Lumache e camaleonti


Quando avrete tra le mani questo numero di MC, il Capitolo generale dei missionari della Consolata sarà già concluso. Mentre scrivo, invece, è ancora in corso.
Mi sembra di vivere in un mondo irreale, chiuso tra le mura di questa casa a due passi da san Pietro, assordato giorno e notte dal garrito dei gabbiani che hanno invaso il bel cielo di Roma, con il tempo ritmato dalle campane della basilica, il sordo rumore di fondo del traffico e il ta-ta-tum-ta-ta lontano dei fuochi artificiali che quasi ogni notte scoppiano lontano (ma cos’hanno sempre da celebrare in questa città?). Le ore passano veloci tra riunioni e sedute, preghiera e studio, condivisione e servizi. La possibilità di pregare il rosario passeggiando sotto i mandarini del nostro piccolo giardino è una benedizione per corpo e spirito.

Eppure non siamo qui per stare fuori dal mondo. Siamo qui per ricaricarci e per essere, sempre più, veri missionari. Lo scopo del nostro stare insieme per quattro settimane, 45 missionari originari di tre continenti (Africa, Europa e America Latina), è proprio quello di aprire il cuore e la mente alla realtà per tornarvi con energia e vita nuova, per «essere nel mondo» in maniera sempre più efficace e responsabile.

«Rivitalizzazione» e «ristrutturazione» sono le due parole più usate in questi giorni. E il buffo è che più ne parliamo, più io penso a due animaletti che sono entrati di soppiatto nel nostro capitolo: il camaleonte e la lumaca. Sono «scappati dalla borsa» di padre Giuseppe Frizzi, un bergamasco, missionario in Mozambico da una vita. Nel 1989, a gennaio, era a Nipepe quando suor Irene Stefani, ora beata, dissetò per diversi giorni un centinaio di persone – chiuse nella chiesa a causa delle minacce dei ribelli della Renamo che avevano assalito il villaggio – facendo scaturire acqua da un tronco secco, usato solitamente come fonte battesimale. Il «vecchio veterano» padre Giuseppe è venuto a condividere con noi capitolari lo speciale stile missionario della nostra beata e a raccontarci come i Makua di Nipepe l’avessero capita. L’ha fatto tramite immagini disegnate da artisti del posto. In alcune di esse, suor Irene era paragonata a un camaleonte, in un altro a una lumaca.

Io subito mi sono domandato: com’è possibile paragonare una missionaria dinamica e attiva come suor Irene alla lumaca, simbolo della pigrizia, o al camaleonte, simbolo del trasformismo che evita tutte le difficoltà?

Ho provato allora a mettermi nella prospettiva di padre Frizzi e dei suoi Makua: la lumaca è una creatura che non si lascia fermare da nessun ostacolo. Che il terreno sia liscio o ruvido, piano o in salita, spinoso o corrugato, sassoso o impolverato, bagnato o asciutto, lei avanza sempre. Niente la ferma. E lo fa senza violenza, senza imporsi, senza distruggere sul suo cammino. Altro che pigra! Una forza della natura invece. Però una forza mite, rispettosa.

E il camaleonte? È una sorpresa ancora più grande: egli, pur rimanendo se stesso, sa entrare in un ambiente senza spaventare, senza imporsi, con gesti lenti e misurati, assumendo il colore di chi è attorno a lui, diventando parte dell’ambiente.

Proprio come suor Irene che sapeva entrare nella vita delle persone con pazienza e mitezza, senza violenza o imposizione, nel rispetto dell’altro, della sua sensibilità e cultura. Delicata e sensibile, ma nello stesso tempo pertinace, resistente, inarrestabile. Disposta a farsi consumare dalla fatica, a dare tutto, pur di comunicare l’Amore di Dio.

Davvero una provocazione per i missionari di oggi e per ogni cristiano. Un modo di essere decisamente contro corrente, in un mondo in cui sembra prevalere la logica dell’imposizione con la forza (vedi ad esempio la corsa agli armamenti), del prendere per sé ciò che si vuole con ogni mezzo (land e water grabbing, rapina delle risorse, traffico di persone, giochi in borsa, corruzione, violenza sulle donne, ecc.) e della rassegnazione (di fronte a disastri o situazioni che non ci interessano finché non ci toccano). Il modo di vivere di una persona che, come la lumaca, spende senza riserve tutto quello che è e che ha, non si rassegna mai, non si lascia fermare da nessun ostacolo, non aspetta che siano gli altri a muoversi per primi e agisce con mitezza e rispetto, senza la fretta di avere i risultati «ieri» … ci fa dire: «Wow! Forse vale la pena pensarci».

Se poi, come il camaleonte, assumessimo i valori e le cose belle degli altri, facendo diventare il rispetto dialogo, l’accoglienza uno scambio, l’incontro una festa … tanto più direi: «Ne vale la pena!».

Per noi missionari «professionisti». Ma non sarebbe una bella proposta per ogni cristiano?

 




Con generosità per la Missione ad gentes


Oggi, lunedì 5 giugno, primo giorno dopo Pentecoste, i membri dei due capitoli generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata sono stati ricevuti in udienza privata da papa Francesco nella Sala Clementina. Un incontro cercato e desiderato da tutti, in linea con lo stile voluto per noi dal nostro Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che ci voleva “papalini” fino all’osso. Grazie papa Francesco per quanto ci hai detto e soprattutto per avere avuto un sorriso per ciascuno di noi e avere la pazienza di salutarci personalmente uno ad uno. Grazie.

Suor Simona a papa Francesco a nome di tutti i capitolari

Santità,
È una grandissima gioia per noi essere qui con Lei oggi! Grazie per aver accolto la nostra richiesta di una udienza! Siamo i capitolari e le capitolari Missionari e Missionarie della Consolata, una famiglia religiosa nata per la missione ad gentes più di cento anni fa a Torino. Il nostro Fondatore è il Beato Giuseppe Allamano, sacerdote della Diocesi di Torino, Rettore del Santuario della Consolata, appassionato della missione. Egli fondò i Missionari della Consolata nel 1901 e le Missionarie della Consolata nel 1910. Siamo oggi presenti in diverse Nazioni di 4 continenti: Africa, America, Asia e Europa.

 

Stiamo celebrando i due Capitoli generali, rispettivamente l’XI Capitolo per le Missionarie e il XIII per i Missionari. Abbiamo voluto chiederLe questa udienza insieme, per significare sia la comunione tra noi come figli e figlie dello stesso padre, il Beato Allamano, e della stessa Madre, la SS. Vergine Consolata, sia per esprimerLe insieme la comunione, l’affetto, il sostegno, il nostro essere pienamente nella Chiesa e con la Chiesa a servizio del Vangelo. Il nostro Fondatore ci ha trasmesso un particolare attaccamento al Papa e un forte senso ecclesiale, che cerchiamo di vivere nel nostro specifico, la missione nelle periferie, e nella periferia delle periferie che è appunto l’ad gentes, i non cristiani, coloro che non conoscono Cristo.

Entrambi gli Istituti stanno vivendo un tempo di particolare grazia, la grazia della rivitalizzazione, della ristrutturazione, ridisegnando le nostre presenze e le nostre strutture per una sempre migliore qualità di vita vocazionale, religiosa, missionaria, secondo il nostro carisma specifico.  Questa è, di fatto, la tematica principale dei nostri due Capitoli Generali. In questo momento di rinnovamento e rilancio missionario siamo tanto desiderosi di sentire la Sua parola, Santo Padre, e ricevere la Sua benedizione per noi, per tutti i nostri missionari e missionarie sparsi per il mondo, per i popoli con cui condividiamo la vita.  

Grazie ancora per averci accolto. Grazie perché non cessa di indicarci le vie di una Chiesa in uscita. Grazie per il coraggio, la speranza la gioia che sa infonderci. Le assicuriamo la nostra vicinanza, la nostra disponibilità e la nostra preghiera, in particolare presso la Vergine Consolata!

I capitolari e le capitolari Missionari e Missionarie della Consolata

 


DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AI CAPITOLI GENERALI DEI
MISSIONARI E MISSIONARIE DELLA CONSOLATA

Sala Clementina – Lunedì, 5 giugno 2017


Cari Missionari e care Missionarie della Consolata,

sono lieto di accogliere insieme il ramo maschile e il ramo femminile della Famiglia religiosa fondata dal Beato Giuseppe Allamano, in occasione dei rispettivi Capitoli Generali. Vi saluto tutti con affetto e vi auguro che i vostri lavori capitolari si svolgano con serenità e docilità allo Spirito. Estendo il mio affettuoso saluto ai vostri confratelli e alle vostre consorelle che operano, spesso in condizioni difficili, nei diversi continenti, e li incoraggio a proseguire con generosa fedeltà nel loro impegno di missione ad gentes. Desidero ora offrirvi alcuni suggerimenti affinché questi giorni producano abbondanti frutti di bene nelle vostre comunità e nell’attività missionaria della Chiesa.

Voi siete chiamati ad approfondire il vostro carisma, per proiettarvi con rinnovato slancio nell’opera dell’evangelizzazione, nella prospettiva delle urgenze pastorali e delle nuove povertà. Mentre con gioia ringrazio il Signore per il bene che voi andate compiendo nel mondo, vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice. Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori (cfr Rm 5,5).

La storia dei vostri Istituti, fatta – come in ogni famiglia – di gioie e di dolori, di luci e di ombre, è stata segnata e resa feconda anche in questi ultimi anni dalla Croce di Cristo. Come non ricordare qui i vostri confratelli e le vostre consorelle che hanno amato il Vangelo della carità più di sé stessi e hanno coronato il servizio missionario col sacrificio della vita? La loro scelta evangelica senza riserve illumini il vostro impegno missionario e sia d’incoraggiamento per tutti a proseguire con rinnovata generosità nella vostra peculiare missione nella Chiesa.

Per portare avanti questa non facile missione, occorre vivere la comunione con Dio nella percezione sempre più consapevole della misericordia di cui siamo oggetto da parte del Signore. È molto più importante renderci conto di quanto siamo amati da Dio, che non di quanto noi stessi lo amiamo! Ci fa bene considerare anzitutto questa priorità dell’amore di Dio gratuito e misericordioso, e sentire il nostro impegno e il nostro sforzo come una risposta. Nella misura in cui siamo persuasi dell’amore del Signore, la nostra adesione a Lui cresce. Abbiamo tanto bisogno di riscoprire sempre l’amore e la misericordia del Signore per sviluppare la familiarità con Dio. Le persone consacrate, in quanto si sforzano di conformarsi più perfettamente a Cristo, sono, più di tutti, i familiari di Dio, gli intimi, coloro che trattano con il Signore in piena libertà e con spontaneità, ma con lo stupore di fronte alle meraviglie che Egli compie.

In questa prospettiva, la vita religiosa può diventare un itinerario di riscoperta progressiva della misericordia divina, facilitando l’imitazione delle virtù di Cristo e dei suoi atteggiamenti ricchi di umanità, per poi testimoniarli a tutti coloro che avvicinate nel servizio pastorale. Sappiate anche raccogliere con gioia i continui stimoli al rinnovamento e all’impegno che provengono dal contatto reale col Signore Gesù, presente e operante nella missione attraverso lo Spirito Santo. Ciò vi consentirà di essere operosamente presenti nei nuovi areopaghi dell’evangelizzazione, privilegiando, anche se ciò dovesse comportare dei sacrifici, l’apertura verso situazioni che, con la loro realtà di particolare bisogno, si rivelano come emblematiche per il nostro tempo.

Sull’esempio del vostro beato Fondatore, non stancatevi di imprimere nuovo impulso all’animazione missionaria. Sarà soprattutto il vostro fervore apostolico a sostenere le comunità cristiane a voi affidate, in particolare quelle di recente fondazione. Nello sforzo di riqualificazione dello stile del servizio missionario, occorrerà privilegiare alcuni elementi significativi, quali la sensibilità all’inculturazione del Vangelo, lo spazio dato alla corresponsabilità degli operatori pastorali, la scelta di forme semplici e povere di presenza tra la gente. Attenzione speciale meritano il dialogo con l’Islam, l’impegno per la promozione della dignità della donna e dei valori della famiglia, la sensibilità per i temi della giustizia e della pace.

