Good morning Korea


Diciotto missionari provenienti da undici paesi diversi, sparsi in Asia fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore del grande continente. Questa la realtà dei missionari della Consolata tra Sud Corea, Mongolia e Taiwan. Questo è il pensiero che mi accompagna «turisteggiando» a Seul.

Cammino per le strade di Seul ormai da un paio d’ore. Mi sono preso una giornata di vacanza per girare liberamente in città, visto che forse è l’ultima volta che ho l’opportunità di farlo. La capitale coreana mi piace molto. Ho imparato a sentirmi a casa qui, pur senza conoscere la lingua della gente, cosa che mi avrebbe permesso di apprezzare di più un mondo tanto diverso, eppure così affascinante. Vagolo senza meta, dopo aver pagato il dazio alla cultura visitando il tempio confuciano di Jongmyo che ancora mancava alla mia agenda di turista, ovviamente interessato, in quanto missionario, alle religioni dell’Estremo Oriente. Bighellono per Tapgol Park, dove un anziano mi ferma, mi chiede da dove vengo e con fatica, in un inglese improbabile, mi racconta perché quel luogo è così importante per l’anima coreana: «Independence from Japan». Mi racconta fatti che risalgono all’inizio del secolo scorso, ma che sembrano di millenni fa se si pensa a cosa è successo qui da cento anni a questa parte e alla velocità che la storia ha impresso a questo angolo di mondo. La Corea (ma lo stesso si può dire di Taiwan, altro posto che ho imparato a conoscere in questi anni) è passata dalle stalle alle stelle alla velocità della luce: sulle rovine di un paese frantumato e diviso dalla guerra civile degli anni ’50 si è innestato il turbo di un progresso vertiginoso.

Zigzagando per il centro

Seul è immensa. Venticinque milioni di coreani, dei cinquanta complessivi che compongono la popolazione nazionale, vivono in questa immensa area metropolitana che non dista molti chilometri dal sempre turbolento confine con la Corea del Nord. Tuttavia, almeno in centro, ormai mi oriento senza troppa difficoltà, anche se ogni tanto sono costretto a estrarre la cartina dallo zainetto perché sotto ai grattacieli la città ti può confondere e il fatto di girare a sinistra invece che a destra ti può complicare non poco la vita. Gli isolati sono enormi e, se ci si sbaglia, i percorsi si possono allungare a dismisura prima di rendersi conto che si sta camminando nella direzione errata. Guardo la mappa quasi di nascosto perché il coreano è solitamente persona gentilissima e si avvicina come un falco appena intuisce la benché minima difficoltà del turista. Iniziano allora conversazioni surreali con l’improvvisata guida che non capisce dove tu vuoi andare, ma ti spiega come fare a raggiungere luoghi di cui manco avresti immaginato l’esistenza. Quanto mi piacerebbe poter andare oltre agli stereotipati annyeonghaseyo (buongiorno) o gamsahabnida (grazie), le uniche due parole di coreano che conservo da un viaggio all’altro. Ho provato ad ammucchiae qualcuna in più nel mio improvvisato bagaglio di viaggiatore, ma il coreano è lingua impegnativa, il cui studio esige dedizione costante e pratica. Alla fine mi sono arreso.

Oggi, dopo questi anni di servizio all’Istituto che mi hanno portato a viaggiare più volte in Oriente, mi resta la nostalgia, condita da un pizzico di rammarico, dei passi non fatti, dei libri non letti… dei film non visti, insomma, della Corea che avrei potuto esplorare anche dalla mia camera e che invece è rimasta sconosciuta. In questi anni mi sono accorto che per capire l’Asia (e la Corea non fa certo eccezione) non basta il «mordi e fuggi», occorre immergersi, entrare nel tessuto, accettare la sfida di rimanere ai margini di un mondo che quando inizia ad essere minimamente intellegibile è soltanto perché vuole fuggire di nuovo, inseguito senza concedersi. Percorrendo Insa-dong, la via dei turisti, non posso far altro che strisciare i piedi con fatica in mezzo a gente di ogni dove. Riconosco facilmente alcuni americani – sono ancora parecchi, molti di loro militari – alcuni europei. Ogni tanto, forse, mi pare di riconoscere un accento australiano, che poi magari è neo-zelandese, o canadese, o chi lo sa… Per non parlare delle migliaia di asiatici che intasano i piccoli negozietti di souvenir: cinesi, giapponesi, taiwanesi, vietnamiti, eccetera, eccetera. Insa-dong è una babele orizzontale, una spremuta di mondo in poche centinaia di metri che terminano in Yulgok-ro, la grande arteria che separa il turista dai tesori della Seul reale. A destra il meraviglioso palazzo di Changdeokgung, patrimonio dell’Unesco, costruito originariamente nel 1405 e a tutt’oggi uno degli edifici storici meglio conservati della nazione. Camminando a sinistra, si raggiunge invece il palazzo di Gyeongbokgung, la più grande delle cinque residenze reali che arricchiscono oggi la Seul storica e culturale. Distrutta completamente durante la dominazione giapponese e ricostruita grande e bella per urlare in faccia al mondo che il corpo muore ma l’anima sopravvive e alimenta la fiamma dell’orgoglio nazionale. Come quello del vecchietto di Tapgol Park: «Independence from Japan».

Nel cuore della gente

Evito i palazzi storici e opto per tornare sui miei passi, puntando diritto verso Jogyesa, il più famoso tempio buddhista di Seul e il più frequentato della Corea. Entro nel grande cortile che si apre di fronte al tempio principale e mi fermo a guardare tante persone che arrivano come formiche, lasciano le scarpe davanti agli ingressi ed entrano, piazzandosi in ginocchio di fronte alle tre grandi statue di Buddha, raffigurato nelle principali fasi della vita: giovinezza, età matura e vecchiaia. Chissà cosa portano nel cuore queste persone che si inchinano ritmicamente di fronte all’Illuminato. Che pensieri si celano dietro i mantra con cui ritmicamente recitano le loro preghiere? Non si immaginano neppure che dietro di loro, a pochi metri di distanza e in rispettosa attesa, un missionario cattolico li sta guardando con interesse e timore, chiuso nel suo mutismo ignorante. Vorrei fare tante domande… non consisterebbe anche in questo il dialogo interreligioso?

Mi smarco dalla folla religiosa di Jogyesa e cammino fino a immergermi in quella chiassosa, variopinta e globalizzata di Myeong-dong. Se non fosse per le scritte in coreano potresti pensare di essere a Milano, New York o Rio de Janeiro… luci, musica, colori, persino i vestiti della gente sembrano essere stati fotocopiati ed applicati in serie alle varie persone. E qui che Asia c’è? Cosa vede il missionario, in piedi, in rispettosa e curiosa attesa dietro alle vetrine di uno delle migliaia di negozi di maquillage che intasano i marciapiedi con i loro banchetti promozionali? O di quel negozio di moda giovanile, dove personale bellissimo, frutto di sacrifici non indifferenti in palestra e cosmesi aspetta le frotte di giovani che vi accorrono rapidi. Che Asia è quella che si apre davanti ai miei occhi, così familiare che mi sembra di averla già vissuta altrove, eppure così diversa? Che pensano quei giovani? Che cercano nella vita? Cosa studiano? Andranno al tempio?

Qualcuno di essi forse andrà in Chiesa. Il Cristianesimo si è diffuso moltissimo in Corea, soprattutto quello protestante, diviso in centinaia di chiese dalla diversa denominazione, ma dalla simile architettura. Le grandi croci luminose che squarciano il cielo notturno della capitale con raggi di vario colore confermano che la presenza evangelica è numerosa e appariscente. A Myeong-dong si staglia la cattedrale cattolica, dedicata all’Immacolata Concezione. Costruita originariamente in una piazzetta del vecchio quartiere, conquistando metri quadrati a ristoranti e negozietti, oggi la grande chiesa si è ritagliata una spianata importante e un colpo d’occhio più imponente. Come i cattolici stessi, del resto. Anch’essi hanno guadagnato il loro spazio importante in seno alla società coreana. Oggi, sono circa il 10% della popolazione, ben organizzati, strutturati, con un clero abbondante e efficiente.

Il gruppo dei missionari della Consolata in Asia (Corea, Mongolie e Taiwan) con i membri della direzione generale dell’Istituto.

I missionari e l’Asia

Dentro questa chiesa, dal 1988, siamo anche noi Missionari della Consolata. Ci rifletto un po’ nel lungo viaggio in metropolitana che mi riporta a casa. Penso ai vari confratelli che si sono succeduti in questo angolo di mondo e alle domande che sicuramente devono essersi fatti per confrontarsi con la realtà quotidiana della Corea. Penso ai giovani coreani che hanno intercettato nel loro cammino, al linguaggio che hanno dovuto imparare per confrontarsi con loro. Sette di essi sono oggi Missionari della Consolata e lavorano in varie parti del mondo. Uno, padre Han Pedro, è rientrato in Corea e aiuta i nuovi arrivati a entrare più velocemente nel tessuto della società coreana. Lui per primo sa che non è facile capire la Corea, al punto che lui stesso ha sentito il bisogno, dopo tanti anni passati in Italia e in Brasile, di rimettersi a studiare. La sua sensibilità verso la pace e la giustizia lo ha portato ad avvicinarsi al tema del riavvicinamento fra le due Coree, un campo vastissimo per esercitare il ministero missionario della consolazione.

Altri si sono dedicati al dialogo interreligioso, cercando di comunicare nella vita di tutti i giorni, negli incontri di studio specializzati e nella condivisione di momenti di spiritualità, la ricchezza del proprio essere cristiano, il valore della comunità, la bellezza dell’interculturalità. Altri ancora hanno cercato i poveri, gli scarti di questa società del benessere, e sono andati a vivere con loro, lontani dalle luci del centro e dai grandi schermi digitali che dalle pareti dei grattacieli trasmettono la pubblicità di paradisi artificiali e inni al consumo. Oggi, diversi migranti giunti dall’Africa o dall’America Latina chiedono aiuto a missionari che li capiscono perché ne parlano le lingue e ne hanno conosciuto le culture provenendo dai loro stessi paesi di origine o avendovi lavorato.

A cena racconto il giro che ho fatto. Conto i confratelli intorno alla tavola. Ci sono tutti perché si sono riuniti per salutarmi visto che presto ripartirò per l’Italia. Seul è proprio immensa, mi dico, e loro sono così pochi. Mentalmente allargo lo sguardo oltre la Corea per cogliere anche il saluto dei tre missionari che vivono a Taiwan e dei quattro confratelli della Mongolia. La Consolata in Asia è tutta racchiusa in quel pensiero che subito diventa preghiera: 18 missionari provenienti da 11 paesi diversi, persi fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore di questo grande continente.

Ugo Pozzoli
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Già direttore di MC, ora consigliere generale dell’istituto con responsabilità per l’Europa e l’Asia.




Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia


“Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma.

Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero.

Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare.

Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute  a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare – infatti –  è verbo che dice vicinanza, frateità, empatia. Verbo che sta tra la proclamazione e il silenzio, molto caro all’Asia. Questa espressione allude anche all’idea di segreto, molto tipica delle culture asiatiche e di quella mongola in particolare: la Parola comunicata esige di essere pronunciata con la stessa profondità da cui si origina e mirando a suscitare in chi l’ascolta la stessa densità di silenzio e di stupore in cui nasce. Ne consegue uno stile che si potrebbe riassumere accennando alla radice sanscrita del verbo “sussurrare”: svar, suono/suonare. La missione come una melodia che fa vibrare il cuore. Esigenza di bellezza, armonia, equilibrio, proporzione, discrezione”.

Sono queste parole dello stesso Giorgio, tratte dal testo con cui ha difeso il suo elaborato. Da esse è facile capire come lo stile del sussurro apra al missionario e gli permetta di approfondire il discorso sulla contemplazione e la preghiera come autentiche vie di evangelizzazione, sia per la dinamica stessa della missione, sia per la particolare sintonia con un contesto fortemente segnato dalla dimensione spirituale.

Il dibattito che è seguito alla presentazione del candidato ha permesso al Direttore della tesi e controrelatori (il Prof. Benedict Kanakapally e i professori Luciano Meddi e Donatella Scaiola rispettivamente ) di chiarire ulteriormente alcuni punti del missionario presentato da padre Giorgio. Il successo è stato garantito da un giudizio estremamente positivo sia sul lavoro scritto che sulla presentazione che di essa è stata dato.

Al termine, prima dei ringraziamenti da parte del candidato, un ospite mongolo, il prof. Selenge, studioso cattolico della cultura del suo paese, amico personale di Giorgio e suo sostegno in questo lavoro di ricerca, ha presentato un segno tradizionale di onore e rispetto, offrendo al neo dottore  dell’Arul (latte essicato) e un drappo azzurro, insieme ad auguri di ogni bene.

Padre Giorgio ripartirà fra pochi giorni per preparare la celebrazione del Natale con la sua piccola comunità cristiana di Arveiheer, continuando con essa a “sussurrare” il Vangelo in Mongolia e al grande continente asiatico.

Padre Giorgio Marengo difende la sua tesi all'università urbaniana. - Articolo su Dottorato Giorgio Marengo “Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma. Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero. Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare. Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare

Padre Giorgio Marengo difende la sua tesi all'università urbaniana. - Articolo su Dottorato Giorgio Marengo “Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma. Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero. Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare. Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare




Mongolia: ordinato primo sacerdote mongolo


Nel VII secolo i primi a portare il Vangelo sono i Nestoriani. Nel XIII secolo arrivano i cattolici. Una Chiesa vivace e numerosa è spazzata via sotto la dinastia Ming nel XVI secolo, quando il Buddismo tibetano diventa religione di stato.

