazione tribale.
Rumuruti si trova al centro di un’area abitata da pastori e agricoltori, rinchiusi in piccoli spazi accanto ai grandi latifondi. Nel distretto prevalgono gli agricoltori che occupano altre aree periferiche più fertili, ma nel territorio della missione vivono soprattutto i pastori. Tra questi ultimi ci sono quelli che si sentono i padroni (la «nostra» terra ancestrale, dicono) e trattano tutti gli altri come degli immigrati abusivi. Le razzie di bestiame sono così un metodo convincente per intimidire le comunità arrivate per ultime.
La violenza a volte è tale da tenere in scacco anche la polizia locale. Padre Nicholas Makau pensa che all’origine di questi conflitti si trovino anche pratiche culturali retrograde, mancanza d’istruzione e isolamento. Il padre commenta: «Ci sono giovani che hanno fatto anche l’università, o che sono impiegati governativi, ma quando tornano qui non fanno nulla per aiutare le loro comunità di origine a capire che devono sostenere la pace… ci sono i Turkana che vogliono tagliare tutti gli alberi per produrre carbonella e poi, quando tutto diventa secco, andarsene in altri posti. I Samburu si assicurano i punti di abbeveraggio per i loro animali occupandoli, mentre i Kikuyu e Kalenjin fanno loro guerra per poter usare la stessa acqua per l’irrigazione dei loro campi. Rifiuto del dialogo e tribalismo intollerante hanno causato morte e distruzione».
I Wazee wa Amani
Questa violenza dura da decenni e solo ora alcuni cominciano a capire che non ci sarà modo di sopravvivere se non si accetta di coesistere. Le comunità assistite dalla Chiesa, con l’aiuto di Ong, sono impegnate a lavorare per una pace duratura accettando di controllarsi reciprocamente tramite un comitato locale di anziani col compito di presentare le proprie necessità a un «senato» chiamato Wazee wa Amani, Anziani per la Pace.
David Koskey, uno di essi, conferma che il senato ha già contribuito molto a mettere in moto il processo di pace. «Mentre cinque anni fa membri di tribù diverse si odiavano, oggi le cose sono cambiate per il meglio».
I Wazee wa Amani hanno il compito di prevenire, controllare e risolvere i conflitti facendo dialogare le parti interessate, e monitorando e valutando la situazione. Sono circa settanta anziani, uomini e donne, provenienti da tutto il distretto che si avvalgono di una rete permanente di altri anziani sparsi nei vari villaggi i quali possono facilmente rintracciare il bestiame rubato e provvedere alla restituzione prevenendo in questo modo le possibili vendette.
Lo mzee Koskey dice che collaborano «strettamente anche con gli organi governativi come il Comitato distrettuale per la sicurezza, la polizia locale e il servizio segreto. Ci siamo guadagnati la loro fiducia e così confidiamo che la nostra gente goda sicurezza».
Stando alle parole dell’anziano, l’iniziativa dei Wazee wa Amani ha ridotto in modo significativo le razzie nella regione e assicurato che le varie comunità si proteggano a vicenda. Rimangono ancora piccole trasgressioni, ma senza questa iniziativa le razzie e i conflitti tra i vari gruppi di pastori, e tra questi e i piccoli contadini, avrebbero affondato Laikipia Ovest in un bagno di sangue.
Un cammino lungo
Padre Makau, nel suo realismo, ammette che malgrado gli sforzi fatti resta ancora una mancanza di fondo: non c’è fiducia fra le diverse etnie.
Secondo un ufficiale di polizia le vere razzie che avevano infestato la regione per decenni, ora non ci sono più. Al momento ciò che ancora persiste sono furti di bestiame perpetrati da pochi individui che attaccano qualche casa, soprattutto le più isolate. Dietro queste attività criminali ci sono persone senza scrupoli che pagano della gente locale per rubare il bestiame che poi è venduto a Nairobi o in altre città del Kenya. Il poliziotto, però, riconosce che grazie a una crescente cooperazione delle comunità, attraverso il comitato degli anziani, la polizia può agire con più efficacia nel prevenire i furti e nell’arrestare i colpevoli. Purtroppo non tutti, ancora, cornoperano con le forze dell’ordine rendendo con la loro omertà più arduo il lavoro per garantire sicurezza e pace.
La missione, sostenuta dalla diocesi e dall’istituto della Consolata, è attivamente presente nelle zone dove la violenza è più acuta e dove le forze dell’ordine non osano entrare. Attraverso la Commissione di Giustizia e Pace parrocchiale ha formato i Miviringo ya Mazungumzo ya Amani, cioè i «Circoli di formazione alla pace», e stabilito posti per la discussione pubblica, dove dieci membri di ogni tribù discutono i loro problemi e propongono delle soluzioni.
