Pazienza e missione

Editoriale su Pazienza e missione di Gigi Anataloni, direttore di MC |


All’inizio di maggio, il 4, parlando a braccio a «frati e suore» riuniti in un convegno internazionale di Istituti di vita consacrata e di Società di vita apostolica, Francesco, nostro amato papa, ha condiviso con loro la logica delle «tre p»: «Queste sono colonne che rimangono, che sono permanenti nella vita consacrata. La preghiera, la povertà e la pazienza».

Il nostro superiore ha invitato i miei confratelli e me a leggere e meditare quel discorso soprattutto perché tra fine maggio e inizio giugno ci incontriamo per una settimana allo scopo di decidere il nostro piano d’azione per i prossimi anni qui in Italia. Un’impresa non facile tenendo conto delle nostre forze, della nostra età e di questo nostro tempo tutt’altro che entusiasticamente cristiano.

Non entro nel merito della «p come preghiera», anche se è la chiave di volta di tutto (è il «prima santi» del nostro beato Allamano). Sulla «p come povertà» noto che la «povertà» che pesa di più è l’invecchiamento generale del nostro istituto in Italia e la mancanza di ricambio generazionale. Vedersi invecchiare senza avere qualcuno a cui passare il testimone è la cosa che pesa di più e sconvolge. Tutti noi, tanti anni fa, siamo partiti da una Chiesa italiana vibrante e piena di vitalità per andare ai quattro angoli del mondo dove abbiamo sperimentato la gioia dell’annuncio del Vangelo, affascinati e meravigliati dall’incredibile azione dello Spirito nei posti più remoti e improbabili. Siamo rientrati in Italia, spesso perché acciaccati, e abbiamo trovato seminari chiusi, parrocchie accorpate e chiese vuote in un paese dove edifici e opere cristiane diventano reperti da Ministero dei Beni culturali e l’essere e il pensare cristiani tendono a essere sempre più relegati nel più stretto ambito privato e le tradizioni cristiane sono o fagocitate dalla logica del mercato (vedi Natale) o addirittura impedite nella loro manifestazione pubblica in nome del pluralismo. Uno shock tremendo, da indurre a chiedere a noi stessi: «Ma abbiamo sbagliato tutto»? Se non fosse che il sistema sanitario italiano – a dispetto delle molte critiche che si fanno – è tra i migliori, la tentazione sarebbe quella di abbandonare il paese e andare a morire là dove abbiamo lasciato il nostro cuore e ci sono tanti giovani missionari che hanno voglia di partire verso le frontiere più remote del mondo.

Un passaggio del discorso di Francesco mi ha colpito: quello del «p come pazienza», soprattutto laddove il papa sottolinea che la pazienza va mano nella mano con la speranza. Tutt’altro che rassegnazione e tristezza, quindi. Tutt’altro che arrendersi all’ineluttabile. La pazienza, alimentata dalla speranza, è forza per costruire il futuro. Non solo, è soprattutto capacità di vedere che il futuro si sta costruendo nonostante le nostre debolezze e contraddizioni, perché c’è Qualcuno che lo crea in modo imprevedibile e sorprendente.

In sé, il papa non ha detto niente di nuovo. Questo tipo di pazienza è radicato nella tradizione cristiana. Noi preti e missionari dovremmo saperlo bene. Eppure, almeno per me, le parole di Francesco hanno avuto un sapore nuovo e quanto mai attuale. Suonano come un campanello d’allarme e una provocazione per noi missionari italiani tentati dalla rassegnazione e paghi di prepararsi a morire bene e nel modo più dignitoso possibile. Non abbiamo bisogno del «sopportare pazientemente le avversità» ma della vera pazienza che ci fa vivere guardando in avanti, sapendo che «sia che dormiamo, sia che vegliamo» il seme cresce da solo e porta frutto, e che Dio dà agli «Abramo e Sara» di ieri, di oggi e di sempre il figlio atteso anche se ormai vecchi, sterili e anche increduli.

Per noi missionari italiani – mi permetto di generalizzare perché la realtà dell’invecchiamento e della mancanza di giovani italiani tra i nostri ranghi è un fatto che riguarda un po’ tutti gli istituti maschili e femminili – vivere questo tipo di «pazienza che è speranza» è l’ultima frontiera della missione. È un dovere di fedeltà e riconoscenza verso Colui che ci ha mandato e verso tutte le persone che abbiamo amato e continuiamo ad amare anche «ai confini» della terra. È un atto di amore e fedeltà nei confronti di tutti quelli che hanno dato e danno la loro vita per un mondo più giusto e più bello come monsignor Oscar Romero, suor Leonella Sgorbati, abbé Albert Tongiumale-Baba in Centrafrica, don Juan Miguel Contreras Garcia in Messico, don Mark Ventura nelle Filippine, Asia Bibi prigioniera in Pakistan, i migranti affogati nel Mediterrano.

La pazienza, poi, è un modo di essere di cui siamo debitori soprattutto a chi ha perso la speranza, ingannato dalle false promesse di un mondo edonista e materialista che copre i suoi fallimenti con fake dreams e fake news. E agli anziani abbandonati alla solitudine, ai giovani senza lavoro, ai nuovi poveri, alle famiglie disgregate, a chi è abortito. Vivere con pazienza, in forza della debolezza, fragilità e povertà vissute sulla propria pelle, diventa davvero un proclamare la «buona notizia» che la Vita è più forte della morte, l’Amore vince tutto e la Bellezza non tramonta mai. È continuare a essere testimoni della Pasqua del Signore, oggi.

Gigi Anataloni

 




Angola: Verso una nuova missione ad gentes

Testo sull’Angola di Marco Bello, foto di Diamantino Antunes |


Angola. Dalle grandi città in cui svettano i grattacieli e brulicano le baraccopoli, alle savane sperdute e spopolate. In Africa le sfide per la missione ci sono tutte. Così i missionari della Consolata iniziano un nuovo servizio. In una zona lontana e (quasi) abbandonata da 50 anni. Portando la loro esperienza e lo stile che li caratterizza.

È l’11 settembre del 2010 la data sulla prima lettera spedita da monsignor Jesus Tirso Blanco al superiore dei missionari della Consolata, all’epoca padre Aquileio Fiorentini. In essa il vescovo di Luena lo invita a mandare un’équipe missionaria nella sua diocesi. Siamo nell’Angola profonda, nella provincia di Moxito, al confine con Repubblica Democratica del Congo e Zambia. Il cuore dell’Africa.

Monsignor Tirso Blanco è argentino e salesiano. Ha passato una vita in Angola e dal 2008 è vescovo di questa diocesi, tra le più vaste dell’Africa subsahariana. Conosce il valore e lo stile dei missionari della Consolata, in particolare per il loro lavoro in Mozambico, paese lusofono, che ha similitudini storiche e culturali con l’Angola.

Ci racconta padre Diamantino Antunes, superiore dei missionari della Consolata in Mozambico e incaricato di seguire l’Angola: «Da quando è stato ordinato vescovo, mons. Tirso Blanco ha cercato per la sua diocesi quello di cui aveva, e tuttora ha, più bisogno: missionari. Non avendo clero locale e pochi religiosi missionari, è alla ricerca di équipe missionarie per far rivivere le antiche missioni che sono abbandonate da 50 anni, da quando è iniziata la guerra coloniale. Si rivolge sia in Angola sia all’estero. Lui conosce la nostra esperienza in Africa e, in particolare, nella missione ad gentes. Conosce il lavoro che facciamo in Mozambico dove siamo in aree difficili, di prima evangelizzazione. E apprezza il nostro approccio nella formazione di catechisti, dei laici come membri attivi della chiesa. Ha cercato quindi missionari qualificati per la sua diocesi, che potessero portare un valore aggiunto. Occorre essere disposti a lavorare in zone distanti e difficili, con metodologia nuova, anche se già sperimentata altrove».

Padre Diamantino è stato nella diocesi di Luena e in particolare nella cittadina di Luacano, lo scorso dicembre. È qui che il vescovo ha chiesto ai missionari della Consolata di riaprire una missione, e lo ha fatto tramite una seconda lettera, nel febbraio 2015, scritta a padre Stefano Camerlengo, eletto nel frattempo superiore dell’Istituto.

Missionari della Consolata in Angola. (© AfMC / Diamantino Antunes)

Una provincia isolata

Area molto vasta e sotto popolata, la provincia di Moxico è stata particolarmente toccata dal conflitto. Prima la guerra di liberazione dai coloni portoghesi (iniziata nel 1961) e poi, dal ‘75, la guerra civile tra Mpla (Movimento popolare di liberazione dell’Angola) e Unita (Unione per l’indipendenza totale dell’Angola). «La guerra ha colpito duro qui. Dall’inizio è stata zona di influenza di Unita, che l’ha controllata fino alla fine, nel 2002. Sono stati usati bombardamenti aerei che hanno distrutto le poche costruzioni permanenti, tra cui le chiese». Proprio qui è stato ucciso Jonas Savimbi, il leader storico dell’Unita, evento che ha portato alla fine delle ostilità.

A causa della guerra la provincia si è quindi ulteriormente spopolata. Molti sfollati sono fuggiti nei paesi confinanti e numerose sono state le vittime.

Oggi assistiamo a un impegno del governo per ricostruire le infrastrutture. Ricorda padre Diamantino: «Le cose stanno migliorando dal punto di vista della comunicazione. È stata ripristinata la ferrovia che collega la costa con Luena e i paesi confinanti. Il treno passa anche da Luacano. Questo è importante per rompere l’isolamento della zona, sia verso la capitale, sia verso gli altri stati. È una regione fertile per cui il governo sta cercando di svilupparla».

Il governo, in origine di ispirazione marxista leninista, è molto collaborativo con la diocesi, e vede bene l’insediamento di nuovi missionari in zone sperdute. Ci spiega padre Diamantino: «Passati gli anni della rivoluzione e dell’antagonismo, oggi il governo è interessato a collaborare con la chiesa cattolica. È infatti la chiesa maggioritaria nel paese e ha avuto molta influenza sull’educazione e la formazione. Le autorità vedono come un grande aiuto la sua presenza, soprattutto in questi posti più isolati».

E continua: «Forse anche perché la crisi economica sta attraversando il paese. In ogni caso la chiesa cattolica è vista come un’istituzione che può fare la differenza. In particolare, il vescovo salesiano ha una preoccupazione sociale molto forte. Lavora per attivare progetti per alfabetizzazione, scuola, sviluppo. E il suo lavoro è molto apprezzato».

Arrivo del gruppo di visitatori Missionari della Consolata a Luacano – Padre Freddy Gómez in compagnia di Dom Jesus Tirso Blanco, vescovo di Luena, all’arrivo alla stazione di Luacano, nell’Est dell’Angola, il 19 dicembre 2017 (© AfMC / Diamantino Antunes)

Un altro paese africano

Ma perché i missionari della Consolata, già presenti in nove paesi del continente, hanno deciso di affrontare una nuova sfida, proprio nel gigante angolano? Lo abbiamo chiesto a padre Fredy Alberto Gómez Pérez, che è stato tra i primi tre ad arrivare nel paese, il primo agosto 2014.