Solo nel 1992 possono rientrare i primi missionari cattolici. Rinasce una piccola comunità cristiana. Che cresce velocemente. E ha ora il suo primo prete. Enkh-Joseph è il primo sacerdote cattolico nativo della Mongolia. È stato ordinato nella cattedrale dei santi Pietro e Paolo il 28 agosto 2016, alla presenza di quasi tutti i fedeli cattolici del paese, oltre che di molti ospiti stranieri. La Chiesa cattolica in Mongolia conta poco più di 1.500 battezzati e ha accolto con gioia questo evento storico.

La storia vocazionale di Enkh inizia in famiglia, quando le sue sorelle maggiori si avvicinano alla Chiesa e ricevono il battesimo. Nel giro di poco s’interessa anche lui e comincia a frequentare la neo istituita parrocchia della cattedrale di Ulaanbaatar. Quando lo conosciamo noi è un ragazzino timido e gentile, che comincia a farsi delle domande importanti. Suo papà è morto quando lui era piccolo e la mamma quando sente del suo desiderio di entrare in seminario è un po’ titubante; così Enkh accetta il consiglio materno di concludere prima l’università e si iscrive a un college di Ulaanbaatar. Il diploma arriva presto e a questo punto la mamma non oppone più resistenza. È pronto per il seminario: ma quale, visto che in Mongolia non ce ne sono? La diocesi coreana di Daejeon è in ottimi rapporti con la Prefettura Apostolica di Ulaanbaatar e così inizia il cammino di formazione presso quel seminario, reso più impegnativo a motivo della lingua diversa che deve imparare. Adesso parla meglio di un coreano, dicono. Più di sette anni di studio e finalmente arriva il grande giorno.

L’evento – di portata storica – è preparato per mesi da un’apposita commissione. Visto che la capienza della cattedrale è di 600 posti, si deve allestire uno spazio all’esterno e nella vicina palestra dei Salesiani, per consentire alla gente di seguire da vicino la liturgia. Sono presenti, oltre al vescovo locale mons. Wenceslao Padilla, il nunzio apostolico in Corea e Mongolia mons. Osvaldo Padilla e il vescovo della diocesi coreana di Daejeon mons. Lazzaro You.

Sono presenti anche alcune autorità civili e religiose. È molto toccante il momento in cui l’abate buddista Choijamts, figura autorevole e ben nota del Buddismo mongolo, vuole salutare il novello sacerdote e fargli scendere dal collo lungo le spalle una sciarpa azzurra in segno di rispetto. Un gesto simbolico che parla al cuore della gente e dice dignità, riconoscimento, onore. Al termine della celebrazione arriva anche il sacerdote ortodosso della chiesa della Santissima Trinità di Ulaanbaatar, non lontana dalla cattedrale cattolica. Un altro gesto di grande significato, questa volta ecumenico: padre Alexey omaggia don Enkh di un bassorilievo a icona, che rappresenta san Nicola, venerato tanto dagli Ortodossi quanto dai Cattolici.

Il giorno seguente c’è la prima messa presieduta da don Enkh. Il clima è più raccolto, molta meno gente e più spazio ai sentimenti. Nell’omelia don Enkh si sofferma sul versetto biblico scelto per l’occasione: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). Oltre a sentirsi chiamato come il giovane Samuele (il brano tratto da 1 Sam, 3 era la prima lettura del giorno precedente) Enkh ricorda il momento in cui ha sentito in maniera nuova la forza della croce: «Era il lunedì dell’Angelo dell’anno scorso; tutto avrebbe dovuto essere in festa, ma io non riuscivo a percepire la gioia della risurrezione. Riflettendo capii il motivo: non avevo voluto partecipare alla croce del Signore, ecco perché adesso non potevo provare l’immensa gioia della Sua risurrezione…». Ecco perché adesso si augura di saper seguire il Signore sempre e comunque, per poter irradiare la Sua vita nel ministero sacerdotale.

Dalla piccola comunità di Arvaiheer sono in 15. Partecipano con molta commozione. Chi, come Perliimaa-Rita, è arrivata alla fede ormai avanti negli anni è ancora più felice nel vedere un giovane mongolo diventare prete. È convinta, come tutti del resto, che saprà raggiungere il cuore delle persone e contribuire in maniera decisiva al processo di inculturazione della fede. C’è anche un senso di soddisfazione nel constatare che «uno dei nostri ce l’ha fatta»: è la promessa di future vocazioni; altri, vedendo il suo esempio, ne seguiranno le orme. Per loro il momento forse più emozionante è quello, durante la sua prima messa, in cui don Enkh spende più di mezz’ora per imporre le mani su ognuno dei convenuti. «Vedere un sacerdote mongolo benedire la gente è stato molto commovente – confiderà poi Diimaa-Elizabeth, altra fedele di Arvaiheer -. Un gesto che fino a ora avevamo visto compiere solo dai missionari, ora lo compie un nostro giovane. È bello pensare che don Enkh sia diventato canale della benedizione divina».

È quello che auguriamo anche noi a don Enkh: vivere il sacerdozio come lo visse il Beato Allamano, sempre docile allo Spirito che lo volle usare come conca dove la grazia si posava e come canale che la lasciava scorrere sulla gente.

Giorgio Marengo




Kwaluseni nuova missione della consolata Swaziland


Con l’insediamento del nuovo vescovo di Manzini (Swaziland), 26 gennaio 2014, José Luis Ponce de Leon, argentino missionario della Consolata, si è auspicato cominciare la presenza dell’Istituto (IMC), in codesta nazione. Il primo ad arrivare è stato p. Giorgio Massa, inviato dalla Direzione Generale, per richiesta del vescovo, lo stesso anno 2014. Gli altri sono poi arrivati a piccoli passi..

Il primo passo lo si è fatto con l’invio del neo diacono Muriithi Peterson Mwangi, dicembre 2015 perché svolgesse il suo ministero diaconale con un sacerdote diocesano, p. Ncamiso Vilakati nella parrocchia di St. Mary’s, Lobamba; nello stesso tempo è stato introdotto alla lingua e cultura locale.

Il secondo passo è avvenuto ad aprile 2016, quando i pp. Samuel Francis Awuor Onyango e Rocco Marra consegnando alla diocesi di Dundee le parrocchie di Madadeni (KZN in Sudafrica) erano disponibili per la nuova presenza in Swaziland. Anche per loro l’introduzione alla lingua e cultura, non solo in una parrocchia, ma in diversi centri pastorali, per avere una visione generale della diocesi. P. Rocco è stato particolarmente a Florence Mission, mentre p. Francis a Hlathikhulu “Christ The King” Parish.

Il terzo passo, è stato fatto dopo l’ordinazione sacerdotale di Peterson, avvenuta in Kenya, suo paese d’origine, il 27 agosto 2016. P. Peterson di ritorno dal Kenya, il 12 ottobre, dà il via a cominciare la prima comunità missionaria della Consolata in Swaziland. I pp. Rocco, Person e Francis si son trovati a celebrare l’Eucarestia, il 17 ottobre, memoria di San Ignazio di Antiochia, nella cappella dell’episcopio insieme al vescovo José Luis. In questo modo la comunità dei missionari della Consolata ha avuto il suo inizio ufficiale in Swaziland.

Cappella di Kwasuleni
Cappella di Kwaluseni

Kwaluseni, la nuova missione

Ma il momento principale è avvenuto durante la celebrazione della domenica missionaria, il 23 ottobre 2016,  quando il Vescovo José Luis Ponce de Leon ha celebrato la messa nella chiesa di santi Pietro e Paolo, Kwaluseni (Matsapha) e ha presentato i missionari della Consolata Francis Onyango, Peterson Mwangi e Rocco Marra, come i nuovi sacerdoti incaricati di quella che per ora è ancora una cappella della cattedrale di Manzini; ma da gennaio 2017 sarà creata parrocchia a tutti gli effetti.

L’amministratore della Cattedrale, don Sandile Mswane, che ha concelebrato, ha incoraggiato i fedeli a continuare con responsabilità il cammino di fede comunitario, auspicando anche le altre cappelle un giorno divengano parrocchie. Chiaramente il nostro vescovo ha incoraggiato a maturare come comunità ministeriale e missionaria. Il neo parroco p. Francis Onyango ha sottolineato il fatto che ognuno è importante, amato e parte della famiglia parrocchiale; ha poi promesso che come missionari cercheremo di fare sempre del nostro meglio, facendo “il bene bene e senza rumore”, secondo l’insegnamento del beato fondatore Giuseppe Allamano.

Siamo sicuri che questa nuova apertura porterà frutti nella nostra vita di evangelizzatori, nei cuori di tante persone di buona volontà, nella società e continuiamo a pregare il Signore che ci dia la gioia di vedere partire qualche giovane swazi come missionario della Consolata al servizio della chiesa e del mondo intero.

 

bishop-jose-e-i-missionari-della-Consolata (Rocco Marra)
Bishop-José-e-i-missionari-della-Consolata (Rocco Marra)

Breve introduzione allo Swaziland

Lo Swaziland è un piccolo stato confinante col Sud Africa e Mozambico. La sua superficie copre 17364 Km. Quadrati, nonostante le sue altitudini il clima di solito è mite, eccetto in alcune località`, dove durante la notte, d’inverno, può scendere a 0 gradi centigradi.

La popolazione è chiamata Emaswati, o popolo del Ngwane. Questo nome ha origine dal re Mswati, che ha regnato all’inizio del XIX secolo, nipote del re Ngwane. La nazione raggiunge un milione e cento mila abitanti, la lingua è siswati, del gruppo linguistico degli Nguni. L’inglese è anche parlato da molti nel paese. Nel lungo regno di Sobhuza II, si è celebrata l’indipendenza dagli inglesi nel 1968, però è da notare che dal 13 aprile 1973 il Swaziland è sotto una monarchia assoluta, che praticamente è tuttora vigente. L’anno è costellato di celebrazioni culturali tradizionali: forse la più conosciuta è “reed dance” (danza delle canne), che è la festa di primavera, fine agosto e settembre. Si può denominare come la celebrazione delle vergini della nazione. Vengono donate le canne alla regina madre e di solito il re sceglie una ragazza da aggiungere al gruppo delle sue mogli.

Una celebrazione importante è “the incwala”: durante il periodo di dicembre-gennaio, in questa ricorrenza i ragazzi del regno hanno un ruolo di rilievo. Il re assapora i primi frutti, prodotti nei campi, la virilità e fecondità del re è anche fecondità dell’intera nazione. Il cristianesimo ha raggiunto il Swaziland nel 1844 con la Chiesa Metodista… La Chiesa Cattolica è arrivata solo a gennaio 1914 con due sacerdoti dell’Ordine dei Servi di Maria. Uno dei quali era p. Francis Mayer, che è stato ucciso da un “lunatico” dopo tre mesi dell’arrivo dei missionari. L’assassino poi dovendo subire il patibolo per quello che aveva commesso, prima dell’esecuzione ha chiesto di essere battezzato. Così il primo battezzato della storia della chiesa in Swaziland è l’assassino del primo missionario arrivato nel paese. La chiesa ha educato alla fede molte generazioni e ha preparato giovani a essere sani cittadini. Molte sono le istituzioni fondate e guidate dai cattolici nel campo educativo, sanitario, caritativo e persino agonistico; tanti altri sono i progetti di promozione umana, incoraggiati cammin facendo.

La nazione è anche Diocesi di Manzini, dal 2014 guidata dal suo quinto Vescovo José Luis Ponce de Leon; vi è un gruppo di sacerdoti locali, così pure di religiosi e religiose missionari. Quest’anno la diocesi è stata benedetta da due nuove forze missionarie: i Missionari di San Francesco di Sales e i Missionari della Consolata. Certamente è un momento di grazia per l’evangelizzazione oggi. Si desidera avere nuovi metodi e strumenti perché il Vangelo arrivi a tutti e si faccia vita quotidiana, come il vescovo profeta Mandlenkhosi Zwane (1976-1980) ha auspicato durante il suo episcopato. Per raggiungere l’obiettivo c’è bisogno di evangelizzatori che fanno cammino con le persone, testimoniando Gesù presente in ogni situazione e circostanza. Un operare insieme come comunità`, dove laici, clero e consacrati condividono, con responsabilità diversificate e partecipazione, per raggiungere tappe che accelerano la presenza del Regno di Dio nella nostra società`.

Rocco Marra
da Da Casa Madre, 11/2016 e dal blog di padre Rocco




Argentina San José Gabriel Brochero un pastore odora pecore


San José Gabriel Brochero, il «cura gaucho», era profondamente convinto che avrebbe potuto essere un buon pastore solo con un’azione missionaria ispirata dall’affetto, dall’interesse e dalla compassione per tutte le persone colpite dalla sofferenza, dalla povertà e dalle ingiustizie.

Nel volto di Brochero incontriamo la misericordia di Dio. Il 22 gennaio 2016 papa Francesco ha firmato il decreto che riconosce il secondo miracolo ottenuto grazie all’intercessione del beato José Gabriel Brochero. Il miracolo riconosciuto è quello della guarigione di una bambina che è tornata a camminare dopo un infarto cerebrale. Si tratta di Camila Brusotti, che all’età di otto anni, brutalmente picchiata da sua madre e dal suo patrigno, era rimasta per più di due mesi incosciente in terapia intensiva.

Il cura gaucho (cura = prete, gaucho = equivalente al cowboy, mandriano a cavallo), come era conosciuto, sarà canonizzato da papa Francesco il 16 ottobre e diventerà il primo santo tutto «argentino» perché nato e morto in Argentina. Mentre san Héctor Valdivielso Sáez (1910-1934), considerato da molti il «primo santo argentino», nacque nel paese, ma visse in Spagna da quando aveva quattro anni, e là fu fucilato insieme ai suoi confratelli quando aveva solo 24 anni, durante la rivoluzione delle Asturie, prima dell’inizio della guerra civile spagnola.