Cari fratelli e sorelle, continuate il vostro cammino con speranza. La vostra consacrazione missionaria possa essere sempre più sorgente di incontro vivificante e santificante con Gesù e con il suo amore, fonte di consolazione, pace e salvezza per tutti gli uomini.

Auspico che gli orientamenti elaborati dai rispettivi Capitoli Generali possano guidare i vostri Istituti a proseguire con generosità sulla via tracciata dal Fondatore e seguita con eroico coraggio da tanti confratelli e tante consorelle. Invoco la celeste protezione di Maria, Regina delle Missioni, e del Beato Giuseppe Allamano, e di cuore imparto a tutti voi la Benedizione, estendendola all’intera Famiglia della Consolata.

Testo originale da vatican.va

 

 




A Brescia, conto alla rovescia per il Festival della Missione


È il titolo della prima edizione del Festival della Missione, in programma a Brescia dal 13 al 15 ottobre 2017. Promosso dalla Conferenza degli istituti missionari italiani (Cimi), da Fondazione Missio (organismo della Conferenza episcopale italiana) e dall’Ufficio missionario della diocesi, il Festival della missione avrà come scenario le piazze e gli spazi del centro città.

L’idea del Festival nasce come risposta a una sensazione diffusa, quella di una insufficiente incisività del mondo missionario nel panorama sociale, culturale e mediatico odierno.

Il mondo missionario, non c’è dubbio, nonostante le fatiche di un mondo editoriale complesso, produce riviste di qualità, che svolgono un ruolo informativo prezioso. Va ricordato pure che gli istituti, la Cei, tramite Fondazione Missio, e tante altre realtà della «galassia missionaria», promuovono una marea di interessanti iniziative culturali, vocazionali e di sensibilizzazione alla missione, dai viaggi per giovani, ai campi di lavoro.

Tuttavia, non v’è chi non pensi che – sebbene i missionari continuino a godere di «buona stampa» – il messaggio di cui sono portatori e che testimoniano con la vita, ossia l’annuncio del Vangelo «agli estremi confini», sembra non scalfire le coscienze, non tradursi in scelte coraggiose, non mettere in discussione un sistema e stili di vita che risentono del consumismo e della secolarizzazione.

Purtroppo, quello missionario non pare più un ideale capace di contagiare i giovani. In sintesi: oggi la missione ad gentes forse è sentita come qualcosa di anacronistico.

Se fosse così, sarebbe grave! Certo, la missione è cambiata e continua a cambiare. Ma l’imperativo della missione ad gentes, seppure da rivisitare costantemente, non può essere archiviato: è un comando di Cristo ai suoi apostoli, non la fissa di alcuni. Si tratta, semmai, di riformulare l’idea (e la prassi) di missione. In altri termini: il mondo missionario italiano è chiamato a trovare nuove vie per comunicare il Vangelo, evitando di cedere all’autoreferenzialità, ma anche alla tentazione di diluire la propria identità per rendersi più accettabili per la mentalità comune.

Il Festival della Missione vuol essere innanzitutto un’occasione con la quale il mondo missionario si propone positivamente, per quello che già è. E lo fa in piazza, nei luoghi della vita quotidiana di una città. Non si tratta di esibizionismo né di trionfalismo, ma di servizio.

Anche oggi in giro per il mondo ci sono bellissime e provocatorie esperienze di vita missionaria: sarebbe un peccato di omissione non provare a renderle eloquenti per l’uomo di oggi. Inoltre, vorremmo condividere le buone pratiche, ovvero tutte quelle proposte culturali e di animazione, iniziative, campagne di sensibilizzazione, libri (e non solo) che le varie componenti del mondo missionario hanno realizzato. E che spesso non si conoscono adeguatamente dentro il mondo missionario stesso, figuriamoci fuori!

Il titolo/slogan della prima edizione «Mission is possible» potrebbe sembrare un po’ ad effetto quasi goliardico. In realtà, è stato scelto perché così il mondo missionario è costretto a mettersi allo specchio, ma non – come spesso capita – per farsi un selfie impietoso e sconfortante («Siamo sempre meno, con i capelli più grigi e la gente ci dà meno ascolto di un tempo…»), bensì per riacquistare la consapevolezza che (per fortuna!) la missione non è cosa nostra, ma opera Sua.

Per quanto in difficoltà, quindi, i missionari rappresentano una realtà paradigmatica: senza di loro il volto della Chiesa perderebbe un tratto essenziale. «Mission is possible», quindi, perché «senza di me non potete far nulla», ma con Lui… possiamo tutto, anche oggi che i numeri sembrerebbero condannare i missionari e le missionarie all’estinzione. Per tali motivi il Festival sarà ancorato a quanto Papa Francesco scrive in Evangelii Gaudium, il documento che egli stesso ha additato come bussola alla Chiesa italiana per i prossimi anni perché essa diventi davvero una Chiesa in uscita.

Stefano Femminis


Gerolamo Fazzini, giornalista e scrittore, è il direttore artistico del Festival.
A lui alcune domande per capire l’evento.

Perché un Festival e non un convegno?

«Perché il contesto in cui ci racconteremo – come mondo missionario – dev’essere laico, per evitare di parlarci addosso. Non si farà quindi l’ennesimo convegno dove, a porte chiuse, si parla in ecclesialese, ma si andrà in piazza. Abbiamo pensato alla formula del festival perché permette di sperimentare linguaggi diversi (e in parte anche nuovi) grazie ai quali provare a intercettare il maggior numero di persone, in special modo i giovani. Per questo motivo nei giorni del Festival sarà proposto un ampio ventaglio di eventi: testimonianze missionarie, mostre fotografiche, concerti, incontri con l’autore, tavole rotonde, spettacoli, momenti di preghiera, iniziative ad hoc per bambini, famiglie e scuole…».

Non c’è il rischio di scimmiottare quanto avviene altrove? L’Italia è già piena di festival.

«Il rischio c’è ma ne siamo consapevoli: stiamo cercando in vari modi di “fare la differenza”. Mi spiego. In primo luogo vigileremo sia sull’entità dei costi finali che sul tipo di contributi (e di donatori) a sostegno dell’iniziativa. Sappiamo bene che con la stessa quantità di denaro che occorre per un festival (diverse decine di migliaia di euro) nei paesi del Sud del mondo si possono realizzare iniziative solidali persino più importanti, a livello sanitario, educativo o altro; proprio per questo ci è chiesto un supplemento di lungimiranza. Stiamo attivando una serie di sinergie con diversi partner che, in misura diversa, hanno contribuito anche economicamente, o si apprestano a farlo, per la buona riuscita dell’impresa.

In secondo luogo, daremo al festival il colore di una «festa»: una parte degli ospiti che verranno da fuori Brescia (missionari, delegati dei centri missionari diocesani, ecc.) saranno ospiti di famiglie e oratori, perché il Festival non sia una semplice kermesse, ma il più possibile un’esperienza che lascia il segno.

In terzo luogo, vorremmo che – alla fine dei tre giorni – rimanesse un segno concreto, al di là della girandola di parole, musica, incontri… Da ultimo, ma non è la cosa meno importante, durante tutti i giorni del Festival (e questo non accade altrove!) in una chiesa del centro cittadino ci sarà l’adorazione eucaristica permanente: un segno forte, per richiamarci al Protagonista della missione».

Uno degli obiettivi dichiarati del Festival è proporre il mondo missionario come realtà corale, sinfonica e unita. Una sfida non facile, ma entusiasmante…

«Sì: vogliamo provare a fare un Festival insieme, vivendo questa opportunità come una palestra di comunione, dove le differenze vengono esaltate in quanto ricchezza da condividere a beneficio di tutti. Da molti istituti missionari sono arrivati segnali di apertura, collaborazione e disponibilità. Se l’evento-festival e la sua comunicazione saranno frutto di un lavoro di squadra dove ogni carisma è valorizzato – e stiamo lavorando perché sia così – potrà diventare una testimonianza significativa e già missionaria in sé».

Che risultati vi attendete dal Festival?

«Nessuno, promotori compresi, è così ingenuo da immaginare che un Festival di tre giorni possa essere una bacchetta magica in grado di risolvere questioni annose e crisi di lunga data. Diciamo che, per usare parole di Papa Francesco, più che occupare spazi, con questa iniziativa vorremmo innescare processi. Detto ciò, l’auspicio dei promotori è che ogni realtà coinvolta si impegni per mettere in gioco le sue forze migliori a servizio del Festival».

Ormai la macchina organizzativa è in moto da tempo. Che sensazioni avete raccolto?

«Quando – nell’estate 2014, a Pesaro – per la prima volta ho presentato alla Cimi (Conferenza istituti missionari italiani) l’idea del Festival della Missione, maturata insieme ad alcuni amici, non potevo immaginare che quella palla di neve sarebbe diventata una valanga. A distanza di oltre due anni, devo dire che la sensazione è di un notevole dinamismo: all’interno del mondo missionario, il progetto Festival pare abbia risvegliato un po’ di entusiasmo sopito e messo in circolo energie nuove».

E Brescia? Come stanno rispondendo la città e la diocesi?

«La risposta di Brescia, intesa sia come comunità ecclesiale che come istituzioni civili, è stata a dir poco positiva. C’era da aspettarselo, da una città vivace e multiculturale com’è la Leonessa. C’era da immaginare, inoltre, che una Chiesa dinamica come quella bresciana, segnata da figure importanti (il gesuita Giulio Aleni, primo biografo di Ricci, san Daniele Comboni, la beata Irene Stefani, per finire col Papa missionario Paolo VI), reagisse con entusiasmo all’appello. Ma, ripeto, sin qui le risposte sono state persino superiori alle attese. 

Aggiungo che, a dar man forte ai missionari e a Brescia, è scesa in campo la Cei, grazie alla Fondazione Missio. Il vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, bresciano di origine e presidente della Commissione episcopale per la cooperazione missionaria tra le Chiese, ha dato il suo convinto appoggio e lo ha ribadito negli incontri del Comitato scientifico, svoltisi negli ultimi mesi, nei quali si è discusso il programma del Festival. Tutte ottime premesse, insomma, per la riuscita dell’iniziativa».

Trattandosi di una «prima volta», il Festival avrà bisogno di farsi conoscere nel panorama mediatico. Come state lavorando su questo fronte?

«Cercando, in primis, di costruire una serie di alleanze con vari interlocutori, che vanno dalle riviste della Federazione della stampa missionaria alle testate della Cei: su entrambi i fronti abbiamo avuto riscontri positivi. Ma – ovviamente – chi segue la comunicazione punterà a coprire l’evento a 360 gradi, coinvolgendo (o almeno provando a farlo) anche il mondo laico. In caso contrario, ancora una volta cadremmo nell’autoreferenzialità». 

Quanto al programma che notizie ci sono?

«Il programma del Festival è a buon punto: siamo in attesa di risposte da parte di alcuni relatori (ma diversi altri ci hanno già assicurato la loro presenza) e di una serie di conferme sul versante artistico. Ci vorrà ancora un po’ di pazienza prima di vedere il cartellone definito nei dettagli. Dopo di che sarà nostra cura segnalare gli aggiornamenti tramite il sito e i social network».

www.festivaldellamissione.it

Aperti al Dono di Dio

Come Istituti missionari promuoviamo e appoggiamo in pieno l’iniziativa del Festival della Missione! Siamo più che mai convinti che il Vangelo di Gesù Cristo abbia bisogno di essere detto, cantato, condiviso, proclamato, testimoniato non solo all’interno delle nostre chiese e delle nostre comunità, ma «uscendo per le piazze e per le vie della città» (Lc 14,21): perché non possiamo tacere questa Vita che è in noi! Riteniamo che il Festival possa essere, oggi, uno strumento privilegiato per condividere questo Dono, in comunione tra di noi e in piena sintonia con quella «Chiesa in uscita» alla quale Papa Francesco fa sovente riferimento. Crediamo fermamente che «La fede si rafforza donandola»!

Oggi più che mai Mission is possible, nella misura in cui sapremo aprirci al Dono che saremo disposti a offrire, ma anche a ricevere, nella diversità e varietà delle nostre provenienze e culture di appartenenza!

Suor Marta Pettenazzo
Superiora provinciale per l’Italia delle missionarie di Nostra Signora degli apostoli e presidente della Cimi (Conferenza Istituti Missionari Italiani).

