«I poveri hanno bisogno delle nostre mani per essere risollevati, dei nostri cuori per sentire di nuovo il calore dell’affetto, della nostra presenza per superare la solitudine. Hanno bisogno di amore, semplicemente» (messaggio di papa Francesco per la III giornata mondiale dei poveri).
Quanto dà fastidio questo papa che, un giorno sì e l’altro pure, continua a parlare dei poveri, non accontentandosi mai, neppure di quello che la chiesa, le parrocchie, i missionari fanno per loro. Ne ha parlato anche nel bel mezzo di questa caldissima estate, nel suo messaggio per la celebrazione (il prossimo 17 novembre), della giornata che lui stesso ha inventato per tenere accesa nel popolo cristiano l’attenzione verso tutti i poveri del mondo. Diventano, così, graffi impietosi le parole di papa Francesco che, avendo messo i poveri – davvero – al centro, non può tollerare che siano trattati con retorica e sopportati con fastidio, giudicati parassiti, scartati e sfruttati. Perché i poveri non sono numeri, ma persone a cui andare incontro. E, citando don Mazzolari, aggiunge: «il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera, se le dai fuoco, il mondo salta!».
Occuparsi dei poveri, attendere con passione alla loro promozione non è allora un optional esterno all’annuncio del vangelo; al contrario, «è un servizio che è autentica evangelizzazione». E anche ai tanti volontari, che il papa ringrazia per la loro dedizione, chiede di non accontentarsi di venire incontro alle prime necessità materiali dei bisognosi, ma di «scoprire la bontà che si nasconde nel loro cuore, facendosi attenti alla loro cultura e ai loro modi di esprimersi, per poter iniziare un vero dialogo fraterno».
Le parole, appassionate e dure, del messaggio arrivano dritte al cuore di noi missionari che, seguendo l’invito di Giuseppe Allamano, nostro fondatore, siamo mandati tra le genti a portare la consolazione del Signore, che si attua «accompagnando i poveri non per qualche momento carico di entusiasmo, ma con un impegno che continua nel tempo». È questa la nostra vocazione ad vitam, che ci spinge ogni giorno a camminare con loro; ed è proprio in questo camminare insieme che la «Chiesa scopre di essere un popolo, sparso tra tante nazioni, con la vocazione di non far sentire nessuno straniero o escluso, perché tutti coinvolge in un comune cammino di salvezza». A noi missionari, allora, le parole di papa Francesco non danno fastidio; semmai ricordano, una volta di più, la bellezza e le esigenze senza sconti della nostra vocazione, che viviamo nella scia del nostro fondatore.
La visita a Tuthu, in Kenya, la prima storica missione nella vita dei missionari della Consolata, serve da
ispirazione per rinnovare e reinventare lo stile delle loro presenze nel mondo.
In Kenya per una sessione di consiglio, la direzione generale dell’Istituto si reca in visita a Tuthu, provincia di Murang’a, nella regione centrale di quella nazione che è il primo amore dei missionari della Consolata. Questa piccola località, a 140 km da Nairobi, sui monti dell’Aberdare a oltre 2.500 metri, fu la destinazione finale dei primi quattro missionari della Consolata inviati in Africa dal beato Giuseppe Allamano.
I padri Tommaso Gay (31 anni) e Filippo Perlo (29), e i giovani fratelli missionari Luigi Falda (19) e Celeste Lusso (18) arrivarono in Kenya l’8 maggio 1902. A Nairobi, incontrarono Monsignor Allgeyer, superiore dei missionari dello Spirito Santo, che suggerì loro di recarsi tra il popolo kikuyu, in risposta all’invito del chief (capo) Karuri wa Gekure che voleva una scuola nel suo villaggio di Tuthu. Iniziò così l’evangelizzazione cattolica nel cuore del Kenya.
Nel villaggio di Karuri
La strada che porta a Tuthu si snoda tra verdissime piantagioni di tè distese sulle ripide colline che caratterizzano la zona, all’orizzonte le montagne dell’Aberdare che i primi missionari dovettero attraversare a piedi, partendo da Naivasha (dove arrivava la ferrovia) con un viaggio di due giorni accompagnati da portatori (per tutto il materiale necessario a impiantare la missione) e soffrendo le basse temperature di notte (a oltre duemila metri e a fine giugno, il periodo più freddo dell’anno).
Le difficoltà degli inizi, ci fanno comprendere l’insistenza dell’Allamano sull’importanza della preparazione e il motivo per cui voleva i suoi missionari «santi in modo superlativo», zelanti, disposti a sacrificare la vita, perché preferiva la qualità, al numero. «Prima santi, poi missionari», ripeteva spesso, sottolineando la santità come valore prioritario.
L’evangelizzazione e la promozione umana era il metodo proposto dal Fondatore e fu applicato puntualmente dai suoi missionari. Per prima cosa i missionari si dedicarono allo studio della lingua kikuyu e, dopo neppure un anno, iniziarono una piccola scuola in una capanna offerta da Karuri. Visitavano sistematicamente la gente nei villaggi con una particolare attenzione alla cura dei malati e ai bambini orfani o abbandonati. Lungimiranti e intraprendenti, portarono semi nuovi per l’agricoltura e installarono una segheria per le varie costruzioni necessarie per lo sviluppo delle missioni.
Gli errori commessi erano compresi e perdonati dalla gente che vedeva la buona volontà e la retta intenzione dei missionari dediti unicamente al servizio della popolazione che il Signore aveva loro affidato.
Una croce nella foresta
Dal 1903 la missione di Tuthu ebbe la presenza delle Suore Vincenzine (quelle fondate da san Giuseppe Cottolengo), che lavorarono in Kenya a fianco dei missionari della Consolata per più di 20 anni. Una croce (un tempo di legno) con il nome di suor Giordana rimane nella foresta a pochi chilometri da Tuthu, a perenne memoria della loro presenza e del servizio per la gente.
La loro partenza da Tuthu nel 1909 diede un’ulteriore spinta al processo per la fondazione dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata avvenuta nel 1910.
Appena arrivati a Tuthu, i missionari celebrarono la prima messa di ringraziamento, il 29 giugno 1902, ai piedi di un mugumo, albero sacro della tradizione kikuyu. Per ricordare tale evento e proprio sul luogo della celebrazione fu poi costruita la cappella della memoria. La struttura in metallo è adornata da pareti in vetro colorato. A fianco, al posto dell’albero, c’è una stele con una grande croce, su cui è scritta la data di arrivo, i nomi dei quattro missionari e il motto: «Annunceranno la mia gloria alle nazioni» (Is 66, 19). Due portici con i misteri del santo Rosario partono da entrambi i lati della cappella e si estendono lungo la piazza come per accogliere in un abbraccio i pellegrini che visitano quel luogo sacro da cui si è irradiato il dono delle fede.
Il battesimo del chief Karuri e della sua ultima moglie (scelta dopo aver onorevolmente sistemato le altre) con i nomi di Giuseppe e Consolata, suggellò un processo di avvicinamento e reciproca fiducia che con il tempo avrebbe trasformato Tuthu in un centro di irradiazione del cristianesimo in altre regioni fino a raggiungere il Nord del Kenya. Da Murang’a i missionari della Consolata raggiunsero Nyeri, Nanyuki, Isiolo, Meru e, più tardi, Embu. Oggi, la vitalità delle diverse comunità cristiane continua a dare un contributo decisivo alla società attraverso l’educazione, i centri sanitari e molte altre attività di carattere sociale ed economico.
Messa di ringraziamento
Il 2 marzo 2019, dopo 117 anni, la direzione generale celebra l’eucaristia nello stesso luogo. È presente anche padre Luigi Brambilla, attuale parroco del santuario della Consolata di Tuthu da cui sono nate ben altre 31 parrocchie nella sola diocesi di Murang’a.
Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, presiede l’eucarestia e nell’omelia ricorda che «questa è una visita storica, in quanto non capita spesso che la direzione generale al completo si rechi in una regione e tanto meno visiti una nostra comunità locale. Soprattutto perché la missione di Tuthu rappresenta l’inizio della nostra missione in terra africana. Non possiamo, come missionari della Consolata dimenticare questo, perché un popolo senza memoria non può vivere – insiste padre Stefano -. Lo stesso vale per un istituto: la memoria storica è garanzia per il futuro».
Durante l’Eucaristia sono richiamate le diverse situazioni di sofferenza e conflitto dove l’istituto è presente come in Venezuela, nella Repubblica Democratica del Congo e in Costa d’Avorio. Con la mente e la preghiera la direzione generale ricorda tutti i missionari che sono passati da Tuthu e tutti quelli che hanno evangelizzato il Kenya tra i popoli nomadi, i contadini delle campagne e gli abitanti delle città.
«Sotto la croce preghiamo per trovare la forza e il coraggio di reinventare lo stile missionario delle nostre comunità, consapevoli che guardando al passato si costruisce il futuro attraverso uno sforzo quotidiano, convinti che il meglio per il nostro istituto e per la missione deve ancora venire», conclude il padre generale.
L’atmosfera di sacralità che circonda i luoghi della memoria di Tuthu, fa sorgere spontaneamente suggestioni ed emozioni. Il consigliere generale per l’Africa, padre Godfrey Msumange, ricorda che «qui siamo nelle nostre radici. Mi piace immaginare 117 anni fa. Mi metto nella pelle dei primi missionari. Certamente erano decisi, coraggiosi, determinati e pieni di zelo missionario. In mezzo a mille sfide, animati dalla fede e amore di Dio, hanno superato tutto. Quanti sacrifici», esclama baba Godfrey. «Proprio per questo mi piace dire che il loro vero nome è passione missionaria, è amore, è coraggio, è dono. Sì, verso il Signore ma soprattutto verso i fratelli e sorelle desiderosi di conoscere il Signore».
Padre Mino Francesco Vaccari, da tanti anni missionario in Kenya, è arrivato dalla missione di Rumuruti per unirsi alla comunità. In un momento di condivisione, durante la preghiera delle lodi, dal profondo della sua esperienza, con emozione, ci confida che «questo posto è molto importante per l’Istituto e la storia della missione in Kenya, quindi dobbiamo tenerlo come il centro di irradiazione della fede. È la prima volta che incontro tutta la direzione generale riunita così. Sembra di essere al tempo degli Apostoli che erano uniti come in una sola famiglia. Sentire la vicinanza della direzione generale è una benedizione per me e per tutti».
Prendendo lo spunto da quella confidenza, padre Stefano aggiunge che «l’esempio dei primi missionari indica chiaramente che non siamo solo delle comunità per la missione, ma comunità in missione. Siamo strumenti dello Spirito, l’unico che muove i cuori ed è capace di trasformare le persone e la storia. Fare missione è ascoltare il cuore della gente… è trasmettere l’esperienza della tenerezza di Dio e della compassione di Gesù soprattutto a chi è debole e ai margini».