Il cura Brochero, la cui causa di beatificazione era iniziata nel 1967, era stato dichiarato venerabile da Giovanni Paolo II nel 2004 e poi beatificato da Benedetto XVI alla fine del 2012.

Chi era il Cura Gaucho?

cura_brochero_01Nacque nelle vicinanze di Santa Rosa de Río Primero (Córdoba, Argentina) il 16 marzo 1840 da una famiglia di contadini, quarto di dieci figli, crebbe nel seno di una famiglia profondamente cristiana. Due sue sorelle si fecero suore Figlie di Maria Santissima dell’Orto, fondate da sant’Antonio Maria Gianelli. Entrò nel seminario Nostra Signora di Loreto il 5 marzo 1856 e fu ordinato sacerdote il 4 novembre 1866. Destinato come collaboratore pastorale presso la cattedrale di Córdoba, si prodigò durante l’epidemia di colera che colpì la città nel 1867 e mieté più di quattromila vite. In qualità di prefetto agli studi del seminario maggiore, ottenne il titolo di maestro in filosofia presso l’Università di Córdoba il 12 novembre 1869.

Verso la fine del 1869 fu nominato parroco di sant’Alberto, un paese a tre giorni a cavallo dalla città; situata sulle Sierras Grandes, alte più di 2 mila metri, la parrocchia contava più di 10 mila abitanti che vivevano in luoghi isolati e impervi senza strade, senza scuole e servizi sociali. La situazione morale e l’indigenza materiale degli abitanti avrebbe scoraggiato chiunque, ma non il cura gaucho che da quel momento dedicherà tutta la sua vita a portare non solo il Vangelo, ma anche a promuovere la vita delle sua gente attraverso la scuola e tante altre iniziative sociali.

Appena un anno dopo il suo arrivo convinse uomini a donne a recarsi a Córdoba per fare gli esercizi spirituali, percorrendo in tre giorni gli oltre 150 km di distanza a cavallo o a dorso di mulo, in carovane che spesso superavano le 500 persone. Più di una volta furono sorpresi da forti tormente di neve. Al ritorno, dopo nove giorni di silenzio, preghiera e penitenza, i suoi parrocchiani cambiavano poco a poco la loro vita, diventando cristiani più convinti, impegnati anche nello sviluppo umano della loro terra.

Nel 1875, con l’aiuto dei suoi parrocchiani, iniziò la costruzione della Casa degli Esercizi del paese allora chiamato Villa del Transito (località che oggi porta il suo nome di Villa Cura Brochero). Fu inaugurata nel 1877 e, durante il ministero del cura gaucho vi passarono più di 40 mila persone con tui di 700 persone alla volta. Come complemento costruì la casa per le suore, un collegio per le ragazze e la residenza per i sacerdoti.

Con i suoi parrocchiani costruì più di 200 km di strade e varie chiese, fondò paesi e si preoccupò per l’educazione di tutti.

Richiese alle autorità e ottenne uffici postali e telegrafici. Progettò il ramo ferroviario che avrebbe attraversato la Valle de Traslasierra unendo Villa Dolores e Soto per liberare i suoi cari montanari dalla povertà in cui giacevano, «abbandonati da tutti, ma non da Dio», come amava ripetere.

Predicò il Vangelo adattando il linguaggio a quello dei suoi fedeli per renderlo comprensibile. Celebrò la santa messa anche nei luoghi più remoti della sua parrocchia, portando sempre con sé il necessario sulla sua mula. Nessun infermo rimaneva senza sacramenti perché né la pioggia, né il freddo lo fermavano, «altrimenti il diavolo mi ruba un’anima», diceva. Tra questi c’erano numerosi lebbrosi, che visitava regolarmente e con cui beveva il mate, la tipica bevanda argentina che si condivide da uno stesso recipiente. Si donava a tutti, specialmente ai poveri e ai lontani, che cercava con sollecitudine per avvicinarli a Dio.

Pochi giorni dopo la sua morte, il giornale cattolico di Córdoba scrisse: «È risaputo che il cura Brochero ha contratto la malattia che lo ha portato alla tomba perché non solo visitava ma anche abbracciava un lebbroso abbandonato da quelle parti». Diventato lebbroso, nel 1908 rinunciò alla parrocchia, toò a Córdoba e andò a vivere con le sue sorelle a Santa Rosa de Río Primero, la sua città natale. Non vi restò per molto: sollecitato dai suoi vecchi parrocchiani, toò a Villa del Tránsito nel 1912, preoccupandosi dell’opera che aveva sospeso, ossia l’installazione di una linea ferroviaria. Infine, il 26 gennaio 1914, rese l’anima a Dio. Le sue ultime parole, pronunciate in dialetto, furono: «Ora ho gli attrezzi pronti per il viaggio» («Ahora tengo ya los aparejos listos pa’l viaje»).

«Sarete miei testimoni»

Il cura Brochero prese alla lettera queste parole di Gesù e le visse da vero missionario praticando la spiritualità delle «tre A: aquí, allí, allá». Sono le tre dimensioni che egli ha sempre conservato nella sua vita.

Aquí – qui dentro il proprio cuore: la missione inizia in noi stessi, ma è necessario entrare nel proprio cuore, in profondità e con sincerità; spesso è il viaggio più difficile e lungo da percorrere.

Allí – qui e ora, in questo posto: nella propria diocesi, nella propria parrocchia, nella propria realtà.

Allá – Là, oltre:  fino ai confini della terra che ci è affidata. Il cura Sapeva aprire le porte e lasciare entrare e nello stesso tempo sapeva uscire al di là delle frontiere tradizionali. Iniziava con un orizzonte concreto e limitato per ampliarlo poco a poco. Nello stesso modo il cammino missionario che egli apriva a coloro che lo aiutavano era proposto seguendo uno schema simile, partendo dal «di dentro», continuando nel «qui e ora» per aprirsi allo sguardo della missione nel «là e oltre» i confini e le barriere.

Juan Carlos Greco*

*Juan Carlos Greco, missionario della Consolata argentino. Il testo è stato tradotto e adattato da Misiones Consolata n. 470, luglio-agosto 2016, pubblicata a Buenos Aires, Argentina.
Foto di questo articolo tratte da: www.curabrochero.org.ar

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Le 3 «A»

Proviamo ad approfondire le tre dimensioni della spiritualità del cura con un po’ di allegria, qualche sua frase e brevi testimonianze.

1. Aquí – qui dentro

cura-brochero_gaucho«Un certo padre Juan è appena morto. Il vescovo durante il funerale abbonda di elogi: “Il defunto era un buon sacerdote, un vero amico di tutti, un padre umile e povero, un missionario esemplare!”. La sacrestana guarda uno dei chierichetti e gli dice all’orecchio: “Vai a vedere nella cassa e guarda se chi sta dentro è proprio p. Juan”».

Non è necessario fare molti elogi di Brochero. Egli sapeva aiutare le persone a entrare dentro di sé, a prendere coscienza della propria situazione e iniziare un cammino di vera conversione.

Diceva: «Non siamo cristiani per un’idea o una decisione etica, ma per incontrarci con Gesù». E a proposito della sua ordinazione sacerdotale: «Ho avuto molta paura. Sono solo un povero peccatore, così pieno di limiti e miserie. E mi domandavo: “Saprò essere fedele alla vocazione? In che imbroglio mi sono messo?”. Ma subito una sensazione immensa di pace invase il mio essere. Perché se il Signore mi aveva chiamato, Egli sarebbe stato fedele e avrebbe sostenuto la mia fedeltà; inoltre, Gesù Buon Pastore, non nega mai i suoi doni a coloro che lo seguono e sono “altri Gesù”» «Solo convertendo noi stessi in un nuovo magnificat potremo diventare ciò che Dio vuole che siamo, umili servitori, sui quali si effonde la misericordia di Dio per poter offrire la propria vita per amore al mondo. Oggi, per intercessione della Madre della misericordia, dobbiamo essere artefici della pace, strumenti di riconciliazione, costruttori di unità e testimoni della misericordia, affinché Dio voglia servirsi di noi e ricordarsi della sua eterna misericordia, ossia della grande promessa di Dio fatta ai nostri padri a favore di Abramo, di noi e del suo popolo per i secoli dei secoli».

«L’ostia consacrata è un miracolo di amore, un prodigio di amore, una meraviglia dell’amore, un complemento di amore ed è la prova più chiara del suo infinito amore verso di me, verso voi e verso l’uomo».

«Egli non fu un cristiano triste, sapeva della gioia che dà Gesù e la voleva contagiare», scrivono i vescovi argentini, «per questo, visitando la gente nelle case, diceva: “Vengo a portarvi la musica”. La musica di sapersi amati da Dio».

Per questo se non si è capaci di ascoltare la musica «che è dentro» (di noi) non si può cantare né in «questo posto» né «oltre», fino ai confini del mondo.

bro192. Allí – qui e ora

Nel confessionale:
– Cosa posso fare con i miei peccati, padre?
– Ora (prega).
– (Hora?) Sono le quattro e un quarto. Però, che posso fare con i miei peccati?

Seduto… Camminare verso il «qui e ora», ma seduto, confessando lunghe ore. «Il sacerdote che non prova molta pena per i peccatori è mezzo sacerdote. Questi paramenti benedetti che indosso non mi fanno sacerdote; se non alberga dentro di me la carità non sono nemmeno cristiano».

E ai suoi sacerdoti che lo aiutavano raccomandò per iscritto «che quanto più i fedeli sono peccatori o rudi o incivili, tanto più li dovete trattare con dolcezza e amabilità nel confessionale, dal pulpito e nella relazione personale».

Camminando… verso i poveri. «Brochero si caratterizzava per l’andare incontro ai bisognosi. Non gli mancavano mai aiuti da donare ai poveri della zona. Il suo vestito era sempre umile e povero. Molte volte, la signora Zoraida Viera de Recalde che gli lavava i vestiti gli domandava: “Signor Brochero, e quella camicia nuova che aveva?!”. Il prete rispondeva: “L’ho data a un altro che ne aveva più bisogno di me”». Diceva sempre: «Dio è come i pidocchi, c’è dappertutto, ma preferisce i poveri».

Con la predicazione itinerante e gli esercizi spirituali. Un sacerdote che lo conobbe ha testimoniato: «Dato che nella sua parrocchia regnavano l’ignoranza, l’indifferenza, l’alcolismo e il latrocinio, iniziò l’opera di evangelizzazione per mezzo degli Esercizi Spirituali e si propose di portare alla città di Córdoba i suoi fedeli perché potessero farli. Ma come trascinare quella gente che non aveva idea di che cosa fossero? Come condurre un numero considerevole di uomini e donne per sentirneri molto difficili lungo gli oltre 150 km attraverso le montagne?

Brochero commentava: “Chiedevo in giro chi era la persona più ‘condannata’, più ubriacona e ladrona della zona. Le scrivevo allora un bigliettino dicendole che desideravo trascorrere due giorni nella sua casa, celebrare messa, predicare e confessare, e che quindi avvisasse i suoi amici. In questo modo sapevo che quella gente veniva ad ascoltarmi perché se fossi andato da una buona famiglia quei furbacchioni non si sarebbero avvicinati. E là dicevo solo che volevo fare il loro bene a mie spese e che volevo insegnar loro il modo di salvarsi e qui tiravo fuori il Santo Cristo invitandoli agli Esercizi Spirituali”. In questo modo, invitando la gente non solo della sua parrocchia, ma anche quella della Rioja e di San Luis riuscì a portare circa 700 persone agli esercizi, procurando loro i cavalli e il denaro necessari e rispondendo personalmente per tutte le necessità dei più poveri. Tutte quelle persone tornavano da Córdoba piene di gioia e completamente trasformate».

3. Allá – Là, oltre

Un prete durante la predica disse: «In questo paese si è persa la fede». Al che un ubriaco rispose ad alta voce: «E allora da qui non esce nessuno finché non venga ritrovata!».

Ma se si è persa la fede, Brochero sapeva che bisognava andare a «riscattarla» e nello stesso tempo a seminarla nei cuori che non l’avevano mai avuta. E dove si diresse? È nelle periferie – come ha spiegato in molte occasioni Papa Francesco – che il cura Brochero si impegnò a restare. «Andare verso coloro che non conoscono l’amore di Dio perché non è stato loro annunciato o perché la triste realtà in cui vivono dice loro che Dio è assente dalle loro vite». E faceva questo non solo con le parole, ma anche con le opere in ambienti che non erano certo normali per gli ecclesiastici di quel tempo.

«Come la Madonna alle nozze di Cana, anch’egli ha saputo dire a Gesù: “Non hanno acqua”, “non hanno educazione”, “non hanno strade”, “non hanno mezzi adatti per incontrarsi come fratelli e commercializzare i loro prodotti…”».

«Il cura Brochero come uomo di fede, povero e generoso, era già presente nel cuore della gente a Cordoba nel 1857 quando ci fu l’epidemia del colera. Allo scoppio di quella terribile epidemia egli era già prete. Piuttosto che fuggire dal flagello quel giovane sacerdote, rischiando di contagiarsi per servire gli infermi, andò di casa in casa consolando e assistendo nelle loro necessità materiali e spirituali gli ammalati. Consolò le famiglie e diede sepoltura cristiana alle vittime dell’epidemia. È proprio a partire da questo fatto che la gente iniziò a scoprire che in mezzo ad essa c’era un uomo di Dio».

«Visitando i lebbrosi della zona contrasse la malattia che sopportò durante i suoi ultimi anni, la lebbra. Si può ben dire che fu un martire della carità. Una persona che lo conobbe, ricorda che nella parrocchia c’era un lebbroso che aveva un brutto carattere, bestemmiava e nessuno voleva avvicinarsi a lui. Brochero gli si avvicinò, gli portava da mangiare, lo puliva, beveva il mate con lui. La sua stessa nipote gli diceva di non andare da lui ed egli le rispondeva: “Forse l’anima di questo pover’uomo non vale niente?!”, e continuò a servirlo; lo trasformò in un mite agnello. Il lebbroso si confessò da lui e morì santamente avendo ricevuto tutti i sacramenti».