Nelle piazze per dialogare, contemplare e fare festa

Il primo Festival della Missione – che la Fondazione Missio promuove insieme alla Conferenza degli Istituti Missionari Italiani e alla diocesi di Brescia vuole rilanciare il mandato del Vangelo: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). Come scrive Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale missionaria 2016 esso «non si è esaurito, anzi ci impegna tutti, nei presenti scenari e nelle attuali sfide, a sentirci chiamati a una rinnovata uscita missionaria».

Nell’Evangelii Gaudium (73) si legge: «Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane». Andiamo, allora, in città e nelle piazze per dialogare, contemplare e fare festa per la perenne buona notizia per ogni uomo e per ogni donna del Vangelo di Gesù. Nelle piazze, come in quel giorno di Pentecoste, inizio della missione dei discepoli. Perché la Chiesa non dimentichi  che è nata in uscita e solo in uscita sarà fedele al suo Maestro.

Don Michele Autuoro
Direttore Ufficio nazionale per la Cooperazione Missionaria tra le Chiese e della Fondazione Missio.

Un’occasione per rinnovare lo slancio per l’annuncio

La Diocesi di Brescia accoglie con gioia l’invito ad ospitare il Festival della Missione. La Chiesa bresciana è grata al Signore per i missionari e le missionarie che con la loro vita ogni giorno rendono testimonianza al mandato di Gesù ai discepoli «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura».

Il Festival sarà un’occasione significativa per rinnovare la passione e lo slancio per l’annuncio del Regno di Dio: quella passione che ha animato la vita del Beato Paolo VI, di San Daniele Comboni, della Beata Irene Stefani e di tanti figli e figlie di questa terra.

Monsignor Luciano Monari
Vescovo di Brescia




Cardinal Tagle:

La missione è di Dio


I Missionari della Consolata partecipanti al XIII Capitolo Generale a Roma, hanno ricevuto, la mattina del 23 maggio, il cardinale filippino Mons. Luis Antonio G. Tagle, arcivescovo di Manila e presidente della Caritas Internazionale, per una mezza giornata di riflessione teologica e missionaria sugli Apostoli Paolo e Barnaba.

Ordinato vescovo nel 2001 e creato cardinale nel 2012, da Papa Benedetto XVI, Tagle è uno dei più importanti teologi dell’Asia, autore di libri come: “Gente di Pasqua”, “Raccontare Gesù” e “Ho imparato dagli ultimi. La mia vita, le mie speranze” (dell’EMI, Editrice Missionaria Italiana).

“Mi sento in famiglia”, ha detto il vescovo salutando l’assemblea capitolare composta da 45 missionari rappresentanti di 18 regioni dell’Istituto Missioni Consolata in Europa, Africa, America e Asia.

Davanti ai profondi e rapidi cambiamenti del mondo globalizzato, il presidente della Caritas Internazionale difende una continua riflessione sulla missione evangelizzatrice della Chiesa. “Quando si sente dei 65 milioni di rifugiati sparsi in tutto il mondo, dei 20 milioni di persone che a causa della siccità, in alcune parti dell’Africa, soffrono la fame, delle guerre in corso, della diffusione dell’odio verso gli stranieri e dell’uso sbagliato della religione, e questo solo per citarne alcuni, non possiamo aspettarci che la Chiesa e la sua missione rimangano “il business” di sempre”

Secondo il cardinale, “la Nuova Evangelizzazione è urgente e richiede nuovo fervore, nuovi metodi e nuove espressioni. Abbiamo ricevuto e continuiamo a ricevere un forte impulso missionario da Papa Francesco con il suo famoso detto “una Chiesa in uscita verso le periferie esistenziali”.

Nonostante tutto, ha chiesto che non siano lasciate cadere “le sue espressioni o termini ripetuti costantemente come slogan o formule, ma portarle alla riflessione teologica concreta nelle diverse esperienze della missione”.

A riguardo di Paolo e Barnaba, apostoli ispiratori del XIII Capitolo Generale in corso, il cardinal Tagle ha sottolineato la “loro saggezza missionaria”. Per questo ha citato ciò che P. James Kroeger, MM (Paul’s Mission Principles, Bible Today 2009) chiama i 10 Principi Missionari di Paolo:

1) una profonda consapevolezza della vocazione: la missione che ha origine nella chiamata di Dio; 2) impegno radicale con Cristo: la missione suppone una vita centrata totalmente in Cristo; 3) l’accettazione volontaria della sofferenza: la vulnerabilità e l’accettazione della croce autenticano la missione; 4) penetranti metodi di missione: la missione richiede creatività, in culturalizzazione, approcci all’evangelizzazione sempre rinnovati ; 5) urgente annuncio del Vangelo: la missione non ha perso la sua urgenza nel mondo contemporaneo; 6) un profondo amore per la Chiesa: la missione e l’amore del popolo che costituiscono la Chiesa vanno di pari passo; 7) stretta collaborazione fra i suoi membri: tutto il ministero apostolico è rafforzato dagli sforzi di collaborazione; 8) impegno nella trasformazione della società : il messaggio evangelico della dignità e dell’uguaglianza umana, se abbracciato, porta alla trasformazione sociale; 9) efficaci e esemplari stili di vita: la testimonianza di una vita cristiana è la prima e spesso la più efficace proclamazione del Vangelo; 10) il totale abbandono nella provvidenza di Dio: la missione rimane sempre “il progetto di Dio” e gli evangelizzatori devono cercare di essere umili strumenti pieni di fede in Dio.

Uno sguardo panoramico alla sintesi di P. Kroeger ci permette di concentrarci su alcuni aspetti specifici della saggezza missionaria di Paolo e di Barnaba e ci potrebbero aiutare a diventare una Chiesa in uscita per i nostri tempi.

Incontro del cardinal Luis Antonio Tagle di Manila con il 13° capitolo generale IMC

Preghiera, digiuno, comunità e organizzazione

Paolo e Barnaba hanno iniziato il servizio alla missione per cui Dio li ha scelti in una comunità che era in preghiera e nel digiuno (At 13,1). Lì hanno capito la volontà di Dio, perchè “la missione di Dio si manifesta in una comunità che prega e digiuna. Con la preghiera e il digiuno (cioè la disciplina dello spirito e del corpo) hanno poi fondato e formato le comunità. “Abbiamo bisogno di preghiera e digiuno. D’altra parte, la vera preghiera comunitaria e il digiuno portano l’organizzazione della comunità e la sua missione ad essere ispirata e diretta dalla Spirito Santo”.

Capitolo generale IMC in ascolto del Card. Tagle

Mettere la Missione al centro, non il proprio ego

Citando l’amicizia tra Paolo e Barnaba, il cardinale di Manila ha messo in risalto la necessità di “riconoscere la forza e la fragilità delle relazioni personali”, che non devono mai “distruggere la missione”.

Commentando la seprazione tra Paolo e Barnaba, il vescovo ha osservato che gli Atti degli Apostoli riconoscono la “fragilità della comunione, ma mostrano anche che la separazione per qualsiasi motivo non deve distruggere la missione comune. Anche se il lavoro è fatto separatamente, è lo stesso lavoro che si sta facendo. Impariamo (da Paolo e Barnaba) che comunione significa aggrapparsi a ciò che abbiamo in comune e non permettere che le differenze personali rovinino l’impegno verso gli obiettivi comuni”, che la Parola di Dio deve andare avanti anche se le persone sono diverse e agiscono in modi diversi. Paolo e Barnaba non hanno perso tempo nel distruggersi a vicenda (come invece rischiamo di fare noi cristiani di oggi per difendere le nostre differenze), perché Il loro obiettivo era quello di proclamare la Parola di Dio, ha sottolineato il cardinale.

Impegnarsi nel discernimento delle sorprendenti vie dello Spirito

Incontro del carrinal Luis antonio Tagle di Manila con il 13° capitolo generale IMC

Barnaba e Paolo hanno sperimentato che lo Spirito ha detto diversi “No” ai loro piani personali. Ma ciascuna di queste esperienze li ha portati a cercare i “sì dello Spirito”.

Nella sua relazione, il cardinale di Manila ha aggiunto: “È difficile accettare un ‘no’ da Dio. Ma quello è il suo modo di ricordarci che la missione è di Dio e non di nostra proprietà. I missionari hanno bisogno della leggerezza del cuore, di un sano umorismo e di una santa libertà o ‘indifferenza’ che permette di accettare le porte chiuse. Non possiamo attaccarci alle nostre idee e progetti come se fossero l’unico e finale percorso disponibile”.

Davanti alle “porte chiuse”, il cardinal Tagle dice che “non dobbiamo rimanere arrabbiati o amari”, ma “dobbiamo sentirci spinti a cercare le porte che lo Spirito vuole aprire per noi, porte che noi non abbiamo mai pensato. La Chiesa in uscita è pronta a provare porte, tetti (cfr. Mc 2,4), strade che lo Spirito vuole offrire ma che noi ignoriamo perché siamo fissi sui nostri modi di vedere le cose. Ciò richiede una spiritualità missionaria di umiltà che continua a stupirsi di ciò che Dio fa”.

“La missione è un atto di fede nella presenza permanente del Signore Risorto. Questa fede cura l’orgoglio. L’orgoglio distrugge la missione. L’orgoglio distrugge i missionari. La fede nel Risorto salva e dirige la missione. “Dominust est” (Il Signore è vivo), ha concluso citando il suo motto episcopale.

Con vena umoristica, il cardinale ha risposto a varie domande dell’assemblea insistendo sulla “leggerezza personale e istituzionale”, condizione fondamentale per rendere possibile “una Chiesa o una congregazione in uscita missionaria”.

In seguito il Cardinal Tagle ha celebrato con noi l’Eucarestia ed ha concluso la sua visita con il pranzo.

La programmazione del XIII Capitolo Generale dell’Istituto, iniziato il 22 maggio, si concluderà il 20 giugno, giorno della festa della Vergine Consolata, Patrona della Congregazione.

Segreteria di comunicazione

Padre Stefano Camerlengo, superiore generale degli IMC, in colloquio con il card. Tagle

Dopo la messa del cardinal Luis Antonio Tagle di Manila con il 13° capitolo generale IMC




Missionari in cammino per il futuro della Missione


Inizia il XIII Capitolo Generale dei Missionari della Consolata

Cerimonia di apertura del 13mo capitolo generale dei Missionari della Consolate a Roma

Rivitalizzare e ristrutturare l’Istituto Missioni Consolata (IMC) per qualificare maggiormente la missione. Con questo obiettivo, la Congregazione dei Missionari della Consolata, ha iniziato, lunedì 22 maggio, il suo XIII Capitolo Generale. L’incontro internazionale, che si realizza ogni sei anni, raduna in Roma 45 rappresentanti di 18 circoscrizioni dell’Istituto presenti nei continenti dell’Europa, dell’Africa, dell’America e dell’Asia.

“Il Capitolo Generale è un momento particolare nella vita della nostra Famiglia. È una occasione per prendere coscienza della nostra situazione, verificare il nostro modo di essere missionari ad gentes e acquistare energie per dar forza alla missione, che è il cuore della nostra vita”, ha messo in risalto Padre Stefano Camerlengo, Superiore Generale, nell’accogliere i delegati capitolari. Questi sono: 21 africani, 14 europei e 8 latino-americani che rappresentano 231 comunità religiose presenti in 28 paesi.

Il Capitolo è una celebrazione pasquale che include croce e speranza, morte e risurrezione. Questo lo spirito con il quale si è vissuta la celebrazione di apertura iniziata all’ingresso della Casa Generalizia. Guidati dal Superiore Generale che portava il cero pasquale, i missionari hanno seguito in processione fino alla sala capitolare.

Cerimonia di apertura del 13mo capitolo generale dei Missionari della Consolata a Roma

Dopo aver invocato lo Spirito Santo con il canto del “Veni Creator”, i delegati, chiamati ad uno ad uno per nome dal Superiore Generale, hanno acceso una candela alla luce del cero pasquale e promesso di “compiere con fedeltà il compito di capitolari avendo come unico proposito la gloria di Dio ed il bene dell’Istituto”.

Ricordando gli Apostoli Paolo e Barnaba, scelti come ispiratori per il Capitolo, il padre Generale ha sottolineato l’importanza “dell’imitare la loro passione missionaria, la loro amicizia nella missione ed in modo speciale il loro entusiasmo per la missione ad gentes.