Parole sagge che traggono dall’esperienza di Tuthu insegnamenti per l’oggi della missione. Secondo il consigliere generale per l’Europa, padre Antonio Rovelli, «la memoria non deve diventare un semplice contenitore di ricordi ma, come Tuthu ci insegna, deve essere qualcosa che si custodisce a partire dal futuro. Il ricordo dell’eroismo dei primi missionari deve rivitalizzare la vita dei missionari della Consolata oggi e dare un rinnovato impulso al coraggio e all’entusiasmo per l’evangelizzazione e custodire la memoria di Tuthu significa farci tutti responsabili del nostro passato per gettarci in un movimento proteso in avanti verso altre tappe della missione universale». Al termine della visita, il superiore generale esprime un augurio per tutte le nostre comunità sparse nel mondo: «L’esempio dei primi quattro missionari di Tuthu ci sia di stimolo per reinventare l’arte del vivere insieme attraverso un esodo continuo da sé e i seguenti atteggiamenti fondamentali: l’accoglienza, il dialogo, la fraternità e la corresponsabilità in missione».
L’Istituto nato nel 1901 ai piedi della Madonna Consolata a Torino, in Italia, ha più di cento anni, e rimane fedele al carisma ereditato dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Seguendo le orme dei pionieri nella missione di Tuthu, continua a raggiungere nuovi popoli e culture. Prova di questo è l’inizio di una nuova presenza in Madagascar. I missionari dell’Allamano oggi sono 950 dei quali 463 sono africani. Sono presenti in 28 paesi in Africa, America, Asia ed Europa. La Consolata è la protagonista di tutto questo con il suo silenzio, il suo ascolto, la sua donazione.
Jaime Carlos Patias
Consigliere generale per l’America
Tuthu: umile inizio di una grande missione
«E tu Tuthu non sei il più piccolo insignificante villaggio del Kikuyu perché da te è iniziato l’annuncio di salvezza a tante genti…». Sono milioni i cristiani che in Kenya, devono a questo villaggio l’origine della loro fede: dalle zone poco a Nord di Nairobi fino ai confini dell’Etiopia e della Somalia.
Anche un fiume maestoso parte da una sorgente piccola e modesta: è l’inizio, è la nascita.
I cristiani che vengono in visita e in preghiera trovano il luogo ideale: bellezza della natura, tanta pace e silenzio, la bella chiesa, la cappella della memoria, il chiostro del rosario, la grotta di Lourdes, la cappella dell’adorazione. Poi intorno, posti suggestivi nella foresta. Il luogo dove i missionari impiantarono una storica segheria, o il posto del martirio del catechista Aloisio Kamau dove abbiamo eretto una croce a ricordo, meta di pellegrini e preghiere.
Qui storia e geografia si uniscono a fare di Tuthu un posto veramente suggestivo, testimone della grandezza del Fondatore e dei primi missionari.
Non deve succedere che perdiamo questa storia e questa testimonianza. Nelle dovute proporzioni, sarebbe come se Assisi rimanesse senza Francescani! Torino e Tuthu dovrebbero gemellarsi: la radice dell’istituto e la radice delle nostre missioni.
La porta della chiesa
Fu voluta da padre Tommaso Biasizzo che costruì l’attuale chiesa. Si rivolse a fratel Filippo Abbati, autore di altari, porte, tabernacoli intagliati in legno, sparsi in diverse nostre missioni «storiche».
Fratel Filippo chiese a me di disegnargli i «cartoni» con i soggetti suggeriti da padre Biasizzo.
Nel pannello in alto a sinistra sono rappresentati i simboli dei sacrifici kikuyu generalmente offerti sotto un mugumo (un maestoso ficus) considerato albero sacro. Su quello di destra, i simboli della nuova fede: la Croce e la Madonna Consolata.
Nei pannelli di mezzo è rappresentato l’incontro dei missionari, scesi dalle motagne dell’Aberdare, con il capo Karuri wa Gakure. In basso a destra è inciso il logo di quel tempo dei missionari della Consolata e, a sinistra, un simbolo del Kenya.
padre Luigino Brambilla
parroco della parrocchia santuario della Consolata a Tuthu
Essere auguri, non fare gli auguri
Testo e foto di Stefano Camerlengo
Tornato in Kenya in occasione della Settimana Santa per partecipare all’assemblea dei missionari subito dopo Pasqua, ho avuto la gioia di un’esperienza bellissima nel Nord del paese, nella diocesi di Maralal, andando a celebrare il triduo pasquale nella prima missione del territorio, Baragoi, fondata nel 1952.
Giovedì Santo
Il Giovedì Santo insieme a Patrick, l’autista della comunità della casa regionale di Nairobi, iniziamo il viaggio: Nairobi – Baragoi, 640 km. Un viaggio dal sapore antico, di missione vera, con un pezzo della strada asfaltata, opera dei soliti cinesi, un’altra parte in cantiere e l’ultimo tratto ancora da sistemare. Un viaggio impegnativo. Prima tappa alla missione di Rumuruti e incontro con padre Mino Vaccari, un missionario quasi novantenne che rimane sempre presente nonostante le burrasche della vita.
Terminata la colazione e il dialogo con il missionario, via per la strada verso Maralal dove siamo attesi alla casa del vescovo, mons. Virgilio Pante. Con lui consumiamo un fraterno pasto e dopo i saluti via di nuovo verso Baragoi, ballando al suon di musica cadenzata dalla strada piena di pietre e corrugazioni varie. Finalmente alle 16.30 arriviamo alla missione di Baragoi, una delle presenze dell’Imc più antiche.
Siamo accolti dalla musica proveniente dalla chiesa strapiena di gente che innalza canti di gloria al Signore nel ricordo del giorno dell’Eucarestia. Una Messa semplice, senza troppe cose, ma sentita e partecipata e soprattutto cantata da tutti. Certamente devo riconoscere l’emozione provata all’intenso ricordo dei bei momenti vissuti in brousse con la gente nella foresta del Congo (allora Zaire), quando più giovane vivevo in una missione di frontiera.
Venerdì Santo
La giornata nella cittadina inizia con una visita a un panificio, creato dai nostri missionari e affidato a due giovani intraprendenti. Una casa dignitosa costruita per accompagnare il progetto. Un pane viene venduto a 25 scellini (circa 25 centesimi al chilo). Non è molto, anzi è quasi niente, ma è prezioso perché qui da tempo non piove, la fame è già presente e la crisi si avvicina. Terminata la visita andiamo a benedire un grande gruppo di persone, per lo più donne e bambini, che sfidando il calore e il sole proibitivi s’incamminano verso una collina simbolica recitando il Rosario e tornano facendo la Via Crucis, il tutto percorrendo diversi km, precisamente 7 di andata e 7 di ritorno, con un clima che definire solo caldo è un gioco, infatti solo ieri c’erano circa 32 gradi all’interno della casa e 43 fuori.
La camminata ha voluto essere una testimonianza della fede, una manifestazione della preghiera al Dio della vita che per amore muore in croce.
Personalmente non oso prendere parte alla camminata, segno della vecchiaia che arriva, a causa del caldo eccessivo e soprattutto del sole che non ha pietà, ma benedico con tutte le mie forze questa gente che nonostante tutto, sfidando il caldo eccessivo, la mancanza di pioggia che attanaglia la regione da mesi, vuole liberamente e con calma, camminare insieme la Via Crucis di Gesù per rendergli gloria e lasciarsi riempire dalla sua grazia.
Anche se non sono andato con loro mi sento parte di questa gente semplice che, già da ieri sera, al mio arrivo mi ha adottato come uno di loro e con me vogliono vivere il mistero pasquale.
Verso le ore 13.30 tutto il gruppo della camminata ritorna alla chiesa parrocchiale. Una breve pausa per rifocillarsi, bere dell’acqua e riposare un pochino e poi inizia la seconda celebrazione della giornata, quella della liturgia della croce. La gente aumenta a vista d’occhio e alla fine la chiesa si trova totalmente piena. La cerimonia si svolge con attenzione e semplicità, senza troppi fronzoli guardando all’essenziale dello spirito della liturgia del Venerdì Santo che non vuole partole inutili e che concentra tutto il messaggio attorno ai tre segni: la Parola, la Croce, la Comunione.
Sabato Santo
Inizia con le confessioni, dalle 9.00 circa fino alle 12.00. Una fila ininterrotta di persone, grandi e piccole, con ordine e rispetto, molto ben preparati si avvicinano per la confessione individuale e la relativa penitenza proprio per prepararsi bene alla celebrazione pasquale.
Nel pomeriggio si parte per iniziare le celebrazioni pasquali in quasi tutte le cappelle sparse sul territorio. Con padre Matthew Kirema, il parroco, affrontiamo la pista più difficile e problematica, mentre padre Roberto Sibilia va in altri villaggi. Dopo 6 o 7 km siamo costretti a fermarci perché la Land Rover, di soli 22 anni di vita, inizia a fare capricci e ci obbliga ad una sosta forzata. Fortunatamente siamo in zona dove c’è connessione e possiamo chiamare un giovane meccanico che con una rapidità sorprendente ci raggiunge e in pochi minuti ripara il guasto.
Si riparte e vengo lasciato sotto un albero nel villaggio di Soit Ngiro. Un villaggio particolare di Samburu, incollato sulla collina, vicino al letto di un fiume che da tempo non conosce acqua. In questo villaggio vivono più o meno 30/40 famiglie, isolate dal resto del mondo.
Arriviamo e l’accoglienza è subito una festa, soprattutto da parte dei bambini e delle donne; gli uomini rimangono in disparte sotto un albero a dialogare tra loro, come se niente fosse. Anche la mia cappella è un albero molto grande e ombroso che lascia passare una dolce arietta che rinfresca l’ambiente, e ce n’è bisogno. La partecipazione è sentita e attenta, le mamme devono seguire la messa e le parole del padre (in kiswahili, con cui avevo già dimestichezza in Congo), e allo stesso tempo devono accudire il bambino che portano in braccio e quello più grande, che gli scorrazza attorno. È proprio vero qui è tutto in mano alle donne. Povera Africa senza le donne.