Juan Carlos Greco

Villa del Cura Brochero
Villa del Cura Brochero




Europa la missioni ci sfida alla novità


La visita di Papa Francesco a Lampedusa e quella più recente all’isola di Lesbo hanno contribuito, attraverso il potere forte delle immagini, a rendere l’idea che la missione in Europa sta cambiando. Anzi, ha già modificato il suo volto: basta guardarsi in giro, esplorando facce e contesti. Questa trasformazione esige oggi risposte diverse rispetto a quelle che la Chiesa e gli Istituti missionari erano abituati a dare in passato.

Il fenomeno delle migrazioni di massa che hanno riversato nelle nostre vie e nelle nostre vite persone di differente credo e cultura si è incrociato con il progressivo invecchiamento della chiesa. Questa appare sterile ed incapace di coinvolgere le nuove generazioni nell’entusiasmo evangelico e nell’incontro/confronto con la complessa realtà secolarizzata e scristianizzata di gran parte dell’Europa.

Questo cambiamento epocale interpella innanzitutto la nostra chiesa locale, e, dentro di essa, gli Istituti missionari che non possono semplicemente stare a guardare, ma sono chiamati a offrire risposte adeguate e competenti, mettendo a disposizione il loro carisma specifico con determinazione e originalità. Serve, oggi, un «progetto missionario» per l’Europa che individui obiettivi e ambiti specifici in cui la nostra missione venga definita con chiarezza e illumini le nostre scelte. Il momento critico che stiamo vivendo può diventare un’opportunità in cui, di fronte alla tentazione, ormai ben radicata nella mentalità di molti, di creare muri e barriere, si possa opporre il modello delle nostre «comunità ponte», interculturali e segno di frateità universale.

Il primo passo in questa direzione consiste nel coltivare una maggiore consapevolezza della nostra identità, riandando all’essenza del nostro carisma e confrontandolo con la mutevole realtà del continente. Se siamo missionari, lo siamo ovunque, anche qui in Europa. Il nostro carisma non ci spinge ad essere missionari soltanto per l’Africa, l’America Latina o l’Asia, ma per tutti coloro che non sono cristiani, dovunque essi siano. Come missionari, destinati a un primo annuncio del Vangelo, sentiamo l’urgenza di andare verso quelle persone e popoli che ancora non conoscono la Buona Notizia o l’hanno completamente dimenticata. Quindi anche in Europa.

Se questo è il criterio di fondo, resta da approfondire in che ambiti e con che stile siamo chiamati a essere missionari oggi in Europa.

Il mondo giovanile, quello dei poveri e degli emarginati, il complesso mondo dei media in cui far risuonare la Buona Notizia, sono contesti che sempre ci hanno visti impegnati nella nostra attività evangelizzatrice e con cui dobbiamo oggi continuare a confrontarci. Nel fare ciò, è però necessario che il missionario si caratterizzi e contraddistingua per scelte di campo precise, che non snaturino ed appiattiscano il suo carisma originale uniformandolo a quello di altre forze ecclesiali.

Oggi, la presenza del nostro Istituto in Europa, tradizionalmente dedicata all’animazione missionaria e vocazionale e alla formazione di futuri missionari, richiede di trovare nuove vie.

Una di esse potrebbe essere quella di guardare alla realtà con gli occhi dei nostri confratelli giovani, in gran parte provenienti da altri continenti. La loro sensibilità e il loro modo di vedere può cogliere aspetti nuovi e offrire proposte alternative agli schemi tradizionali. Il confronto di questa nuova sensibilità con l’esperienza di chi, nato in Europa, si è arricchito con anni di impegno missionario in altri continenti può dare frutti inediti. Se novità ed esperienza si incontrano, da una parte si può superare la frustrazione di una sterile ripetitività, dall’altra si tracciano nuove piste sulla solidità di un bagaglio umano e spirituale maturato negli anni.

E la missione in Europa sarà capace di scoprire le mille meraviglie che Dio continua a operare in questo continente.

Ugo Pozzoli




Misericordia e


I Missionari della Consolata, testimoni di Misericordia e Con•sol•azione. Racconti di esperienze vive da Taiwan, dall’Angola nelle immense periferie della capitale, dalla diocesi di Noto in Sicilia e dal Venezuela a Carapita e Tucupita.


1. Nell’Anno della Misericordia e nel mese della Consolata

Consolatori in azione

Protagonisti di queste pagine non sono i soliti missionari di origine italiana, ma una nuova generazione di giovani africani, latinoamericani e asiatici. Sono loro i nuovi servi della «consolazione» realizzata tramite opere di misericordia concrete e senza confini.

La foto di apertura di questo dossier è stata scattata nel 2015 in Kenya, nella missione di Wamba. Al centro, dietro tutti e più alto di tutti, c’è padre Mathews Owuor Odhiambo; attorno a lui donne samburu e turkana felici di posare con giovani cinesi di Taiwan. Un avvenimento speciale questo, perché non riguarda i soliti turisti dall’Asia, ma un gruppo missionario che si sta formando a Hsinchu, vicino a Taipei, attorno a due missionari della Consolata, un kenyano (padre Mathews appunto) e uno spagnolo, che dal 2014 studiano cinese per iniziare una nuova presenza missionaria a Taiwan.

Non è certo una notizia da prima pagina, ma è significativa di una nuova realtà missionaria che sta crescendo. Una realtà che chiede occhi nuovi per essere vista. Io stesso mi sono reso conto della novità proprio solo alla conclusione del lavoro redazionale su queste pagine. La mano di Dio misericordioso continua a scrivere nella storia degli uomini con penne e matite nuove: i giovani delle Chiese del Sud del mondo.

Quanto vi offriamo è in parte già stato pubblicato in «Da Casa Madre», una rivista intea del nostro Istituto, ed è frutto anche dell’instancabile peregrinare del superiore generale, padre Stefano Camerlengo, che, accompagnato dai superiori locali, in questi anni ha quasi fatto il giro del mondo per visitare tutti i suoi missionari dall’Argentina alla Mongolia, dal Sudafrica all’Inghilterra, dal Canada a Taiwan, su è giù attraverso ventitré nazioni diverse.

Da queste pagine esce un messaggio di speranza e di vitalità senza pari, antidoto allo scoraggiamento che prende un po’ noi cristiani europei che stiamo assistendo alla scristianizzazione del nostro continente. Il titolo Con•sol•azione l’abbiamo rubato ai ragazzi di una nostra scuola secondaria in Colombia dedicata alla Consolata. Per la festa della loro scuola hanno scelto, cantato e ballato lo slogan «Con sol acion» (con sola azione). Un bel modo per dire che la fede non è teoria ma carità in azione nello stile «consolatino».

Gigi Anataloni


2. Taiwan: dire «Consolata» in cinese

Cambiare il nome ma non il cuore

L’apertura di una nuova presenza missionaria a Taiwan ha portato una grossa novità per il nostro Istituto: per la prima volta1, infatti, abbiamo dovuto rinunciare a presentarci ufficialmente come Missionari della Consolata, ovverosia con il nome della nostra patrona così com’è, senza traduzioni. I nostri primi missionari a Taiwan, sul posto dal 2014 e ancora alle prese con il lungo tirocinio dell’apprendimento del cinese, ci spiegano il perché.

Per esistere come congregazione religiosa a Taiwan è necessario assumere un nome che si possa scrivere mediante gli ideogrammi, perché su tutti i documenti ufficiali esso viene riportato in caratteri cinesi. Due opzioni sono possibili:

  • si individua un nome che conservi il suono originale «Consolata»;
  • si esprime «Consolata» con una parola cinese che ne rispetti il significato.

Il vescovo della diocesi di Hsinchu, dove ci troviamo, ci ha presentato sin da subito la necessità di trovare un nome cinese per il nostro Istituto, ma ci ha lasciati liberi di decidere su quale delle due vie seguire.

Siccome il fondatore, il beato Giuseppe Allamano, desiderava che il titolo della nostra Madre venisse conservato inalterato in tutte le lingue (così è stato fatto in tutti i paesi in cui siamo presenti), abbiamo subito pensato che la prima opzione fosse la più adatta e abbiamo chiesto a varie persone come si potesse rendere il suono «Consolata» con i caratteri cinesi. Qui la prima grande sorpresa: siccome la lingua cinese non è fonetica, non è possibile riprodurre fedelmente per iscritto il suono «Consolata», ma soltanto trovare un termine che si pronunci in modo simile: cioè «Cansulata» o «Consoulata».

La ragione principale che ci ha portati a propendere per la seconda opzione è stata però di natura pastorale: ci siamo accorti, parlando con i fedeli che conoscono l’inglese, che quando il nostro Istituto veniva presentato, la gente non sentiva nemmeno il termine «Consolata», che per i cinesi non aveva alcun significato. La scrittura cinese contiene in ogni carattere il senso di ciò che viene espresso, per cui quando le persone leggono un nome, istintivamente vi cercano un significato e, se non lo trovano, passano semplicemente oltre. La lingua cinese, poi, è il grande principio di unità di tutto un popolo, perché si scrive in un unico modo pur venendo pronunciata differentemente a seconda dei vari dialetti locali. Se avessimo scelto un ideogramma che nel cinese classico riproduce il suono «Consolata», quando andassimo nel Sud di Taiwan, dove si parla il Taiwanese, potremmo trovarlo pronunciato in un modo diverso, che magari non ricorderebbe nemmeno da lontano il suono del nome della nostra Madre.

Dopo esserci consultati con il vescovo, con le nostre insegnati di cinese, con preti locali e missionari stranieri, ci siamo seduti attorno a un tavolo per cercare di disceere quale fosse la vera fedeltà al desiderio del fondatore e alla tradizione del nostro Istituto: mantenere un nome privo di significato per la gente e che sarebbe stato soggetto a varie storpiature o trovare un nome che esprimesse in modo comprensibile la consolazione che Maria ha ricevuto da Dio, cioè suo figlio Gesù, e che, tramite i suoi missionari, offre al mondo?

Ci è sembrato che il contesto in cui ci trovavamo ci conducesse verso la seconda opzione. Abbiamo quindi presentato i frutti del nostro discernimento ai superiori a Roma che hanno approvato e dato il via libera affinché assumessimo il nome cinese che meglio esprime chi siamo nella lingua e nella cultura locali.

Siamo contenti di avere un nome cinese, ? ??? Shan Mu Shen Wei, che letteralmente significa «Santa Madre della Consolazione divina» e che rende il nostro Istituto un po’ più vicino a questa gente e a questo mondo.

Eugenio Boatella e Mathews Odhiambo

Note

  1. 1. Già una volta l’Istituto aveva dovuto rinunciare al nome di «Consolata». Lo aveva fatto nel 1971 quando, per rientrare in Etiopia (da cui era stato cacciato nel 1942 con le forze coloniali italiane), aveva dovuto mandare i suoi come «Missionari di Fatima».

Taiwan, perché?

La decisione di aprire la missione di Taiwan è frutto del discernimento congiunto della Direzione Generale Imc e dei missionari della Consolata presenti nel continente asiatico.

Le ragioni che hanno portato a questa scelta sono molteplici. Innanzitutto, il desiderio da tempo coltivato di avvicinarci al mondo cinese, alla sua cultura e al suo profondo universo spirituale. Taiwan è oggi un terreno estremamente fertile per crescere nella dimensione missionaria del dialogo interreligioso. In secondo luogo, ha influito sulla nostra scelta la vicinanza alle altre due nostre presenze, Corea del Sud e Mongolia, che permette ai nostri missionari di lavorare in una prospettiva continentale, riunendosi per incontri formativi o di rinnovamento spirituale e per valutare e pianificare insieme la missione. Infine, alcune altre caratteristiche che ci hanno convinto della bontà di questa opzione: la lingua ufficiale dell’isola, ovvero il cinese mandarino, che è anche l’idioma più parlato nella Cina continentale e nel mondo; l’accoglienza da parte del governo e della chiesa locale, che semplifica le pratiche burocratiche per stabilire una comunità sul posto; il grande bisogno di personale della chiesa stessa dopo l’esaurimento del boom dovuto alla grande immissione di personale religioso che, fuggendo dal continente, trovava rifugio sull’isola negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione cinese.

Oggi la chiesa locale non ha personale autoctono sufficiente a garantire l’assistenza pastorale ai pochi cattolici dell’isola (sono meno di trecentomila persone su una popolazione complessiva di circa 23 milioni di abitanti), ma grazie alla presenza di tanti missionari e missionarie provenienti da altre parti del mondo può portare avanti il lavoro di evangelizzazione ad gentes e di promozione sociale di qualità e con autorevolezza.

È il caso della diocesi di Hsinchu, dove i nostri primi missionari sono arrivati nel settembre 2014 e dove sono tutt’oggi totalmente impegnati nello studio della lingua cinese. A poca distanza dalla capitale Taipei, Hsinchu è una cittadina fiorita intorno a grandi industrie dell’informatica e laboratori manifatturieri. Molti dei prodotti «made in Taiwan» passano per questa località, che è anche sede di uno dei più importanti Politecnici del paese. Grande è la presenza di migranti, provenienti in particolare da Filippine, Thailandia e Vietnam. Molti di loro sono cattolici e vengono assistiti spiritualmente e pastoralmente dall’attiva rete ecclesiale organizzata dal vescovo locale, mons. John Baptist Lee, ben contento di aggiungere alla sua squadra anche una piccola comunità missionaria come la nostra. Ai padri Eugenio Boatella e
Mathews Odhiambo, a Hsinchu sin dagli inizi della nostra missione, si aggiungeranno ben presto altri due missionari che stanno completando il loro periodo di preparazione alla missione in Asia.