«Già nel capitolo generale di São Paulo del 2005 (riunione di tutti i delegati dell’Istituto nella quale si elegge il consiglio e il superiore generale, ndr) si era parlato di una nuova apertura missionaria e in particolare nell’Africa lusofona. Questo perché tra i paesi di lingua portoghese l’Istituto è presente solo in Mozambico. L’idea è stata ripresa sei anni più tardi con più forza ed è iniziata una ricerca per definire il paese», ci racconta padre Fredy.

«La scelta è caduta sull’Angola e le motivazioni erano due: il bisogno nel paese di missionari ad gentes, in terra di prima evangelizzazione, e una richiesta da parte di diocesi con bisogno di clero, per appoggiare il lavoro nella pastorale urbana». Padre Francisco Lerma Martínez, all’epoca superiore dei missionari della Consolata in Mozambico, oggi vescovo di Gurué, intraprese un viaggio in Angola, dove visitò tutte le diocesi e si confrontò con i diversi vescovi.

Era il 2011 ed esisteva già una richiesta pendente: quella di monsignor Tirso Blanco della diocesi di Luena. «I superiori si confrontarono con diverse congregazioni e vescovi e fu loro sconsigliato di iniziare con una missione in una zona come quella, lontana e complessa, un luogo di frontiera». La scelta quindi è andata alla diocesi di Viana, creata nel 2008 da uno smembramento dell’arcidiocesi di Luanda (la capitale). Qui il contesto è quello della periferia urbana della capitale, con alta densità di popolazione e il continuo arrivo di gente dalle province. I cattolici in quest’area sono il 40% della popolazione e la problematica principale è la mancanza di sacerdoti.

Capella di un villaggio di Luacano (© AfMC / Diamantino Antunes)

I primi tempi

Oltre a padre Fredy, gli altri missionari della Consolata a stabilirsi in Angola sono stati padre Dani Antonio Romero Gonzales, venezuelano, e padre Sylvester Oluoch Ogutu, keniano. Una squadra piuttosto giovane: tutti sotto i 40 anni e freschi di ordinazione. Solo Fredy aveva un’esperienza precedente in Repubblica Democratica del Congo.

«Ci accolsero i missionari Xaveriani di Yarumal, una congregazione colombiana. Ci ospitarono presso di loro alcuni mesi. La collaborazione fu ottima e lo è tuttora. La parrocchia che avremmo dovuto gestire, sant’Agostinho a Kapalanga, era stata ritagliata da un’altra molto più vasta. In un’area di 27 km2 vivono 17.000 persone. Ci sono otto cappelle intorno alle quali si riuniscono altrettante comunità. I molti fedeli avevano grosse difficoltà a recarsi nella sede parrocchiale piuttosto distante e la presenza dei sacerdoti era temporanea».

Ricorda padre Fredy: «Nei primi incontri con la comunità abbiamo sentito una sete profonda di presenza dei padri, e dell’ascolto della parola di Dio. Un sentimento e una necessità di tutti. Siamo stati accolti con molto calore». Le prime difficoltà sono state invece di tipo logistico. La parrocchia possedeva solo due terreni, su cui edificare la chiesa e la casa. «Essendo appena arrivati cominciavamo da zero: non avevamo casa, né mezzi di trasporto. Si è subito creata un’iniziativa di grande cooperazione missionaria, per cui gli altri paesi africani in cui i missionari della Consolata sono presenti, ma anche europei e sudamericani, in particolare il Brasile, hanno raccolto fondi per la nuova presenza in Angola».

I tre missionari sono stati per alcuni mesi dagli Xaveriani, per poi, grazie all’appoggio della comunità di Kapalanga, affittare un alloggio nei pressi della parrocchia, dove abitano tuttora. Racconta ancora padre Fredy: «Grazie alle offerte locali riuscimmo a costruire un salone, che funge oggi da chiesa parrocchiale temporanea, oppure da salone per le riunioni. Un altro problema pratico è stato il trasporto. Chiedevamo auto in prestito o andavamo con i mezzi pubblici e i mototaxi. Finalmente abbiamo acquistato un’auto e una moto».

L’accoglienza è stata dunque molto calorosa e, ricorda padre Fredy, difficoltà logistiche a parte: «Era necessario investire tempo nella formazione della comunità, non solo nelle infrastrutture, affinché assumesse una coscienza di vera famiglia. I fedeli ci accolsero molto bene e si diedero subito molto da fare per aiutarci, non solo per l’integrazione. Anche per trovare soluzioni ai problemi pratici».

Cappella di Luacano (© AfMC / Diamantino Antunes)

Secondo (e terzo) atto

Dopo il primo anno si è iniziato a parlare di una seconda missione da aprire. Restava pendente la richiesta di monsignor Tirso Blanco per Luacano. Ricorda padre Fredy: «Le opzioni sul tavolo erano due: Luacano in Luena, oppure Caxito, capitale della provincia di Bengo. Una diocesi nuova come quella di Viana e non lontana. Si optò per quest’ultima. Questo perché, essendo una seconda missione, era preferibile fosse vicina alla prima, per comodità logistica. Per condividere le esperienze e rafforzare la presenza dell’Istituto in Luanda nella pastorale della periferia urbana, molto popolata e carente di sacerdoti».

Non si poteva però restare sordi alla richiesta dell’Angola profonda, così «si decise che la terza apertura sarebbe stata in Luena, in tempi non troppo lunghi».

Sono arrivati in Angola tre nuovi missionari molto giovani, tutti sotto i 35 anni: Luis Antonio de Brito, brasiliano, e due tanzaniani: Heradius Germanus Mbeyela e Marcos Mwasatila Mapinduzi Simbeye. E nel 2016 è iniziato il lavoro nella parrocchia di Funda, diocesi di Caxito.

Questione di stile

Adesso i tempi sono maturi anche per Luacano e, dopo diverse visite, i missionari si apprestano a iniziare questa nuova avventura, entro la fine dell’anno.

Padre Diamantino: «Come missionari è una grande sfida. Anche se abbiamo l’esperienza e siamo ad gentes, siamo da poco in questo paese e le nostre due presenze vicino a Luanda sono molto diverse. Si tratta di zone urbane o periurbane, con buona presenza cattolica. Il lavoro è più facile da organizzare, da portare avanti. Lì stiamo portando un po’ del nostro stile. A Luacano, il contesto è molto diverso. I cattolici sono solo l’8-9% e il territorio è vasto e spopolato. Inoltre, oggi l’Istituto non ha a disposizione gli stessi fondi che aveva in passato e tutto diventa più difficile. Tuttavia, il gruppo di missionari che abbiamo in Angola è giovane e motivato. La scelta non è stata imposta dall’alto, ma sentita. Perciò sono disponibili ad andare, anche se la situazione è molto più difficile di dove siamo adesso. A Kapalanga e Funda c’è molto lavoro, ma anche molte soddisfazioni. Dove andremo a Luena si dovrà cominciare tutto da capo, occorrerà molto spirito missionario, per andare a cercare le persone, ricostruire le comunità. Sapendo che tante cose mancheranno: la tecnologia, le vie di comunicazione. Ma abbiamo uno spirito missionario da pionieri. Anche in Angola il nostro stile di presenza è marcato: con pochi mezzi, una presenza di contatto con la gente, e questo porta a una grande collaborazione da parte della popolazione».

Saluto di Mons. Tirso a Luacano (© AfMC / Diamantino Antunes)

 

Gente molto religiosa

Un’altra sfida nell’area di Luacano è la penetrazione di quelle che padre Diamantino chiama «sette cristiane e chiese indipendenti africane», che hanno preso lo spazio lasciato libero dalla chiesa cattolica.

Le prime sono costituite da gruppi che hanno origini esterne e si stanno diffondendo. Le chiese indipendenti africane, invece, sono un fenomeno in crescita nel continente. «Fondate da africani, in Africa, per gli africani, non sono legate a nessuna chiesa storica. Alcuni fondatori si considerano veri profeti. Queste chiese hanno qualcosa del cristianesimo, come l’uso del Vangelo, ma anche molti aspetti delle religioni tradizionali africane». In particolare, padre Diamantino si riferisce anche a riti più legati alla sfera della stregoneria che della religione.

«In generale questo popolo con cui andremo a lavorare è rimasto un po’ indietro, perché è molto isolato, questo anche nelle aree confinanti degli altri due paesi. Perciò non si sono lasciati molto penetrare dalla colonizzazione, né dall’evangelizzazione, rimanendo molto legati alla tradizione. Nei confronti dei popoli vicini hanno delle caratteristiche proprie. Praticano molto religioni tradizionali ma anche stregoneria».

E continua: «Quello che ho sentito è che si tratta di un popolo un po’ passivo. Nonostante la terra sia fertile, è poco sfruttata. Si dedicano in prevalenza alla pesca (c’è abbondanza di pesce nel lago Diolo, il più grande del paese, ndr) e alla caccia. Si limitano a poche colture, come la manioca. Anche dal punto di vista dello sviluppo umano sono indietro rispetto ad altri popoli. Hanno ricevuto meno educazione, e hanno meno intraprendenza di altri popoli. Penso che dipenda anche dall’isolamento e da un certo atavismo culturale». Fa quindi un parallelismo con una zona di missione simile in Mozambico: «È una zona simile dal punto di vista religioso e culturale a quella di Fingué, nella diocesi di Tete, in Mozambico (Cfr. MC maggio 2015). La differenza è che lì sono confinanti con paesi più sviluppati e questo fornisce influsso positivo.

A Fingué, nonostante le difficoltà c’è da parte della gente curiosità e apertura. Abbiamo lavorato per creare una base affinché la comunità possa svilupparsi, ovvero formato laici, catechisti, in grado di fare essi stessi la chiesa. L’esperienza in Mozambico può insegnarci molto per Luacano».

L’avventura continua

A fine giugno 2018 padre Fredy Gómez e padre Luiz Antonio de Brito si recheranno a Luacano con l’obiettivo di incontrare tutte le comunità. In particolare, quelle intorno al lago Diolo, che è l’area dove si concentra la popolazione. Qui si riesce ad andare solo quando non è stagione delle piogge. Il programma prevede che tre missionari della Consolata vi si stabiliscano a settembre.

Ci spiega padre Fredy: «Dobbiamo incontrare i leader locali e la gente attiva nella pastorale, come i catechisti e i laici impegnati. Sono coloro che sono riusciti a mantenere la presenza cristiana e cattolica in quelle zone durante gli ultimi 50 anni».

Marco Bello

Si preparano i tamburi per la celebrazione della Messa (© AfMC / Diamantino Antunes)




Tanzania: Cambio di guardia a Manda, una missione di frontiera

Testo e foto di Jaima C. Patias |


Padre Antonio Zanette e padre Vedastus Kwajaba, due generazioni, due culture, due continenti diversi ma un’unica passione: la prima evangelizzazione. Nella savana del Tanzania la missione continua.