In una parte del villaggio scorgo un movimento particolare, curiosamente vado a guardare e trovo una festa per la casa nuova che una famiglia sta preparando. Alcune donne stanno conficcando i pali per la manyatta, altre trasportano materiale, gli uomini all’ombra stanno guardando dopo aver terminato la festa di benedizione per la nuova casa e bevuto alla faccia… del malocchio, ma anche delle donne! Terminata la messa e la visita al villaggio con il catechista, una sua bambina, un giovane e una mamma anziana, iniziamo a piedi la via del rientro per arrivare alla via principale e ritrovarci con padre Matthew che dopo averci lasciato ha proseguito per altri due villaggi più lontani. Percorriamo il tratto di diversi chilometri e alla fine stanchi ma contenti ci ritroviamo con il padre per fare ritorno alla missione già a notte avanzata.
Appena arrivato, via di corsa alla cappella Huruma, situata alla periferia Sud della cittadina di Baragoi, in una zona abitata prevalentemente da Turkana, dove un bel gruppo di cristiani ci sta aspettando per la veglia pasquale. Termino stremato, senza forza né voce, ma contento di aver potuto servire il Signore in questo angolo dimenticato di mondo, dove non solo il calore è un problema, ma soprattutto la mancanza d’acqua. Sono ormai le 23.30 passate, mi siedo in casa, bevo quasi un litro d’acqua contento di aver passato una Pasqua speciale, con della gente semplice e senza troppe pretese, dove tutto è dono da accogliere e da celebrare, anche la fatica di vivere.
Domenica di Pasqua
Arriviamo così alla domenica di Pasqua. Di primo mattino arriva il mio accompagnatore per raggiungere due centri, relativamente vicini alla missione, precisamente Logetei e Nachola.
La prima comunità è quella di Nachola, gente buona e accogliente. Un centro situato su una collinetta da dove si può dominare tutta la valle. Una valle dai contorni infiniti, con una bellezza surreale perché ti dà l’impressione di essere fuori dal mondo, proiettato quasi sulla luna. La cappella è bella e bene areata, uno spettacolo poter celebrare animati dai canti e dalla partecipazione attiva della gente. Terminiamo cantando e lodando Iddio per questa nuova Pasqua che ci fa vivere.
A Logetei, la cappella è più antica e caldissima. Qui ci sono una quarantina di adulti e giovani che sono pronti per ricevere il battesimo e la cresima. Siamo già arrivati alle ore 11.30 circa, il sole è forte su nel cielo, e la cerimonia inizia con canti e festa grande. I giovani sfilano vicino all’altare esibendo i loro nomi da cristiani, consapevoli del grande passo che stanno facendo. Terminiamo la celebrazione e stanchi e contenti ci avviamo verso casa, con la gioia dell’operaio che anche oggi qualche cosa ha potuto realizzare per la gloria del Suo nome.
Qualche riflessione
Pensando alla Pasqua e alla tradizione degli auguri, vivendo quest’anno il triduo con queste persone semplici ho pensato che poteva essere l’occasione per tentare di «essere auguri» più che pensare di «fare gli auguri»!
Anziché fare gli auguri, essere auguri, farsi augurio per gli altri, non chiedendo cosa mi possono donare, ma impegnandosi a portare qualcosa per rendere la Pasqua e la vita più bella, più umana. Come insegna il Nuovo Testamento, per il quale la felicità non è un’utopia, ma una possibilità concreta alla portata di tutti. Infatti, la felicità per Gesù, non consiste in quel che si riceve, ma in quel che si è capaci di donare: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Se la felicità dipende da quel che si riceve, si rischia di consumare l’esistenza sempre amareggiati, perché gli altri non hanno saputo rispondere ai bisogni, ai desideri per i quali si è atteso invano una risposta. Ma se la felicità consiste invece in quel che si dona, questa può essere possibile, immediata e piena; anzi, più si dà e più si è felici, perché il Padre non si lascia vincere in generosità, e regala vita a chi dona amore: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più» (Mc 4,24; Lc 12,31).
Essere un augurio per gli altri significa fare della generosità il distintivo che rende riconoscibili. Come il Cristo risuscitato, che ogni volta che si manifesta ai suoi discepoli dice loro: «Pace a voi» (Gv 20, 19.21.26). Il suo non è un augurio, ma un dono. La pace può essere un dono solo quando è espressione di tutta la vita della persona, altrimenti è solo un suono. Chi dona pace non solo comunica gioia, ma arricchisce la propria: «Perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,4). La pace, l’ebraico shalòm, nel mondo semitico ha un significato molto più ampio di quello conosciuto in Occidente, infatti include tutto quel che di buono e bello rende appagata la persona, dalla pienezza di salute all’amore, dal lavoro al benessere: la felicità. Per questo in quella cultura, come in quella africana in genere, il saluto augurale, non è mai espresso solo verbalmente, ma sempre accompagnato da un dono, che può essere un dolce, una bevanda, un frutto, per contribuire alla felicità e alla gioia di chi riceve il saluto. Per questo quando Gesù dona pace, regala felicità, e quel che aveva promesso non rimane un augurio, ma diventa realtà, affinché «la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11; 16,24). I Vangeli invitano a essere portatori di questa pace: «In qualunque casa entriate, prima di tutto dite: “Pace a questa casa!”», (Lc 10,5) affinché questa raggiunga tutti gli uomini.
Ringrazio di cuore e saluto fraternamente padre Matthew e padre Roberto, i due confratelli che da tempo sono auguri per questa gente, in mezzo a questo popolo.
Coraggio e avanti in Domino!
Stefano Camerlengo
superiore generale IMC
Kenya: qualche informazione per capire
l Kenya è situato nella regione centrorientale dell’Africa, a cavallo dell’equatore. Ricopre una superficie di 582.546 km2 e ha oggi una popolazione di 52.051.295 abitanti (stima al 5/5/2019 del Population Clock). È caratterizzato da 44 gruppi etnico-linguistici tra cui i Kikuyu e i Luo (le due etnie più numerose), gli Akamba, i Meru, i Masai, i Samburu, i Turkana, i Borana, ecc. comprese anche le due «tribù» dei Wazungu (cioè quelli che noi diciamo i «Bianchi») e degli Asiatici. Le lingue ufficiali sono lo swahili e l’inglese.
Per quanto riguarda le religioni: i keniani sono per il 47% cristiani protestanti, per il 25% cattolici, per il 12% di chiese indipendenti africane, per l’11% musulmani e per il 5% sono tradizionali, atei o di altre religioni (dal censimento del 2009).
Il Kenya è un paese indipendente dal 1963 ed è una repubblica presidenziale la cui capitale è Nairobi.
La moneta è lo scellino e i prodotti principali sono il caffè, il tè, il granoturco, fiori e ortaggi per esportazione e il bestiame.
Le malattie più diffuse sono la malaria, l’amebiasi, la bilharziosi, la tubercolosi e, in questi ultimi anni, l’Aids. La mortalità infantile è passata da 119 su 1000 nati vivi nel 1960 a 37 su 1000 nel 2017 (in Italia 3 su 1000); la vita media si aggira intorno ai 64 anni (fine 2017 – Italia 82) e l’analfabetismo (sopra i 15 anni) è circa del 22% nel 2015.
Dalla diocesi di Marsabit alla nascita della diocesi di Maralal
La diocesi di Marsabit, alla sua creazione nel 1964, si estendeva nel Nord del Kenya dal Lago Turkana fin quasi alla Somalia, in quello che durante la colonia era il territorio (inaccessibile ai missionari) a Nord delle diocesi di Nyeri e del Meru e abitata dalle popolazioni Samburu, Turkana, Rendille, El Molo, Gabbra, Borana e Somali. Aveva una superficie di circa 100.000 km2 con una popolazione allora stimata a poco più di 170mila persone.
L’evangelizzazione del territorio ha avuto inizio nel 1952 ad opera dei missionari della Consolata con l’apertura della missione di Baragoi. Nel 1964 è stata creata la diocesi di Marsabit formata dall’omonimo distretto e da quello Samburu (ora i distretti si chiamano county, contea). Esistevano allora 12 parrocchie/missioni in tutto per una popolazione di 180mila persone e 615 cattolici (dati del 1969). Il primo vescovo è stato mons. Carlo Cavallera, trasferito da Nyeri. Nel 1981 gli è succeduto un altro missionario della Consolata, mons. Ambrogio Ravasi, tutt’ora vivente e ritirato nel santuario mariano di Marsabit.
Nel giugno 2001 la grande diocesi è stata divisa in due: il distretto di Marsabit (78mila km2, 175mila abitanti, 20mila cattolici e 10 parrocchie/missioni) è rimasto con il vescovo Ravasi ed è stata creata la diocesi di Maralal (21mila km2, 144mila abitanti, 24mila cattolici e 12 parrocchie/missioni) nel distretto Samburu con il nuovo vescovo mons. Virgilio Pante.
I dati più recenti delle due diocesi
(fonte Annuario pontificio 2017)
Marsabit: il vescovo Ravasi ha dato le dimissioni nel 2006 per raggiunti limiti di età e mons. Peter Kihara, missionario della Consolata keniano, nel novembre dello stesso anno è stato installato come nuovo vescovo, trasferito dalla diocesi di Murang’a. Ci sono 386mila abitanti, 45.579 cattolici, 13 missioni, 20 preti locali e 13 missionari. La diocesi è caratterizzata da una popolazione a maggioranza islamica.
Maralal: 255mila abitanti, 76.797 cattolici, 14 missioni, 19 preti diocesani e 13 missionari. Nativo della diocesi è il vice superiore generale dei missionari della Consolata, padre James Lengarin.
Situazione attuale
Dalla metà degli anni ‘90 sia il distretto del Marsabit che quello Samburu, soprattutto, sono diventate aree piuttosto pericolose a causa dell’acuirsi delle tradizionali razzie di bestiame tra i vari gruppi etnici. La presenza dei guerriglieri/predoni shifta nel Marsabit, quella dei predoni ngorokos nel Samburu e l’interesse di trafficanti di bestiame sia verso Nairobi che verso i paesi della penisola arabica, ha aggravato la situazione. Per questo il governo ha concesso ai capi dei villaggi di tenere armi leggere e, da quel momento, molta gente tiene un fucile nella capanna.
Nel 1996, durante la campagna elettorale nel Samburu, alcuni candidati al Parlamento hanno alimentato le rivalità tra le varie etnie, sfociate poi in gravi razzie e scontri a stento domati dall’esercito, svantaggiato sui locali che conoscono meglio il territorio. Ci sono stati decine di morti e molte persone sono state costrette a raccogliersi in grandi campi di rifugiati, soprattutto attorno a Baragoi, o a fuggire nella periferia di Maralal. La situazione ora sembra calma, anche se la presenza diffusa di armi leggere continua a favorire il banditismo.