Ugo Pozzoli


3. Angola: un paese che stenta a ritrovarsi, tuttavia… in cammino

Rinascere dopo 500 anni

Un passato che non cancella le sue tracce; un paese dilaniato dalla guerra che stenta a riconoscersi; un’identità nascosta che si affaccia con timidezza: vi presentiamo l’Angola, il paese dove i missionari della Consolata hanno iniziato una nuova avventura nel 2014.

Nel 1961 l’Angola inizia il suo difficile cammino verso l’indipendenza dal Portogallo con rivendicazioni intee di carattere anti coloniale che provocano l’instaurazione di un regime repressivo su tutto il territorio da parte del governo di Lisbona. Nel 1975 finalmente ottiene l’indipendenza, ma una feroce guerra civile l’attende dietro l’angolo.

Due sono le fazioni contrapposte: l’esercito governativo del Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla) e le forze ribelli dell’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (Unita). L’Mpla da sempre appartenente al blocco dell’allora Unione sovietica e alleato di Cuba, l’Unita appoggiata dalle maggiori nazioni del mondo industrializzato occidentale (Usa in testa) e dal Sudafrica.

Solo nel 2002 la corsa al controllo delle immense ricchezze del paese ha termine lasciandolo in ginocchio. I giochi di potere fanno il loro corso con una divisione «equa» del governo e della gestione delle risorse: all’Unita il controllo sul mercato dei diamanti, all’Mpla l’egemonia petrolifera.

Luanda, specchio del paese

Petrolio e diamanti continuano a essere ancora oggi l’unica attrattiva economica per l’estero. La stratificazione sociale è solo un vago ricordo: oggi si vive nelle favelas o negli occidentalissimi quartieri residenziali di Luanda. Il colosso Cina sta gettando le sue reti: l’Angola è il primo esportatore di petrolio in quel paese. Le multinazionali fanno da padrone a braccetto con un governo ancora fortemente corrotto. Mentre il flusso di denaro continua a scorrere «dal basso verso l’alto», sfidando ogni legge fisica, circa l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

La guerra civile ha prodotto una crescita abnorme delle periferie. Quelle di Luanda sono uno specchio dell’evoluzione del paese negli ultimi anni: più è cresciuta l’economia e più si è accentuato il divario tra le classi sociali. Nelle periferie vive la maggioranza della popolazione, ma le condizioni di vita sono disastrose: servizi sanitari e scuole di tutti i livelli insufficienti, mancanza di acqua potabile, fognature inesistenti, energia elettrica incostante,  trasporti  pubblici  disastrosi,  disoccupazione, assenza di spazi per lo sport e il divertimento, delinquenza, spazzatura accumulata… e la lista potrebbe continuare.

Luanda è la capitale politica dell’Angola e tutte le istituzioni dello stato hanno qui le loro sedi. Il parlamento, il palazzo presidenziale e i vari ministeri sono tutti nel «centro» della città (gli antichi rioni attorno alla baia), dove hanno sede anche le principali imprese e una miriade di uffici amministrativi e commerciali. A Luanda funzionano le uniche industrie del paese. Fino al 2002, anno della fine della guerra civile, queste si limitavano ad attività legate al petrolio, alla trasformazione di prodotti agricoli, bevande, cemento, costruzioni civili, meccanica. In questi ultimi anni si sono moltiplicati gli investitori (esteri, ma anche nazionali) che stanno mutando il volto industriale della città. A fare da padrone è il settore petrolifero, ma anche quello dei diamanti, al secondo posto nelle esportazioni, stimola investimenti e occupazione: esiste una fabbrica di taglio dei diamanti e un’altra è in costruzione.

Luanda è anche la capitale culturale: vi funziona l’Università statale, intitolata ad Agostinho Neto, primo presidente. Negli ultimi anni sono state aperte varie università private, tra cui spicca quella cattolica. I principali assi stradali partono da Luanda, e la collegano alle province del paese. In questi ultimi tempi, grazie a crediti e investimenti stranieri, soprattutto cinesi, è stato fatto un notevole sforzo per rimettere a nuovo la rete stradale. La popolazione di Luanda non ha smesso di crescere e in 30 anni si è moltiplicata di 9-10 volte.

L’arte di arrangiarsi

Chi si dedica al commercio spesso non ha un locale adatto allo scopo, così, spesso sacrifica una parte della propria abitazione per ricavare un esiguo negozio, o utilizza una struttura precaria nella propria via di fronte a casa. Ci lavora il capofamiglia, ma anche i figli danno una mano. Il problema maggiore è il finanziamento necessario per acquisire la merce; il settore informale non ha accesso al credito bancario, e la gestione dei ricavi dell’attività è molto approssimativa.

Nei quartieri poveri si comincia a lavorare già a 11-12 anni, e il luogo di lavoro più frequente è la strada. Sono varie le ragioni che spingono un (o una) adolescente verso un lavoro di strada: necessità di pagarsi le spese per la scuola (libri e quadei) e la relativa retta mensile, quando i genitori non ne hanno i mezzi; comprare i capi di abbigliamento, secondo la moda del momento; comprare telefonino e scheda di ricarica; aiutare un fratello o una sorella più piccoli, o i genitori se per malattia non possono lavorare. Un lavoro tipicamente femminile è la zunga, cioè la vendita ambulante, trasportando sulla testa, in una bacinella o in una scatola i propri prodotti. Le zungueiras percorrono ogni giorno chilometri e chilometri. I ragazzi si stanno adattando a questo lavoro: quando escono da scuola ricevono della merce da un negoziante e percorrono le vie o le fermate dei taxi, e alla sera dividono il guadagno con il fornitore.

Sono migliaia le persone che passano, a piedi o nei taxi collettivi, e c’è possibilità di vendere loro l’acqua fresca, in sacchetti di plastica, o una bibita ghiacciata, o una salviettina agli autisti di taxi o di camion, per asciugarsi il sudore e pulirsi dalla polvere che sovrasta perennemente le strade di Kilamba, una delle periferie di Luanda. Fuori dai magazzini ci sono altri lavoratori: i roboteiros, i conducenti di grosse carriole di legno, con ruota recuperata da una macchina, che trasportano le scatole e i sacchi di prodotti che la gente ha comprato all’ingrosso per poi rivenderli al dettaglio nei loro negozietti.

Ci sono anche giovani che scaricano la merce dai camion e la ripongono nei magazzini. Al mercato s’incontrano molti ragazzi occupati: c’è chi segue i potenziali acquirenti per vendere sacchetti di tutti i tipi in cui riporre le compere; ci sono le ragazzine che aiutano la mamma a preparare piatti a buon mercato e altre che passano tra le bancarelle proponendo uova sode o gelati; ci sono i kinguila, i cambiavalute, perché il dollaro continua a circolare insieme alla moneta locale. Ci sono i matoxeiros, una turbolenta categoria di mediatori tra il cliente e il venditore; ci sono i motoqueiros, che foiscono il servizio di moto-taxi. Nessuno rimane con le mani in mano, e la sera tutti hanno qualcosa in tasca.

Una Chiesa confusa

La Chiesa cattolica, presente in Angola da più di cinquecento anni, è considerata un’istituzione prestigiosa e mantiene rapporti molto stretti con le autorità governative. Troppo stretti, secondo alcuni osservatori. Sembra che alla vigilia delle ultime elezioni, i politici al potere abbiano voluto ingraziarsi i vescovi locali, offrendo loro generosi regali. «Ci hanno donato delle automobili», ammette senza imbarazzo un vescovo che abbiamo incontrato. «Le abbiamo accettate, dopo avee discusso tra noi, precisando a chiare lettere che non avremmo mai rinunciato alla nostra incondizionata libertà di parola». Decisione «inopportuna e rischiosa», mormorano a denti stretti alcuni religiosi.

Gli equilibrismi diplomatici delle alte gerarchie ecclesiali, chiamate necessariamente a confrontarsi e a collaborare con lo stato, non oscurano la straordinaria opera sociale e pastorale svolta dalla Chiesa cattolica in Angola. Dalle sterminate bidonville della capitale fino ai più isolati villaggi dell’interno, centinaia di suore e sacerdoti portano avanti ogni giorno una battaglia silenziosa e risoluta in favore dei poveri.

«Ci sforziamo di spargere semi di speranza in una società sempre più spietata che non concede spazio agli ultimi», spiega un missionario, impegnato da anni accanto ai giovani angolani. «Il 60% della popolazione ha meno di 15 anni», ricorda. «Le nuove generazioni sono però attratte dall’illusione dei soldi facili, dal miraggio del consumismo sfrenato, dalle vetrine lucenti delle boutique alla moda. L’arricchimento materiale dell’Angola si sta accompagnando a un drammatico impoverimento morale. Dobbiamo aiutare i giovani a percorrere una nuova strada».

Oggi i missionari gestiscono innumerevoli scuole, spazi ricreativi, centri di formazione, oratori, rifugi per ragazzi di strada. «Sono fragili scialuppe di salvataggio in un mare tempestoso», avverte un missionario. «La guerra ha distrutto molte famiglie, disperso interi villaggi, gonfiato le periferie di deslocados, gli sfollati delle campagne… La gente fa sempre più fatica a tirare avanti». La criminalità è diffusissima, furti e rapine sono il pane quotidiano delle gang giovanili.

«Terra di Maria»

I grandi navigatori ed esploratori portoghesi, prima di allontanarsi dalla patria, promettevano alla Vergine di diffondere il suo culto tra tutti i popoli con i quali avrebbero stabilito contatti. Così, quando i primi portoghesi, nel sec. XV, misero piede nel territorio del Regno indigeno del Congo-Angola, eressero numerose chiese e cappelle, sia pure molto modeste.

L’Angola venne chiamata «Terra di Maria» fin dai tempi in cui i primi missionari portoghesi, qui arrivati il 29 aprile 1491, costruirono subito una chiesetta intitolata a Nossa Senhora Santa Maria. Oggi in Angola si contano non meno di 100 chiese e cappelle dedicate alla Madre di Dio. Tra le principali ricordiamo: il santuario Nostra Signora di Fatima, inaugurato nella capitale Luanda dai Cappuccini nel dicembre 1964, e Nostra Signora di Nazaré, sempre a Luanda; il santuario Nostra Signora da Muxima e Madonna degli Angeli nella Provincia di Bengo; al centro del paese, a Nova Lisboa, si trova un altro santuario dedicato a Nostra Signora di Fatima; e al Sud, a Sá da Bandeira, il Santuario della Montagna (do Monte). E ben nove delle undici cattedrali del paese sono oggi intitolate alla Madonna: a Luanda, Huambo, Malanje, Luso, Uije, Benguela, Saurino, Novo Redondo e Njiva.

È da notare che tutti questi edifici sacri venivano costruiti per provvedere all’aumento continuo dei cristiani che già verso la fine del sec. XV erano più di 20.000. Oggi i cattolici rappresentano il 55% della popolazione.

I cristiani qui chiamano da sempre affettuosamente la Vergine Mama Nzambi (Madre di Dio) e incontrandosi erano soliti scambiarsi il saluto con le parole: «Siano lodati il SS. Sacramento e la purissima Concezione della SS. Vergine!».

In Angola il Vangelo è arrivato 500 anni fa, anche se non è quasi mai andato oltre la capitale, la linea costiera e alcuni centri lungo il fiume Kwanza, toccando quasi solo portoghesi e i cosiddetti assimilados, mentre la stragrande maggioranza della popolazione non ha mai beneficiato del suo annuncio esplicito. Solo nella seconda metà del XIX secolo, con l’arrivo di alcune congregazioni missionarie (tra cui gli Spiritani), c’è stato uno sforzo serio di evangelizzazione, specialmente nelle zone rurali.

Consolata in Angola: una storia con futuro

Dopo molti anni, i missionari della Consolata hanno realizzato il sogno del loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano: creare missioni in Angola. Nel 1920, per mancanza di personale, dovette rifiutare l’invito che al riguardo gli era stato fatto. Finalmente il Capitolo Generale del 2005 ha optato per l’apertura nel secondo paese lusofono in Africa, dopo il Mozambico in cui siamo dalla fine del 1925. In un primo momento si era pensato alla Guinea Bissau, dove le missionarie della Consolata già lavorano, ma poi si è scelta l’Angola.

Gli studi per l’apertura della missione in Angola sono iniziati nel 2009. Si è posta l’attenzione su tre territori differenti: la diocesi di Namibe, nel Sud del paese, regione povera e con pochi missionari; l’antica diocesi di Mbanza-Congo, al Nord, anche questa bisognosa di personale missionario, e la periferia urbana intorno alla capitale Luanda, nelle diocesi appena create di Caxito e Viana, dove si concentrano circa cinque milioni di persone, in condizioni che reclamano una presenza di consolazione. Motivi vari, soprattutto il fatto che circa la metà della popolazione angolana, a causa della lunga guerra civile che ha lacerato il paese, si concentra a Luanda e nella sua immensa periferia, hanno portato alla scelta della diocesi di Viana, con l’apertura della missione il primo agosto 2014 nella zona in cui oggi c’è la parrocchia di sant’Agostino di Kapalanga.

Il primo gruppo è formato da tre giovani missionari: i padri  Silvestre Oluoch, keniano, Fredy Gòmez Pèrez, colombiano e Dani Romero Gonzales, venezuelano.

Un’accoglienza generosa

I padri Fredy, Silvestre e Dani ci raccontano che fin dal loro arrivo, provenienti dal Mozambico, sono stati accolti molto bene. Vivono in una casa affittata come la maggior parte delle famiglie della zona. A piedi o con i mezzi pubblici, i tre missionari percorrono ogni giorno l’immenso quartiere di Kapalanga per l’assistenza religiosa e per conoscere i loro fedeli. Qui accompagnano la comunità cristiana nel cammino di fede e di speranza, con una presenza di consolazione soprattutto tra i più poveri. Poco per volta si sono fatti conoscere dai cattolici del quartiere e prestano assistenza pastorale a sette cappelle sparse nel territorio.