Padre Nicholas assicura che questi incontri hanno aiutato molto a promuovere la riconciliazione e a superare non poche difficoltà a livello personale e comunitario. Il missionario crede che alla fine, però, saranno i matrimoni misti tra le varie tribù a sanare la situazione. Infatti i matrimoni misti sono in aumento. A Rumuruti risiedono Borana maritati a Kikuyu, Somali sposati con Meru e Pokot con Samburu. Padre Makau conclude: «Alcuni di questi matrimoni misti mi hanno molto sorpreso, perché hanno messo insieme persone di tribù che prima si odiavano profondamente».
4.
Nomadismo e Lavoro Minorile
Una Silenziosa Minaccia
di Lourine Oluoch
Per uno che viaggiasse nelle vaste pianure del Laikipia, non sarebbe difficile incontrare qualche ragazzino o ragazzina sui nove, dieci anni, che, invece di essere a scuola, sta pascolando centinaia di pecore e capre. Non sempre il bestiame è di proprietà della famiglia, spesso il ragazzo è alle dipendenze di qualcuno per questo lavoro.
Le comunità dei pastori nomadi in Kenya hanno tradizioni, come il far sposare ragazze ancora minorenni, la mutilazione genitale e le razzie di bestiame, che fanno a pugni con lo stile di vita di una società multietnica, scolarizzata e sedentarizzata. Ma oggi c’è un altro male silenzioso che sta emergendo, proprio come conseguenza dell’incontro-scontro tra due modi di vita contrastanti, quello tradizionale e quello moderno: il lavoro minorile.
Ogni anno all’apertura della scuola, a gennaio, ci sono presidi che non sono mai sicuri se tutti i loro allievi ritorneranno sui banchi di scuola. Lo stesso accade all’inizio di ogni trimestre a maggio e settembre. La scuola di Matigari, diretta dal professor Hosea Ole Naimado (un maasai), è una primaria mista del tutto speciale nel distretto di Laikipia West. È stata pensata per aiutare i figli dei nomadi dando loro vitto e alloggio mentre le loro famiglie si spostano seguendo le mandrie. Per il preside questa incertezza è causa di grave preoccupazione per il corpo insegnante. Ragazzi e ragazze molto intelligenti, che sono stati nella scuola per un intero trimestre, al successivo non si ripresentano. Potrebbero essere andati in Samburu, a Baragoi o Isiolo (località a oltre 100 km di distanza) seguendo il bestiame di famiglia, ed essere impossibilitati a tornare. Il preside racconta di avere avuto una ragazzina brillante in prima media, era la capoclasse. Ora è scomparsa, e non c’è verso di rintracciarla.
Dove vanno a finire questi ragazzi? Il professore risponde sconsolato: «Per le ragazze c’è il matrimonio precoce; per i ragazzi, invece, se dopo l’iniziazione (il rito di passaggio che li rende moran – guerrieri, ndr) non riescono a mantenersi, si offrono per lavori dipendenti, anche mal pagati, perdendo la possibilità di ricevere una buona istruzione. Crediamo che tutti – volontariamente o forzati dalla miseria – si mettano a lavorare. I ragazzi si prestano a fare qualsiasi tipo di lavoro. Lungo i fiumi dove fiorisce un po’ di agricoltura, è facile vederli lavorare nelle coltivazioni. Sono lavoratori che costano poco».
C’è tutto un mercato per il lavoro minorile. I ragazzini poveri, che non si possono permettere il convitto, sono facilmente indotti a servire come pastori dalla stessa famiglia o da altri. Molti lasciano la scuola per il lavoro non perché non vogliano studiare ma per far fronte alle necessità della famiglia.
«È triste per gli insegnanti perdere degli studenti all’inizio di ogni nuovo semestre e non sapere dove siano finiti. Si può allora capire perché ci pensino due volte prima di lasciare andare a casa uno scolaro a prendere del denaro sia per la tassa scolastica o per comperarsi cose necessarie alla scuola. Il rischio più grande è che il bambino non torni più. Se ci si appella ai genitori, la risposta è che non hanno mezzi sufficienti per mantenere il figlio o la figlia a scuola. Così ci sono insegnanti che spesso si sobbarcano anche le spese del ragazzo: quadei, matite, divisa, e perfino le scarpe», dice la signora Jane Ndegwa, preside della scuola a Simotwa. Succede così che i genitori lascino che i figli frequentino la scuola solo se tutto è gratuito. In questo modo l’alunno diventa in tutto dipendente dall’insegnante o da chi lo aiuta.