In questi ultimi anni si è avuto anche un crescendo delle tensioni etniche tra Turkana e Samburu e anche con i Pokot, che vivono nella Rift Valley, ai confini Sud del Samburu. Queste tensioni hanno avuto anche gravi ripercussioni nel vicino Laikipia dove c’è la missione di Rumuruti. Tutto questo ha ovviamente aumentato la povertà e l’incertezza per il futuro.
Le due contee (Marsabit e Samburu), inoltre, hanno ampie zone desertiche e sono periodicamente colpite da gravi crisi di siccità. Anche ora sono già passate due stagioni delle piogge (ottobre-novembre e marzo-aprile) senza che sia piovuto a sufficienza e nella sola contea Samburu sono oltre 90mila le persone a grave rischio di fame.
È anche evidente il problema dei giovani, che costituiscono oltre il 50 per cento della popolazione. Finite le scuole elementari e medie (primaries), non sanno cosa fare. Le scuole secondarie sono concentrate nei centri principali (Maralal, Baragoi, Wamba) e quindi distanti dai villaggi dove gran parte della popolazione vive. Sono tutte residenziali e costose (trasporto, uniformi, libri, materiale didattico, effetti personali e tasse scolastiche richiedono dai 600 agli oltre 1.000 euro all’anno) e, quindi, per molti continuare gli studi è un miraggio. E finita la scuola è difficile trovare un lavoro nella regione.
Molti stanno vivendo anche un periodo di confusione a causa del pullulare di sètte religiose. I giovani, quindi, rappresentano la grande sfida della società keniana e di conseguenza delle parrocchie della diocesi, che spesso sono l’unico punto di riferimento della gioventù anche fuori dalla scuola.
(a cura della redazione)
Diario semplice da Dianra:
Accogliere e donare Amore
Testo di Carla Paccoia, con foto sue e di padre Matteo Pettinari |
«Sono Carla, nata a Perugia e cresciuta a Chiaravalle, Ancona. Vengo dalla diocesi di Senigallia, stesso paese e diocesi di padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata a Dianra, nel Nord della Costa d’Avorio. Ho avuto la grazia di vivere là circa sei mesi in un momento molto intenso della mia vita. Li condivido con voi tramite le pagine di diario che ho inviato periodicamente ai miei amici in Italia».
Qui a Diarna mi accoglie una comunità composta da due giovani missionari, padre Matteo Pettinari e padre Raphael Ndirangu Njoroge. Sono già stata qui due anni fa con altre quattro persone con le quali avevo frequentato per due anni gli atelier missionari, incontri organizzati dalla nostra diocesi e tenuti all’inizio da padre Matteo e poi da padre Ariel Tosoni. Quando a Natale del secondo anno ci avevano chiesto se qualcuno avesse voluto fare esperienza diretta di missione, avevo perso da pochi mesi mio marito Giuliano (15 agosto 2015), che aveva frequentato con me il corso, e avevo già presentato la domanda per la mia pensione.
A me era sembrata subito una strada tracciata dall’Alto e perciò avevo detto: io vado!
È stata un’esperienza intensa ed emozionante che mi ha fatto sentire di nuovo viva. Colori, suoni, profumi, volti e sorrisi che mi hanno letteralmente conquistata. Purtroppo, però, il tempo è volato ed il mese è sembrato troppo breve.
Al rientro a casa, ho continuato a mantenere contatti telefonici e scritti con la missione, mentre in parrocchia mi sono dedicata all’animazione missionaria con il fermo desiderio di tornare a Dianra per conoscere meglio persone e luoghi.
Il 15 giugno sono di nuovo arrivata ad Abidjan. Il giorno dopo sono partita la mattina presto mentre era ancora notte perché c’erano da percorrere tanti chilometri. Yamoussoukro, Bouaké, poi la missione di Marandallah e, finalmente, la gioia di essere di nuovo a Dianra.
La stessa sensazione di due anni fa: sono a casa mia! Il tempo non ha scalfito la memoria, le cose sono al loro posto come le ricordavo, i luoghi belli e rigogliosi di verde, le persone gioiose, calde affettuose ed accoglienti.
I missionari a Dianra, a parte padre Matteo con cui avevo viaggiato, sono diversi: c’è padre Ramon (il superiore della delegazione dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, che ho già conosciuto nel 2016 e normalmente risiede a San Pedro, ma presente per un paio di settimane come aiuto extra) e padre William Wema, il primo tanzaniano che conosco ai suoi primi mesi di servizio missionario essendo sacerdote solo dal 2017. Lui è qui in attesa di stabilirsi a Marandallah, quando tornerà padre Raphael che è in famiglia per le sue vacanze.
La grande assenza è quella di padre Manolo Grau che purtroppo è malato e si trova in Spagna. La sua presenza, però, si avverte in ogni angolo della missione e in ogni parrocchiano che, con affetto, chiede sue notizie. Comunque siamo vicini con la preghiera che ci sostiene e ci unisce come un filo invisibile ma molto forte.
30 giugno 2018
Carissimi e carissime tutti, dopo ore di volo, km di jeep su strada e su pista di terra rossa, sotto un diluvio d’acqua, tuoni e fulmini (ma qui erano felici perché l’acqua mancava da novembre ed io che l’ho portata sono una benedizione!), sono finalmente arrivata e ritornata a Dianra, nel Nord della Costa d’Avorio, nella missione affidata alla Consolata, dove vive il nostro padre Matteo Pettinari.
Con gioia ho rivisto persone e luoghi a me molto cari che mi sono entrati nel cuore fin dal primo giorno dell’agosto del 2016. L’affetto ricevuto ed il sorriso dei bimbi hanno subito cancellato la fatica del viaggio. Adesso mi sto inserendo nelle varie, quotidiane attività della missione con il mio francese scolastico che migliora lentamente e con la certezza di vedere ogni giorno, nella vita e nell’opera dei missionari, la costante tenerezza di Dio verso i nostri fratelli africani. Sento il vostro sostegno e so di essere qui anche a nome vostro. Continuate ad accompagnare i miei passi con la vostra preghiera.
14 luglio
L’ultimo periodo di questo mio primo mese a Dianra l’ho trascorso al centro sanitario che è una piccola splendida realtà nel buio della sanità locale, espressione pratica della tenerezza di Dio. Dal niente, con l’aiuto di tante persone, anche di Chiaravalle e della nostra diocesi, è stata costruita una struttura sanitaria che comprende l’ambulatorio di primo soccorso, la farmacia, la maternità, l’ambulatorio odontoiatrico ed il laboratorio analisi. Purtroppo, quest’ultimo ha dovuto smettere di funzionare poco dopo la sua inaugurazione a causa della scarsa corrente elettrica erogata.
In queste ultime ore, con l’acquisto di uno stabilizzatore (acquisto reso possibile grazie a una donazione dall’Italia) potrà funzionare senza interruzioni a partire dalla settimana prossima. Sempre grazie a quella donazione, il centro ha potuto dotarsi da ieri di un ecografo che, possibilmente, inizierà ad essere a disposizione della popolazione entro breve.
Quanto a me, sono arrivata qui forte della mia quarantennale attività lavorativa come infermiera e pronta a spenderla, ma la realtà che mi circonda e con cui mi incontro ogni giorno è così lontana per mezzi, usi e costumi, necessità e lingue che, per ora, posso fare ben poco.
E quando arrivano soprattutto i bimbi con 40 di febbre per la malaria (qui endemica), con le convulsioni, malnutriti, anemici ed intorno non hai abbondanza di medicinali, di apparecchiature sanitarie, di medici (la nostra è l’unica per una popolazione di 45mila abitanti e non sempre è sul posto perché deve andare nella capitale), di strutture idonee perché l’ospedale più vicino è a non meno di 140 km di pista (circa tre ore di strada), mi sento impotente. Ammiro gli infermieri che lavorano in prima linea e con quasi niente, ma la mia impotenza di fronte ai problemi di questi pazienti mi pesa.
Ciononostante, condividendo, donando affetto, tempo e un po’ della mia professionalità riacquisto serenità e la voglia di vivere questa splendida esperienza di vita.
28 luglio
Cari amici, le giornate qui a Dianra scorrono veloci, piene di incontri, di visi sorridenti di bimbi, di preghiera, di chilometri e di lavori. Si inizia la mattina alle 6,15 con le lodi, la messa, la colazione e poi tutto il resto: le visite in moto a malati o famiglie in difficoltà, le riunioni per preparare il programma della attività, il riordino della sacrestia, l’acquisto ed il trasporto dei medicinali per l’ospedale, gli incontri serali con le comunità di base, etc.
Sabato sono andata con padre Matteo nel villaggio di Nahangamakaha (a circa 40 km da Dianra) per partecipare all’incontro dei giovani di varie zone. Dopo la cena tutti i giovani e i cristiani ci siamo riuniti attorno al fuoco, unica luce che illuminava la notte, per la recita del rosario. Poi i giovani hanno vegliato, danzando e cantando tutta la notte. La mattina seguente, prima della messa, abbiamo fatto una visita di cortesia al capo villaggio, all’imam e al responsabile della chiesa battista. Quest’ultimo ha poi partecipato per intero alla nostra celebrazione eucaristica. Nel pomeriggio iniziamo il viaggio verso Abidjan (1.200 km circa tra andata e ritorno, di cui 250 di pista di terra rossa resa impossibile dalle piogge) per andare ad accogliere padre Raphael, che torna dal suo paese, il Kenya, e Riccardo Lenci, seminarista di Corinaldo. Adesso Matteo, Riccardo e io siamo una piccola comunità della Chiesa di Senigallia in trasferta nel cuore dell’Africa.
5 agosto
Carissimi, sicuramente questi giorni dei miei primi due mesi a Dianra sono i più belli perché strapieni di avvenimenti, feste, conoscenze, viaggi, imprevisti, lavori anche artistici da me mai svolti prima d’ora.
L’imprevisto accolto è il filo conduttore della vita qui in missione. Qui niente è semplice. Tutto si complica: compri un apparecchio medicale per l’ospedale, fai tanta strada per andare a prenderlo, lo metti in uso, non funziona, chiami il tecnico che è a un giorno di distanza, quando tutto è pronto non c’è più corrente e così via. Dopo un po’ non ti stupisci più e accogli l’imprevisto, capisci che qui la vita scorre con un altro ritmo e l’accetti, e sorridi, come fanno i missionari della Consolata, che sono molto pazienti.
Il 4 agosto abbiamo partecipato all’inaugurazione dell’ultima di cinque casette della salute (progetto finanziato, tra altri benefattori, dai lettori della rivista Missioni Consolata) nel villaggio di Bebedougou.