Con questo Capitolo vogliamo entusiasmare tutto l’Istituto per la missione che il Signore ci ha affidato e per la quale il Fondatore ha formato i primi missionari”, ha ricordato Padre Camerlengo.

“Siamo consacrati per la missione. Il cuore di questo Capitolo e di tutta la nostra vita è la missione, come voleva il Beato Giuseppe Allamano, che ripeteva sempre le parole dell’apostolo Paolo: “tutto ho fatto per il Vangelo”, ha ancora aggiunto il padre Generale.

Nella prima sessione dei lavori sono stati approvati il regolamento del capitolo, l’agenda e l’orario. Come moderatori sono stati eletti i padri Francisco Pinilla, Antonio Rovelli e Mathews Owuor. In seguito, si sono formate le varie commissioni: segreteria, redazione, liturgia e comunicazione.

Eucarestia con il Card Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano

Incontro col Card. Parolin

Il giorno è terminato con la visita del Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, che ha presieduto l’Eucarestia.

Negli ordini religiosi, i capitoli generali sono “segnali messi ai bordi della strada per indicare costantemente la strada”, ha detto il cardinale nella sua omelia. “Sono autentici momenti di grazia nei quali siete invitati a navigare nel grande libro che narra la vostra vita missionaria, tra le pagine dove fluisce il carisma ereditato dal vostro Fondatore, vissuto per più di un secolo dalla storia di molti confratelli”.

“Parte del vostro Progetto Capitolare è dedicato a riavvicinare la missione alla realtà, perché l’annuncio venga seminato con pazienza, nasca e cresca nel silenzio quasi inconsapevole del seme del Regno, venga sussurrato e non gridato a coloro ai quali si vuole donare la Buona notizia”.

Riferendosi agli obiettivi del Capitolo, il cardinale ho osservato: “Credo che il desiderio di “ristrutturare” il vostro Istituto vada inteso in quest’ottica: non deve essere un semplice restyling (riparazione), come si fa con le autovetture quando iniziano a perdere valore sul mercato, ma deve essere un modo autentico per portare realmente la missione “ad gentes”, alle persone.

Fondato dal Beato Giuseppe Allamano nel 1901, a Torino, nel nord dell’Italia, l’Istituto Missioni Consolata conta oggi con 982 missionari: 14 diaconi, 47 fratelli religiosi, 35 novizi, 743 sacerdoti, 130 seminaristi e 15 vescovi. Nel 1910, l’Allamano ha fondato anche la Congregazione delle Missionarie della Consolata, con lo stesso carisma ad gentes.

Il 5 giugno i capitolari saranno ricevuti in udienza da Papa Francesco in Vaticano, un incontro programmato insieme alle Missionarie della Consolata, radunate anche in Capitolo. I lavori del XIII Capitolo Generale dell’IMC andranno fino al 20 giugno, giorno della celebrazione della Festa della Consolata, patrona della Congregazione.


Testo pubblicato in contemporanea anche su www.consolata.org

Momento conviviale a cena con il cardinal Pietro Parolin, segretario di stato del Vaticano

Video finale dopo la cena, con bellissimo messaggio da parte del Cardinale. Tutto spontaneo, anche il rumore dei piatti nel sottofondo!

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Un tuffo nel futuro


C’è un gioco di «iniziazione» interessante che ho visto fare in gruppi di giovani e ragazzi: sei bendato, in piedi in mezzo ad un cerchio di amici, e devi lasciarti cadere all’indietro senza paura, sicuro che ci sono braccia pronte a raccoglierti, sostenerti e proteggerti. È un esercizio ansiogeno, ma aiuta a cementare la coesione e far crescere la fiducia gli uni negli altri. Una scena simile a quella di Pietro che vuole andare da Gesù sulle acque in tempesta. La risposta di Gesù è semplice: «Vieni». Pietro si butta. Cammina sull’acqua, ma la tempesta è forte, il vento impetuoso. Si spaventa, comincia a dubitare, affonda. Un grido: «Salvami!». Ed ecco, subito, una mano tesa è lì per lui. «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Ho davanti agli occhi queste due scene, Pietro e i ragazzi, mentre penso a quanto stiamo vivendo noi missionari della Consolata. Il prossimo 22 maggio, a Roma, inizieremo il tredicesimo capitolo generale al quale ci stiamo preparando ormai da molti mesi. Il capitolo è un incontro che avviene ogni sei anni. Ci vanno di diritto i superiori dei vari gruppi sparsi nel mondo e poi diversi missionari liberamente eletti dai confratelli. In tutto una cinquantina di persone che hanno il compito di analizzare e valutare il cammino fatto, ma soprattutto di tracciare il camino per il futuro. Tutto semplice in tempi ordinari, ma l’oggi della missione sembra più un mare in tempesta che un tranquillo lago alpino. Quello che un tempo era chiaro, oggi non lo è più. Ieri essere missionario era uscire dalla propria terra, dalla propria cultura, dalla propria lingua, da un ambiente «cristiano» e andare lontano verso chi «cristiano» non era. Oggi ci si chiede «dov’è la missione?» e la risposta non è più univoca: la missione è ovunque. Essere «Chiesa in uscita» non significa più soltanto «attraversare i mari», non si qualifica più per la dimensione geografica, ma è un movimento di incontro con l’uomo, l’altro, secondo lo stile di Gesù che ha scelto le periferie, i peccatori, i poveri, gli ammalati, gli «scarti»… ovunque essi siano, anche appena fuori dell’uscio di casa o addirittura dentro casa, dove arrivano «calandosi dal tetto».

Tutto bello, tutto nuovo, anzi, tutto antico e collaudato, visto che si rifà a Gesù stesso. Dove sta il problema allora? Dov’è il mare tempestoso? Presentando il capitolo, il nostro superiore, padre Stefano Camerlengo, ricorda due obiettivi: rivitalizzazione e riorganizzazione. Riorganizzazione significa prendere atto del fatto che (dal punto di vista religioso) l’Italia (e l’Europa) non è più al centro ma è diventata periferia. Questo è ormai evidente, ma non per questo accettato da tutti. Riorganizzare indica efficienza, essere al passo coi tempi, stare attenti alle «leggi del mercato», prendere atto che i missionari italiani sono una «specie in via di estinzione» e che le nuove forze vengono dal Sud del mondo e quindi bisogna «delocalizzare». È un processo doloroso che richiede sacrifici, tagli, abbandoni, ma ha una sua logica ineluttabile, come ci dimostrano le decine e decine di conventi, case religiose e chiese in vendita in ogni angolo del Belpaese. Potremmo dire allora che riorganizzare è una questione di «quantità» e di «fare».

Rivitalizzare è invece tutta un’altra storia in un tempo in cui i «vecchi» sono tentati dallo scoraggiamento e i «giovani» dalla globalizzazione della modernità. Parla di vita e tocca profondamente la «qualità» e l’«essere». Prendo un esempio per tutti. È più facile dire «impegniamoci affinché il beato Allamano sia dichiarato santo» o dire «diventiamo santi come ci vuole il beato Allamano»? Ed è proprio su questo punto che si gioca il futuro dei missionari della Consolata e del loro bellissimo servizio al mondo e al Vangelo. O imparano a fare come i bambini che si fidano ciecamente dei loro amici e come Pietro che si aggrappa alla mano di Gesù nel lago in tempesta, oppure anche le strategie più belle finiranno in niente.

Il beato Allamano ha ripetuto più volte che a fondare l’Istituto non è stato lui ma la Consolata. Da Maria, Consolatrice e Consolata, i suoi missionari devono imparare a fare un tuffo di fiducia nelle mani di Dio. Solo così, con occhi e orecchie, cuore e mente aperti per scoprire il sentiero che Dio ha tracciato per loro in questo oggi difficile, saranno «semplici servi» che «fanno bene il bene» senza lasciarsi condizionare dalle paure o sentirsi arrivati. «Prima santi», diceva l’Allamano, «e poi missionari», professionisti che agiscono con prudenza e coraggio, con realismo e creatività.

Ci aspetta un tuffo coraggioso nel futuro della Missione. Per questo abbiamo bisogno di voi, nostri amici, nostri tifosi, la nostra «curva». Contiamo sul vostro affetto e la vostra preghiera per vincere la partita contro lo scoraggiamento, la mediocrità, la tentazione del «si è sempre fatto così», la presunzione di essere indispensabili, la paura del nuovo.

Grazie a nome di tutti i capitolari e di tutti i missionari della Consolata.




La Costa d’Avorio in ostaggio /2


Da Dianra, nel Nord Ovest, dove i missionari lavorano per sanità e dialogo, a Grand Zattry e Sago, nel Sud Ovest, dove cercano di ampliare una scuola. Passando per Soubré, dove è in costruzione una grande diga, terminando con San Pedro e Abidjan, dove tonnellate di cacao rischiano di marcire sui camion all’entrata dei porti.

A Dianra, come a Marandallah, il dialogo interreligioso permea di sé tutta l’attività dei missionari. Questo implica un procedere lento, graduale, rispettoso delle differenze e capace di fare emergere ciò che accomuna. «È anche per questo», spiega padre Matteo Pettinari, «che prima di costruire una case de santé (piccolo centro sanitario) contattiamo le autorità di ciascun villaggio e organizziamo un incontro pubblico che coinvolga tutta la comunità. Durante l’incontro chiariamo che queste strutture fanno parte di un programma che le autorità locali della sanità pubblica hanno affidato al nostro centro di Dianra Village. Non si tratta, quindi, di costruire “la casa dei cristiani” ma di portare l’assistenza sanitaria al villaggio attraverso le regolari visite della nostra equipe mobile. Non solo: nell’incontro si cerca di ottenere dagli abitanti del villaggio l’impegno a collaborare con il nostro personale in modo che questo servizio rechi davvero beneficio».

In quel contesto rurale la gente tende a rimandare il momento in cui ricorrere alle cure mediche, finché non è chiaro che i rimedi tradizionali sono inefficaci e che le patologie si sono aggravate al punto da essere ormai invalidanti. Le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi e andare al centro di salute a farsi visitare, ad esempio durante la gravidanza, o a far visitare i bambini per scongiurare il rischio della malnutrizione. Creare sensibilità e consapevolezza è un lavoro lungo e delicato. Fare di corsa significa rischiare di offrire un servizio che poi nessuno usa.

«È interessante», prosegue Matteo, «come villaggi distanti pochi chilometri reagiscano in modi diversi: c’è una località nella quale non siamo riusciti a trovare un accordo, un’altra dove ci stiamo avvicinando a un’intesa e una terza in cui, al termine della riunione con la comunità, alcuni giovani avevano già scavato le fondamenta per la case de santé».

Quest’ultimo non è il solo esempio incoraggiante che il missionario cita. Mostra con evidente soddisfazione le foto di Sononzo Carrefour, altro villaggio che fa capo a Dianra, dove la chiesa e la moschea sono dello stesso colore, e ricorda: «L’anno scorso i musulmani di Sononzo hanno fatto una colletta per ridipingere la moschea e ci hanno proposto di dare il loro contributo per ridipingere anche la nostra chiesa. È stato un gesto davvero splendido, un atto di fratellanza che ci riempie di gioia e ci evangelizza».

Verso Sud, fra palma da olio e caucciù

Lasciando Dianra in direzione Sud gli alberi tornano lentamente ad essere verdi, segno che qualche sporadica pioggia – al Nord del tutto assente da mesi – ha lavato via dalle foglie la polvere rossa della stagione dell’harmattan1.

Grand Zattry si trova nel distretto di Bas-Sassandra, lungo la strada in parte asfaltata che collega il Nord a Soubré, cittadina a 130 chilometri dal mare. Ai lati della strada, mentre non vengono meno le piantagioni di cacao, spariscono quasi del tutto i fiocchi bianchi del cotone e i frutti arancioni dell’anacardio. Sono gli alberi di caucciù a dominare il paesaggio – ciascuno con il suo recipiente simile a un bicchiere legato sotto l’incisione nella corteccia dalla quale cola il lattice bianco – e le palme da olio, con i loro grappoli di frutti rossi adagiati dove la fronda si stacca dal tronco.