Dopo un anno di lavoro pastorale e, vedendo la maturità della comunità cristiana e il buon lavoro fatto dai nuovi missionari, il vescovo di Viana, ha deciso di creare la nuova parrocchia di sant’Agostino di Kapalanga.

I missionari mettono in evidenza lo sforzo e la collaborazione della comunità cristiana locale: il suo lavoro, la generosità e affetto che ha dimostrato con i missionari. Tutto ciò che si è realizzato, lo si è fatto con contributi locali: la sistemazione del terreno della parrocchia, la legalizzazione del terreno delle cappelle e persino la costruzione del salone-chiesa che ora è terminato. La situazione della nuova parrocchia è buona. La sua maturità e crescita sono possibili perché i fedeli sanno condividere i loro beni. Per il prossimo anno i cristiani si mobiliteranno per raccogliere fondi per la costruzione della casa parrocchiale e l’acquisto di un’auto a servizio dei missionari.

Quanto alle preoccupazioni e sfide da affrontare, i tre confratelli hanno messo in risalto: migliorare la pastorale di insieme con un obiettivo chiaro; aumentare comunione e corresponsabilità tra tutte le forse pastorali e i movimenti della parrocchia.

Nuove aperture

Nel dicembre 2015 con padre Marco Marini, abbiamo fatto la prima visita ufficiale nel paese. Oltre al contatto con i missionari, alla presenza alle celebrazioni liturgiche dell’Avvento, della Novena e di Natale, sempre molto partecipate e animate dai fedeli, abbiamo avuto l’opportunità di visitare altre diocesi ed entrare in contatto con vescovi e missionari. L’obiettivo era quello di identificare i luoghi per iniziare due nuove presenze della Consolata in Angola da aprirsi nel 2016. Si sono scelte due diocesi: quella di Caxito, non molto distante da Luanda, e la diocesi di Luena, nella provincia di Moxico, a più di 1.250 Km dalla capitale. Luena si trova nell’estremo Est dell’Angola, confina con il Congo e lo Zambia. Con una estensione di 223.023 chilometri quadrati, due volte e mezza il territorio del Portogallo, e appena 750.000 abitanti, è la diocesi più grande dell’Angola. Vi sono poco più di una ventina di sacerdoti.

Sono stati giorni di intenso lavoro, tra ascolto, riflessione e condivisione; come frutto di questo lavoro sono state fatte delle scelte e dati orientamenti che potranno illuminare la presenza missionaria della Consolata in questo paese. La nostra breve presenza in Angola è una storia che potrà avere futuro.

Stefano Camerlengo e Diamantino Guapo Antunes
Adattato da «Da Casa Madre», 03 / Marzo 2016


4. Italia: gli istituti missionari a favore dei migranti

Progetto Lampedusa

La misericordia spinge i missionari a cercare nuove strade anche in Italia. Accanto al ben noto padre Alex Zanotelli, impegnato nei quartieri caldi di Napoli, ci sono tanti altri uomini e donne che stanno rispondendo all’invito di Cristo «vai e anche tu fatti prossimo». In Sicilia sta nascendo un’iniziativa di servizio condiviso che vede coinvolti due missionari e due missionarie di quattro Istituti diversi.

Il nome Lampedusa evoca senza dubbio, oltre all’isola italiana più vicina all’Africa che all’Italia stessa, drammi di cui ancora oggi purtroppo siamo testimoni: genti in fuga dai propri paesi in guerra oppure dall’estrema povertà che partono con la speranza di trovare serenità e vita migliore al di là del mare. Spesso questa speranza muore con loro inghiottita dalle acque. Quando riesce invece a mettere un piede all’asciutto, è ancora segnata da un percorso difficile che incontra muri, diffidenze, paure, indifferenza, accoglienza negata.

A partire da questa situazione è nato il «progetto Lampedusa»: la Conferenza degli Istituti missionari in Italia (Cimi), proprio per la fedeltà al carisma missionario ad gentes che la caratterizza, ha desiderato offrire alla Chiesa italiana il proprio contributo a servizio dei migranti costituendo una comunità intercongregazionale, maschile e femminile, in Sicilia. È un progetto che mira, più che ad aprire un centro di prima accoglienza, a offrire percorsi di formazione e sostegno, mettendo assieme, ciascun Istituto, la propria ricchezza ed esperienza nel campo della mondialità e della intercultura.

È così che a novembre 2015, suor Giovanna Minardi, missionaria dell’Immacolata, e io, missionario della Consolata, siamo partiti per la Sicilia, inviati dalla Cimi, per conoscere quanto già si sta facendo a favore dei migranti, per pensare un progetto che possa inserirsi nel contesto e rispondere alle necessità e richieste del territorio, e per trovare una diocesi disponibile a ricevere la nascente comunità. Il primo mese è stato quindi dedicato soprattutto all’incontro e al dialogo con alcune realtà della chiesa siciliana e con organismi preposti al servizio ai migranti, quali Caritas Migrantes e Centri diocesani missionari. Questo ci ha portati a visitare le diocesi di Palermo, Ragusa, Agrigento, Messina, Catania e Noto.

La Sicilia non è solo terra di sbarchi, già di per sé un problema grande e causa di molte sofferenze, ma anche di tanti migranti che si fermano e in qualche modo cercano una sistemazione lavorativa. È il caso del ragusano, nella piana di Vittoria e Acate, dove, sotto un manto di serre che producono la maggior parte degli ortaggi che troviamo sulle nostre tavole italiane, vive una popolazione di oltre 15.000 immigrati dedita al lavoro agricolo. Un lavoro stagionale per lo più sottopagato, che ha il sapore dello sfruttamento; immigrati che vivono in abitazioni fatiscenti e malsane; situazioni di precarietà a cui si affianca spesso, soprattutto verso le donne, uno sfruttamento che ha poco del lavorativo.

In questo percorso di conoscenza della realtà, ci siamo sentiti particolarmente benvenuti nella diocesi di Noto, periferia estrema della Sicilia e dell’Italia, tanto da portarci ad approfondire il dialogo con il vescovo che ha dato piena disponibilità ad accoglierci. Alcuni momenti di quell’incontro sono sembrati molto significativi, quasi una conferma di essere giunti al momento giusto, nel luogo giusto, giudati non solo dal nostro impegno, ma dallo Spirito che soffia dove vuole!

Il nostro primo appuntamento con il direttore della Caritas di Noto, il professor Maurilio Assenza, laico e totalmente volontario in questo servizio, ha scritto al cardinal Montenegro, vescovo di Agrigento: «Sì, continuiamo con segni anche belli, tra cui l’incontro con padre Ganni e suor Giovanna, missionari venuti a Modica nel loro giro siciliano per capire dove e come avviare una comunità missionaria intercongregazionale proprio mentre si apriva la Porta santa della Casa don Puglisi (casa della carità, non chiesa né santuario, ma casa che ospita mamme e figli in situazioni disagiate e tra queste anche alcune famiglie di immigrati, nda). Trovando sintonie e pensando a una collocazione in diocesi per un servizio di animazione che può allargarsi ad altre parti della Sicilia, abbiamo avuto un colloquio con il vescovo che ha accolto la proposta e affidato i passi successivi al vicario generale… Mi viene da pensare all’antica idea di un centro per la mondialità e la pace che potrebbe in qualche modo realizzarsi».

Il giorno in cui abbiamo incontrato il vescovo della diocesi di Noto, mons. Antonio Staglianò, che ha manifestato tutto il suo entusiasmo all’idea che la comunità intercongregazionale potesse mettere radici nella sua diocesi, la Chiesa celebrava la memoria di santa Giovanna Saverio Cabrini, patrona dei migranti.

Il cammino della comunità, dopo la piena approvazione della Cimi, si fa concreto. Innanzitutto con l’arrivo di altri due missionari a completare la comunità: padre Vittorio Bonfanti, dei missionari d’Africa, con venti anni di missione in Mali, terra da cui provengono un buon numero di migranti, e suor Raquel Soria, missionaria della Consolata argentina, che colora di inteazionalità la comunità nascente. In secondo luogo con lo stabilirsi a Modica in un appartamento attiguo al santuario della città, messoci a disposizione dalla diocesi.

Chiamati a portare il nostro contributo di conoscenza dell’altro, delle culture e del mondo per sensibilizzare all’accoglienza, ci siamo ritrovati a testimoniare una straordinaria accoglienza ricevuta. E questo ci fa ben sperare! La nostra comunità si inserisce in un contesto fertile, già capace di concreti gesti di solidarietà, come l’adesione al progetto Caritas della Cei, «Rifugiato a casa mia». A partire da questa realtà incontrata la comunità si inserisce suggerendo cammini di conoscenza dell’altro, diverso per cultura, lingua, nazione e fede, attingendo dall’esperienza maturata in anni di vita vissuti tra i popoli del mondo.

Sta di fatto che tutti gli Istituti missionari presenti in Italia si stanno coinvolgendo in prima persona, rispondendo concretamente a questa periferia esistenziale che ha volti e nomi di tanti fratelli e sorelle migranti che affidano le loro speranze a un viaggio in cui giocano la vita, viaggio per cui le acque del mare non sono che il primo grande ostacolo.

Gianni Treglia


5. Venezuela: Per costruire frateità

Nella «selva» di Caracas e del Delta (dell’Orinoco)

Da quasi dieci anni vagabondo per il mondo missionario. E ogni volta che too da un viaggio mi sembra di sapee meno di prima. Ho meno certezze e più dubbi. Ma è forse per questo
motivo che amo girare: perché il mondo sa ancora sorprendermi e meravigliarmi. Con questo spirito sono andato e tornato dal Venezuela un paese affascinante e contraddittorio.

Il Venezuela, una nazione benedetta da Dio con incalcolabili risorse naturali e umane, vive, oggi, un momento molto difficile della sua storia.

Nel 1999, il popolo venezuelano, stanco della situazione politica, aveva intravisto in Hugo Rafael Chávez la soluzione alla corruzione e al clientelismo, quindi la speranza del cambiamento. Oggi però, morto Chávez, con la politica in stallo tra parlamento e presidente Maduro e la gravissima crisi economica, la reale situazione del Venezuela è complessa, difficile e precaria.

La Conferenza episcopale venezuelana ha denunciato i problemi senza paura. In diverse occasioni ha manifestato la sua opposizione «all’usura, alla corruzione e alla speculazione». I vescovi hanno messo in guardia sullo spreco, sulle spese fatte in modo sfrenato: «Ci preoccupa che molte persone, in un impeto di euforia, ritengono che con l’acquisto di alcuni elettrodomestici abbiano risolto i principali problemi che li affliggono. È anche preoccupante che questo clima di euforia possa degenerare in violenza e scontri tra le persone, cosa che diventa difficile da controllare, e tutti dovremmo rifiutare». Essi ricordano continuamente che «la situazione economica del paese deve essere affrontata in primo luogo dalle autorità pubbliche in dialogo con gli uomini d’affari, commercianti e istituzioni. È necessario creare un clima di fiducia che consenta la riattivazione della produzione e dello sviluppo socio economico a vantaggio della comunità, in particolare dei più poveri e vulnerabili».

La presenza dei missionari della Consolata

La mia visita canonica in Venezuela è stata caratterizzata dalla parola chiave «frateità». Un grande valore da riscoprire e rivalorizzare. Ho incontrato persone felici di ciò che sono, missionari giovani e generosi che, pur nelle innumerevoli difficoltà quotidiane, sanno trovare e vivere la gioia dell’incontro, la forza dello stare assieme costruendo qualche cosa di buono. I sedici missionari (venezuelani, italiani e kenyani) sono disponibili, impegnati, innamorati della loro missione e della gente con cui la realizzano. La gente è aperta e molto disponibile e accogliente, ci sono persone che pur vivendo in città sanno mettersi a disposizione per la missione pagando anche di persona.

A Caracas i nostri missionari insieme ad altri missionari e missionarie di altre congregazioni hanno aperto una casa di accoglienza per persone senza casa, gente della strada che può qui trovare riparo e sostegno e, se disponibile, anche aiuto per rilanciarsi nella vita.

Carapita

A Caracas, capitale del Venezuela, abbiamo una parrocchia situata nella periferia, abitata da almeno 150-200.000 persone che vivono in casette di fortuna incollate sulle colline. È un agglomerato di problemi, violenza, droga e malavita, ma anche di gente per bene che si guadagna il pane con un duro lavoro quotidiano e che poi, alla sera, si mette ancora in coda per arrivare alla sua casetta e vivere un momento di serenità con la propria famiglia. In questa situazione i nostri missionari cercano di costruire speranza ed essere segno di consolazione per un gruppo di cristiani che, certamente, non sono maggioranza, ma sono presenza e frateità.

Inoltre a Caracas, oltre alla parrocchia di Carapita, abbiamo la Casa regionale, con un centro per l’Animazione missionaria vocazionale (Amv). La casa regionale è un pochino originale in quanto non rappresenta lo stile delle solite case regionali, luogo di uffici e di organizzazione, ma è proprio la casa di tutti e dove tutti possono trovare un letto per dormire, un pasto da condividere e qualcuno che ascolta i loro problemi. E quando dico tutti voglio dire tutti, non soltanto i missionari.

L’impegno missionario è attivamente condiviso con i laici della Consolata e con gli amici della Consolata, un’esperienza importante che vale la pena di far conoscere.

Tucupita

Tra tutte queste nostre presenze merita un ricordo particolare quella in mezzo agli indigeni. Abbiamo un’équipe di cinque missionari di diverse nazionalità che lavorano in due comunità distinte a Tucupita: una nella città stessa, dove gli indigeni si trasferiscono in tempi difficili o alla ricerca di qualsiasi tipo di lavoro, e l’altra, la Comunidad Apostólica de Nabasanuka, nella Parroquia Divina Pastora de Araguaimujo, nel Delta Amacuro dove gli indigeni Warao vivono su palafitte piantate in riva al fiume.