La casetta è un ambulatorio nel quale, periodicamente, una equipe sanitaria dell’ospedale della Consolata (un infermiere, un’ostetrica, un’ausiliaria) si reca in moto o con motocarro per fare vaccinazioni, visite, promozione sanitaria alle mamme e ai loro figli, perché – come sempre – motore del cambiamento sono le donne.
Poi, il 7 agosto, siamo andati a Farabà per la festa dell’Indipendenza e Riccardo e io, seduti tra le autorità, eravamo un’importante delegazione. Il massimo, però, è stato il viaggio che abbiamo fatto con padre Alexander Likono (da Marandallah) e padre Matteo, per andare nella missione di San Pedro, nel Sud Ovest della Costa d’Avorio. Quindici ore consecutive di jeep con una foratura e problemi meccanici che ci hanno bloccato di notte lungo la strada. La nostra benedizione è stato un camionista si è fermato per soccorrerci, nonostante la notte. Da un vicino villaggio è arrivato un gruppo di giovani. Io subito sono rimasta perplessa, ma poi quasi mi sono commossa. Non solo, senza conoscerci, sono venuti per aiutarci (hanno spostato a mano la jeep), ma sono andati al villaggio per prendermi una sedia e una pila per far luce.
Viaggiavamo per partecipare alla festa per il 25° anno di sacerdozio di padre André Nekpala, un congolese parroco nella missione di Grand-Zattry: altri 400 km. Una fatica ben ripagata perché la celebrazione è stata molto intensa, emozionante, con tante persone e anche perché abbiamo conosciuto il mitico padre Silvio Gullino, decano dei padri qui in Costa d’Avorio. È un piemontese, da 50 anni in missione, adesso è anziano ma i suoi occhi brillano e il suo volto si riempie di gioia quando racconta le sue avventure in Congo o in Costa d’Avorio. Conoscerlo, ascoltarlo, avvertire ancora in lui tanto amore e tanta energia da spendere per il prossimo è sicuramente tra le emozioni più importanti e belle che sto vivendo.
22 settembre
Dopo il tempo bello dei viaggi è arrivato quello del duro lavoro. Infatti, l’ultima parte del soggiorno di Riccardo – il seminarista di Corinaldo che ha condiviso con me queste settimane – lo abbiamo dedicato ai lavori nella nuova chiesa in costruzione a Dianra Village. Questi lavori, che procedono a seconda delle disponibilità economiche e della manodopera, avevano come obiettivi la decorazione dell’altare principale e della cappellina feriale, la creazione ex novo dell’angolo mariano e la conclusione di alcuni mosaici del pavimento, particolarmente quello che percorre tutto l’asse centrale della chiesa, dal battistero all’altare.
Padre Matteo e Riccardo hanno dato fondo a tutta la loro creatività, trovando ottime soluzioni anche con i pochi mezzi e il poco tempo a disposizione. Non dimentichiamo che la missione sollecita a ogni momento, e con numerosi imprevisti, la quotidianità e bisogna ritagliarsi il tempo per questi lavori spesso rubandolo a tante altre necessità.
Con i padri Kizito e Makori – due missionari della Consolata qui di passaggio per un breve periodo a rifrescare il loro francese in vista di aprire una nuova missione in Madagascar – abbiamo messo a disposizione per i vari lavori le nostre mani e tutto il nostro tempo. Tra le attività, abbiamo pitturato una ad una le tante tessere del mosaico che, in alcuni casi, abbiamo anche assemblato: un lavoro certosino, di grande pazienza e di grande soddisfazione. È davvero un peccato che non possiate vedere di persona i risultati, ma vi assicuro che il tutto è molto bello. I mosaici e i lavori all’interno della nuova chiesa sono stati accompagnati dall’architetto Daniela Giuliani, della nostra stessa diocesi di Senigallia, e si ispirano liberamente all’arte spirituale dell’atelier del padre gesuita Rupnik.
L’angolo mariano è come una vela disegnata sulla parete. O meglio, vuol significare una tenda, rimandando simbolicamente al mistero dell’incarnazione per il quale Maria è colei che ha permesso a Dio di piantare la sua tenda nell’accampamento dell’umanità in cammino. La scritta Magnificat e tre colonnine di diversa altezza – il tutto fatto a mosaico con pezzi di mattonelle rotte e di vari colori – fanno parte di quest’angolino semplice e raccolto. Anche se principianti, devo riconoscere che abbiamo fatto un ottimo lavoro di squadra che potrà essere sorgente di preghiera e contemplazione per questo popolo e ciò mi rende felice.
Soprattutto vorrei condividere con voi il piacere e la gioia di aver coinvolto nelle attività tanti bambini che, prima guardavano da lontano curiosi e incerti, poi si avvicinavano e, infine, a forza di sorrisi e di gesti (non dimenticate che loro parlano senufo e io italiano), finivano per iniziare anche loro a pitturare e incollare, con le loro manine e pieni di entusiasmo, le varie tessere e mattonelle. Oserei dire che abbiamo dato vita a veri e propri laboratori per artisti alle prime armi, stupende occasioni di avvicinamento tra mondi lontani. Come tutte le cose belle, però, anche questi lavori sono terminati.
Riccardo è dovuto rientrare a Senigallia portandosi sicuramente via, nel cuore, le tante emozioni vissute. Quanto a me posso continuare a godere un po’dell’accoglienza serena e affettuosa di questa terra che è entrata nel mio cuore e vi resterà per sempre.
1° ottobre
Oggi sono passati 3 mesi dal mio arrivo. Non mi sembra vero che siano passati già tanti giorni. Sicuramente un tempo di grazia ricco di persone nuove, di sorrisi e abbracci di bimbi, di vita in fraternità con i padri, di preghiera e di conoscenza e approfondimento del mio io. Un tempo ricco anche di qualche giornata di buio e di sofferenza. Riconosco ora che, forse, proprio questi giorni sono quelli in cui sono cresciuta di più. Mi rendo conto che insieme a tutto questo nuovo che vivo e vedo, ho fatto un viaggio in me stessa. Mi sono posta tante domande: «Riuscirò, Signore, a capire qual è la mia strada? Cosa posso fare? Dove e come?». Fino alla domanda vera che fa male: «Sopravvivo o riesco a vivere senza mio marito?».
Ho riempito le mie giornate di cose da fare fino a sfinirmi proprio per rinchiudere questi interrogativi, questo dolore immenso che mi toglie il respiro.
Non lo pensavo possibile, ma è proprio qui, in questa missione sperduta, nella brousse (savana, ndr) che pensi dimenticata da Dio e dagli uomini, che ti rendi conto di quanto superfluo ti circonda, di quanto poco ti serve effettivamente per vivere felice. E allora grazie a un abbraccio stretto stretto di un bimbo che sente il tuo affetto, al calore e all’accoglienza di una comunità che apprezza il solo tuo esserci, alla gioia di una preghiera intensa e costante, giorno dopo giorno il vuoto del cuore torna, in parte, a riemergere e a riempirsi.
E comprendi quello che era sotto i tuoi occhi ma non vedevi: la vita continua, la vita deve continuare. Le lacrime possono allora trasformarsi in un altro amore, quello semplice del donarsi agli altri vedendo in tanti sconosciuti dei fratelli da accogliere e che ti restituiscono molto più di quel poco che offri.
Il mio soggiorno continua ancora per qualche settimana… ma sicuramente, già fin d’ora, ho tanti motivi per cui ringraziare il Signore, la Consolata e tutti i missionari che mi sono vicini.
21 ottobre
Buona domenica e buona giornata missionaria mondiale. Ringrazio Dio che mi fa vivere questo giorno a Dianra con la presentazione dei nuovi catecumeni e dei catechisti. Certo la parola missione qui acquista un significato più intenso ma missione è ogni gesto della nostra vita ovunque la viviamo. La mia gioia è ancora più grande pensando che tanti anni fa in questa giornata Giuliano ed io abbiamo celebrato il nostro matrimonio.
19 novembre 2018
Il mio permesso di soggiorno sta per scadere. Ancora pochi giorni e dovrò rientrare in Italia.
È difficile spiegare come questa terra, queste persone e questa missione mi siano entrati nel cuore, ma qui da subito mi sono sentita a casa e i giorni trascorsi non hanno un inizio e una fine ma solo il presente.
Il presente di una vita missionaria fatta di semplicità, di nessun grande progetto e di condivisione della vita quotidiana con la fatica del lavoro, degli spostamenti difficili per le piste impraticabili, con la gioia delle nascite e la sofferenza delle perdite.
In realtà domenica con padre Matteo siamo andati in moto, un’ora di pista tremenda perché la jeep ci aveva lasciati a piedi, a Sononzo per celebrare la messa, e ho salutato la comunità che per prima a giugno mi aveva dato il benvenuto, quella di Fotamana.
Oggi padre Raphael è partito per un corso di formazione a Sago nel Sud della Costa d’Avorio e così la fraternità che mi ha accolta, accettata e accompagnata con affetto in questi mesi, si è sciolta.
Quanti bei momenti: la recita delle lodi sul fare del giorno ancora assonnati, e la messa. Il profumo del caffè le chiacchiere della colazione. Poi gli impegni della giornata scanditi dal ritmo della preghiera. I fine settimana, dal sabato fino alla domenica pomeriggio, nei villaggi per celebrare i sacramenti, conoscere i bimbi nuovi, visitare i malati e condividere, alla luce delle pile, cibo e alloggio.
Infine, il piacere di ritrovarsi la domenica sera stanchissimi attorno alla tavola, ma con la voglia del racconto della condivisione. Padre Raphael e padre Matteo, i due giovani missionari (hanno l’età dei miei figli) di Dianra, sono veramente splendidi nonostante tutto il loro lavoro hanno detto sì al mio desiderio di fare un’esperienza lunga di missione. Fatto nuovo per loro e per me, ma passati i primi momenti di adattamento e conoscenza, giorno dopo giorno, si è creato un piacevole clima familiare, direi di madre e figli, fatto di tante piccole attenzioni gli uni per gli altri.
E ora siamo arrivati al momento difficile della partenza, ogni partenza è uno strappo, una ferita, un taglio netto. Io spero di lasciare qui il frutto del mio cammino personale, le tante piccole e grandi cose che pesavano sulle mie spalle e di partire con le valigie e il cuore pieni di quel l’amore di Cristo che ho ricevuto indietro centuplicato, in confronto a quello che io ho donato, da tutti: dai padri missionari, dalle mamme, dai papà e soprattutto dai tanti bimbi che felici ti sorridono e ti abbracciano forte.
In questo abbraccio c’è tutto il valore del mio tempo in missione: accogliere e donare amore riflesso dell’amore di Dio. La missione va vissuta ovunque viviamo, nella famiglia, nel lavoro, ma forse a volte per rendersene conto dobbiamo lasciare per un po’ le nostre comodità e le nostre certezze e tornare a guardare il tutto con occhi più semplici.