A Blesséoua, uno dei villaggi che la missione di Grand Zattry accompagna, la scuola primaria ha 458 allievi: troppi per le sei classi che fino a dicembre 2016 aveva a disposizione. Quasi ottanta bambini per aula sono davvero di difficile gestione, constata una maestra che si unisce alla riunione con il capo villaggio e altri responsabili della comunità che collaborano con padre James Gichane, missionario keniano a Grand Zattry. Per questo motivo il salone cucina che la generosità di una donatrice ha permesso di costruire nel 2016 è per il momento stato adibito ad aula. Nel frattempo, il Conseil Café-Cacao, l’ente pubblico che regolamenta la produzione e il commercio dei prodotti da cui prende il nome, sta finanziando la costruzione di altre tre classi. «Sono andato di persona alla sede del Conseil», spiega il capo villaggio, «per spiegare loro la situazione della scuola, e grazie a Dio mi hanno dato retta. Bisognava almeno aumentare il numero di aule, ma anche la mensa scolastica e i servizi igienici sono in pessime condizioni». Oltre al villaggio di Blesséoua, la scuola primaria serve diciassette campement (villaggi più piccoli e provvisori) dei dintorni, gli alunni vengono qui a piedi da cinque chilometri di distanza. La situazione di questa scuola, che è comune a molte altre nel paese, stride con le dichiarazioni d’intenti delle autorità pubbliche secondo le quali ogni classe dovrebbe avere non più di quaranta alunni.

Energia per un paese che vuol crescere

Per andare da Grand Zattry a Sago si passa da Soubré, città sulla quale gli occhi del Costa d’Avorio sono oggi puntati per via della costruzione di un’imponente diga che sfrutterà un dislivello naturale del Nawa, un affluente del fiume Sassandra, per produrre energia elettrica. Una volta ultimata, sarà la più grande diga del paese, con una potenza installata pari a 275 megawatt per una produzione annuale di 1.170 gigawatt ora.

L’opera, dal costo di 338 miliardi di franchi cfa (circa 515 milioni di euro), è finanziata all’85% dalla Cina (attraverso la banca Eximbank) e al 15% dalla Costa d’Avorio nel contesto della cooperazione sino-ivoriana; l’entrata in funzione è prevista per la fine del 2017, dopo cinque anni di lavori. Oggi la Costa d’Avorio ha una potenza installata di 1.975 megawatt forniti per tre quarti da centrali termiche (gas naturale e vapore) e per un quarto da centrali idroelettriche, e vende energia a Burkina Faso, Mali, Ghana, Togo e Benin. Il governo intende però raddoppiare la potenza prodotta entro il 2020 e ha pianificato una nuova centrale termica a gas a Songon, quartiere di Abidjan, e una a carbone a San Pedro, suscitando la perplessità per la contraddizione fra la scelta del carbone e la ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.

Sago: l’Africa occidentale in un villaggio

Lungo la strada verso Sago, villaggio a un’ottantina di chilometri dalla costa, è frequente vedere cartelli con il logo della Sipef – Società internazionale delle piantagioni e di finanza – un’agroindustria internazionale che opera nelle aree subtropicali fra cui la Costa d’Avorio. I cartelli recitano: Non au travail des enfants (no al lavoro dei bambini).

«È una campagna che va avanti da qualche anno», spiega padre Ramón, «nata come reazione al fenomeno dei bambini schiavi portati qui soprattutto dal Mali per lavorare nelle piantagioni di cacao».

Il tema ha cominciato ad essere noto all’opinione pubblica internazionale nei primi anni Duemila ma è probabilmente con documentari come il danese The Dark Side Of Chocolate2 che ha guadagnato maggiore visibilità. «Oggi», continua Ramón, «anche grazie a questa campagna, chi è a conoscenza di casi di sfruttamento li denuncia sapendo che, a differenza di un tempo, gli sfruttatori verranno puniti».

Quella del Bas-Sassandra è una zona con una notevole varietà etnica, dove ivoriani e stranieri vivono del lavoro nelle piantagioni o dei commerci che si svolgono nel grande mercato. «In dieci anni», spiega padre Silvio Gullino, missionario della Consolata attivo prima in Repubblica Democratica del Congo e, ora, uno dei decani della missione in Costa d’Avorio, «il villaggio è passato da quattromila a diecimila abitanti. Qui, assieme e agli autoctoni di etnia Godié, vivono Baoulé, Koulango, Abron, ma anche Mossi del Burkina Faso. Anzi, si può dire che siano rappresentati quasi tutti i paesi della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale): Togo, Benin, Senegal, Mali, Mauritania…».

Una cartina di tornasole di questa varietà è la messa domenicale nella chiesa di Sago, durante la quale le letture vengono fatte in cinque lingue. I cattolici a Sago sono una minoranza, precisa ancora padre Silvio, circa il dieci per cento della popolazione. Sei persone su dieci sono musulmane, il quindici per cento è cristiano di altre denominazioni e un altro quindici per cento pratica le religioni tradizionali.

La scuola primaria Notre Dame de la Consolata accoglie 250 alunni dai sei ai dodici anni; padre Celestino Marandu, missionario tanzaniano anche lui con diversi anni d’esperienza in Congo, è a Sago dal 2009 ed è il responsabile della scuola che, nel gennaio 2017, è stata una delle pochissime a non rimanere chiusa tre settimane per lo sciopero dei funzionari pubblici.

«Certo», osserva Celestino, «è giusto che gli insegnanti rivendichino il loro diritto a stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro; ma qui è la scuola a pagare gli stipendi, regolarmente e senza contributi dal governo. Garantiamo ai docenti anche case ad affitti ragionevoli e un ambiente di lavoro organizzato dove possono segnalare, discutere e risolvere i problemi insieme alla dirigenza. E tutto questo per assicurare la cosa più importante: che i bambini abbiano un’istruzione davvero di qualità». Padre Celestino ha appena completato l’arredamento della sala e mensa scolastica finanziato grazie al contributo di alcuni donatori italiani. «L’ispettore regionale dell’insegnamento primario è venuto a visitare la scuola», racconta padre Marandu. «Alla fine ci ha fatto i complimenti per la mensa più bella e grande della regione del Gboklê».

Nell’immediato futuro padre Celestino ha in programma di terminare la recinzione per avviare l’orto che produrrà frutta e verdura per la scuola: «Senza recinto non si può coltivare, arriverebbero gli animali a devastare tutto». Vuole poi ristrutturare alcune delle case degli insegnanti, completare la case de santé della scuola per seguire i bambini anche dal punto di vista della sanità di base, ultimare il campo sportivo. «Il governo ha introdotto l’obbligo scolastico fino a 16 anni», riferisce il missionario, «ma serve anche un sistema uniforme ed efficace di controlli e sanzioni per chi non manda i figli a scuola. Qualcuno stima che i bambini di fatto non scolarizzati siano ancora almeno la metà».

San Pedro e Abidjan, cacao invenduto e grattacieli

L’aria impregnata dell’odore acre delle fave di cacao è forse uno dei tratti distintivi di San Pedro, insieme alle file di camion che trasportano, oltre al cacao, anche gli altri prodotti delle piantagioni ivoriane. Ma nell’inverno del 2016 nell’aria si respirava anche apprensione: 400 mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani e cominciavano a marcire. Il Conseil Café-Cacao, riportava il quotidiano francese Le Monde3, aveva fissato per il 2016 il prezzo cosiddetto «a bordo campo» a non meno di 1.100 franchi al chilo, 1,67 euro. Gli esportatori devono vendere ad almeno 1.800 franchi (2,74 euro) per guadagnare qualcosa considerando anche i costi di manodopera e trasporto. Ma da agosto dell’anno scorso il prezzo del cacao sul mercato mondiale è diminuito del 25% e ora un chilo vale 1.300 franchi, poco meno di due euro. A febbraio, del fondo che il Conseil Café-Cacao ha a disposizione per rimborsare gli esportatori in questi casi nessuno aveva ancora visto un franco. E, spesso, i produttori ricevono il pagamento per il raccolto in parte alla consegna e in parte anche mesi dopo, perciò, se non arrivano prima i rimborsi agli esportatori per l’invenduto i coltivatori rischiano di non incassare nulla.

E se questo è il problema più immediato, non è però l’unico: la rivista Jeune Afrique4 riportava diverse testimonianze di addetti ai lavori secondo i quali la metà del cacao venduto come equo, solidale e sostenibile avrebbe avuto una certificazione fasulla. Questo tipo di cacao può essere venduto a un prezzo più alto di quello del cacao ordinario, perché, in teoria, ha costi di produzione maggiori dovuti a standard più elevati nel trattamento dei lavoratori e nei metodi di coltivazione. Dopo che i colossi del cioccolato, Mars e Lindt in testa, si sono impegnati ad arrivare entro il 2020 a comprare solo cacao certificato, questa fetta di mercato ha avuto un boom. Ma qualcosa non torna: la certificazione è un processo lungo e meticoloso, eppure nel 2015 un terzo del cacao ivoriano – cioè 600 mila tonnellate su un milione e 800 mila – risultava certificato. Troppo in troppo poco tempo, sostengono gli scettici. Alcuni operatori avrebbero fiutato l’affare e costituito delle cooperative intermediarie che comprano cacao ordinario al prezzo minimo, ottengono false certificazioni e rivendono il cacao come equo, facendo così una cresta che può arrivare a 170 Fcfa (18 centesimi di euro) al chilo. Il cacao, ricordava ancora Le Monde, genera due terzi dei posti di lavoro e dei redditi nel paese, la metà degli introiti delle esportazioni e il 15 per cento del Pil. È un settore con il potere di mettere in crisi l’intero paese.

 

A guardare le scenografiche luminarie delle feste scintillare sui vetri dei grattacieli del Plateau, il quartiere chic di Abidjan, a sentire i comunicati con cui le Nazioni Unite annunciano che la situazione è abbastanza stabile da ritirare la forza di pace5, o a leggere che il volume degli scambi di denaro via cellulare tocca i 25 milioni di euro al giorno6 non si direbbe che la Costa d’Avorio possa ripiombare nel caos. E il ricordo ancora vivo del conflitto, della paura costante, del paese spaccato a metà potrà aiutare a contenere le spallate di inizio anno. Ma certamente il 2017 sarà un banco di prova fondamentale per evitare sia un nuovo conflitto sia il cronicizzarsi di una latente, logorante instabilità.

Chiara Giovetti
(2 – fine)

Note

1- L’Harmattan è un vento secco e polveroso che soffia a Nordest e Ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. È considerato un disastro naturale (Wikipedia).
2- The Dark Side of the Chocolate – Il Lato Oscuro del Cioccolato – Italiano, 02 agosto 2014, canale Youtube «doppiatorianonimi».
3- Charles Bouessel, Comment la Côte d’Ivoire se retrouve avec 400 000 tonnes de cacao invendues sur les bras,
lemonde.fr, 16 febbraio 2017.
4- Charles Bouessel, Agriculture : la filière cacao envahie par la fraude à la certification, jeuneafrique.com, 3 febbraio 2017.
5- Carlverth Kouakou, Côte d’Ivoire : Les casques bleus quittent le pays à partir du 15 février, laseve.info, 10 febbraio 2017.
6- Hamsatou Anabo, Côte d’Ivoire: Entre 15 et 18 milliards CFA de transactions quotidiennes via Mobile Money, connectionivoirienne.net, 3 febbraio 2017.

 




Liberia: Angeli contro il virus

Presenti nel paese dal 1963 le missionarie della Consolata hanno rappresentato un baluardo contro l’epidemia di ebola. Con umiltà e coraggio hanno curato le persone colpite dal virus e sensibilizzato la popolazione per ridurre l’espandersi della malattia. Oggi si prendono cura degli orfani. Ecco il racconto di quei giorni terribili.

Monrovia. Determinate, allegre e sempre indaffarate, Anna Rita, Annella, Eugenia e Clotilde sono le suore italiane della Consolata in missione in Liberia, piccola nazione dell’Africa occidentale. Insieme a loro Abela, dalla Tanzania, e Lucy, liberiana. Una dopo l’altra arrivate nel paese negli anni Sessanta, hanno vissuto due guerre civili (1989-1995 e 1999-2003) e non si sono fermate nemmeno quando il virus ebola, nel 2014, ha iniziato a mietere vittime con una facilità e una rapidità disarmanti.

Tra i 70 e gli 80 anni, vere forze della natura, sono sempre al servizio della comunità e anche in quel difficile, lungo periodo dell’epidemia non si sono risparmiate schierandosi in prima linea.