Il Delta Amacuro è uno degli stati del Venezuela. È situato nella parte orientale del paese nella valle dell’Orinoco e confina a Nord con l’Oceano Atlantico, a Sud con lo stato di Bolívar, a Est con l’Oceano Atlantico e la Guyana e a Ovest con lo stato di Monagas. Forma, con gli Stati Bolívar e Amazonas, una macroregione nota come Guyana venezuelana. Circa la metà della superficie dello stato (20.000 km² su un totale di 40.200) è occupata dal vasto delta del fiume Orinoco all’interno del quale si trovano numerosissime isole formate da depositi alluvionali e separate fra di loro da diversi canali navigabili.

In queste due comunità i nostri missionari, con l’aiuto di molti volontari, amici, collaboratori e laici della Consolata, cercano di essere punto di riferimento, segno di consolazione, casa di speranza. È impressionante quante persone riescano a coinvolgere e a mettere dentro il progetto, allargando sempre il cerchio, permettendo a tanti d’incontrarsi, di conoscersi, di volersi bene e di formare spazi nuovi d’interculturalità per il bene di tutti.

I laici della Consolata

Per finire questa presentazione della nostra vita e presenza in Venezuela, vorrei dire una parola sui laici della Consolata. Quasi in tutti i paesi dove siamo presenti abbiamo delle persone che si avvicinano a noi e vogliono condividere il nostro carisma, la nostra missione. Chiaramente il carisma non è proprietà di nessuno e ha valore proprio perché condiviso. Ma certamente in Venezuela ci sono giovani, coppie e famiglie, adulti speciali che hanno la volontà grande di camminare con noi fino in fondo e pagando di persona con grandi sacrifici e grande disponibilità, mettendosi al servizio della gente e della missione. Sono persone che dobbiamo ringraziare e incoraggiare in quanto la loro presenza è per noi stimolo e richiamo a essere sempre più autentici testimoni, missionari veri della Consolata. Ci stanno insegnando che il laico è titolare della missione e non eterno supplente del sacerdote, che ha un ruolo fondamentale nella missione attuale e del futuro.

Stefano Camerlengo

 

I Warao

L’etnia Warao è molto probabilmente di origine asiatica, come testimoniano i più recenti studi antropologici. Nel periodo precolombiano abitavano le più fertili terre dell’Ovest. Cacciati da una tribù di guerrieri si rifugiarono nella zona orientale del delta, in quello che oggi è parte dello stato del Delta Amacuro. Durante la fase coloniale riuscirono a mantenere una certa indipendenza dagli spagnoli grazie all’ambiente inospitale della regione.

La vita scorre con le stagioni del fiume: Rio Negro, quando il livello del fiume si alza e allaga tutte le terre emerse; Rio Amarillio, quando nel Nord la terra gialla viene trascinata al fiume dai temporali impetuosi; Rio Blanco, nella stagione di secca, in cui piove poco e la terra sedimenta lungo il corso dell’Orinoco, lasciando il fiume limpido alla fine del suo viaggio. Per ogni stagione il Warao sa cosa, come e quando si deve cacciare e pescare. Le altri fonti di sostentamento sono il platano, l’ocumo, una radice tozza di gusto simile alla manioca, e la palma di Morice, che fornisce oltre ai frutti anche una farina (yukuma) molto apprezzata. La palma di Morice è la pianta più importante per i Warao: le foglie sono usate per il tetto delle abitazioni, da queste si ricavano anche le fibre che intrecciate preparano il chinchorro (l’amaca) e tutti gli oggetti che vengono venduti in città. Dal tronco, oltre alla farina, si ottengono medicamenti contro la febbre e la dissenteria, mentre i frutti racchiudono una polpa sottilissima, schiacciata tra la buccia a dure scaglie rossastre ed il nocciolo legnoso».

Mediamente i genitori Warao hanno dagli 8 ai 10 figli. La mortalità infantile, anche a causa dell’alimentazione scarsa e poco varia, è molto elevata. Le cifre ufficiali parlano di statistiche pienamente nella media venezuelana, ma sono falsate poiché i bambini non sono registrati all’anagrafe fintanto che non raggiungono i 4 anni, quando ormai è stata superata la fase a rischio. Le coppie nella cultura tradizionale si sposano molto presto e molto semplicemente. Quando la ragazza raggiunge la pubertà, il giovane si reca dalla suocera per chiedere la mano della figlia e, ottenuto l’assenso, si stabiliscono nella casa dei genitori della sposa. Il capo clan è il padre della sposa, che tramite le figlie comunica ai generi i compiti, dal preparare il campo per la semina dell’ocumo, all’andare al monte e cercare un albero per costruire una nuova curiara (barca). Le abitazioni sono palafitte, chiuse su due o tre lati quelle modee, aperte su tutti i lati quelle tradizionali per permettere all’aria di mitigare il caldo umido del fiume. Al tetto vengono fissate delle ceste con i vestiti e le amache, e a terra, sopra delle pietre, viene acceso il fuoco per cucinare. Gli spostamenti possono essere unicamente in curiara, una canoa molto nervosa e instabile, ma che nelle mani dei Warao diventa estremamente docile.

 Federico Franzoso,
di Impegnarsi Serve

 




Le lettere

«Vendi tutto…»

Gentile direttore, le scrivo in merito alla risposta che lei ha dato al sig. Cesare Verdi (Mc 04/2016, pag. 7). Secondo il mio parere se coloro che dovrebbero essere «luce» non riescono a capire il senso delle parole «vendi tutto… e seguimi», vuol dire che non hanno seguito Cristo.

Lei scrive: «Ci sono centinaia di case religiose vuote… ma non hanno i requisiti… e sono invendibili». Vendetele sottocosto queste proprietà e il ricavato datelo ai poveri. Aggiungo che ci sono pure i «tesori» delle basiliche e dei santuari che si potrebbero «smaltire» per l’aiuto dei poveri.

Alla Caritas arrivano i doni/pacchi del popolo e distribuire quello donato dagli altri è facile. Se non vado errando la chiesa è proprietaria di una banca.

Non si fermi a queste piccolissime considerazioni, ma vada a pensare a quante donazioni riceve la chiesa e quanto è ricca la chiesa. Se il «sale» perde il sapore…

R. S. – 12/04/2016

Ho già risposto privatamente al nostro lettore. Riprendo e aggiungo qui alcuni punti per approfondire insieme il dibattito, cominciato dalla «proposta» di mandare navi da crociera a raccogliere i profughi in mare (Mc 1-2/2016).

• Immobili religiosi.

È certamente una questione che si presta a un dibattito senza fine e potenzialmente populista. Senza tener conto che sta creando un sacco di sofferenze e disagi all’interno delle congregazioni religiose stesse. Ricordo un vecchio religioso che un giorno mi ha fatto l’elenco di ben dieci case da oltre cento posti l’una nel raggio di venti chilometri in una valle del Piemonte: vuote da anni e invendute perché nessuno le vuole, neppure regalate. Neppure i comuni le vogliono, visti i tagli alle spese cui sono costretti.

Diversi istituti sono stati fortunati riuscendo a riciclare tali edifici al servizio di onlus, associazioni di volontariato, gruppi culturali. Ma l’invecchiamento delle comunità religiose e la mancanza di vocazioni italiane farà ancora aumentare l’offerta di tali edifici. Ogni tanto questo fa notizia, soprattutto quando si tratta della chiusura di questo o di quel convento storico tra l’amarezza della popolazione locale.

• Smaltire i tesori.

Niente di nuovo in questo. Quanti santuari e chiese hanno venduto ori e pietre preziose subito dopo la seconda guerra mondiale per aiutare i poveri! Non tutto è oro quello che luccica, neppure nei santuari. Inoltre spesso questi tesori non sono neanche più di vera proprietà della Chiesa (intesa come «vescovi, preti e religiosi», almeno da come capisco la sua accezione). Questi «tesori», quando veri, sono di proprietà della comunità (Chiesa fatta di tutti i credenti) locale e normalmente registrati e controllati dal Ministero dei Beni culturali, per cui diventano inalienabili.

Non rischiamo poi di cadere in slogan populisti, tipo quello di chi proponeva la vendita del Vaticano per finanziare la lotta alla fame nel mondo. Di tutt’altro stile era Raul Follereau (chi lo ricorda ancora?) che negli anni Sessanta chiedeva a Russia e America l’equivalente del costo di due cacciabombardieri per risolvere il problema della lebbra nel mondo. E non li ha ottenuti.

• Distribuire è facile.

Forse sì. Se lo si fa ogni tanto. Ma le garantisco che chi, laico o religioso, ha la responsabilità della continuità in un progetto caritativo non può dormire sonni tranquilli, anche se si fida della Divina Provvidenza. Lo sa bene chi è dentro una onlus per aiutare i poveri, nella San Vincenzo o nella Caritas, o chi si cura di orfani, studenti, affamati e «scarti» di ogni tipo nelle periferie del mondo. Per distribuire bisogna avere, e per avere bisogna chiedere, mendicare, supplicare, tener fresca la memoria e quanto altro per creare un flusso continuo di «carità». E poi non basta «dare», occorre un dare con intelligenza, che coinvolga chi riceve, che faccia crescere, responsabilizzi, faccia uscire dall’ignoranza, dalla dipendenza. Tutto questo è un impegno grande, che non fa notizia.

• Dar l’esempio.

È vero che chi dovrebbe essere «luce» dovrebbe dare l’esempio. Ma le assicuro che l’esempio lo danno in tantissimi, anche se nei media fa notizia solo chi fa scandalo. E non lo scrivo solo per difendere la categoria. È una questione di giustizia verso un numero incredibile di cristiani, religiosi e laici, che si sono spesi e si spendono ogni giorno. Quanti missionari/e ho conosciuto che hanno canalizzato/canalizzano milioni (se non miliardi) di aiuti per i poveri, per rientrare poi a morire in Italia con una valigia da 20 chili e montagne di ricordi.

• Giustizia.

La questione di tanti immobili «ecclesiastici» sottoutilizzati o vuoti non è facile da risolvere. E non è solo una questione economica. Tali edifici sono stati costruiti con i soldi della gente ed è giusto che tornino alla gente per essere riutilizzati per il bene comune. Per chi oggi li possiede sono solo un peso di tasse e manutenzione. Basterà l’uscita dalla presente crisi economica per risolvere il problema e far sì che questi edifici siano usati per il bene comune e non svenduti a speculatori? Non sono un buon profeta a proposito, ma credo che la soluzione non stia nei soldi ma in persone nuove disposte a dare la vita per gli «scarti» del mondo e quindi capaci anche di ridare nuovo spirito a edifici che un tempo sono stati pieni di vita, gioia, generosità e sogni.

 

Europa

Egregio Direttore,
grazie per la sua risposta a commento del mio intervento pubblicato sul numero di aprile della sua rivista, risposta che giudico tuttavia debole e insoddisfacente. Anche nel mio intervento mettevo in rilievo gli errori e l’inadeguatezza della politica europea in sede di Unione e degli stati membri indistintamente, ma con l’aria che tira in Europa (Brexit, immigrazione, governi polacco e ungherese, crisi greca, movimenti populisti e xenofobi in espansione…) mi chiedo e le chiedo se si senta veramente la necessità e l’utilità di «provocazioni» quali quelle del prof. Amoroso. Con i miei migliori saluti.

Walter Cavallini – 18/04/2016

Di Afrikaneer e di Cristeros

Note su due articoli della vostra bella rivista di aprile.

1) Africaneer. Quando si parla di loro è il caso di ricordare che quelli di origine olandese erano in buona parte valdesi del Piemonte, fuggiti in Olanda nel 1686 (altri in Prussia e in Inghilterra) per sottrarsi alle feroci persecuzioni volute da Luigi XIV, succube della «compagnia del SS. Sacramento» protetta dalla moglie morganatica M.me de Maintenon. Ancora alla fine dell’egemonia afrikaneer, i nomi dei leader erano piemontesi: Malan, Botha (Botta) , Vigloner (Viglione). In Piazza Castello, a Torino, è segnato in bronzo il punto in cui, su richiesta dell’Inquisizione, fu bruciato un pastore valdese.

2) Cristeros. La persecuzione dei Cristeros nasce in seguito all’atteggiamento della Chiesa (che possedeva quasi la metà delle terre e degli immobili del Messico) ai tempi dell’occupazione franco-inglese con l’imperatore Massimiliano, dovuta al mancato pagamento degli interessi sul debito estero. Il partito conservatore e la Chiesa approvarono l’occupazione, che evitava loro confische e tasse, ma che suscitò una guerra civile finita quando gli Usa, terminata la loro guerra civile, mandarono un esercito ai confini per ripristinare la dottrina Monroe (gli Usa non tollerano presenze straniere nel continente). Dopo di che furono venduti all’asta molti beni della Chiesa e i compratori divennero massoni, anche per autodifesa.

Dalla lotta dei Cristeros contro le persecuzioni (di cui parla anche Hemingway in uno dei 49 racconti) discendono anche le basi ideali e sociali su cui un ignobile personaggio, troppo protetto in Vaticano fino a papa Benedetto, costruì il movimento dei «legionari di Cristo».