Anche Peter Mwangi, incaricato distrettuale per i giovani di Laikipia Ovest, riconosce che la gioventù della regione non ha buoni modelli da seguire: «I ragazzi non trovano nella loro comunità esempi da emulare e con cui identificarsi. Anche le figure politiche locali, quando sono invitate a venire a parlare ai ragazzi, come durante la giornata internazionale della gioventù, evitano il problema. Noi vorremmo che appoggiassero di più il nostro progetto educativo e che dicessero chiaramente alla comunità di finirla con tradizioni arretrate e di impegnarsi di più ad aiutare i loro figli a ricevere l’istruzione di cui hanno diritto per migliorare la loro vita».
Peter Mwangi fa pure notare che i bambini soffrono per la negligenza dei genitori che per ignoranza valutano di più il lavoro che i piccoli possono svolgere a casa che non l’educazione. «L’ottanta per cento della comunità non ha un vero lavoro: o sono pastori nomadi oppure lavoratori avventizi. Nonostante tutto, non si deve dimenticare la Sezione 53 della Costituzione che stabilisce in modo chiaro che i genitori hanno l’obbligo di provvedere per i loro figli. La scusa che non hanno lavoro fisso non tiene, infatti riescono a provvedere alle loro necessità giornaliere e potrebbero risparmiare qualcosa anche per i loro figli». Purtroppo la comunità è anche affetta dalla sindrome di dipendenza ed esige di essere aiutata appena ne vede l’opportunità.
Pensata per i nomadi
La Chiesa, per loro fortuna, si è fatta avanti, e per aiutare i bambini dei pastori nomadi ha comperato il terreno dove il governo ha costruito la scuola di Matigari. «Questa è la sola scuola pubblica con convitto nella regione, aperta soprattutto ai bambini maasai, samburu, turkana, pokot, somali e borana. Non ci sono solo gli scolari che risiedono al convitto, ma anche quelli che, vivendo vicino, possono andare e venire dalle loro case».
Nelle vicinanze della scuola si è già stabilita una piccola colonia di nomadi che non potendo pagare le tasse scolastiche hanno costruito le loro capanne permettendo ai figli di venire a scuola senza stare nel convitto. I piccoli sono accuditi dalle nonne mentre i genitori si spostano con gli armenti in cerca di pascoli. Il direttore, che è padre e insegnante, insiste sul fatto che in questa area è urgente soccorrere i bambini che per ragioni varie non vanno a scuola. «Il ragazzino che si deve fare una decina di chilometri per venire a scuola o all’asilo va aiutato. I bambini vogliono imparare ma la povertà è un grosso ostacolo per loro. Se qualcuno potesse aiutarli ad entrare nel convitto, potrebbero essere salvati».
5. Curare gli infermi
di Cynthia Awor
I pastori nomadi hanno sempre creduto nell’efficacia della medicina tradizionale e nell’uso di erbe medicinali. Ma non tutto si può curare con esse, e allora normalmente sopportano i loro mali in silenzio e solo quando non ne possono più cercano aiuto all’ospedale della missione. Questo è ciò che ci dice suor Anna Muturi (nella foto), delle Suore Dimesse, che dirigono il Dispensario Cattolico a Rumuruti.
Le Suore Dimesse aprirono il Dispensario di Rumuruti nel 1992. Suor Anna dice che «in questa area c’era veramente un grande bisogno di un centro per la salute, così la missione pensò all’ospedaletto che assiste gioalmente i malati. Ogni primo giovedì del mese offriamo servizio oculistico e odontoiatrico. Abbiamo pure un reparto di maternità e pediatria».
Secondo la suora il servizio che il dispensario offre, incontra molti problemi, non ultimo quello finanziario, perché la gente pensa che essendo il dispensario cattolico, i servizi debbano essere gratuiti. Naturalmente tutti gli ammalati vengono curati, e nessuno viene mandato a casa senza essere stato esaminato. Spesso però si presentano persone che, oltre alle medicine, hanno bisogno di altro e allora, quando si può, il dispensario provvede per i più poveri anche vestiti e cibo. Suor Anna dice: «Un gran numero di infermi soffrono di depressione. Allora li ascoltiamo e consigliamo. Parliamo loro di Dio e diamo loro informazioni su come migliorare la loro salute. Questo è il nostro modo di evangelizzare». L’orario del dispensario è molto flessibile e sempre le suore rispondono alle emergenze, sia di giorno che di notte, e sovente perfino durante le funzioni religiose.
In Thome, a sedici chilometri da Rumuruti, c’è un altro piccolo dispensario con tre letti e con un piccolo reparto maternità. È stato fatto nel 2011 grazie all’aiuto di un gruppo di medici italiani di «Africa nel Cuore» che hanno voluto sostenere gli sforzi della missione. Il dispensario ha allargato oggi i suoi servizi in altri settori: una falegnameria, un allevamento di galline, un orto sperimentale e un servizio di acqua potabile.