Fino a poco tempo fa impegnate anche a Ganta, città del Nord al confine con la Guinea, in un centro in cui vengono curate lebbra e tubercolosi, oggi le missionarie sono divise tra Buchanan, cittadina a Sud di Monrovia dove gestiscono una scuola frequentata da oltre 1.000 bambini, e la contea di Harbel, a 80 km dalla capitale, nei pressi dell’aeroporto.

«È stato un periodo tremendo quello dell’ebola: la malattia ha colpito tutte e tre le zone dove noi eravamo e siamo operative. Ogni giorno vedevamo morire persone che conoscevamo bene. A volte mi sono sentita impotente, ma ho sempre pensato che dovevo fare tutto ciò che era in mio potere per aiutare la mia comunità», ricorda con voce pacata suor Anna Rita Brustia, mescolando italiano e inglese in pieno stile liberiano. «Il governo e il sistema sanitario non erano pronti per gestire l’emergenza e le persone non erano informate: la cosa più difficile è stata far comprendere agli abitanti del posto che dovevano adottare alcune misure di sicurezza», precisa suor Annella Gianoglio (si veda MC novembre 2014).

Lavoro di squadra

Così le suore della Consolata hanno formato una squadra di 70 volontari incaricati di andare nei villaggi per sensibilizzare le persone circa le norme di igiene da rispettare, oltre che per verificare se c’erano casi sospetti da trasportare nei centri di trattamento istituiti dall’Ong Medici Senza Frontiere. «Li chiamavamo Health social mobilizers ed erano le persone che frequentavano il nostro corso di animazione pastorale durante il quale facevamo, insieme a due Health promoters (promotori di salute, ndr), sensibilizzazione contro l’Hiv. Non appena si sono palesati i primi casi di ebola nella nostra zona, abbiamo trasformato il gruppo per lottare contro il virus. Abbiamo iniziato a lavorare in questo senso ancora prima che il governo e l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarassero l’emergenza e, quindi, in largo anticipo rispetto alle varie Ong che sono poi arrivate», racconta suor Anna Rita con umiltà.

A farle eco suor Eugenia Tappi che ammette: «Siamo state delle miracolate, me ne rendo conto solo ora. In quel periodo pensavo solo a ciò che dovevo fare giorno per giorno». «Setacciavamo quotidianamente i villaggi e se c’era qualche persona con sintomi sospetti mostravamo ai famigliari le precauzioni da seguire e poi lo segnalavamo alle sorelle», le fa eco Emmanuel Crusol, liberiano, capo squadra dei Social mobilizers.

Lavarsi le mani di continuo, non stringersele, non avere contatti, non frequentare luoghi affollati, a messa sedersi a una distanza di un metro l’uno dall’altra: l’indottrinamento promosso dalle missionarie della Consolata è stato costante. Ancora oggi, sia nel giardino della scuola di Buchanan sia davanti alla chiesetta che sorge accanto alla struttura dove vivono le sorelle, presso Harbel, vi è un grande bidone colmo di acqua clorata (con candeggina). «Molte persone si lavano ancora le mani prima di entrare in chiesa e altri faticano a stringersele: la paura persiste», dice suor Anna Rita.

Un mondo di orfani

Oltre alla paura, però, l’ebola ha lasciato anche un numero spaventoso di orfani: «Solo nella contea di Harbel ce ne sono 614. Appena finita l’emergenza erano 616 ma poi due sono morti. Chi ha perso solo la madre, chi il padre, chi entrambi. In ogni caso si tratta di vite spezzate», continua la missionaria interrompendosi in una breve pausa. A colmare il silenzio ci pensa suor Eugenia: «Noi ci prendiamo cura di loro, sfruttando al massimo i pochi mezzi che abbiamo. Per esempio aiutiamo le famiglie che li hanno presi in carico a pagare le rette scolastiche per offrire loro la possibilità di un futuro migliore». In Liberia, come in molti altri paesi africani, non esiste infatti la cultura dell’orfanotrofio: a preoccuparsi dei bambini che rimangono senza genitori ci pensano i parenti. Così si creano famiglie enormi, difficili da gestire.

«Mia sorella è morta dopo aver contratto l’ebola, i suoi due figli ora vivono con me e i miei tre bambini. Cerco di crescerli al meglio, dando loro dei pasti ogni giorno. Non riesco a pagare la scuola per tutti, è impossibile. Anche perché qui in Liberia la vita è davvero cara dal momento che quasi tutti i beni di prima necessità vengono importati», racconta un uomo che vive e lavora ad Harbel.

Ci sono anche famiglie, però, che rifiutano i piccoli rimasti orfani perché portano con sé lo stigma del virus. «Andiamo nelle case e cerchiamo di far comprendere alle persone che questi bambini sono come tutti gli altri, hanno solo più bisogno perché rimasti soli. Facciamo sensibilizzazione. Adesso, per fortuna, iniziamo a vedere qualche risultato, complice il passare del tempo che fa sentire sempre più lontano quel terribile periodo», spiega Anna Rita minimizzando sempre ciò che fa.

«Portiamo avanti un lavoro che abbiamo cominciato all’apice dell’epidemia», interviene suor Annella, di poche parole ma molto precisa. In quel momento di estrema emergenza era infatti fondamentale cercare di soddisfare i bisogni primari delle persone: tutto era bloccato, molte aziende chiuse, importazioni ferme, attività rallentate. «La gente non riusciva a procurarsi il cibo, anche perché molte persone avevano dovuto abbandonare il lavoro, così, oltre alla scarsa disponibilità di prodotti, a mancare erano anche i soldi. Inoltre i bambini che man mano perdevano i genitori erano allo sbaraglio», continua.

Fame ed emarginazione

La meticolosità delle suore nell’organizzare gli interventi ha permesso loro di salvare la vita a molte persone. A testimoniarlo il registro con l’elenco di tutti gli orfani di Harbel sul quale al tempo segnavano con attenzione la quantità di cibo fornita a ciascuno con accanto la firma della persona che li aveva presi in carico. «A cornordinarci c’era sister Maria Teresa Moser che ora purtroppo è dovuta rimpatriare a causa di problemi di salute. Siamo perfettamente consapevoli che donare il cibo non sia il modo giusto per risolvere i problemi di queste persone. In una situazione come quella però se non l’avessimo fatto, oltre alle vittime dell’ebola ci sarebbero stati anche tanti morti di fame», riprende suor Anna Rita.

Nel dicembre del 2015 le missionarie si sono preoccupate di registrare i 614 orfani al governo: «Noi continuiamo a fare ciò che possiamo ma le autorità devono attuare un intervento radicale dall’alto per sostenere questi ragazzi. A gestire la situazione dovrebbe essere il ministro delle Pari opportunità, ma per ora ha fatto poco o nulla», afferma con sconforto Eugenia.

«I nostri fondi ci permettono di aiutare economicamente solo poche famiglie. Ad alcuni bambini che frequentano la scuola a Buchanan non facciamo pagare le rette», spiega suor Clotilde mentre si avvicina a Patience, studentessa di 13 anni intenta a giocare con gli altri ragazzi durante l’intervallo. «Mio papà era un muratore, ha preso l’ebola e si è ammalato. Adesso vivo con mia mamma e i miei cinque fratelli. Mangiamo una volta al giorno, però possiamo frequentare la scuola perché le suore ci aiutano. Mi piace venire a lezione. Quando durante l’epidemia l’istituto è rimasto chiuso io mi sentivo molto triste», dice con maturità.

Ci sono anche ragazzi che sono stati abbandonati dai genitori: «Le persone che hanno contratto il virus e sono sopravvissute sono state emarginate dalla comunità, la paura era troppo forte», spiega Annella che viene interrotta da Clotilde: «Mi ricordo di un padre che portava i figli nella nostra scuola. Era un sopravvissuto. A un certo punto però è sparito. Dicono che sia scappato nella foresta perché non sosteneva più l’isolamento». A conferma di quanto raccontano le missionarie, vi è la testimonianza di Lela Glay, 45 anni, sguardo spento: «Ho contratto l’ebola andando a trovare un mio caro che si era ammalato. Da quel momento è stato l’inferno. Sono sopravvissuta ma i problemi non sono finiti: prima sono stata a lungo emarginata da amici e parenti, ora mi trovo a fare i conti con le conseguenze fisiche lasciate dal virus. Ho fortissimi dolori alle giunture che non mi permettono più di lavorare». Così anche lei è stata presa sotto l’ala dalle missionarie della Consolata.

Lo sguardo al futuro

Suor Anna Rita e le altre fanno parte della storia del paese e non smettono di guardare avanti. «Nel caso ci fosse una nuova epidemia il governo e il sistema sanitario sarebbero pronti a intervenire tempestivamente. Lo abbiamo già provato: dichiarata ebola free l’11 maggio 2015, i due casi che ci sono stati successivamente sono stati isolati immediatamente. Noi continuiamo a sensibilizzare le persone anche perché ci sono convinzioni popolari che rappresentano un ostacolo: come la credenza che all’origine della malattia ci sia il malocchio, giu giu, in lingua locale».

Oltre ai drammi lasciati dall’ebola, le suore affrontano i problemi di sempre. Come la situazione degli insegnanti: «Hanno stipendi molto bassi e fanno fatica a vivere. La corruzione così dilaga anche nelle scuole: i genitori li pagano per promuovere i propri figli e i maestri a volte accettano, così arrotondano. Noi cerchiamo di far fronte a questo problema, nei limiti del possibile», spiega Clotilde mentre richiama i bambini all’ordine.

Così, anno dopo anno, le suore missionarie della Consolata sono diventate un po’ liberiane anche loro e, soprattutto, sono divenute il punto di riferimento della comunità.

Valentina Giulia Milani




La Costa d’Avorio in ostaggio /1


Reportage dalla Costa d’Avorio. Dall’arrivo ad Abidjan, capitale economica e culturale del paese, proprio nella settimana dell’ammutinamento dell’esercito e dello sciopero dei dipendenti pubblici, alla visita alle missioni di Marandallah e Dianra, nel Nord del paese dove operano i missionari della Consolata.

«Sei stata in Costa d’Avorio dieci anni fa? La troverai molto cambiata, allora. Abidjan ad esempio: ora ha strade nuove, un nuovo ponte con il pedaggio ed è molto, molto più pulita». Così mi dice durante il volo una trentenne ivoriana che vive da vent’anni in Germania, dove lavora in proprio come parrucchiera. Di Costa d’Avorio, in realtà, sa poco o nulla, ormai: torna una volta all’anno per vedere i fratelli e per godersi il buon cibo ivoriano: il foutou, una sorta di polenta fatta con la banana, la manioca o l’igname a seconda della zona e il pesce cotto al vapore dentro una foglia di banano.

Ammutinamento dei militari

All’uscita dell’aeroporto della capitale ivoriana, però, le notizie che raccogliamo non riguardano i passi avanti nell’urbanistica di Abidjan, ma l’ammutinamento dei militari del Nord del paese, in particolare a Bouaké. Non di tutti i militari, bensì degli anciens combattants, cioè i ribelli integrati nell’esercito che avevano sostenuto, nella fase di uscita dalla crisi, la corsa alla presidenza dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, detto Ado. L’attuale insubordinazione in seno all’esercito altro non è che il batter cassa degli ex ribelli, ai quali la compagine politica di Ado aveva promesso premi in denaro e privilegi in cambio del loro sostegno. Nel novembre 2014 c’era stata un’avvisaglia, ma si trattò di una semplice protesta; quello di oggi, gennaio 2017, è un vero e proprio ammutinamento iniziato la settimana successiva all’Epifania dalle città del Nord ed esteso poi agli ex ribelli nell’esercito di stanza in tutto il paese.

La richiesta al governo era chiara: soldi, miglioramento delle condizioni delle caserme e case per le famiglie dei soldati. Ouattara era in Ghana alla cerimonia di insediamento del suo omologo dopo le elezioni nel vicino anglofono. È rientrato in tutta fretta per convocare un Consiglio dei ministri e reagire all’emergenza. Dopo momenti di grande tensione culminati nel sequestro del ministro della Difesa inviato a Bouaké a trattare, un accordo è stato raggiunto e i militari sono rientrati nelle caserme. Ma il 13 gennaio, giudicando insufficienti i gesti del governo in direzione del rispetto degli accordi, i soldati hanno ricominciato a protestare creando disordini, stavolta più violenti.