Carla Paccoia
Foto: La nuova chiesa di Dianra
Foto della nuova chiesa pronta per l’inaugurazione. A presto una descrizione più dettagliata della stessa e dei suoi simboli.
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Una boccata d’aria fresca
a cura di Sergio Frassetto |
Una boccata d’aria fresca che allarga cuore e polmoni in questa primavera abitata dalla «notizia» della risurrezione del Signore; notizia quasi incredibile che ridona speranza ai nostri giorni, spesso intaccati dalla «paralisi della normalità» (papa Francesco).
Una «boccata d’aria fresca», così è stato definito il «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», firmato il 4 febbraio scorso da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, il grande iman di Al-Azhar. E non si fa fatica a definirlo un documento storico, perché è la prima volta che viene enunciata e sottoscritta da personaggi così importanti (leader delle due più consistenti religioni mondiali), una verità quasi ovvia: «Siamo cittadini dell’umanità, credenti appartenenti a diverse tradizioni religiose o anche persone di buona volontà», che s’impegnano a «costruire insieme la solidarietà umana per guarire le ferite dell’umanità». O, più semplicemente, riconoscendo che siamo tutti fratelli e sorelle, a intraprendere un cammino nuovo nel quale, superati antichi pregiudizi e moderne paure, riscoprire i valori della giustizia, del bene e della pace come «ancore di salvezza per tutti».
Parole forse scontate, ma che non lo sono affatto se guardiamo al contesto in cui sono state solennemente proclamate, firmate e proposte come road map per i credenti del mondo intero. Aria di primavera, aria di missione per chi, come noi, è fermamente convinto che l’annuncio e la testimonianza del Vangelo, a tutti e senza muri, sono la strada più sicura per costruire, a piccoli passi, in questo nostro mondo ferito, la fraternità e la solidarietà tra i popoli.
E come non rallegrarci, ricordando che il nostro beato fondatore volle che i suoi missionari scegliessero la mansuetudine come strumento di trasformazione, «la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo». L’aria dura, il senso di superiorità, la verità in tasca, le parole violente e offensive… non appartengono ai missionari dell’Allamano. Perché, come dice ancora il documento di Abu Dhabi, solo «il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza contribuiranno a ridurre molti problemi che assediano ancora gran parte del genere umano».
Ci voleva proprio questa boccata d’aria fresca!
padre Giacomo Mazzotti
L’Allamano rettore
L’Allamano accettò la nomina di rettore del santuario della Consolata, nel 1880, quando aveva appena 29 anni, solo per obbedienza al suo arcivescovo. L’incarico includeva pure quello di rettore del convitto ecclesiastico per la formazione morale e pastorale dei giovani sacerdoti. Ecco alcune testimonianze che si riferiscono a questo doppio servizio che durò tutta la sua vita.
Rettore del santuario
Con l’aiuto del can. Giacomo Camisassa, suo principale collaboratore, l’Allamano ben presto pose mano al restauro del santuario della Consolata che era piuttosto malridotto. Era sicuro che la ripresa della vita cristiana in quel centro mariano doveva iniziare dal decoro del tempio stesso. I restauri, affidati ai migliori architetti del tempo, furono molto costosi. Confessò ad un missionario: «Per la Consolata ho sperperato tutto». Qualcuno gli fece notare il grande costo dei lavori. Senza scomporsi rispose: «Se non basta uno, ne spenderemo due milioni di lire, ed anche di più, purché la Madonna abbia in Torino un Santuario degno di Lei». Era convinto che la Provvidenza non lo avrebbe abbandonato in questa impresa: «State tranquilli, che la Madonna provvederà».
Sicuramente la cura principale dell’Allamano era per l’aspetto spirituale. Iniziò subito, scegliendo collaboratori giovani e in sintonia con il suo spirito. Con lui il santuario divenne il centro spirituale della diocesi e non solo. Il decoro delle celebrazioni, anche nei dettagli, era il criterio che lo guidava. Per esempio, esigeva che le ostie fossero sempre fresche: «Voglio che Nostro Signore si rispetti anche in questo!». Un giorno, gli sfuggì questo lamento riguardo le celebrazioni liturgiche: «Come sta male vedere quel correre da una parte o dall’altra a prendere questa o quella cosa, o ricercare il turibolo e la stola, o un cingolo, o un manipolo, che mancano all’ultimo momento! Tutto si prepari per tempo, e chi è incaricato di questo lasci il resto».
Il modo decoroso di comportarsi in chiesa doveva iniziare dalla sacrestia. Anche su questo punto l’Allamano espresse chiaro il proprio pensiero riferendosi in particolare ai sacerdoti: «Il parlare forte in sacrestia dimostra poco rispetto per la chiesa annessa, e il pubblico ne è poco bene impressionato, e quasi scambia la sacrestia con la piazza; se invece, chi sta in sacrestia si comporta con decoro e con rispetto, invita, col suo contegno, al raccoglimento e prepara alla confidenza molte persone, che a volte vengono nella sacrestia per un consiglio, o per narrare casi dolorosi di famiglia; così più facilmente se ne vanno edificati e confortati».
Per la pulizia e l’ordine nel santuario seguiva un principio semplice e concreto che lui stesso manifestò: «Le cose grandi saltano agli occhi; le piccole no. Invece la cura minuta, quotidiana, insistente è quella che dimostra ordine, amore all’altare e rispetto per il decoro della Casa di Dio». Sono indicative queste parole udite da una suora: «Alla Consolata credo che trovi più carta io per terra che non tutti i domestici insieme».
Al sacerdote Elia Lardi diede questo suggerimento: «Vogliamo che il popolo pratichi la religione? Teniamo il tempio pulito e decorosamente ornato; procuriamo, sì, la brevità delle funzioni, ma fatte con spirito di fede, convinti di quanto facciamo».
Rettore del convitto ecclesiastico
L’Allamano fu un apprezzato educatore di sacerdoti. Non solo convinse l’arcivescovo Lorenzo Gastaldi a fare ritornare i giovani sacerdoti convittori nei locali dell’ex monastero cistercense adiacente il santuario della Consolata, ma ne assunse la cura per più di 40 anni. Nei primi tre anni dovette addirittura assumersi l’insegnamento della morale, condizione assoluta posta dall’arcivescovo: «O tu prendi l’insegnamento, o non si fa nulla». L’Allamano ubbidì, ma non adottò i trattati che aveva composto l’arcivescovo, perché li riteneva troppo rigidi. Anzi, al riguardo avrebbe detto al segretario: «La più bella cosa che potreste fare… è di bruciare quei trattati».
Quando accoglieva i nuovi convittori diceva loro parole che, forse, attingeva dallo zio Giuseppe Cafasso: «Siete sacerdoti, ricordatevi sempre di essere sacerdoti. Facciamo in convitto una famiglia cristiana sacerdotale». Aggiungeva anche un suo consiglio, che dice molto del suo senso pratico: «Mi raccomando di avere tanta carità coi domestici. A proposito di questo: essi vi porteranno in camera i bauli e materassi; date loro qualche mancia; è un lavoro di più che fanno; siate generosi; ricordatevi che nella vita avrete bisogno di piccoli servizi; la vostra generosità, ben inteso proporzionata, vi renderà facile anche l’adempimento dei doveri del vostro ministero. Ricordatevi, che da noi sacerdoti quelli che rendono qualche servizio aspettano…».
Aveva un’attenzione particolare per i convittori provenienti da famiglie povere. Confortò il giovane Sansalvadore che non poteva pagare la retta: «Coraggio, studia volentieri; il convitto non solo rinunzia nei tuoi riguardi a quel poco che dovresti versare oltre la Santa Messa, ma io ti darò mensilmente lire dieci (un aiuto per quel tempo!, ndr) da mandare alla mamma».
Finita la guerra, quando tutti i convittori furono tornati, l’Allamano riprese le consuete conferenze del giovedì. Da come ne parlò con un missionario che era andato a trovarlo nel suo ufficio, si nota lo spirito con cui svolgeva il suo servizio di rettore: «Voglio che si persuadano – e lo dico loro – che non sono in convitto solo per studiare un po’ di morale, ma che sono per formarsi alla pietà e allo spirito ecclesiastico». Facendogli vedere il quaderno delle conferenze ai convittori, cucito alla buona: «Può stare così, serve solo a me. Tutto ciò che dico, lo dico alla buona, ma mi preparo sempre, perché voglio che siano cose sode».
Quando comunicò al convittore A. Vaudagnotti che era stato nominato assistente e professore in seminario, lo incoraggiò confidandogli la propria esperienza: «Il seminario è la più bella parrocchia della diocesi. Lo diceva a me mons. Gastaldi nel nominarmi direttore del seminario, mentre io vagheggiavo la vita più varia del vicecurato. E lo ripeto a lei».
Termino con questo aneddoto. Un convittore, risentito per un diniego ricevuto, disse: «Lei crede di essere un santo, ma non lo è mica». L’Allamano non si scompose, ma rispose calmo: «Preghi per me, perché lo diventi, e quando sia santo ne guadagnerà anche lei». Fu il sacerdote interessato a raccontare questo episodio, dimostrandosi felice di avere avuto come rettore davvero un santo.
Le relazioni (divine) che promuovono la vita invece della morte
Solalinde: Questo è il Regno di Dio
L’«antiregno» è semplice da descrivere: il sospetto su Dio, il male procurato agli
altri, la violazione del creato, l’autocondanna alla disperazione. Più complicato è dire cosa il Regno è e cosa suggerisce al mondo odierno complesso e segnato da violenza. Padre Alejandro Solalinde ci offre la sua sintesi usando la parola chiave relazione e partendo dalla sua fede ed esperienza di lotta accanto ai poveri.
«La condizione perché Dio regni su di noi è che nessuno regni sull’altro», scrive padre Alejandro Solalinde. E il motivo per scegliere di far regnare Dio su di noi è che il suo è un Regno di gratuità, pace, giustizia, perdono, accoglienza. È un Regno d’amore al centro del quale c’è la promozione delle relazioni che danno vita: la relazione fondativa tra Dio e l’uomo, quella tra l’uomo e gli altri uomini e quella tra l’uomo e il resto del creato.
Padre Alejando è un prete sorridente ed energico di 74 anni. È noto per essere un sacerdote messicano in prima linea nell’emergenza umanitaria che riguarda i migranti sudamericani diretti negli Usa e transitanti sul suolo del suo paese. Avere a che fare con i migranti non significa solo contrastare i discorsi d’odio di Trump ma, molto più concretamente, fronteggiare le organizzazioni criminali che con i migranti fanno affari d’oro.