Padre Zanette

A gennaio le piogge cadono abbondantemente nella regione di Dodoma, nella Tanzania centrale. Partendo da Iringa, dopo aver percorso 130 chilometri lungo l’asfalto dove il controllo della velocità è rigoroso, la macchina con trazione integrale ne percorre altri 70 in terra battuta. La terra sabbiosa e bagnata aiuta a ridurre il tonfo delle gomme nelle buche. Dopo 7 ore di viaggio siamo nel villaggio di Manda, la più recente missione affidata ai missionari della Consolata nel paese. La regione conta circa 40.000 abitanti, tra cui 4.000 cristiani, cattolici e anglicani. La sede della parrocchia si trova a 30 chilometri da Llangali (o Hangali), al confine con il Parco Nazionale Ruaha.

Tutto inizia nel 2003, quando padre Antonio Iseo Zanette, parroco nella vicina missione di Sanza, comincia a fare visite periodiche ai residenti di Manda dove soggiorna presso una famiglia. Nel 2010, il missionario intensifica la sua presenza. Nel maggio dello stesso anno riceve una lettera di mons. Yuda Thadei Ruwaichi, allora vescovo di Dodoma, nella quale il prelato scrive che il 21 luglio creerà una nuova parrocchia. I missionari della Consolata, in realtà, non hanno ancora assunto ufficialmente la cura pastorale della regione. Comunque, seguendo il suo piano, il vescovo crea la parrocchia di Manda dedicata alla Consolata e padre Zanette, nel vigore dei suoi settant’anni, è nominato amministratore parrocchiale.

La nuova parrocchia

Padre Vedastus Kwajaba

Nel mese di agosto del 2010 il missionario inizia a risiedere a Manda. «Non c’era niente qui. Siamo partiti da capo», ricorda. «I cristiani avevano scelto un posto che secondo me non era l’ideale per costruire la missione. Così ci siamo guardati intorno, ed eccoci qui. Noi siamo per la missione ad gentes e questo è un luogo di prima evangelizzazione». In otto anni, molte persone sono diventate cattoliche. Con l’aiuto di benefattori sono stati costruiti il centro catechistico, la falegnameria con magazzino, la casa dei padri e la casa delle suore, la chiesa parrocchiale consacrata nel 2015, la scuola materna e il centro di salute. Tutto vicino al villaggio. Nelle comunità sono state costruite anche cappelle e asili per i bambini. Qui l’evangelizzazione e la promozione umana vanno insieme come voleva il beato Allamano.

Un altro importante lavoro sociale sono gli otto pozzi artesiani che forniscono acqua alla popolazione.

Dal 2011, sono arrivate anche le missionarie della Consolata. Le suore Luisella Berzoni, Catherine Thaara Njiru, Teodora Mbilinyi e Ernestina Ternavasio si occupano di scuola materna, catechesi nella scuola, visite alle famiglie, formazione dei catechisti, del gruppo dell’Infanzia missionaria, dell’accompagnamento dei giovani e delle donne cattoliche e della supervisione del centro di salute. Suor Luisella conferma che «Manda è una missione di prima evangelizzazione. Il seme della Parola di Dio è già nelle persone e ora è necessario sviluppare e formare una Chiesa adulta con basi cristiane. La gente sta vedendo che la Chiesa cattolica richiede molto e va in profondità per poter evangelizzare. Per noi, la missione richiede grande pazienza».

La comunitàdi Manda ringrazia.

Le sfide della missione

Padre Zanette spiega che nella stagione delle piogge da dicembre ad aprile è impossibile visitare le 21 comunità comprese nel territorio della missione. «Le strade scompaiono. Dobbiamo aspettare la stagione secca. In alcuni luoghi i cristiani riparano la strada e poi facciamo le visite pastorali». Poi, fino al mese di luglio, la popolazione lavora tutto il giorno nei campi che sono lontani dal villaggio. Con questo, il tempo utile per l’evangelizzazione nell’anno è di sei mesi. Solo nella stagione secca è possibile visitare ogni comunità almeno una volta al mese.

A Manda lavora anche padre Piero Cravero e padre Vedasto Kwajaba è appena arrivato come nuovo parroco. Tra sfide e speranze, la missione continua.

Padre Cravero spera di «intensificare l’evangelizzazione con un programma di visite domenicali nei quattro villaggi più importanti». Secondo lui le celebrazioni, la catechesi, l’accompagnamento dei catecumeni e la formazione sistematica per i catechisti, sono le azioni indispensabili.

La messa domenicale del 21 gennaio segna l’addio di padre Zanette, trasferito a Morogoro. La celebrazione fatta con grande gioia e devozione riunisce un gran numero di cristiani del villaggio e delle 21 comunità. Tutti vogliono salutare il missionario pioniere. Sono presenti anche le missionarie della Consolata, il superiore regionale della Tanzania, padre Cyprian Brown, e io stesso in veste consigliere generale.

«Oggi mi è stata data la responsabilità di continuare il servizio di padre Zanette», dice padre Kwajaba. «È una grande responsabilità lavorare in questa missione che ha molti bisogni dal punto di vista dell’evangelizzazione e della promozione umana. Con la grazia di Dio, il mio sogno è coinvolgere tutte le forze pastorali in questo compito».

Il catechista Damian Mwinje è venuto da Chifufuka, un villaggio di 14.000 persone. A Chifufuka i cattolici sono circa 400. L’anno scorso sono stati battezzati 17 tra bambini e adulti. Attualmente ci sono 38 catecumeni. «Padre Zanette è stato un grande leader. Era un vero pastore per noi. Anche con le difficoltà delle strade lui ha sempre visitato le comunità. Ci ha insegnato a organizzarci e preparare la gente per i sacramenti», dice il catechista. A Chifufuka padre Zanette «ha costruito la chiesa, la scuola e creato quattro piccole comunità».

Attraverso il cortile della missione passano molte persone, in particolare le donne cariche di fardelli di legna da ardere e prodotti del campo. In gran numero, bambini e giovani garantiscono la continuità di un popolo pieno di vita. Senza elettricità, la notte arriva portando oscurità e silenzio. Il nuovo giorno inizierà presto con il canto degli uccelli che invitano alla preghiera e al lavoro.

Jaime Carlos Patias
Consigliere generale dei missionari della Consolata

Durante la celebrazione del passaggio di consegne.

Missionarie e missionari della Consolata a Manda.

L’ospedale di Manda in cui servono le missionarie della Consolata.

Il centro catechistico di Manda.




Amazzonia, opportunità e sfida per religiosi e missionari

Testo e foto di Jaime C. Patias


Rappresentanti di 30 Congregazioni religiose con progetti nella prospettiva pan-amazzonica si sono riuniti, nella città di Tabatinga (Stato di Amazônas, Brasile), sulla triplice frontiera tra Brasile, Colombia e Perù.

L’obiettivo dell’incontro, avvenuto fra il 20 e il 24 aprile, è stato quello di favorire la comunione e rafforzare la missione della Vita Religiosa Consacrata in quella regione. “Qualcosa di nuovo sta nascendo nella missione in questo terreno”.

All’incontro hanno partecipato 90 missionari (sacerdoti, religiosi, religiose e laici), fra cui quattro missionari della Consolata: i padri Fernando Florez (Perù), Joseph Musito (Roraima-Brasile), Jaime C. Patias, Consigliere Generale per l’America, e il diacono Luiz Andres Restrepo Eusse (Ecuador). Ha partecipato anche, suor Maria Teresa, missionaria della Consolata a Roraima. Le presenze dei Missionari della Consolata, nel territorio amazzonico, si situano nel nord del Brasile, in Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela.

I missionari della Consolata in Amazzonia

Presentando il percorso di 70 anni di presenza in Amazzonia (1948-2018), si è fatto memoria dei 50 anni della morte di P. Giovanni Calleri (1968), dei conflitti, delle sfide, persecuzioni e minacce sofferte, così come delle gioie frutto delle conquiste. Nella Regione Amazzonia, oggi ci sono tre esperienze significative che ispirano il futuro della nostra missione: il lavoro nella Terra Indigena Raposa Serra do Sol (Roraima), la Missione Catrimani (fondata nel 1965) e il Centro di Documentazione Indigena (CDI) a Boa Vista. Significativo è anche il lavoro accanto ai popoli indigeni nell’Amazzonia colombiana (dal 1951), in Venezuela, in Ecuador (Sucumbios, dal 2005) e in Perù (2013). Queste esperienze devono essere valutate e ripensate nello spirito della continentalità. Inoltre, data l’importanza della questione amazzonica, le regioni IMC del Brasile e dell’Amazzonia sono chiamate a qualificare la missione.

Il Progetto Missionario IMC del Continente America ha assunto, tra le altre, le opzioni per l’Amazzonia e per gli Indigeni. Per una Congregazione che ha nel suo DNA la missione ad gentes è impossibile essere nel continente americano senza mettere i piedi, il cuore e la testa in Amazzonia. Nel corso degli anni, abbiamo imparato a camminare con i popoli indigeni, con le loro speranze e lotte, le gioie e conflitti, rompendo schemi e frontiere. Oggi vogliamo vivere la missione nel territorio amazzonico, nello spirito della continentalità, in rete con altre congregazioni e organizzazioni. Siamo convinti che questo percorso ci renda più forti e più efficaci. La missione profetica nella Raposa Serra do Sol e la Missione incarnata del Catrimani richiedono missionari senza paura del nuovo, incarnati e aperti al dialogo. La sfida è mantenere vive queste due esperienze che danno visibilità al carisma ereditato dal beato Allamano, e valorizzare il Centro di documentazione indigena (CDI). Per questo riteniamo essenziale la formazione di missionari appassionati della causa indigena e dell’Amazzonia.

Alcuni eventi ci animano, ad esempio, il pontificato di Francesco, la creazione della Rete Ecclesiale Pan-Amazzonia (REPAM), l’enciclica Laudato sì, il Sinodo speciale per l’Amazzonia, le varie assemblee e i processi in andamento.

L’incontro di Tabatinga è stato promosso dalla REPAM e dalla Confederazione dei Religiosi e Religiose di America Latina e Caraibi (CLAR). L’Amazzonia e i suoi popoli sono fonte di vita per la Vita Religiosa Consacrata. La realtà ci sfida a pensare la missione di forma intercongregazionale e interistituzionale, in un territorio ricco di connessioni. La nostra presenza in Amazzonia è fermento di rivitalizzazione del carisma che ci fa ritornare alle origini della fondazione.

Sinodo per l’Amazzonia

Non potendo raggiungere Tabatinga, il presidente della REPAM, cardinale Claudio Hummes, ha inviato un messaggio di incoraggiamento: «Considero questo incontro molto importante e promettente, nel momento in cui la situazione della Pan-Amazzonia chiede aiuto. Il papa Francesco ascolta questo grido e per questo motivo ha deciso di convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia. Tutti noi che siamo già in questa regione in vista dell’evangelizzazione siamo molto felici per questa decisione. È lo Spirito Santo che ci chiama. La preparazione del Sinodo è già in corso, collaboriamo tutti. Il Sinodo può essere un evento storico che costruirà nuove strade per la Chiesa e per un’ecologia integrale. Ringraziamo Dio per questo kairos che concede alla Chiesa missionaria e gli chiediamo di illuminarci e dare a tutti il coraggio di non avere paura del nuovo».