Proteste e disordini

«Padre Alexander Likono, uno dei nostri confratelli, era a Bouaké per delle commissioni», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. «All’entrata in città ha trovato una cinquantina di militari: abbiamo preso Bouaké, dicevano, e prenderemo tutta la Costa d’Avorio. Poi gli hanno ordinato di scendere dalla macchina e di cederla a loro. Al suo rifiuto, lo hanno minacciato. Dopo una serie di negoziazioni e dopo avergli estorto denaro lo hanno lasciato andare, ma la paura è stata davvero tanta». I giornali hanno scritto che non ci sono stati incidenti seri, ma chi era a Bouaké parla di due morti e diversi casi di stupro.

«La situazione è grave», continua padre Ramón, «perché la popolazione, esasperata da una settimana di blocco delle attività economiche, si è ribellata ai militari, e questi hanno aperto il fuoco sulla folla. È un miracolo che non ci siano decine di morti».

Anche dopo i fatti del 13 gennaio governo e militari hanno siglato un accordo, ma il 17 gennaio c’è stata una terza ondata di disordini che ha causato quattro morti. A protestare non sono stati stavolta gli ex ribelli integrati nell’esercito, ma quelli entrati in forze alla gendarmerie e alla polizia, intenzionati a ottenere lo stesso trattamento dei «fratelli» militari. A peggiorare ulteriormente il clima è stato lo sciopero dei dipendenti pubblici a partire dal 9 gennaio, che ha portato, fra le altre cose, alla chiusura delle scuole per tre settimane.

La tensione sociale è alta: il governo avrebbe accettato, almeno sulla carta, l’esorbitante richiesta dei circa 8.500 militari ribelli, equivalente a circa 7.500 euro a testa (ma secondo altre fonti a questi si aggiungerebbero altri 10 mila euro da corrispondere in sette mesi), creando malumore in tutto il paese. I dipendenti pubblici, ad esempio, vivono la resa del governo come un’ingiustizia che aggrava l’inadeguatezza dei loro salari.

Il 7 febbraio le Forze speciali dell’esercito si sono ammutinate a Adiaké, città di confine con il Ghana. Reclamano pure loro premi economici come quelli accordati ai commilitoni.

Malumore popolare

Ma, ricorda ancora padre Ramón, il malcontento è diffuso soprattutto nella fascia più ampia della popolazione, quella che non può far valere le sue ragioni attraverso le armi né far sentire la propria voce con uno sciopero. Si tratta della gente comune, che un salario non lo ha mai visto e che vive di agricoltura e commercio. «Con quali soldi il governo pagherà i ribelli?», si chiede la gente. «Userà denaro pubblico sottraendolo agli investimenti in infrastrutture, sanità e scuola?».

La popolazione è disgustata dai militari che, riconvertendo i blocchi stradali del tempo di guerra in improvvisate frontiere interne, non hanno mai smesso di estorcere denaro a chi passa per trasportare cacao, anacardi, cotone o per andare a coltivare i campi. È stufa di non poter mandare i figli a scuola e di avere i servizi sanitari ridotti al minimo a causa dello sciopero. È, infine, spaventata dalla possibilità di ricadere in un conflitto – logorante, estenuante – come quello che solo dieci anni fa aveva trasformato il Paese modello dell’Africa Occidentale in una discarica di odio interetnico, di macerie di interi settori economici e di detriti di servizi pubblici e infrastrutture, sbriciolati dai tarli della corruzione. Alla data di chiusura di questo articolo la situazione sembra essersi stabilizzata, ma sono tanti a temere che il ritorno della tensione sia dietro l’angolo.

Marandallah, la missione del dialogo

Marandallah è una sottoprefettura nel Nord Ovest della Costa d’Avorio a poco meno di 500 chilometri da Abidjan. Siamo in piena zona koro, gruppo mandé presente in tutto il Nord ivoriano. Il 72 per cento della popolazione è musulmano, seguito da un 25 per cento che pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento. I cattolici sono 912 su un totale di 42mila abitanti.

«Date queste premesse», dice padre Alexander Likono, keniano missionario della Consolata che lavora a Marandallah (quello scampato al posto di blocco di Bouaké), «è facile capire come il dialogo interreligioso sia al centro del nostro lavoro qui. Al servizio del dialogo è anche il nostro impegno nel campo della sanità e dell’istruzione e formazione».

Le attività economiche principali della zona sono le coltivazioni dell’anacardo e del cotone. «I campi hanno un’estensione di un ettaro o due per famiglia», spiegano John Baptist Ominde Odunga, confratello e connazionale di padre Alexander. «A lavorare la terra sono, insieme agli adulti, anche i bambini, che spesso per questo smettono di frequentare la scuola primaria o addirittura non iniziano nemmeno il percorso scolastico.

La scuola secondaria conta circa 450 allievi, ma i professori – assegnati a settembre – hanno iniziato ad arrivare solo a gennaio. «È un luogo troppo isolato», continuano i due missionari, «qui gli insegnanti non ci vogliono venire. Per questo abbiamo proposto una soluzione temporanea ispirandoci a quel già avviene nel paese dal 2002 a causa della crisi: abbiamo coinvolto i giovani che hanno finito la secondaria chiedendo loro di darci una mano». A partire da novembre questi giovani sono impegnati come insegnanti volontari. Le famiglie degli studenti si auto tassano e riescono a dare ai volontari un piccolo rimborso di trentamila franchi al mese, pari a circa 45 euro, un quinto del salario di un insegnante statale. «Io stesso ho insegnato inglese», racconta Alexander. «Certo non può essere una soluzione definitiva, ma l’alternativa era lasciare 450 ragazzi senza scuola».

Il dialogo interreligioso e, più in generale, la reciproca conoscenza e cooperazione con la popolazione di Marandallah ha come luogo simbolo il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’amicizia), una sorta di parco poco fuori dal villaggio. Nel Jardin, ideato e curato da padre João Nascimento, missionario portoghese attivo a Marandallah fino a dicembre 2016, si svolgono, oltre alle celebrazioni cattoliche, momenti di aggregazione ai quali partecipano tutti gli abitanti del villaggio. Altro luogo di aggregazione è il centro per le attività sociali di fronte alla missione, che ha sale per la formazione, un piccolo ristorante, un campo da gioco. Vi è poi l’alfabetizzazione, che si svolge sia a Marandallah che nei villaggi intorno all’interno degli appatames, strutture aperte simili a paillotte (tettornie circolari aperte, con tetto di paglia).

Altra attività fondamentale dei missionari a Marandallah è il centro di salute Notre Dame de la Consolata. Il centro ha un dispensario, una maternità che segue fra le quaranta e le sessanta donne per mese, un laboratorio utilizzato anche per la diagnosi e il monitoraggio dei casi di Hiv. Dalla fine dello scorso anno, poi, la maternità dispone anche dell’ecografia. Il centro è una struttura di riferimento per la diagnosi e cura dell’Hiv/Aids in collaborazione con Sev-Ci, Ong ivoriana specializzata in questo campo. «La difficoltà maggiore», spiega ancora padre Likono, «è far capire alle persone quanto sia importante venire tempestivamente al centro di salute quando hanno un problema. Spesso tentano di curarsi con i metodi tradizionali e si trascinano per mesi malattie guaribili in pochi giorni. Lo stesso vale per quelle donne incinte che non vengono a farsi visitare durante la gravidanza e che, in caso di parti problematici, arrivano qui in condizioni terribili, a volte troppo tardi». Portare i pazienti all’ospedale più vicino, se il caso è troppo complicato per essere risolto al centro, significa far loro affrontare ore di viaggio in ambulanza su piste difficili, specialmente con le piogge, per un costo fra i 60 e i 90 euro.

Dianra. Salute, alfabetizzazione e microcredito

Ottanta chilometri di pista più a Nord – l’asfalto finisce una quarantina di minuti prima di arrivare a Marandallah ed è praticamente assente in tutto il Nord – si trova Dianra. Un bambino di una decina d’anni attraversa il cortile della missione nel buio della sera, ha in mano una busta di plastica con dentro penna, matita, quaderno e lavagnetta. Raggiunge gli altri circa 160 bambini e adulti che si intravedono nei quadrati luminosi di porte e finestre delle aule della missione, le teste chine sui banchi o protese verso la lavagna.

«Questi sono i corsi di alfabetizzazione, sono cominciati quindici anni fa», spiega padre Raphael Njoroge Ndirangu, un altro missionario keniano che lavora a Dianra. «Non sono decollati subito, ma poi piano piano le persone hanno cominciato a vederne l’utilità nel loro quotidiano». Hanno capito, ad esempio, che saper leggere e scrivere permette loro di gestire direttamente la vendita del cotone o degli anacardi che producono invece di mettersi nelle mani di intermediari che barano sul peso e si accordano con i compratori per spartirsi il maltolto. Oppure hanno visto tre loro colleghi degli anni passati superare l’esame di stato che riconosce il livello scolastico raggiunto e trovare così lavori che altrimenti non avrebbero potuto avere. «Certo, non è facile per loro rimanere concentrati dopo una giornata nei campi, ma sono motivati e in questo gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale». Altra attività che riesce a influire sul quotidiano delle persone è il microcredito, cornordinato da padre Manolo Grau, missionario spagnolo con all’attivo parecchi anni di Congo, poi approdato in Costa d’Avorio. «A oggi abbiamo 165 donne che partecipano al programma di microcredito, che è un’iniziativa stabile e, anzi, in crescita». A gestire le donne, suddivise in gruppi di cinque, sono sei responsabili, una delle quali è musulmana, a riprova che anche la missione di Dianra, come Marandallah, ha nel dialogo con le altre religioni uno dei suoi punti fermi. «Finora i vari gruppi di donne hanno semplicemente completato i cicli triennali di microcredito con percentuali di rimborso che non sono scese mai sotto il 98 per cento. Ora, dato il consolidamento dell’iniziativa, padre Manolo e le sei responsabili cominciano a pensare a un salto di qualità. «Potrebbe essere una cornoperativa, un orto comunitario, un’attività generatrice di reddito che riunisca alcune di queste donne in un progetto comune. Ma un’iniziativa del genere può funzionare solo se viene da loro. Il nostro lavoro è quello di accompagnarle nella riflessione e nell’eventuale formalizzazione di una proposta».

Un salto di qualità, invece, lo ha fatto nel 2016 il Centro di Salute Giuseppe Allamano a Dianra Village, località a 22 chilometri da Dianra. Padre Matteo Pettinari, missionario italiano e responsabile del centro, ha radunato tutto il personale nell’atrio del dispensario e Victor, infermiere recentemente entrato in forze al centro, guida la visita alla maternità, al laboratorio, allo studio dentistico terminati nel febbraio 2016. Questi completano il dispensario e la farmacia, che esistevano già; il centro così ampliato riceve crescenti richieste da parte di nuovi pazienti. I parti sono arrivati a circa 28 al mese.

«Grazie al sostegno di Amico, di Mco e di una parrocchia di Pesaro», spiega padre Matteo, «abbiamo inoltre costruito le cases de santé nei villaggi intorno a Dianra Village. Si tratta di piccole strutture presso le quali facciamo sanità di base e portiamo avanti il programma sulla lotta alla malnutrizione». «In quattro degli undici villaggi che serviamo», afferma Suzanne, ausiliaria responsabile con Victor del programma malnutrizione e membro dell’équipe mobile del Centro, «seguiamo 152 bambini malnutriti, ma prevediamo di ampliare progressivamente il programma anche agli altri piccoli che abbiamo individuato nei restanti villaggi».

Chiara Giovetti – [continua]




Frammenti di Luce


Frammenti di Luce | Annare perannareque commode: trascorrere piacevolmente tutto l’anno (Ovidio, Fasti, III) |

Riflessioni di padre Giuseppe Ronco, pubblicate su Da Casa Madre 1/2017 pp. 3-7, rivista ad uso interno dei Missionari della Consolata.