Per il suo impegno, padre Alejandro è, allo stesso tempo, candidato al Nobel per la pace e «ricercato» dai narcos con una cospicua taglia sulla sua testa. Nonostante questo, appare un uomo sereno, umile e mite. A chi glielo fa notare risponde: «Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del Regno di Dio. Io non sono solo»1, e ribadisce la stessa idea nel suo libro, come un caposaldo della sua speranza: «Nessuno può sentirsi solo con un’amicizia come quella di Gesù».
Libro sorprendente e coraggioso
Padre Alejandro Solalinde ci offre un libro sorprendente. Sorprendente perché insiste su Dio e sul suo sogno d’amore per l’umanità e il creato, mentre da un uomo «di lotta» come lui ci si potrebbe aspettare un testo tutto concentrato sulla denuncia dura e pura (come ce ne sono molti) nei confronti delle potenti strutture di peccato che generano le sofferenze delle quali si occupa. Non manca la denuncia, e padre Solalinde le dedica un intero capitolo, il terzo, intitolato «L’antiregno». Ma non è il centro del suo pensiero. È forse il movente, ma non l’orizzonte del suo scritto.
Padre Solalinde ci offre un libro sorprendente e anche coraggioso. Coraggioso perché indica il Regno di Dio come suo centro d’interesse principale, e la prassi «fallimentare» del Gesù crocifisso come strada da seguire per realizzarlo. Superare l’antiregno in direzione del Regno di Dio si può solo attraverso relazioni improntate al dono totale di sé, alla misericordia, all’accoglienza di tutti. Anche all’accoglienza dei violenti e dei potenti, di quell’1% che domina il mondo, perché mai nessuno è escluso dal desiderio di Dio di averlo dalla sua parte: «Ai giorni nostri sono invitati alla tavola di Gesù anche quell’1% di magnati che si accaparrano le ricchezze del mondo […]. Da soli non potranno arrivare allo spazio della fede in Dio, Padre di tutti e tutte. Bisogna avvicinarli, amarli, metterli in discussione, invitarli! […] Anche un “tossico” del denaro e del potere è salvabile!».
L’idea giusta di Dio
«Siamo nati nel sistema capitalista, una condizione che impone il denaro come valore supremo; solo dopo viene Dio e infine la gente. Il Dio della vita è stato espulso dall’economia e rinchiuso nei templi. Ogni giorno aumentano i poveri e cresce la diseguaglianza. Quel che è peggio è che stiamo accogliendo tutto questo come normale. E non manca chi attribuisce a Dio queste ingiustizie, assicurando che questa è la sua volontà. […] In tale voragine di idee, le cupole del potere economico impongono come verità indiscutibili la loro versione di ciò che noi “dobbiamo” vedere e credere».
Nel solco della letteratura profetica, padre Solalinde si preoccupa di ristabilire la giusta immagine di Dio, quella di cui l’uomo può nutrirsi per trovare la salvezza. Il suo Dio non è quello usato da alcuni per giustificare le ingiustizie, ma quello che offre tutto se stesso per il bene dell’umanità. Se al centro ci fosse Dio con il suo Regno, l’uomo vivrebbe nella pienezza. «La crisi del mondo attuale, e in particolar modo del mio Messico, è in fondo una crisi di relazioni interpersonali: tra persone fisiche e persone giuridiche, tra persone umane e persone divine. […] Qual è il riferimento affidabile che ci permetterà di uscire da questa crisi generalizzata? A partire dalla fede cristiana che professo, io propongo il Regno di Dio […]. Non per niente questo è il tema centrale dell’insegnamento del giovane Maestro di Nazareth. Nei Vangeli troviamo più di novanta occorrenze di “Regno di Dio” o “Regno dei cieli”. […] Gesù non predica se stesso, parla della sovranità di Dio». Gesù realizzò nella sua persona la sovranità di Dio inaugurando l’esperienza più inclusiva e aperta che sia esistita nella storia dell’umanità. «Bisogna credere nel Regno e allo stesso tempo esserne operatori efficaci, affinché sia davvero l’amore divino a governare […], a partire dalla lettura dei segni dei tempi e dall’accompagnamento pastorale degli ultimi, degli esclusi».
Una vita radicalmente cambiata
Il Regno di Dio non è un’utopia. È una realtà già vivente e operante che cresce con la crescita della sua conoscenza da parte dell’uomo. Una realtà bella anche perché si prende carico della condizione contraddittoria e fragile dell’uomo. Sono belle le parole del sacerdote messicano sul «rilievo umano», cioè sulla storia particolare, personale di ciascun operatore del Regno: «Chiamo “rilievo umano” la storia di ogni persona […]. Nessuno può cancellare il passato! E neppure può ignorarlo […]. Quello che invece possiamo fare è assumerlo, impararne la lezione, leggerlo entro una nuova narrazione positiva, accettarlo. […] Il Dio rivelato da Gesù Cristo si carica del nostro passato e lo redime, invitandoci a un presente equilibrato e a scrivere una nuova storia personale d’amore. […] Gesù ci accetta come siamo, incondizionatamente, [anche] se siamo stati assassini o carnefici […]. Dio chiama tutti alla santità, ma lo farà sempre a partire dal “rilievo” di ciascuno». La via della realizzazione del Regno è la storia individuale di ognuno, nel momento in cui si mette in relazione vitale con Dio Trinità, con gli altri e con il creato. Come la storia di ogni singolo è segnata dalle storie degli altri e del mondo, anche la storia degli altri e del mondo è segnata dalla storia di quel singolo.
Questo, per Solalinde, è il Regno di Dio: una vita donata, una vita radicalmente cambiata in Gesù.
Luca Lorusso
Note:
1- Paolo Moiola, Un salto nel buio, MC, ottobre 2017, p. 51.
In Kenya dal 1972. Diventa vescovo della nascente diocesi di Maralal nel 2001. Nella chiesa abbandonata di Kawap, segnata dal conflitto tra Samburu e Turkana, comprende quale stile dare al suo mandato: dialogo e riconciliazione. Tra battute di spirito e aneddoti, la chiacchierata con monsignor Pante sulla sua vita missionaria prende quasi il gusto di racconti biblici.
È il 26 novembre 2015. Papa Francesco celebra la messa nel campus dell’Università di Nairobi, Kenya. Sul capo porta una mitria di pelle di capra fatta dalle mani di una donna samburu. Gli è stata donata in aprile, a Roma, dal vescovo della diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, zona abitata da comunità di pastori. Quel vescovo è monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, la donna samburu è Lydia Letipila, di Baragoi.
Incontriamo mons. Pante nella redazione di MC. È impossibile non accorgersi del suo arrivo: la sua voce risuona allegra mentre narra storie e aneddoti con un marcato accento trentino. Gli chiediamo di poterle raccogliere per trasmetterle ai nostri lettori, e lui inizia proprio dalla mitria.
Racconta che quando l’ha data al pontefice, Francesco l’ha annusata e ha detto: «Questa non è pecora, ma capra!», e che lui gli ha risposto: «È vero, ma anche le capre sono parte del gregge».
In Kenya, a novembre, mons. Virgilio ha occasione di parlare due volte con il Papa. Racconta: «All’arrivo all’aeroporto, “Ti avevo regalato una mitria, dov’è?”. “Domani la vedrai durante la Messa”. “Bravo, sei promosso”», e aggiunge: «Tutti mi guardavano. Non si parla così a un Papa. Alla partenza, all’aeroporto gli ho detto ancora: “Guardati la salute e riposati anche. E poi la mitria usala, non solo in Kenya”. “Tranquillo”, mi ha risposto», e conclude: «Sono stato un po’ sfacciato? No, mi sentivo come davanti a un papà buono. All’inizio della messa, io ero vicino all’altare, Francesco mi ha fatto l’occhiolino e il vescovo accanto a me se n’è accorto, invidioso!».
Da Belluno a Maralal
Nato nel 1946 a Lamon, Belluno, padre Virgilio Pante arriva in Kenya nel 1972. Inizialmente nella diocesi di Nyeri, dove studia la lingua kikuyu. Poi, nel ‘73, nella diocesi di Marsabit, al Nord, dove c’è bisogno di un sacerdote.
Dopo 29 anni, nell’ottobre del 2001, diventerà vescovo della nascente diocesi di Maralal, staccata da quella di Marsabit.
La popolazione, ancora oggi, è composta da pastori seminomadi: «Samburu, Turkana, qualche Pokot», ci dice. «Nei centri più grossi, sugli altopiani dove si può fare un po’ di agricoltura, la gente è stanziale. Mentre nelle zone più basse si muove nella savana seguendo le piogge».
La diocesi si estende su un territorio di 21mila km2 (come il Veneto e la Valle d’Aosta messi insieme). Conta 260-280mila abitanti, di cui 60-70mila cattolici. «Il resto sono protestanti, pochi musulmani. Quasi l’80% sono Samburu, quasi il 20% Turkana, il resto Pokot, Kikuyu, Meru, Luo e qualche commerciante somalo».
Uno stile semplice e profondo
Parla molto, mons. Virgilio, ma senza parole di troppo o troppo di circostanza. Il tono è gioviale, spesso ironico. Quando entra nel nostro ufficio per l’intervista, fa finta di essere lui a domandare a noi se possiamo dedicargli un po’ di tempo, e ci chiede il permesso.
Indossa una polo nera sulla quale spicca un crocefisso color acciaio appeso a una semplice catenella.
Il missionario della Consolata non ha difficoltà a parlare di sé e della missione che il Signore gli ha affidato 40 anni fa, e lo fa con la stessa semplicità comunicata dal suo aspetto: facendo trasparire la profondità della sua esperienza attraverso immagini quotidiane che riguardano pastori, mercati, studenti, polvere. Una realtà precisa, una realtà salvata.
Ha barba e capelli bianchi che fanno da cornice a un volto dai tratti marcati e dalla pelle scurita dal sole. Le rughe dei suoi 72 anni agli angoli degli occhi sono un fascio di linee che fanno convergere il nostro sguardo sul suo: azzurro e intenso.