Jaime C. Patias, IMC




Ucraina: La Missione chiama a Est

Testo e foto di Luca Bovio |


Dal 25 al 27 gennaio ho fatto una breve visita nella città di Leopoli in Ucraina, paese confinante a Est con la Polonia. Ho viaggiato con un sacerdote polacco della diocesi di Cracovia, don Dario, che una volta al mese si reca nel seminario di quella città per insegnare teologia. Il servizio che presto da qualche anno per le Pontificie opere missionarie in Polonia, mi porta a incontrare i seminaristi nelle diverse diocesi per parlare loro della missione come dimensione naturale della vita sacerdotale.

Luca Bovio

Partiamo da Cracovia al mattino presto di una giornata che, per essere nel cuore dell’inverno, si presenta assai mite. Dopo tre ore di viaggio a Est, ci troviamo sul confine con l’Ucraina, presso Medyca. Lasciamo la macchina in un parcheggio in territorio polacco e attraversiamo a piedi il confine. Questo è infatti il metodo più veloce per evitare i lunghi controlli alle autovetture, perché lasciando la Polonia si lascia anche l’Unione europea e l’area Shengen e quindi i controlli sono minuziosi e lunghi.

Prima di presentare i passaporti entriamo in un bar e la signora ci chiede dove siamo diretti e cosa andiamo a fare. Le spieghiamo che andiamo a Leopoli per motivi di lavoro. Lei ride dicendoci che «tutti escono dall’Ucraina per venire in Polonia e cercare lavoro e voi fate esattamente il contrario». Il controllo è veloce e dopo pochi minuti siamo in territorio ucraino. Ad attenderci c’è un autista mandato dal seminario. Dopo un’ora di viaggio arriviamo nel seminario dell’arcidiocesi di Leopoli. Il tempo di lasciare le borse e fare colazione e andiamo a visitare la città.

«Turisti» a Leopoli

Il monumento dedicato al poeta e pittore Taras Hryhorovy? Šev?enko a Leopoli

Non abbiamo alcun piano prestabilito, lasciamo che gli incontri stessi con le persone e la Provvidenza ci guidino. Iniziamo a visitare il palazzo vescovile in centro città. Appena apriamo la porta troviamo davanti a noi inaspettatamente l’arcivescovo che sta salutando alcuni ospiti. Appena ci vede ci dà il benvenuto e ci invita nel suo ufficio. Si chiama Mieczyslaw Mokrzycki, ed è di origine polacca. Prima di essere pastore di questa diocesi fu segretario di Giovanni Paolo II e per due anni di Papa Benedetto XVI, poi ricevette la nomina di arcivescovo di Leopoli. Con lui abbiamo un breve dialogo interessante. Dopo esserci presentati ci racconta della sua diocesi e dell’Ucraina in generale. Ci spiega che la situazione non è facile. Il paese cerca ancora degli equilibri che portino sviluppo. La mancanza in questo momento di personalità politiche autorevoli e la persistente guerra sul confine con la Russia, sono alcuni tra i motivi che rallentano la crescita del paese. La geografia delle chiese cristiane si presenta molto ricca e variegata. Qui infatti ortodossi, greco cattolici, armeni e protestanti vivono gli uni a fianco degli altri. A Leopoli ci sono ben tre cattedrali di tre chiese cristiane diverse.

Una Chiesa «polacca»

Nella cattedrale di Leopoli, ai piedi dell’ icone ci sono proiettili e pezzi di razzi dalla guerra combattuta ad est sul confine con le Russia.

È il 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo, ultimo giorno della settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani, e nel pomeriggio si tiene una preghiera ecumenica nella cattedrale cattolica. Vi partecipiamo. Per moltissimo tempo la presenza cattolica in questa parte dell’Ucraina è stata assicurata solo dai polacchi, perché queste terre di Leopoli facevano parte della Polonia (dal 1340 al 1772, quando la città fu conquistata dagli Asburgo, ndr). Per questo la lingua polacca è qui capita e parlata da molti. Un esempio: pur trovandoci in Ucraina, in cattedrale, delle 8 messe domenicali celebrate, ben 5 sono in polacco, 1 in latino, 1 in inglese e 1 in ucraino. La lingua ucraina come il polacco è una lingua slava che si scrive però con l’alfabeto cirillico. Un sacerdote ci spiega che la gente locale per indicare la cattedrale cattolica la chiama la «chiesa polacca», a motivo della forte identificazione costruitasi nel tempo tra il cattolicesimo e i polacchi. Ascoltando queste parole mi convinco sempre di più di quanto sto maturando in questi anni di lavoro missionario in Polonia: l’importanza di dare una testimonianza a questi popoli che la chiesa cattolica, per sua stessa definizione universale, è più grande della identità polacca. Riconosco con gratitudine i meriti, e sono anche debitore, della ricchezza che questa espressione «polacca» del cristianesimo riesce a dare. Tuttavia, il cattolicesimo è molto di più. Ed è un dovere per me essere testimone della sua universalità ogni volta che è possibile.

La città, anche se trasandata, conserva ancora il fascino di un tempo. Molto rinomate sono le università dalle quali nei secoli sono usciti intellettuali prestigiosi.

In una chiesa greco cattolica troviamo testimonianze della guerra che ancora oggi, in modo meno mediatico, si combatte a Est del paese vicino alla Crimea sul confine con la Russia. Vi sono residui di bombe e di cartucce vicino a fotografie di molti soldati uccisi. Su tutti una grande icona di Gesù benedicente.

Con i seminaristi

La seconda giornata la trascorro interamente nel seminario che si trova a circa 10 km dalla città. È una struttura accogliente e moderna di recente costruzione. Qui vivono poco più di 20 seminaristi che, secondo il programma, incontrerò domani. Con loro partecipo solo alla messa al mattino. All’interno del seminario si trova anche l’Istituto di teologia per laici. Conosco il direttore don Jacek, polacco che parla bene anche italiano poiché ha studiato a Roma. Mi propone nel pomeriggio di tenere una lezione di missiologia («la disciplina teologica cristiana che studia l’Evangelizzazione e riflette sul compito missionario della Chiesa universale», da Wikipedia) a tutte le classi riunite. Accetto volentieri, poiché qui questa materia non è insegnata e il termine «missione» rimane alquanto astratto. Lo scopo che mi propongo, senza sapere se riuscirò a raggiungerlo, è quello di destare interesse e curiosità intorno all’argomento con l’aiuto dei documenti della Chiesa. Spiego brevemente anche cosa sono le Pontificie opere missionarie che io rappresento e spendo anche qualche parola sul nostro Istituto e sulla nostra comunità in Polonia. Lascio a tutti un abbondante materiale informativo.

Terzo giorno

Nella cattedrale di Leopoli, foto dei soldati uccisi nel conflitto del Donbass.

L’ultima giornata inizia con l’Eucarestia celebrata per gli studenti dell’Istituto di teologia. Dopo una veloce colazione incontro tutti i seminaristi, con il loro padre spirituale. Ho così l’occasione di presentare alcuni temi missionari ed esperienze personali. Ho l’impressione che mi ascoltino con interesse e curiosità, perché il tema è per loro nuovo. Ripresento la struttura delle Pontificie opere missionarie che non sono presenti in Ucraina, così come le origini del nostro Istituto missionario e la realtà in cui oggi opera. Il tempo passa veloce.

Ricevo anche domande sulla storia della mia vocazione e della mia esperienza in questi anni in Polonia. Uno dei punti che più colpisce è la natura internazionale della nostra comunità in Polonia: siamo infatti 4 missionari provenienti da 3 continenti e 4 paesi diversi, e questo è un vero inedito per queste chiese.

Terminato l’incontro mi raggiunge un sacerdote giornalista della società di San Paolo, padre Mario, polacco, che da alcuni anni vive a Leopoli e lavora per la Radio vaticana. Desidera farmi un’intervista sul tema delle missioni nel contesto del mio viaggio. Dopo l’intervista mi accompagna in città per mostrarmi la sua comunità. Ne approfitto per fare qualche foto al centro e comprare alcuni ricordi. Ho poco tempo perché già nel primo pomeriggio ritorniamo in Polonia per lo stesso tragitto per il quale siamo entrati.

Viaggio con don Jacek, direttore dell’Istituto di teologia della diocesi di Sandomierz. Ci scambiamo i contatti per organizzare in futuro altre visite e collaborazioni con l’Istituto di teologia che guida. Al termine di questo breve e intenso viaggio, dopo aver visitato negli anni precedenti altri paesi confinanti come Bielorussia, Lituania, Lettonia e Estonia, nasce in me la convinzione che l’Ucraina è il paese che offre più opportunità per approfondire meglio la conoscenza dell’Est del nostro continente e allacciare nuovi contatti.

Luca Bovio
missionario della Consolata a Cracovia, Polonia.




Mozambico:

Bwana Cilimba, l’uomo dal cuore forte


I missionari della Consolata arrivano in Mozambico nel 1925 nella provincia del Niassa. Uno dei primi è padre Pietro Calandri, detto «Bwana Cilimba», un cuneese forte, determinato, innamorato della gente e con il cuore pieno di Cristo. Fonda una grande missione, ma soprattutto costruisce una solida comunità cristiana che vive con fedeltà la propria fede in un ambiente musulmano e attraverso le prove di una lunga guerra.

I cattolici e i musulmani del Niassa hanno celebrato a Massangulo con grande affetto e solennità il 50° anniversario della morte di padre Pietro Calandri, il primo missionario della Consolata in Mozambico e il pioniere dell’evangelizzazione della zona. È morto il 12 agosto 1967 a 74 anni dopo una lunga vita missionaria dedicata quasi interamente al servizio dell’evangelizzazione del popolo Ayao e all’educazione dei giovani.

Il suo funerale, partecipato da una moltitudine riconoscente, e la sepoltura in Massangulo, la missione da lui fondata nel 1928, sono stati l’espressione eloquente di quanto fosse considerato e amato da tutti.

Tra i musulmani Ayao del Niassa, si era guadagnato un nome: «Bwana Cilimba», che significa «uomo dal cuore forte e che può gestire tutto». È questo senza dubbio il titolo più adeguato per questo grande missionario della Consolata.

1925: verso la zambesia. Fratel Benedetto, padre Sandrone, padre Calandri, padre Luigi Perlo e padre Peyrani.

Missionario della Consolata

Intenso ritratto del giovane padre Calandri.

Nato il 5 luglio 1893 a Moretta, Cuneo, fin da piccolo mostra curiosità e un temperamento disciplinato e determinato. Intelligente, sviluppa presto quel notevole senso di osservazione che plasmerà l’artista che più tardi si rivelerà in lui. Il sogno di una vita di dedizione e di avventura portano il giovane Calandri verso la vocazione missionaria, che abbraccia nel 1911, quando entra nell’Istituto Missioni Consolata. Conclusa la sua formazione, è ordinato il 3 febbraio 1917. A causa della guerra non può realizzare il suo desiderio di partire subito verso terre lontane. Il sogno diventa realtà solo tre anni più tardi, quando, nel 1920, viene inviato in Africa. Il Kenya è la sua prima missione e vi rimane cinque anni maturando esperienza, rafforzando la sua formazione e forgiando quel senso pratico che gli sarà molto utile in futuro.