La Cattedrale dei Santi Pietro e Maria, a Colonia, è un capolavoro dell’architettura gotica mondiale e patrimonio dell’Umanità. Per i suoi 157 metri di altezza è la terza Cattedrale più alta del mondo. A Colonia però, l’architettura religiosa che predomina è quella romanica, con le sue 12 chiese costruite tra l’inizio del Millennio e la metà del XII secolo. Tra queste c’è la chiesa di San Cuniberto, costruita nel 1247 in onore del novo vescovo di Colonia e per ospitae la tomba. La pala dell’altare, risalente al IX secolo, raffigura il dio Chronos venerato come Annus, l’Anno. Le decorazioni che arricchiscono la sua bellezza sono i simboli del tempo: la rappresentazione del giorno e della notte, il susseguirsi delle stagioni, e i dodici segni zodiacali. Per cristianizzare Chronos, però, sono stati aggiunti i simboli dell’alfa e dell’omega, dell’inizio e della fine, richiamati dall’Apocalisse (cfr Ap 22,13).

L’idea teologica chi vi soggiace è di mostrare come Gesù Cristo abbia potere sul tempo e sulla storia, trasformando l’evolversi cronologico del mondo in tempo salvifico. È un Dio che si incarna nello spazio e nel tempo per farlo lievitare dal di dentro e portare così la storia al suo compimento. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! (Ebr 13, 8).

Nel paragrafo conclusivo su “La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo”, dal titolo Cristo alfa e omega, il Concilio recita: “Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti. Nel suo Spirito vivificati e coadunati, noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno col disegno del suo amore: “Ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10). Dice il Signore stesso: “Ecco, io vengo presto, e porto con me il premio, per retribuire ciascuno secondo le opere sue. Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine (Ap 22, 12-13)” (GS 45).

È con questa certezza che diamo in benvenuto all’anno nuovo. Apparentemente sarà un anno come tutti gli altri, con le sue afflizioni e delusioni, ma in realtà sarà un anno di Dio, foriero di speranza e di salvezza, di futuro che vuole diventare eternità. Per i Greci Chronos divorava crudelmente i propri figli, e al suo passare tutto diventava morte. Per noi cristiani il tempo è utero di futuro, di vita eterna, spazio da riempire di contenuti e di opere buone, luogo di responsabilità dove si gioca il bene dell’intera umanità.

Lo accogliamo con il canto del Maranatha, facendo spazio a quel Dio che, solo, ci libererà dalla dittatura mortale di Chronos.

Siamo noi stessi il tempo

Perché il tempo appartenga a Dio, occorre la nostra collaborazione. “Un giorno, Agostino ebbe a dire ai suoi contemporanei, che si lamentavano dei loro brutti tempi: siamo noi stessi i tempi. Infatti, quando parliamo dello stile Biedermeier o del Barocco, oppure della rivoluzione francese, ci riferiamo sempre agli uomini che insieme hanno fatto di quegli anni un’epoca ben determinata. Gli uomini sono il tempo, nella mutevole natura del loro essere.

Per esprimerci in termini più concreti: che sarebbero un mondo e una chiesa senza la fede serena, leale e schietta dei bambini? Che sarebbero un mondo e una chiesa senza l’inquietudine sollecitante, le domande progressiste con cui ci assalgono i giovani? Che sarebbero senza la forza e la decisione di coloro che sono al culmine della loro vita? Che sarebbero senza la maturità dell’esperienza, senza la tranquilla pazienza e la remissiva serenità degli anziani? E che cosa saremmo noi tutti senza la fiducia degli uni verso gli altri, la disponibilità a guardarci e accettarci a vicenda?” (J. Ratzinger, Dogma e predicazione, 1974).

L’atteggiamento vincente per vivere al meglio l’anno nuovo è l’ottimismo, l’agire saggio e cosciente di chi sa confrontarsi con il dolore, la paura, le difficoltà della vita e decide di farvi fronte. E anche dalle esperienze negative potranno scaturire degli insegnamenti positivi, che aumenteranno la fiducia e la speranza.

“In ogni inizio si trova, infatti, un incanto che ci protegge e ci aiuta a vivere”, fa dire Hermann Hesse al protagonista del suo romanzo II giuoco delle perle di vetro. In ogni cuore, anche nel più spento e disilluso, una fiamma nuova riprende vita, quando qualcosa di nuovo incomincia.

“Indovinami, indovino tu che leggi nel destino: l’anno nuovo come sarà? Bello, brutto, o metà e metà? Trovo stampato nei miei libroni che avrà di certo quattro stagioni, dodici mesi, ciascuno al suo posto, un carnevale e un ferragosto, e il giorno dopo del lunedì avrà sempre un martedì. Di più per ora scritto non trovo nel destino dell’anno nuovo: per il resto anche quest’anno sarà come gli uomini lo faranno” (Gianni Rodari, Anno nuovo).

L’anno nuovo incomincia quando vuoi tu

C’è una buona notizia per chi vuole incominciare bene l’anno nuovo: il tuo nuovo anno incomincia nel giorno in cui vuoi incominciare un cammino di cambiamento. Non esiste nessun riferimento scientifico sicuro, nessuna considerazione astrale, che permetta di stabilire in modo preciso quando l’anno inizi e quando finisca.

La scelta di una data precisa è arbitraria ed è mutata più volte con il passare del tempo. Al tempo dei Romani l’inizio del nuovo anno veniva festeggiato il 15 marzo durante le Idi, in occasione dell’equinozio di primavera. In un boschetto sulla Via Flaminia, lungo il fiume Tevere, si celebrava la festa in onore di una delle divinità più antiche e misteriose del pantheon romano: Anna Perenna. L’anno nuovo incominciava, tra gozzoviglie, giochi e orge di sesso, abbandonando ogni rigidità morale. Doveva esserci solo godimento e l’augurio che ci si faceva era Annare perannareque commode: trascorrere piacevolmente tutto l’anno.

Anche nel Tibet sciamanico e pre-buddhistico, al tempo dei Bo Murgel, l’ anno iniziava con una festa chiamata Losar. Era una grande celebrazione in cui si offrivano doni agli spiriti e alle divinità tutelari a scopo propiziatorio, bruciando incensi e profumi e offrendo una bevanda alcornolica ricavata dalla fermentazione dell’orzo. La tradizione vuole che nel 127 a.C., anno in cui ascese al trono il mitico re Nyatri Tsenpo, primo sovrano della dinastia Yarlung, si incominciasse a contare gli anni seguendo le fasi della luna. Il calendario diventò così lunare.

Nella storia dei popoli mancò a lungo una data accettata da tutti. “Soltanto nel 1564 l’allora tredicenne Carlo IX, re di Francia, rese obbligatoria la data del primo gennaio come primo giorno dell’anno. Questa scelta venne via via accettata anche dagli altri Paesi cattolici mentre in quelli protestanti la resistenza fu più lunga perché non si voleva acconsentire a una decisione presa da un sovrano straniero. In Gran Bretagna si continuò quindi a festeggiare l’inizio dell’anno il 25 marzo fino al 1751, anno in cui venne accettato il calendario gregoriano, ordinato da Gregorio XIII nel 1582 per ristabilire la concordanza dell’anno con le stagioni” (Rivista Focus, 28 giugno 2002).

Prendere Gesù come compagno nel cammino della missione

L’anno nuovo inizia, ma il nostro cammino nella missione continua. Un anno che inizia può essere l’occasione per rivedere le nostre posizioni e aprirci a spazi non prima frequentati.

“La missione nella sequela di Gesù è cambiamento, apertura alla novità, ricerca inquieta e di speranza, di impegno a qualsiasi costo. Richiede rotture e rinunce, ma suscita e genera anche molta gioia ed entusiasmo e manifesta tutto il suo fascino. Avviene a noi come a quel tale che trovato un tesoro nel campo, lo nascose e per la gioia vendette tutto quello che aveva per comperarlo. Così è la missione e questa la sua attrattiva: aperta alla novità dello Spirito che è sempre libero, creativo e persino sconcertante, che crea e ricrea, trasforma e fa nuove tutte le cose, appassiona per Cristo e il suo Regno” (Da Casa Madre, 11, 2015).

Se gli elementi fondamentali che compongono la missione rimangono sempre uguali, le modalità e le scelte concrete variano sempre con il mutare dei tempi e delle situazioni. Rimane basilare il principio che la nostra missione sarà solida nella misura in cui avremo Gesù come compagno nella nostra barca. La missione è opera sua e solo in sua compagnia la nostra opera sarà efficace.

Camminando con Gesù, ogni cristiano è portato ad aprire gli occhi sull’altro: sul viaggiatore ferito dai banditi e lasciato ai margini della strada, come su quelli che sono malati, nudi, carcerati, affamati con i quali Gesù identifica sé stesso. Sui bambini che il Maestro vuole vicino a sé e sul cieco mentre le folle tentano di allontanarlo da lui; il pagano, la cui fede è inaspettatamente più grande di quella dei figli d’Israele, come su quella donna che viene ad attingere acqua e che ha dentro di sé una sete che nessuno riesce ad intuire. Il servizio che Dio chiede al suo popolo implica precisi impegni nei confronti di quanti sono esclusi al suo interno: orfani, vedove, poveri, forestieri. Ma, nella sua storia, ben presto prende coscienza che la compassione di Dio abbraccia anche tutti i popoli.

Sali sulla mia barca, Signore!
Tante volte ho avuto l’impressione che la mia vita
sia come una notte trascorsa in una pesca fallita.
Allora mi assale la delusione, mi prende il senso dell’inutilità.

Sali sulla mia barca Signore, per dirmi da che parte devo gettare le reti,
per dare fiducia ai miei gesti,
per capire che non devo lavorare da solo,
per convincermi che il mio lavoro vale niente senza di te, senza la Tua presenza.

Sali sulla mia barca Signore, per donare calma e serenità.
Prendi tu il timone: accetto di essere tuo pescatore.
Insieme pescheremo, Signore, e giungeremo sicuri al porto della vita.

La missione è passione per Gesù Cristo e nello stesso tempo è passione per la gente. Colpisce il carattere inglobante della missione di Gesù. Riguarda i ricchi e i poveri, gli oppressi e gli oppressori, i peccatori e le persone pie. La sua missione mira a sbloccare le separazioni e a far crollare i muri di inimicizia tra le persone e i gruppi. Come Dio gratuitamente ci perdona, anche noi dobbiamo perdonare chi ci ha fatto dei torti, senza limiti. Conviene riprendere in mano la Evangelii Gaudium.

Per portare Gesù e il suo Vangelo al mondo dobbiamo uscire, metterci in cammino. Per incontrare la gente bisogna lasciare le proprie certezze, gli ambienti conosciuti, le dottrine che a volte sono più ideologie che verità e farci prossimi di chi è alla ricerca o nel bisogno.

Annunciare diventa un bisogno. La sollecitudine di Paolo verso i pagani si manifesta nella coscienza acuta dell’obbligo, che sa di avere, di proclamare loro il Vangelo. È una anangke, una necessità ineludibile. “Guai a me se non annuncio il Vangelo” (1Cor 9,16). “Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno” (EG 23).

“Annunciare” però non significa soltanto “enunciare o proclamare”, ma testimoniare con la vita. “Possa il mondo del nostro tempo ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo” (EG 10).

Per costruire un mondo nuovo bisogna saper abitare là dove si annuncia e si testimonia. È la dimensione essenziale che l’Incaazione suggerisce: «il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi». L’ambiente nel quali ci si inserisce, casa comune in cui viviamo con gli altri, va coltivato con relazioni umane e cristiane dignitose, va plasmato e formato, sia nel dialogo con la cultura, sia con la purificazione dalle scorie che offuscano la vita vera.

Compito fondamentale è saper far nascere in chi incontriamo la passione per ciò che è vero e bello. È il compito tipico dell’educare, aiutando le persone a vedere il bene presente in ognuno e a coltivarlo per il bene di tutti.

Si diventerà capaci, con il passare del tempo, di saper trasfigurare tutta la realtà che ci circonda, vedendo e interpretando le cose con gli occhi di Dio e andando oltre i limiti umani che appaiono. La via della trasfigurazione è via di bellezza, che rivela l’unità profonda di tutto e ci apre al dono della grazia.

“Per loro io consacro me stesso” (Gv 17,19).

Giunta l’ora di compiere l’ultimo atto della sua vita, Gesù prega. La sua è una preghiera sacerdotale e missionaria nello stesso tempo, atto di consacrazione di sé stesso al Padre e ai suoi discepoli. “Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (vv. 17-19).

Buon Anno e buon viaggio!

Giuseppe Ronco, IMC

(Da Casa Madre 1/2017, pp. 3-7)
Immagini simboliche di Gigi Anataloni, Ennio Massignan e Adriano Coletto