Claudio Bellavista – 02/04/2016

Grazie per l’interessante nota sugli Afrikaneer. Ma mi permetto di non concordare sull’analisi riguardo ai Cristeros. La storia del Messico, fin dalla sua indipendenza nel 1821, non è stata facile, segnata come fu da ingerenze straniere (vedi l’imperatore Massimiliano sostenuto dalla Francia) e da violenze e guerre civili. Ma chi ha interferito di più in quel paese, sono stati gli Usa che non hanno esitato a fargli guerra (1830) per poi strappargli alcuni stati importanti come la Califoia, il Texas e il New Mexico, e hanno poi sostenuto in tutti i modi un’oligarchia locale favorevole ai loro interessi. Non contenti di questo hanno promosso un’aggresiva attività missionaria protestante allo scopo di scalzare l’influenza cattolica. Hanno inoltre spalleggiato i governanti a loro favorevoli grazie alla massoneria, che nei primi decenni del Novecento era ben decisa non solo a dividere politica e religione, ma a cancellare ogni influenza della Chiesa cattolica, e non solo in Messico. Che chi ha incamerato i beni della Chiesa si sia fatto poi massone «per autodifesa» o per convenienza, non discuto e non entro neppure nel merito della discutibile dottrina Monroe del 2 dicembre 1823, che ha giustificato tutte le pesanti interferenze degli Usa nella vita dei paesi latinoamericani.

La lotta dei Cristeros fu una lotta autenticamente popolare e spontanea, pagata con migliaia di morti. La repressione, armata con le armi foite dai nordamericani, fu invece gestita da un’oligarchia strettamente collegata a interessi stranieri e spietata con il proprio popolo.

C’è poi una differenza fondamentale tra le proprietà della Chiesa e quelle delle oligarchie. Le proprietà e i beni della Chiesa in fondo rimangono sempre del popolo, perché figli del popolo erano i sacerdoti, religiosi e religiose che li gestivano, persone strettamente legate alla loro terra, alla loro gente, alle loro famiglie. Le oligarchie gestiscono le proprietà per il loro potere e per l’arricchimento, spesso ottenuto con lo sfruttamento sfacciato dei lavoratori mantenuti sistematicamente in situazioni di dipendenza e miseria.

Ne abbiamo un esempio anche oggi, con le multinazionali che, focalizzate sul massimo profitto, operano fuori di ogni controllo nazionale, spostano i loro centri di produzione dove gli operai sono meno pagati e meno sindacalmente organizzati e cercano tutti i modi di evadere le tasse.

Quanto al fondatore dei Legionari di Cristo (ordine religioso e non movimento) non credo sia legittimo usare la sua vita schizofrenica per denigrare i Cristeros, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Gesù Cristo e alla Chiesa, contro un regime che, nel nome della libertà, non tollerava diversità e opposizione e, una volta raggiunto un accordo di pace, non ha mantenuto i patti, continuando a massacrare chi aveva osato pensare diverso.

Copie non recapitate

Buongiorno,
sono una vostra abbonata e leggo con molto piacere e attenzione la rivista. Non mi è arrivato il numero di marzo 2016 e pur avendo visto che è sfogliabile in internet preferisco il cartaceo perché li colleziono ed anche perché avendo una certa età riesco poco e male a leggere sul monitor. Vi sarei grata se – quando volete e potete – mi inviaste la copia.
Sempre complimenti ed un cordiale saluto.

M. C. – 23/04/2016

Prendo spunto da questa email per precisare che mandiamo sempre e a tutti con regolarità la nostra rivista perché arrivi all’inizio di ogni mese. Se non vi arriva la vostra copia (dieci all’anno con calendario a novembre e numerazione doppia a gennaio / febbraio e agosto / settembre), fatecelo sapere e ve ne mandiamo un’altra. Ma, se possibile, protestate un po’ con il vostro ufficio postale locale.

Gianni Minà

Caro Direttore,
un grazie di vero cuore, per la rivista Missioni Consolata, che puntualmente mi arriva a casa ogni mese.
I vari articoli sono sempre molto interessanti; veritieri e non di parte.
Il mensile si chiude poi con l’articolo di Gianni Minà, giornalista di alto livello, che presenta il personaggio di tuo più con il cuore che non con gli occhi, che, a mio modesto avviso, è il finale perfetto per una giusta diffusione di notizie mondiali, importanti e talvolta tragiche, esposte sempre in modo umano e sentito, mai in modo morboso e apocalittico, come purtroppo sovente capita.
Ancora un grazie, veramente sincero e buon proseguimento. Con simpatia.

Concé Canova – Corio (To), 04/04/2016

I primi in Mozambico

Carissimo Direttore,
ho letto su MC di gennaio-febbraio 2016 del novantesimo anniversario dell’arrivo dei primi cinque missionari della Consolata in Mozambico. Ma in realtà erano più di cinque. Infatti nel 1925 ne sono arrivati cinque da Torino, e quattro dal Kenya, inviati dal nostro padre Fondatore. Uno era mio cugino padre Giulio Peyrani, figlio di una sorella di mia nonna. Nel 1960 in Casa Madre mi ha raccontato tutta la sua vita, aveva ancora la lettera che aveva ricevuto dal Fondatore. Lui lavorava da diversi anni in Kenya e il Fondatore gli chiedeva per favore se era disposto a partecipare alla prima spedizione per il Mozambico e studiare la nuova lingua. Lui e altri tre accettarono e partirono. Si incontrarono con quelli arrivati da Torino e insieme partirono a piedi, passando le foreste per arrivare nella diocesi di Tete, dove fondarono la prima missione.
Grazie per l’attenzione e cari saluti.

Fratel Torta Francesco –  Cavi di Lavagna (GE)

Grazie della preziosa precisazione e per il bel ricordo che hai del tuo zio, che poi hai seguito diventando tu stesso missionario in Mozambico.

Questi sono i primi otto missionari che il 30 ottobre 1925 sbarcarono nel porto di Beira in Mozambico: i padri Vittorio Sandrone (superiore del gruppo), Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto che avevano già fatto esperienza missionaria in Kenya, e i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello con lo studente Secondo Ghiglia provenienti da Torino dopo aver ricevuto il crocefisso dalle mani del beato Allamano. Il nono, padre Giuseppe Amiotti, si sarebbe aggiunto più avanti per sostituire Sperta che si ammalò subito e dovette essere accompagnato in Kenya da padre Calandri per curarsi. Da Beira risalirono il fiume Zambesi con un vaporetto e dopo una lunga e penosa navigazione sul fiume quasi in secca arrivarono a Tete il 10 gennaio 1926. Mentre padre Peyrani si fermava a Tete, gli altri proseguirono fino alla missione di Miruru, fondata tanti anni prima dai Gesuiti, ma poi abbandonata dopo la loro espulsione dal Portogallo (1759). Padre Calandri rientrò dal Kenya a giugno accompagnato da padre Giuseppe Amiotti, buon fotografo, a cui si devono alcune delle più belle foto di quegli anni. Egli lasciò poi l’Istituto per rientrare in diocesi. Alla sua morte lasciò il suo album di foto del Mozambico ai nipoti, l’ultimo dei quali lo ha recentemente donato alla rivista perché fosse conservato.

 




Missione Europa: dalla memoria all’azione


Due anni fa, come missionari e missionarie della Consolata abbiamo promosso in tutte le nostre comunità sparse per il mondo un anno speciale dedicato al beato Giuseppe Allamano. Lo scopo di quell’iniziativa era di riscoprire e rinnovare il legame affettivo con la persona del nostro fondatore, per scongiurare il rischio di lasciare arrugginire il rapporto vitale con la nostra storia.

Quando uno entra a far parte dei missionari della Consolata,  è chiamato a vivere una relazione speciale con l’Istituto, che l’Allamano ha sempre considerato come una famiglia. In questa maniera non banalizza né narcotizza nella routine quotidiana uno stile di vita per la missione che invece va continuamente rivitalizzato e rinnovato. La missione non si vive per abitudine, ma richiede di essere riscoperta, rivissuta e ripresentata con forza in modo appassionato e coinvolgente.

Se questa riflessione è valida per tutti i missionari sparsi nei vari continenti, in Europa è ancora più urgente, a causa della profonda trasformazione che il continente sta vivendo. Una situazione che offre spunti di enorme interesse alla riflessione sulla missione. Per anni l’Europa è stato lo scrigno della nostra tradizione. Ma ora rischia di essere la nostra tomba. Senza voler essere irriverenti, dobbiamo oggi estrarre il «tesoro» del beato Allamano che abbiamo chiuso nel sepolcro in cui egli è venerato, allo scopo di proiettarlo, senza bisogno di troppe parole ma attraverso la nostra vita e le nostre scelte, nelle periferie geografiche ed esistenziali dell’Italia, del Portogallo, della Spagna e della Polonia, i paesi europei in cui lavoriamo.

Siamo quindi chiamati oggi a coltivare una duplice spiritualità: della memoria e dell’azione. Innanzitutto della memoria: qui siamo nati, qui l’Istituto ha mosso i primi passi, qui si è sviluppato e da qui ha vissuto la propria missione, dedicandosi all’animazione missionaria della Chiesa locale, alla ricerca di aiuti e vocazioni per le missioni. Qui alcuni grandi confratelli e consorelle hanno dedicato con zelo e passione la loro vita per mantenere e far crescere la dimensione missionaria della Chiesa in Europa. Riscoprire la figura dell’Allamano sacerdote in Europa, e quella dei confratelli che ne hanno continuato lo spirito, è il primo compito che ci proponiamo. Saremo forse nani sulle spalle di giganti, come diceva Wittgenstein dei grandi filosofi dell’antichità, ma dall’alto di quelle robuste spalle che ci sostengono, vogliamo guardare lontano.

La memoria da sola non basta, va perciò coniugata con una spiritualità dell’azione per capire come tradurre in atteggiamenti concreti lo spirito del missionario della Consolata in un contesto come quello europeo. Senza abbandonare quella che era «l’animazione missionaria», oggi abbiamo in atto tante nuove esperienze di consolazione e annuncio all’interno delle chiese europee. L’apertura di nuove presenze in quartieri marginali, l’accoglienza di profughi e migranti in alcune delle nostre case, il servizio alle comunità etniche o alle donne sfruttate, le molteplici attività di consolazione dirette a curare l’uomo di oggi ferito dalla solitudine e dal sentirsi uno scarto della società, la vicinanza ai giovani ormai lontani dalla vita ecclesiale, eppure così desiderosi di qualcuno che parli loro di Dio …

Possiamo riscoprire la nostra vocazione di annunciatori della Buona Notizia nei «nostri» paesi diventati un terreno fertile per vivere la nostra vocazione delle origini: il primo annuncio del Vangelo.

Ugo Pozzoli

 




Vecchio continente nuova missione


Iniziamo in questo numero una serie di brevi articoli per raccontare la nostra (come vissuta e sentita da noi missionari della Consolata) missione nel vecchio continente. Come è oggi, e come sogniamo che sia domani.

2016_04 MC Hqsm_Pagina_81L’Europa, un tempo bacino di vocazioni missionarie e deposito di risorse per la cooperazione, ha cambiato volto. Non siamo semplicemente passati da un tempo di vacche grasse a uno di vacche magre: il cosiddetto «vecchio continente» è diventato qualcosa d’altro. Sono cambiati i contesti culturali, sociali e religiosi, e questa mutazione (ancora in atto) è stata talmente veloce da coglierci impreparati. Cambiano le istituzioni, fra cui anche la Chiesa, e oggi, ci dicono le statistiche, il Vangelo trova più facilmente casa altrove. In alcuni dei nostri paesi siamo ancora pieni di diocesi, vescovi, strutture, ma le chiese si svuotano, e al di fuori di esse non si vede un grandissimo fermento ecclesiale, soprattutto fra i più giovani. L’inarrestabile fenomeno migratorio sta cambiando in maniera irreversibile le nostre città e i nostri paesi. Di questi tempi, per trovare non cristiani, non dobbiamo più andare in Agrica o nell’estremo Oriente: li troviamo «comodamente» dietro l’angolo. Sono coloro che vengono da altre culture e tradizioni, ma anche gli stessi europei che, per mille ragioni diverse, hanno abbandonato la Chiesa e, spesso, anche la pratica personale della fede.

Di fronte a questa lettura della realtà, pur superficialmente tratteggiata, anche i missionari della Consolata si stanno interrogando sul ruolo da assumere oggi in Europa. Appare chiaro che esso non può essere uguale a quello di un tempo. La missione di una volta non esiste più; facciamo fatica a rendercene conto, ma questa è la realtà. Oggi, la media dei missionari europei è avanti negli anni, e la maggior parte delle nostre attività si svolge in altri contesti. Cambia, in modo significativo, anche la nostra geografia vocazionale. Infatti, sono ormai parecchi i confratelli provenienti da altri continenti, in particolare da quello africano, che lavorano oggi in Europa.

A partire da questo mese, vi racconteremo come stiamo provando ad assumere le esigenze di questa nuova missione, con profonda attenzione ai tempi che viviamo, e nella fedeltà al nostro carisma. La chiamata ad annunciare il Vangelo è per sempre; cambiano gli stili, si modificano i contesti, ma il mandato missionario alla testimonianza e all’annunzio resta invariato. Per questo motivo, da qualche tempo, abbiamo intensificato la riflessione sulla nostra missione in Europa, partendo da quanto già facciamo in alcune realtà ad gentes che ci vedono impegnati in Italia, Spagna e Portogallo.

Il primo obiettivo che ci siamo dati consiste nello stabilire una concordanza sui criteri comuni che fanno di noi dei missionari della Consolata ovunque siamo e da qualsiasi parte del mondo proveniamo. Questo è il primo fondamentale passo per arrivare alla redazione del «Progetto missionario del Continente Europa», che stiamo preparando per vivere con maggior entusiasmo ed efficacia la nostra missione al servizio delle chiese locali. Vorremmo farlo in modo originale e creativo, mettendo in gioco le caratteristiche proprie del nostro carisma, il bagaglio di esperienza missionaria maturata in altre aree del mondo e il ricco patrimonio della convivenza interculturale che, se ben vissuta, può diventare oggi uno strumento potente di evangelizzazione.

Ugo Pozzoli


Questi brevi articoli sono pubblicati in contemporanea su Antena misionera in Spagna e Fatima missionaria in Portogallo.