Pioniere in Mozambico

Nel 1925 il giovane missionario riceve una nuova destinazione. Un altro paese africano sta emergendo all’orizzonte: il Mozambico. Sbarca nel porto di Beira il 30 ottobre 1925, ma quasi subito deve tornare in Kenya per accompagnare un padre che si è ammalato e ha bisogno di cure. Rientra nel giugno 1926 accompagnato da padre Giuseppe Amiotti. Hanno il compito difficile di sondare la possibilità di stabilirsi nella vasta regione del Niassa, dove non è ancora entrato alcun missionario cattolico.

Calandri e Amiotti iniziano, così, una grande avventura attraverso terre sconosciute, in un’epoca in cui le comunicazioni sono quasi inesistenti e la mancanza di strade e mezzi di trasporto rende tutto più isolato, lontano e difficile. I due giovani missionari sono i primi cattolici a entrare nel Niassa e si stabiliscono a Mandimba il 5 luglio 1926. Per circa due anni la prima preoccupazione è l’inserimento nel contesto sociale della regione.

Per raggiungere al meglio questo obiettivo si dedicano all’apprendimento della lingua Ciyao, cercando di conoscere gli usi e i costumi del popolo Ayao, compito in cui mettono sempre maggior impegno nella misura in cui cresce in loro l’amore per la gente e la sua terra. Mentre sono a Mandimba dedicano il loro tempo allo studio e all’individuazione e preparazione delle strategie future.

1925 La carovana sulle rive del lagp Niassa

Uno stratega della missione

Dopo essersi dedicato all’osservazione e allo studio, padre Calandri sceglie, ai piedi del Monte Massangulo, il terreno adatto alla sede della missione. E lì, in pieno Niassa, nel mese di maggio del 1928, fonda «Nostra Signora della Consolata di Massangulo».

Uomo metodico, padre Calandri non rallenta il ritmo. Intraprendente, inizia a disegnare una mappa precisa della regione di Massangulo dove svilupperà la sua attività. Rapidamente si impegna nella programmazione dei compiti da intraprendere al fine di creare le strutture di base della missione: la bonifica del terreno; la piantagione dei primi alberi; l’apertura di strade; la costruzione delle strutture necessarie. Visionario, progetta e fabbrica gli edifici per l’abitazione e i servizi essenziali a uno sviluppo strutturato e integrato: internati, scuole, laboratori, mulino, dispensario e maternità.

Usa le risorse locali per gli edifici impiegando l’argilla per la produzione di mattoni e tegole. Attraverso un ingegnoso sistema di canali capta l’acqua da una sorgente nel monte Massangulo per la missione, ottenendo così una risorsa essenziale per tutte le iniziative. Investe nell’agricoltura e nell’allevamento di bovini, nei laboratori di falegnameria, carpenteria e di calzature, per l’auto-mantenimento e il commercio, e anche nella stampa e rilegatura di libri.

Coinvolge la gente in tutte le attività. Integra gli alunni della missione nel lavoro e li forma in modo da poter essere autonomi e capaci di sognare e osare una vita diversa e migliore.

Lavora sempre in collaborazione con altri missionari: i padri Angelo Lunati e Luigi Wegher e i fratelli Giuseppe Benedetto, Lorenzo Baroffio e Ugo Versino, e con il sostegno delle suore missionarie della Consolata e dei catechisti locali.

2-X-1927 padre Calandri insegna nelal scuola di Mandimba

Mandimba: prima chiesa dei Missionari della consolata nel Niassa (1926) – padre Calandri e il sig. Regina davanti alal chiesa

Il dialogo e la cooperazione con i musulmani

Nei primi tempi non tutto è facile. Dopo la fondazione di Massangulo, padre Calandri e i suoi compagni sperimentano l’ostilità di due capi Ayao musulmani, che non vogliono un’altra religione nella loro terra.

Sopporta pazientemente in quei primi anni l’atteggiamento ostile della popolazione verso la missione e i missionari. Le relazioni di buon vicinato e il lavoro paziente poco a poco danno frutti e l’ostilità lascia il posto a un buon rapporto di collaborazione e rispetto.

Padre Calandri ha un grande merito nello stabilire questo clima di reciproca comprensione e rispetto che dura ancora oggi. Sono numerosi i gesti di aiuto reciproco vissuti negli anni: la difesa della popolazione contro l’espropriazione delle terre per la coltivazione forzata del cotone; l’accoglienza nella missione di gente ricercata (perseguitata) dai militari portoghesi durante la guerra per la liberazione del Mozambico dal dominio coloniale; le visite alle moschee; la partecipazione alle feste comuni. Padre Calandri rispetta la religione della gente senza imporre a nessuno la conversione al cattolicesimo.

Padre Calandri nel 1964

Una vita missionaria feconda

Le opportunità per evangelizzare la popolazione Ayao sono rare, ma padre Calandri non si lascia scoraggiare e con pazienza pone le basi per un servizio pastorale duraturo. Alcuni giovani musulmani Ayao accettano, dopo l’approvazione delle loro famiglie, di ricevere il battesimo, e non c’è dubbio che a questo ha contribuito anche la sua indiscussa autorità morale, oltre all’eccellente educazione data nelle scuole della missione.

Con pazienza la comunità cristiana cresce. Si formano le prime famiglie cristiane a cominciare dagli alunni educati negli internati (i «collegi» nei quali gli studenti vivevano durante il periodo della scuola, ndr).

Uomo d’azione, pur con pochi mezzi, dota la missione di Massangulo di un insieme di edifici imponenti non solo per rispondere ai bisogni immediati ma anche per preparare il futuro sviluppo. Uomo di scienze e di lettere, dopo alcuni anni di permanenza nel Niassa, senza tralasciare il lavoro che gli era stato affidato, compila un dizionario e una grammatica della lingua Ciyao.

Lo studio, il dialogo e la predicazione in lingua locale avvicinano alla popolazione e rafforzano l’empatia. Questo radicamento nella cultura della gente porta come frutto positivo l’adozione del missionario tra gli Ayao.

Uomo di elevata sensibilità e senso estetico, progetta e dirige i lavori dell’imponente e bellissima chiesa dedicata alla Madonna Consolata, oggi Santuario diocesano di Massangulo. Ci volgliono 10 anni per costruirla. Il cantiere diventa anche centro di formazione di carpentieri, falegami e muratori esperti perché impiega maestranze e operai locali e utilizza i laboratori di arti e mestieri della missione. Questa straordinaria chiesa ancora oggi è motivo di meraviglia per chi la visita. È stata benedetta il 3 gennaio 1964 dal primo vescovo della diocesi, Dom Eurico Dias Nogueira, nel suo primo atto pubblico.

In una delle cappelle laterali dell’imponente santuario è sepolto padre Calandri in attesa della gloria della risurrezione.

Diamantino Guapo Antunes




La missione ricomincia da tre


Tra il 12 e il 15 ottobre a Brescia si è svolto il primo Festival della Missione. Organizzato dagli Istituti missionari (Cimi), dalla Fondazione Missio (Cei) e dalla diocesi di Brescia. Lo slogan «Mission is possible» vuole andare oltre ai tanti dubbi legati al futuro della missione ad gentes. E i circa 15mila visitatori sembrano confermare una vitalità che c’è, anche se spesso nascosta. Ecco alcune pillole dal Festival.

Durante tre giorni il centro di Brescia è diventato un brulicare di idee, racconti, testimonianze. Persone venute da lontano, giovani e meno giovani. Suore, sacerdoti, vescovi e qualche cardinale, ma soprattutto molti laici. Quasi un incontro intergenerazionale. La parola d’ordine una sola: «Missione». Molte le questioni sul tavolo: la crisi della missione, missione dove, come e per chi?

I nuovi paradigmi dell’ad gentes ci dicono che non c’è più un occidente cristiano che va verso paesi a maggioranza non cristiana, bensì oggi parte da ogni luogo e va verso ogni luogo. La missione dovrebbe essere «il termometro del nostro essere chiesa», ha detto il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana.

Conferenze, musica, teatro, interviste a testimoni e stand nel centro di Brescia. Il Festival è stato un’occasione per far uscire la missione «allo scoperto», nelle strade e nelle piazze. Il rischio, dice qualcuno, è che ci parliamo addosso, che siamo sempre dei nostri. E pure che ci ripieghiamo sui problemi: calo di vocazioni, invecchiamento, strutture grosse e costose da gestire, senza puntare sugli aspetti positivi che ancora la caratterizzano e guardare al futuro.

Gli istituti missionari devono abbandonare l’autoreferenzialità, dice qualche moderatore. Regolarmente disatteso da alcuni conferenzieri che paiono autocentrati sulla propria congregazione.

Quello che è certo è che siamo in tanti, di tutti i colori e i continenti, c’è entusiasmo e si respira un’energia molto positiva.

Mancano sei miliardi

C’è chi, come il cardinal Fernando Filoni (Prefetto di Propaganda fide, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli), ci ricorda che «la missionarietà ha degli obiettivi, perché ci sono nel mondo 6 miliardi di persone che il Vangelo non lo conoscono, rispetto a quel miliardo e 270 milioni che lo hanno in qualche modo conosciuto. Siamo chiamati a un impegno fondamentale. […] Non si parla più di continenti da evangelizzare, ma di tutto il mondo che, in forme diverse, ha bisogno di evangelizzazione. Ci sono aspetti che diventano sempre più importanti, come la migrazione, l’inclusione sociale dei nuovi cittadini».

Quindi, riassume Filoni parafrasando il motto del Festival: «Missione è possibile, sì, anzi è doverosa e necessaria. Come cambia? Oggi le chiese locali sono cresciute, i missionari sono i nonni dell’evangelizzazione. Gli autoctoni devono assumere in prima persona questo ruolo missionario. Hanno cultura, lingua, concezione più vicina alle popolazioni».

Le nuove frontiere sono, secondo lui, l’Asia, dal Giappone al Sud Est asiatico, inclusi i paesi musulmani, alla Cina. Poi cita l’Amazzonia, «uno dei luoghi più difficili per la missione ad gentes. Ma gli indios sono nel cuore della chiesa», assicura.

Cambiamento epocale

C’è chi propone un approccio molto pragmatico, come padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei missionari della Consolata: «Siamo di fronte a un cambio d’epoca. Una crisi che ci obbliga a rinnovarci, fare percorsi nuovi. Ma questa è una benedizione. Come missionari e come chiesa stiamo vivendo troppo sull’eredità del passato. Ben venga uno scossone. Occorre un atteggiamento di umiltà. Dobbiamo vivere il Vangelo e non predicarlo soltanto agli altri!», dice in tono provocatorio.

E continua: «Io lancio un invito a collaborare con il mondo. Dove stanno i giovani ai quali vogliamo insegnare il Vangelo? Forse non abbiamo più la terminologia, il modo giusto di parlare ai giovani di oggi. Corriamo dietro ai problemi delle nostre strutture. Siamo troppo “pesanti”, non solo fisicamente. Questa è una provocazione grande al cambiamento. Il punto non è la sopravvivenza degli istituti: perché tenerli in piedi ad ogni costo? La questione è riuscire a essere evangelizzatori come i fondatori hanno voluto, portando non le nostre storie, ma il Vangelo».