Ambedue i dispensari, Rumuruti e Thome, offrono servizi di prim’ordine: consulte, analisi, accertamenti, distribuzione di farmaci, e fa l’impegnativa presso altri ospedali regionali nei casi più complessi. Sono dotati anche di farmacie ben foite, grazie all’aiuto di amici e Ong. Ogni dispensario è servito da un’infermiera, un farmacista e un tecnico di laboratorio. Occasionalmente si uniscono anche i medici italiani. Per il futuro, Suor Anna vorrebbe anche un reparto maternità più ampio, in quanto gli ospedali del distretto sono inadeguati e tante donne devono andare fino a Nyahururu.
Questi dispensari cattolici sono orgogliosi dei servizi che offrono alla gente; non trattano solo corpi ma in primo luogo persone. Costituiscono un investimento per il futuro e aiutano a creare stabilità sul territorio. Il loro contributo non si può valutare solo in termini economici, ma va visto e misurato soprattutto col numero di vite che toccano e migliorano.
6. Un uomo, una missione
Dopo 55 anni di servizio missionario, padre Vaccari è ancora sulla breccia. Con il suo passo quieto, il cuore grande, l’occhio attento ai bisogni delle persone e la capacità di dar fiducia ai collaboratori, continua a camminare con la gente di Rumuruti nell’ostinata ricerca della pace, non fondata sulle promesse dei politici, ma su Cristo Gesù, il solo che può far di tutti un’unica famiglia.
Francesco (per la Chiesa) Mino (per il comune) Vaccari, nato nel 1930 a Baiso (Reggio Emilia), entra ragazzino nei missionari della Consolata il 1° ottobre 1942, durante la guerra. Ordinato sacerdote nel 1959, arriva in Kenya il 28 agosto 1960. Apprendista di lingua e cultura kikuyu a Kiangoni nel Nyeri, conosce due missionari speciali che saranno suoi modelli di vita: padre Enrico Manfredi (1896-1977), vero «uomo di Dio», e padre Bartolomeo Negro (1903-1967), l’«uomo di tutti», che voleva un gran bene alla gente. Nel 1962 è mandato a Nyahururu (sull’equatore) con l’incarico di cornordinare le scuole. Vi rimane fino al 1969, vivendo il passaggio dal colonialismo all’indipendenza, e lascia il posto a don Luigi Paiaro, sacerdote fidei donum di Padova, che nel 2003 diventerà il primo vescovo di Nyahururu con l’omonima diocesi che comprende la Nyandarua County e il distretto di Laikipia West.
Nel 1970 è trasferito a Tetu (fondata nel lontano 1903), una missione dalla gente «difficile» (si diceva allora), ma non povera, perché grazie alla fertilità dell’ambiente tutti hanno il necessario per vivere. Sono gli anni del post-concilio, tempi di contestazione, sì, ma soprattutto rinnovamento.
Lui, missionario sbarazzino (come lui stesso si definisce), ma dal carattere quieto e tollerante, si butta nella pastorale parrocchiale affascinato dalla nuova visione conciliare di Chiesa «popolo di Dio». Il confronto spirituale con altri missionari amici e l’amore dato alla gente e ricevuto in cambio, lo aiutano a superare anche i momenti più difficili. Rimane a Tetu 17 anni, fino all’87, godendo anche dell’amicizia e stima del vescovo di Nyeri, mons. Cesare Gatimu. Visita tutte le famiglie casa per casa, promuove le piccole comunità cristiane, forma catechisti, leader e animatori della liturgia domenicale e costruisce ben 22 cappelle periferiche, il tutto grazie alla capacità di coinvolgere persone e comunità nel cammino.
Eletto superiore regionale del Kenya nell’ottobre 1987, serve per due mandati e a fine 1993 è nominato parroco di Rumuruti facendo staffetta con padre Luigi Brambilla (brianzolo, classe 1939), eletto vice superiore regionale. Abituato a parlare kikuyu, a oltre sessant’anni deve imparare sul campo il kiswahili, la lingua franca necessaria in quella realtà multietnica. L’impatto iniziale è duro: isolamento, comunità sparse, grandi distanze, mancanza di strade, povertà, molti rifugiati interni con tanti orfani, nomadismo. È la missione di frontiera, ai margini delle fiorenti comunità cristiane del Nyeri e del Nyandarua, terra di conflitti e conquista. Si rimbocca le maniche cominciando dalla formazione dei catechisti e focalizzandosi su quello che è più urgente: l’educazione e la lotta alla povertà per costruire una comunità cristiana che viva in pace. Ma non fa tutto da solo, con la sua pacatezza riesce a mobilitare una marea di collaboratori sia in loco che in Italia, soprattutto nelle generose terre dell’Emilia e della Brianza.
Dietro la storia di queste pagine c’è lui, un missionario d’azione e di poche parole. Uno che fa bene il bene, senza far rumore.