Padre Camerlengo non parla un linguaggio accademico, le sue parole sono concrete e chiare: «Abbiamo predicato che siamo tutti missionari, adesso che la chiesa locale si fa avanti, noi siamo un po’ più pesanti, un po’ più vecchi e facciamo fatica a trovare i nostri spazi. La crisi ci spinge a rinnovarci. Andare dove nessuno va. Non solo scrivere i documenti, ma andare. Per me questa rimane la missione ad gentes degli istituti missionari. Giovanni Battista ci insegna a essere cristiani e missionari, è colui che indica il maestro, che indica il cammino. Questo è il nostro ruolo. Anche se rimaniamo in pochi non importa, importante è che non perdiamo la direzione».

Mai tornare indietro

«La missione è in crisi? Non sappiamo più che pesci pigliare? Questo non ci dà il diritto di fermarci o tornare indietro, perché la missione è molto più grande di noi. La nostra identità è essere missionari ad gentes, cioè annunciare il Vangelo a quelli che ancora non lo conoscono. Parlando dell’interculturalità dei nostri istituti: abbiamo fatto molto andando in missione, adesso quelli che abbiamo evangelizzato diventano i nostri responsabili. Ma questa è una grazia di Dio, dove sta il problema? Non sappiamo gestirlo, perché siamo troppo eurocentrici, e non siamo come Giovanni Battista».

Unire le forze

Padre Camerlengo lancia una proposta importante per gli istituti missionari: «Non possiamo andare avanti ogni istituto per conto suo. Per forza, non solo per sopravvivenza, abbiamo bisogno di lavorare insieme. Stiamo cominciando soprattutto in America Latina le esperienze intercongregazionali. Sono piccoli semi che stanno iniziando. Sarà faticoso, ma questa è la strada. Da soli non possiamo andare da nessuna parte».

E di esperienze di questo tipo ce ne sono, come la comunità di Modica, in Sicilia, dove operano padre Gianni Treglia della Consolata, padre Vittorio Bonfanti missionario d’Africa, suor Raquel Soria della Consolata e suor Giovanna Minardi missionaria dell’Immacolata. La comunità mista porta avanti un progetto della Cimi sull’accoglienza ai migranti.

«Oggi evangelizzatori ed evangelizzati si confondono e i primi sono gli africani stessi», dice suor Luigia Cocca, superiora generale delle missionarie Comboniane. «Dobbiamo fare l’esperienza dell’uscita dai nostri riferimenti (occidentali)». Per questo ripete: «È necessaria un’attualizzazione dei carismi dei nostri istituti, dobbiamo ricomprenderci dal di dentro»

Marco Bello


I laici e la missione

Questione di stile

Chi fa informazione sui diritti umani, chi forma i giovani alla partenza,?chi vive in comunità e fa servizio sul territorio. Tutti modi di essere?«corresponsabili», perché la missione è per ogni cristiano.

«Parlare di missione oggi vuol dire recuperare uno stile di gioia. L’esperienza laicale, il più delle volte ha a che fare con la fragilità e la povertà del nostro essere umani». Così Antonella Marinoni, del Pime, introduce la missione declinata al laicale. Parla sul palco dell’Auditorium San Barnaba gremito di gente. Molti i giovani presenti.
«È essenzialmente una questione che ha a che fare con Dio, perché egli esprime una predilezione per i poveri e i fragili. È anche una questione culturale, oltre che teologale: dobbiamo aiutare affinché la società accolga questa condizione di fragilità».
E poi sull’essenzialità della missione: «Sentirsi essenzialmente discepoli e discepole missionarie. Senza altre etichette, senza differenziazioni e separazioni. Oggi abbiamo ancora bisogno di differenziare, in base alla diversità di carismi, di compiti, di scelte di vita. Ma due cose li contraddistinguono tutti: un grande amore per il Vangelo e una disponibilità ad amare fratelli e sorelle».

Marco Ratti, giornalista e fondatore della testata online «Osservatorio diritti» (www.osservatoriodiritti.it), è stato missionario laico in Brasile con la moglie Valentina. Lì, nel profondo Maranhão, stato povero del Nordeste, ha attinto quell’energia necessaria per impostare il suo lavoro una volta tornato in Italia. «Solo ascoltando la voce, il grido, la denuncia degli impoveriti, degli ultimi, di chi è emarginato, posso capire qualcosa di vero, essenziale, autentico per la mia vita. Non è chi vive nella comodità, io credo, che mi può far capire le domande alle quali dobbiamo dare risposte per andare verso una società più giusta e fraterna. Domande scomode spesso sgrammaticate ma sempre autentiche. Chi vive in situazioni di ingiustizia, pretende una risposta, e non ci permette di girarci dall’altra parte». Marco, 40 anni, ma ne dimostra di meno. Il suo parlare è fermo e chiaro: «Osservatorio diritti è nato anche in risposta all’urgenza che mi sono portato dietro dal Brasile, con un solo, semplice, obiettivo: dare voce

agli impoveriti, creando un sito che si occupasse di denunciare le violazioni dei diritti umani. La filosofia è quella di far parlare chi subisce violazioni dei diritti umani nella propria vita». Specifica, Marco, che la scelta della testata è cercare la sostenibilità economica senza contare sulle pubblicità, per mantenere l’indipendenza.

Si parla di laici missionari a chilometro zero. Sono famiglie che si stabiliscono a vivere nelle canoniche o case parrocchiali ormai dismesse e le rivitalizzano, offrendo il loro tempo al servizio della comunità. Al Festival portano la loro testimonianza padre Piero Demaria, giovane missionario della Consolata e Chiara Viganò. Sono due membri di una comunità molto particolare, Casa Milaico (www.milaico.it), sperimentata ormai da oltre un decennio: due famiglie e due religiosi che vivono insieme. Le famiglie vivono in due alloggi separati, ma tutto il resto si fa insieme, ricorda padre Piero: «Si mangia, si prega, si sogna e si decide insieme per le attività da fare».
Chiara e il marito Riccardo hanno tre figli di cui due adolescenti. Sono stati missionari laici in Ecuador, sempre con l’Istituto della Consolata. Milaico si trova a Nervesa della Battaglia (Tv). I membri della comunità propongono una presenza pastorale sul territorio che li vede impegnati in tante attività: formazione, ospitalità, coro, e molto altro.
«Vivere con i religiosi è un’esperienza che facciamo noi, ma che fa pure chi entra a casa nostra, che vuole essere una casa con la porta sempre aperta», racconta Chiara. «Abbiamo scoperto e fatto scoprire agli altri un volto più umano di chiesa, perché vivere insieme ai sacerdoti ci fa scoprire i pregi, ma anche i difetti. Noi laici siamo abituati a vedere i preti come qualcosa di perfetto, e quindi troppo lontani da noi. Vivere insieme ti fa scoprire che sono persone identiche a noi». E continua: «C’è poi un volto di comunione: mettiamo insieme i soldi; un argomento questo, sempre scomodo. Noi non abbiamo un conto corrente nostro, condividiamo gli stipendi. Così scopri che vivere insieme rende possibili cose come vivere in 10 con due stipendi: abbiamo un sostentamento del clero e due mezzi stipendi da insegnanti. Certo grazie all’aiuto di molte persone. Mettendo insieme piccole forze di ognuno si possono fare grandi cose».
«Terza cosa è la corresponsabilità. A Milaico esiste un superiore, che è padre Piero, ma tutto si fa insieme, si pensa e si organizza, poi ognuno porta avanti delle attività a seconda del proprio carisma. Il fatto importante è che sia possibile lavorare insieme. Questo dà forza a noi per andare avanti, e fa capire che non è un sogno irrealizzabile. Importante è vivere delle cose. Importante è seminare. Siamo una comunità in uscita». Una comunità aperta al mondo.

«Il nostro volto di Chiesa – per padre Piero – è un volto acqua e sapone, senza trucco, con semplicità. Magari con i capelli un po’ arruffati, perché a Milaico siamo anche un po’ disordinati. Ma sempre con un sorriso nei confronti di chi arriva».
«Io sono arrivato in comunità due anni fa, e come prima cosa mi sono sentito accolto. L’accoglienza radicale non è scontata. Penso che derivi dalla famiglia, ambiente in cui si impara ad accogliersi, marito e moglie, anche quando è difficile, poi i figli. La scopri solo vivendo insieme. È una delle caratteristiche che Gesù ci insegna di più. Secondo me se gli stavi vicino, ti faceva sentire come lui, come amici da sempre. Sapeva come prendere l’altro e farlo sentire bene».
È entusiasta padre Piero: «Una delle sfide di stare insieme laici e religiosi è un po’ mettere insieme le due parti dell’universo: ognuna ha fatto delle scelte e lasciato delle cose. Mettendo insieme l’accoglienza e la voglia di avere una casa aperta si riesce a essere al servizio di molte più persone. C’è chi preferisce parlare con un religioso e chi con un laico. Insieme si riesce a stare meglio e a servire meglio. Ci sono tante esperienze di famiglie a chilometri zero, ma c’è ancora paura, soprattutto da parte di noi preti, di perdere il controllo sulle cose, sulle persone. Perdere il potere. Sono paure prive di fondamento: si pensa e si sogna insieme».

Marco Bello


Dai ribelli della Sierra Leone ai buddhisti delle baraccopoli thailandesi

Un’Angela a Bangkok

«Non sono una scrittrice», esordisce suor Angela. Ma di cose da ?raccontare ne ha davvero tante. «È vedere l’opera di Dio in queste donne emarginate uno dei doni più grandi che Lui mi ha fatto».
Suor Maria Angela Bertelli è missionaria saveriana. Dopo un periodo ad Harlem (New York), viene inviata in Sierra Leone. Qui, nel 1995, è rapita dai ribelli del Ruf (Rivolutionary United Front). Tornata in libertà, le sue superiore la destinano a una missione che non si sarebbe aspettata.
«Da 16 anni sono in Thailandia. Quando dovemmo lasciare a forza la Sierra Leone mi mandarono nel paese asiatico. Avevo 40 anni. Non è il mio posto, pensai, si sono sbagliate. Ma poi piano piano…».
A un certo punto, suor Angela chiede un permesso speciale: vuole lavorare in una baraccopoli di Bangkok, capitale del paese. «Per una serie di vicissitudini avevo bisogno di uno stacco. Ci sono arrivata molto prostrata, da tante cose. Non è mai stata in crisi la vocazione ma forse il modo di fare missione.
Nella baraccopoli non ero né più pulita né più sporca di loro, né migliore né peggiore. Ma da questo fango di periferia sono rinata, non so neanche io perché».

Dio non esiste

Suor Angela racconta la complessità nel portare il Vangelo in una realtà come quella Thai, dove c’è il buddhismo Theravada che non riconosce Dio. «Come fai a parlare di uno che non esiste? Come glielo fai incontrare? Come si fa con un linguaggio che non veicoli il nostro mondo, il modo in cui noi comprendiamo Dio?», sono le domande che si pone la missionaria.
«Non potendo usare questo linguaggio perché è ambiguo, non resta che l’azione, il gesto. Non rimane che te stessa nuda e cruda davanti a questa realtà. Una realtà che è a volte una vergogna». Nella baraccopoli suor Angela, che è pure infermiera, fa riferimento a una comunità del Pime e si mette al servizio.
«Ho cominciato a lavorare nella parrocchia. Aiutavo i bambini a fare la fisioterapia, soprattutto i malati di Aids in fase terminale, che è forse peggiore della lebbra. Non mi era mai capitato. Erano davvero rifiutati quando li portavano in ospedale…».
La gente inizia a identificarla come «colei che cura i malati» e a cercarla per gli interventi più strani.
È il 2005, la Caritas di Brescia vuole far partire un progetto per bambini disabili: «La casa degli angeli», ispirato dalla capitale, Bangkok, che significa «la città degli angeli». Chiedono a suor Angela se vuole occuparsene. «Io ho un permesso di un anno, dissi loro, e mi mancano solo alcuni mesi».
«Ho visto di nuovo l’opera di Dio. La casa si è riempita di bambini disabili. Come li scegli i bimbi? Non li scelgo, vengono loro. Se posso fare qualcosa li accolgo, altrimenti li indirizzo da un’altra parte».

Il Vangelo ?incarnato

Nella cultura in cui si trova Angela, quando un bimbo è disabile si tratta della maledizione per il male che aveva già fatto in una precedente vita, oppure la mamma ha commesso dei peccati e ora li sta pagando. Lui si è già reincarnato tante volte e deve avere la possibilità di annullare il karma negativo. Per questi motivi molto spesso le mamme abbandonano i figli disabili fin da subito, e questo è tollerato a livello sociale. Le mamme che li tengono, spesso sono emarginate e subiscono violenza dai mariti.
«Come si può fare? In fondo Gesù era come un extraterrestre anche in mezzo ai suoi. Chi lo capiva? Il primo miracolo che ha fatto e la prima predica ha diviso la gente in due gruppi: chi era contro e lo voleva far fuori e chi lo osannava. La contraddizione salta sempre fuori quando si vive il Vangelo».
Ma giorno dopo giorno suor Angela arriva a vedere il Vangelo incarnato. «I bimbi non sono mai stati il problema, anzi sono stati Gesù presente in mezzo a noi. Erano la benzina per il mio motore, mi davano energia. Bimbi che prima non sorridevano arrivavano a sorridere. Quando sono venuta via, su 15 di loro, sei non avevano neppure papà e mamma, erano stati abbandonati o erano orfani. Ma le mamme degli altri, pian piano, con Vangelo alla mano, hanno accettato di prendersi cura anche di loro. Questo non sarebbe potuto succedere se non ci fosse stato il Vangelo come lievito. Tutte le mattine appena alzati ci trovavamo insieme un momento per commentare il Vangelo del giorno. Ero uno specchio della vita delle mamme. Ci sono voluti quattro o cinque anni affinché le mamme tirassero fuori i problemi più brutti. Questo incontro faceva loro bene, perché si rasserenavano e faceva prendere loro la vita in un altro modo. Ma ha fatto un bene incredibile anche a me. Il mio “essere madre”, si rispecchiava nel loro essere madri. Come facevano queste donne, in un contesto buddhista, a non aver abbandonato il bimbo in orfanotrofio?».
Dopo averla visitata, le superiore permettono ad Angela di continuare quest’opera, ma non possono darle un aiuto. «A me andava bene così. Sono rimasta alla Casa degli angeli 5 anni».

Allora Dio c’è

«Cosa c’è nel cuore di queste donne, perché non accettano la propria cultura e non abbandonano questi bimbi? Ma allora lo spirito di Dio è già lì. Il Vangelo è già vissuto anche dalle mamme buddhiste, senza che lo sappiano. E quando dico loro che amano Dio, loro ti guardano e ti dicono: cosa facciamo? Quando lavate il culetto del bambino, state lodando Dio.
Dio vi guarda con stima, siete uscite dalle sue mani. Chi vi fa sentire una nullità, incapaci, viene dal demonio, allora non dategli corda.
Vedere l’opera di Dio in queste donne povere, emarginate, è uno dei doni più grandi che Dio mi ha fatto».
Continua suor Angela con una riflessione su essere donna in missione.
«Missione per la donna passa attraverso la convivenza, ovvero vivere il nostro ruolo facendoci piccole, senza autorità: questo ci avvicina molto alle persone che non se lo aspettano.
Dov’è la parte maschile? Le nostre frustrazioni sono di non essere comprese in questo lavoro, usate come bassa manovalanza nella chiesa. Vogliamo servire ma non vogliamo asservirci.
Vale nella famiglia come nella chiesa: Dio li creò maschio e femmina affinché insieme fossero a sua immagine. Se una gamba è zoppa e l’altra è troppo forte, viene male alla schiena, alla testa, ci si sbilancia e si casca. Aiutiamoci, ci deve essere la buona volontà da entrambe le parti».

Ma.Bel.




I Perdenti 30:

Ezechiele Ramin, martire della carità

Conosciuto familiarmente come «Lele» in Italia ed «Ezequiel» in Brasile, fu definito «martire della carità» da papa Giovanni Paolo II, dopo essere stato assassinato in Brasile a causa del suo impegno in favore dei piccoli agricoltori e degli indios Surui, comunità indigene situate nello stato di Rondônia (territorio parte della vasta area amazzonica brasiliana), e della loro lotta contro i latifondisti locali.

Ezechiele nasce a Padova nel 1953, in una famiglia di modeste condizioni economiche. È il quarto di sei figli. Dopo le scuole dell’obbligo, frequenta il liceo classico presso il Collegio Vescovile Barbarigo. In quel periodo incomincia a prendere coscienza degli squilibri e delle disuguaglianze presenti nel mondo. Ciò lo spinge fin dai primi anni della giovinezza ad aderire e collaborare con Mani Tese, associazione per la quale organizza diversi campi di lavoro per raccogliere fondi in sostegno di progetti di sviluppo e promozione umana.
Nel 1972 entra nell’Istituto dei missionari Comboniani, studia teologia prima allo studio teologico fiorentino di Firenze, poi a Venegono Inferiore (Va) al seminario arcivescovile di Milano e, infine, a Chicago negli Stati Uniti, dove si laurea alla Catholic Theological Union. Dopo aver fatto esperienze missionarie dapprima con un gruppo emarginato di nativi americani nel Sud Dakota e poi, per un anno, nella Bassa California in Messico, viene ordinato sacerdote il 28 settembre 1980 nella sua città natale.
Dopo l’ordinazione sacerdotale, è assegnato ad una parrocchia gestita dai comboniani a Napoli. Negli anni trascorsi in Campania partecipa in prima persona ai tragici avvenimenti del terremoto dell’Irpinia del 1980. In quei giorni si prodiga in maniera encomiabile a San Mango sul Calore in provincia di Avellino per assistere le vittime del sisma.
Nel 1981 ritorna a Napoli, dove organizza una delle prime manifestazioni non violente contro la Camorra. L’anno successivo è trasferito a Troia in provincia di Foggia dove ricopre il ruolo di animatore vocazionale per le Puglie. Nel gennaio 1984 i superiori lo inviano in Brasile, dove raggiunge la comunità dei padri Comboniani che operano in Rondônia. Dopo alcuni mesi di studio della lingua portoghese viene inviato a Cacoal, sperduta cittadina dell’Amazzonia. Preoccupato della situazione che incontrerà accetta il nuovo incarico con le parole: «Se Cristo ha bisogno di me, come posso rifiutare?».

Per la nostra chiacchierata partiamo proprio da qui: la pastorale della Chiesa brasiliana aveva bisogno di una stabile presenza missionaria nel vivo della foresta amazzonica e tu – pur essendo l’ultimo arrivato – non ti tirasti indietro…

A dire il vero un po’ di paura l’avevo, ma già che ero in ballo… e fidandomi completamente del Signore, accettai di essere inviato a Cacoal dove tra l’altro operavano da tempo altri missionari comboniani.

Che situazione incontrasti in quella realtà?

Incontrai una situazione complessa e difficile. I molti piccoli agricoltori presenti sul territorio erano oppressi, con mezzi sia legali che illegali, dai latifondisti locali. Inoltre la tribù indigena dei Surui era stata da poco costretta a diventare sedentaria dal governo brasiliano che aveva forzatamente assegnato loro della terra da coltivare, e questo nuovo modo di vivere, al quale gli indios non erano stati preparati, stava iniziando a creare dei problemi.

Tra le tue letture giovanili – se non sbaglio – un autore ti aveva particolarmente attratto: Dietrich Bonhoeffer, il teologo protestante che aveva militato nella resistenza antihitleriana. La sua testimonianza divenne un punto fermo della tua vita spirituale e di conseguenza nelle tue scelte pastorali…

Infatti le sue lettere dalla prigione, raccolte nel libro autobiografico «Resistenza e resa», erano state a lungo sul mio tavolino quando ero studente di teologia a Firenze. La categoria bonhoefferiana dell’«esistere-per-gli-altri» aveva orientato fin da allora tutte le mie scelte e quindi la prospettiva di una morte violenta era ben presente tra le possibilità del mio percorso esistenziale.

Ispirato quindi dagli insegnamenti del tuo amato maestro ti esponesti in prima persona nella lotta per la giustizia di quelle genti, tentando di persuaderli a intraprendere la strada della protesta pacifica piuttosto che quella della lotta armata, o sbaglio?

Dirò di più, ero fiero di servire una Chiesa che aveva fatto la scelta preferenziale per i poveri, che promuoveva le comunità di base e si riconosceva nella Teologia della Liberazione. Il mondo latinoamericano che mi affascinava da sempre, mi aveva completamente conquistato. Mi sentivo in sintonia con le sue angustie e le sue grandi speranze.

Dì la verità. Più ti inserivi in quella realtà, più capivi che dovevi schierarti apertamente a fianco di quelle comunità che caratterizzavano la Chiesa brasiliana di quegli anni…

Il cammino me lo avevano indicato le Comunità Ecclesiali di Base, che promuovevano la crescita integrale della persona, i senza terra che lottavano per il riconoscimento dei propri diritti e gli indios che resistevano all’invasione del loro habitat indispensabile per sopravvivere secondo la loro cultura.

Si può dire che avevi fatto tue le parole di Bonhoeffer: «Solo chi grida per salvare la vita agli ebrei può cantare il gregoriano». Solo chi alza la sua voce contro l’ingiustizia, può annunciare il Vangelo.

Denunciando le ingiustizie che si consumavano a ripetizione sulle popolazioni indigene ero consapevole di mettere a rischio la mia vita: sapevo bene che non si può difendere i poveri in Amazzonia senza avere problemi, ma capivo anche che non potevo non difenderli, avrei tradito la mia vocazione sacerdotale e missionaria.

Il 24 luglio 1985 padre Ramin, insieme a un sindacalista locale, partecipò a un incontro nella Fazenda Catuva ad Aripuanã nel vicino Mato Grosso con l’intenzione di persuadere i piccoli agricoltori lì impiegati a non prendere le armi contro i latifondisti. Al ritorno, fu vittima di un’imboscata da parte di sette sicari armati di pistola, che lo colpirono con oltre 50 proiettili. Prima di morire, riuscì a sussurrare le parole «Vi perdono». Poiché la salma di padre Ramin non poté essere recuperata dai suoi confratelli prima di 24 ore dopo l’omicidio, un gruppo di indios Surui vegliarono su di essa fino al loro arrivo. Alcuni giorni dopo il suo omicidio, papa Giovanni Paolo II definì padre Ezechiele Ramin un «martire della carità».
I missionari comboniani stanno promuovendo il riconoscimento ufficiale di Padre Ezechiele come martire (e quindi come Beato e, possibilmente, come Santo) da parte della Chiesa cattolica, anche se la comunità comboniana in Brasile sembra riluttante in quanto «per loro e per la gente che lo conosceva, padre Lele Ramin è già un santo».
Nel 1988 due degli uomini che uccisero padre Ramin, Deuzelio Goncalves Fraga e Altamiro Flauzino, furono condannati rispettivamente a 24 e 25 anni di reclusione dal tribunale di Cuiabá. Gli altri sicari non sono stati ancora identificati.
Nell’aprile 2016 è stata aperta la rogatoria presso la diocesi di Padova per la sua beatificazione e canonizzazione.

Don Mario Bandera




Lacrime nascoste di missionari


A Capodanno del 2012 ero a Campi Garba (periferia Nord di Isiro, Nord del Kenya), una sosta non programmata in quello che doveva essere il mio viaggio nel Meru er il centenario della Chiesa locale. La notte del 30 dicembre 2011 erano stati assassinati il catechista e alcuni abitanti di una parrocchia nella periferia Sud della città, e i campi da gioco attorno alla cattedrale erano pieni di gente terrorizzata dalla possibilità di ulteriori attacchi da parte di banditi manovrati da politicanti senza scrupoli (vedi «L’altalena non danza più» su MC 3/2012). Ho iniziato l’anno nuovo con padre Pierino Tallone in un villaggio dove erano concentrati molti di quelli che erano dovuti scappare dalla violenza. Nel pomeriggio, prima di proseguire il mio viaggio, ho scambiato un po’ di impressioni con lo lui, per cercare di capire le cause di quei cosiddetti «scontri tribali». Padre Pierino era un veterano del Kenya, nel quale era arrivato nel 1963, e dal 1965 viveva nel Nord del paese. Nella sua vita era passato attraverso sofferenze e disagi di ogni genere ed era stato temprato dall’aspra bellezza della terra Samburu. Ma quel pomeriggio, guardando alla desolazione e al dolore causato da tanta violenza, aveva la voce rotta dal pianto. Non era un pianto dirotto, anzi, lui faceva di tutto per nasconderlo.

Il ricordo di quel vecchio missionario commosso e desolato dalle sofferenze della gente da lui tanto amata è qualcosa di indelebile nel mio cuore. Un ricordo tanto più forte perché padre Pierino era abile a mascherare i suoi sentimenti dietro un carattere un po’ burbero che poco concedeva alla debolezza. Un ricordo tornato di prepotenza alla notizia della sua morte, avvenuta a Nairobi il 21 settembre scorso, dopo ben 54 anni passati a servire Samburu, Turkana, Pokot e tanti altri nelle loro splendide e dure terre.

Quel ricordo è tornato leggendo le parole misurate di padre Rinaldo Do, dal Nord del Congo. «Continuano devastazioni, saccheggi, uccisioni, … in altre regioni interi villaggi abbandonati, migliaia di persone in fuga. Fino a quando?», scrive nella lettera che pubblichiamo in questo numero. «Abbandonare il Congo, andare in un altro paese più tranquillo, ritornare a casa…», una grande tentazione, vinta solo da un amore più grande. Scusa, padre Rinaldo, se mi permetto di andare oltre il significato più immediato delle tue parole e provo a intuire quello che c’è nel tuo cuore. Ma il mio mestiere di lunga data mi ha fatto incontrare tanti amici e confratelli che, come te, hanno il cuore straziato dai drammi che condividono con le persone con cui vivono, magari nei posti più dimenticati del mondo, senza avere nemmeno il lusso di poter piangere.

Non è cosa di tutti i giorni vedere piangere un adulto, ancor meno un prete e per di più un missionario. Quando rientrano nei loro paesi di origine, di solito, raccontano solo le cose belle, la gioia di vivere, la fede, l’intensità dei mille impegni, la crescita delle comunità, le danze e i canti. Poco o niente dicono di sé, delle loro fatiche, dei dubbi, delle lacrime versate nel silenzio della propria stanza o nell’intimo della cappella di comunità, lontano da occhi indiscreti. Il loro non è il pianto incontrollabile del dolore fisico, ma quello del «beati quelli che piangono» perché si fanno carico delle sofferenze delle vittime dell’ingiustizia e della violenza. È il pianto che sgorga di fronte della durezza di cuore di chi il male lo fa o di chi è diventato indifferente e si è chiuso nella torre delle sue certezze, dei suoi diritti e della sua autosufficienza. È il pianto di chi si sente impotente a fermare la violenza e l’ingiustizia cieca che priva i poveri dei diritti più elementari.

È anche il pianto nascosto di chi non capisce più il nostro mondo «moderno» che vive di pregiudizi, fake news, dipendenze e paure, allontanandosi da Dio e dal suo modello di umanità incarnato in Gesù per seguire mode politicamente e consumisticamente corrette. Il pianto di chi ricordando la gioia festosa della sua ordinazione e la partecipazione comunitaria alla sua partenza per le missioni, trova, tanti anni dopo, nel suo stesso paese comunità scristianizzate, allo sbando e senza preti, e giovani, anche tra i pochi cristiani impegnati, indifferenti o troppo occupati in altro per pensare di mettersi a servizio a vita di quell’incredibile avventura d’amore che è la missione, quella lontano, tra altri popoli, lingue e culture.

Sono le lacrime dell’amore, di chi si affida totalmente, nella sua povertà e piccolezza, a Colui che tutto può e sulla pietra gettata via dai costruttori, scartata, costruisce nuove incredibili meraviglie.

Benedetto sia il Signore.




Missione … e malaria


In una valle delle nostre splendide Alpi un gruppo di giovani di una parrocchia di città, a fine agosto, sta facendo il campo estivo. Accanto alla casa che li ospita cresce una alberello di prugne, che, ormai mature, dolcissime e assolutamente bio, cadono sul sentiero che i giovani percorrono più volte al giorno. In terra prugne calpestate. In alto rami carichi di blu profondo. Passano i ripassano i giovani. Non vedono le prugne. Non allungano la mano per cogliere quella bontà fresca e gratuita.

Un’altra storia. Da un altro mondo. Africa, Tanzania. Un missionario scrive entusiasta ad amici e benefattori delle meraviglie che il Signore sta operando: le ordinazioni di tre nuovi missionari, dieci giovani che hanno completato il loro periodo di noviziato e iniziano gli studi di teologia, e molti altri che finita la scuola secondaria entrano in seminario per iniziare il cammino di formazione per essere un giorno testimoni di Gesù nei più remoti angoli del mondo.

Due storie apparentemente slegate tra loro, da due mondi molto diversi.

Missione, gioia contagiosa

Ho pensato a questi due fatti leggendo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale del 22 ottobre. «La missione della Chiesa, destinata a tutti gli uomini di buona volontà, è fondata sul potere trasformante del Vangelo. Il Vangelo è una Buona Notizia che porta in sé una gioia contagiosa perché contiene e offre una vita nuova: quella di Cristo risorto», scrive papa Francesco. Un messaggio trasformante, realizzato attraverso l’annuncio del Vangelo, nel quale Gesù si fa «sempre nuovamente nostro contemporaneo».

Leggendo queste parole ho pensato a quei ragazzi di città talmente abituati alla frutta del mercato o del frigo di casa da non accorgersi di quella ancora sull’albero. Forse ci rappresentano un po’, abituati come siamo a lasciarci saziare da social, televisione, giornali, fake news, opinione pubblica, guru, politicanti e specialisti vari che ci sommergono di «ricette» per vivere felici senza problemi, al punto da trascurare l’ascolto di quella Parola di Vita che è Gesù stesso, Parola spesso relegata a una frettolosa oretta domenicale – ferie, ponti e settimane bianche permettendo -.

Ho pensato anche ai giovani del Tanzania, più poveri e con meno mezzi di noi, perché sono ancora capaci di «arrampicarsi sugli alberi per cogliere la frutta fresca» della Parola di Dio che li apre alla gioia contagiosa e trasformante dell’incontro con il Cristo risorto e con gli altri.

Beati noi, però, perché Dio non si stanca mai di offrirci la sua «frutta fresca e gratuita».
Beati noi, perché Dio crede nell’uomo più dell’uomo stesso.

Malaria e manipolazione della verità

Malaria. Cambio argomento, provocato dalle assurdità che vedo, leggo e sento in questi giorni a proposito di malaria. Comincio autodenunciandomi come suo possibile «portatore sano» e potenziale fonte di contagio (cfr. articolo pag. 62) per chi mi sta vicino con zanzara anofele di mezzo. Questo perché dopo 21 anni di Kenya e un po’ di Tanzania, di punture di zanzare portatrici del parassita ne ho prese a volontà, anche se la malaria vera e propria non l’ho mai avuta. Mi vergogno come italiano della strumentalizzazione della morte di una bambina e del dolore della sua famiglia per diffondere notizie false che alimentano odio e razzismo, sfruttando buon cuore, ignoranza e paure della gente. Certo la malaria non è una bella malattia. L’ho visto di persona. Ricordo che all’ospedale di Wamba nel Nord del Kenya, durante i periodi di siccità e fame moriva almeno un bambino al giorno di malaria. Inoltre so bene che più di un missionario ha perso la vita per lo stesso motivo, tra di essi alcuni cari amici. Ma usare il pretesto della malaria per alimentare il razzismo e aumentare l’odio verso persone come i migranti dall’Africa che di dolore, violenze e sofferenze sono carichi, mi sembra ingiusto e indegno del nostro essere italiani.

Queste manipolazioni a scopi di politica elettorale non sono accettabili, né per i migranti che ne pagano il prezzo con ulteriori sofferenze, né per ogni italiano, perché come italiani ci meritiamo più rispetto di quello che certi nostri politici ci danno. Solidarietà e volontariato sono due impagabili caratteristiche del nostro paese che noi missionari conosciamo bene. Due forze di vita che si manifestano sia sul nostro territorio sia nella miriade di associazioni e gruppi che aiutano a livello internazionale. Solo che non fanno rumore, come la foresta che cresce. «L’italiano qualunque», quello che ama la pace, quello dal cuore grande, ha gli anticorpi al plasmodio dell’intolleranza e del razzismo. Usiamo l’insetticida della fraternità, della compassione e della vera umanità contro le zanzare dell’odio e del razzismo che si nutrono delle nostre paure.