L’arrivo in Kenya
Appena arrivato in Kenya, nel 1972, padre Virgilio compra una moto. «Di seconda mano», ci tiene a sottolineare, e, dopo sei mesi a Nyeri, parte per il Nord, per un mese di vacanza nella diocesi di Marsabit, tra Samburu, Turkana, Borana. «Ho visto le giraffe, i guerrieri, gli elefanti. Quando sono tornato indietro, innamorato del Nord, il superiore, padre Pietro Baudena, viene a Nyeri a trovarmi e dice: “Tu l’hai fatta grossa, da solo con la moto, nel deserto… Ti devo dare un castigo: adesso torna lassù e stacci”». Mons. Pante, sorride: «Bel castigo, eh? Nel Marsabit c’era padre Giuseppe Inverardi. Era stato spostato al santuario della Consolata a Nairobi, e il vescovo di Marsabit, mons. Cavallera, voleva un sostituto. Padre Baudena ha continuato: “Abbiamo sentito parlare di un certo Pante, che è andato su da solo, in moto, eccetera, che è tornato intero… e allora sono venuto a chiederti la tua disponibilità”». Padre Virgilio arriva nella diocesi di Marsabit nel marzo del ‘73: «Sono andato al Nord per una monellata!», conclude sornione.
Marsabit-Londra e ritorno
Il modo di mons. Pante di raccontare la sua biografia ha qualcosa di biblico, somigliante a un racconto dei patriarchi. I dati di tempo e di luogo sono circostanziati, riguardano la sua persona, ma quello che viene fuori è un grande affresco pieno di simboli, in una visione di salvezza.
È l’affresco di una porzione di mondo e di pochi decenni di missione punteggiato di nomi di confratelli conosciuti e amati.
Nel 1979 padre Virgilio apre il seminario diocesano per i preti locali. Vuole realizzare il progetto al quale si è sentito chiamato: contribuire alla crescita di una chiesa autoctona che prenda, un po’ per volta, a camminare sulle proprie gambe rendendo «superflui» i missionari arrivati da fuori. «Ho iniziato con due seminaristi. Oggi, nella diocesi di Maralal, abbiamo circa una ventina di sacerdoti africani su 32 in totale». Padre Virgilio, però, non rimane sempre nel suo Kenya. «Nel 1987, dopo che era stato ordinato il primo prete samburu, mi hanno detto di andare a cercare vocazioni in Irlanda e Inghilterra».
Questa volta il mandato gli sembra un castigo vero, non come quello del ‘73. «Quando sei là in Africa, hai tanta soddisfazione, poi ti mandano a cercare vocazioni. È come annaffiare l’asfalto: cosa cresce? Sono stato tre anni a Dublino e quattro a Londra. Lì ho avuto tempo per aggiornarmi, leggere, girare nelle scuole e predicare nelle chiese. Sono andato all’università per un master di antropologia. Nel ‘94 viene padre Piero Trabucco, allora superiore generale: “Pante, quante vocazioni hai trovato?”. “Padre, per essere sincero, zero. Anzi, le dirò che sto perdendo la mia”».
E così, nel 1994, padre Virgilio torna in Kenya, ma non nel suo Nord: «Padre Canzian, superiore del Kenya, mi dice: “Andrai sul lago Vittoria, a Kisumu, tra i Luo”. Sono stato a Chiga, per due anni. Poi sono stato vice superiore del Kenya, a Nairobi, per cinque anni. Infine, nel 2001, il nunzio apostolico, Giovanni Tonucci, mi chiama: “Sarai il primo vescovo della nuova diocesi di Maralal. Ora non dirmi che non sei all’altezza, che non sei capace, che non sei preparato. Perché nessuno lo è. S’impara. E non dirmi che hai bisogno di una settimana per fare discernimento. No, no. Devi rispondermi adesso. Sappi che se dici di no rattristi il Santo Padre”, Giovanni Paolo II. Allora ho risposto: “E beh, allora va bene!”».
Ministero della riconciliazione
La neonata diocesi di Maralal che lo aspetta ha 12 «missioni», in gran parte con sacerdoti europei. Padre Virgilio, prima della consacrazione, deve scegliere un motto e uno stemma. Allora parte con la moto in cerca d’ispirazione e visita ogni angolo di quel territorio. «E sono rimasto colpito da Kawap, vicino Baragoi. Ho visto la chiesa abbandonata, la scuola distrutta. Lì andavo a celebrare la messa una volta. E ho chiesto cosa fosse successo. “Le battaglie tribali tra i Samburu e i Turkana, per via del bestiame. Il villaggio è stato distrutto e abbandonato”. Mi veniva da piangere e ho detto un Padre Nostro a voce alta: bisognava pregare di nuovo in quella chiesa».
È lì che il missionario capisce quale sarà il tema e lo stile del suo mandato: la riconciliazione. «Se la Chiesa costruisce solo chiese, scuole, istituzioni, e dopo ci sono le guerre che distruggono tutto, sono milioni buttati all’aria. Bisogna puntare sulle persone più che sulle strutture, e fare la pace. Allora ho scelto come motto una frase di san Paolo, seconda lettera ai Corinti: “Dio ci ha affidato il ministero della riconciliazione”. E come stemma? Ho preso Isaia 11: “Quando arriverà il salvatore, porterà la pace, le persone useranno la spada non per uccidere ma per arare il campo, gli animali vivranno insieme, anche il leone, il lupo, l’agnello. Il bambino giocherà con la vipera e non verrà morsicato”. Un leone sdraiato insieme a un agnello. Ecco lo stemma. E dietro di loro il monte Kenya, il monte di Dio».
Dialogo, scuola, commercio
Padre Virgilio viene ordinato vescovo il 6 ottobre del 2001 a Maralal. Esattamente tre mesi dopo, nel parco nazionale Samburu, una leonessa adotta un cucciolo di gazzella e stanno assieme per due settimane. «Perciò la gente diceva: “Vedi un po’ cosa è successo. Padre Pante è uno stregone. Quello che ha detto si è avverato”. E mi hanno promesso: “Vescovo, vedrai che d’ora in poi faremo così anche noi. Samburu, Turkana, Pokot staremo insieme, non ci faremo più la guerra”».
Dall’inizio del suo episcopato mons. Pante punta quindi sulla riconciliazione. La Chiesa di Maralal inizia a offrire tre strumenti: occasioni di incontro e dialogo tra tribù, la scuola, il mercato.
Innanzitutto organizza incontri di preghiera e di discussione tra gli anziani dei vari gruppi.
«Le diverse tribù vivono mescolate durante il giorno, ma poi la sera ciascuno va nel suo villaggio. La lingua è diversa. I Samburu sono circoncisi, sia maschi che femmine, mentre i Turkana no. Vivono da tempo insieme, ma poi ci sono scontri, soprattutto per il bestiame. I giovani, per dimostrare che sono forti, una volta uccidevano i leoni, adesso invece rubano, ad esempio le vacche, e uccidono le persone: si mettono un braccialetto per ogni nemico ucciso come segno di valore».
Oltre agli incontri, la Chiesa offre la scuola, «perché l’ignoranza fa molto per la guerra, e l’analfabetismo nella nostra zona è al 75%. Noi puntiamo sulla scuola convitto. Li chiamo “dormitori della pace”. Bambini dei Pokot che dormono, mangiano, giocano insieme ai bambini dei Samburu».
Il terzo strumento per la riconciliazione è il commercio: «Abbiamo incoraggiato i mercati intertribali. I Pokot hanno pecore e capre buone e sane. I Samburu fagioli, patate, tabacco, coperte, zucchero, sale. E scambiano. Una regola è che al mercato nessuno può portare il fucile. Purtroppo tutti hanno il fucile. Al mercato però non si portano le armi. Il mercato crea relazione. Ho visto un cambiamento enorme negli ultimi anni. Quindici anni fa era inconcepibile un mercato così: se tu, Samburu di Porò, vedevi un Pokot, gli sparavi, come si spara a una gazzella. Si sparava a vista. Oggi invece un Pokot può entrare a Porò, fare il mercato, andare al dispensario per le medicine. All’inizio tutti mi prendevano in giro: “Ma lasciali stare i Pokot che sono come i babbuini, selvatici. Lasciali perdere, sono solo capaci di fare la guerra”. E io dicevo loro: “Volete vincere il nemico? Ci sono due strade: o lo combatti con le armi – ma, scusa, sono più forti di noi i Pokot -, oppure te lo fai amico. Se tu fai amico il tuo nemico, l’hai vinto, no?”».
Contro la politica dell’odio
«Ultimamente tra Samburu e Pokot c’è una buona relazione. Tra Samburu e Turkana, a Baragoi, invece c’è ancora un po’ di attrito», mons. Pante si prende il volto tra le mani in un gesto a metà tra la tristezza e la certezza della pace possibile. «Lì c’è di mezzo anche la politica. Per esempio ultimamente sono state rubate un migliaio di vacche. Che fine fanno? Le portano giù, nella valle di Suguta, e poi qualcuno va a prenderle con i camion per venderle a Nairobi. Non è più rubare due o tre capre per mangiare o comprarsi la moglie. C’è di mezzo anche la politica. Comunque», aggiunge per dare forza alla speranza che vuole comunicare, «la gente capisce che la guerra non porta niente di buono». E a questo proposito mons. Pante fa l’esempio di due ex parlamentari della sua diocesi, apertamente razzisti e sostenitori dei conflitti tribali, che alle ultime elezioni sono stati battuti da due donne favorevoli al dialogo e alla pace. «Uno era un giovane deputato di Maralal, conosciuto perché incitava i Samburu a combattere contro i Turkana, l’altro distribuiva addirittura le armi. Ma la gente è stufa di guerra».
Una Chiesa in transizione
Monsignor Pante ci parla anche del cambiamento che sta avvenendo nella Chiesa: la chiesa locale cresce, non solo nel numero, ma soprattutto nella responsabilità. Per illustrarci quanto dice, ci parla dell’ospedale di Wamba: «Abbiamo iniziato dando tutto gratis. Adesso però non ci sono più bianchi e nemmeno le offerte dall’Europa. La gente si aspetta ancora di essere aiutata al 100 per cento, però adesso bisogna dirle: “Non ci sono più i bianchi e i soldi che arrivano dall’estero. Dovete aiutare voi. Se venite all’ospedale dovete pagare qualcosa, no?, altrimenti le medicine chi le compra, chi paga le infermiere?”. C’è questa crisi, non solo per l’ospedale di Wamba. In generale cerchiamo di dire: “La Chiesa siete voi, i missionari hanno fatto il loro lavoro, sono vecchi decrepiti, non ce ne sono più, la chiesa è vostra”. Il clero c’è, vocazioni ce ne sono. Però, per la parte economica, la gente oggi deve contribuire. Io tra tre o quattro anni lascerò perché arriverò ai 75. Il prossimo vescovo probabilmente sarà africano. Che non debba dire: “Ecco, il mio predecessore vi dava tutto gratis, adesso io sono in difficoltà, i missionari vi hanno educato male”. No. Non vogliamo questo. I preti africani hanno un altro approccio. Quando la gente vede un prete con la pelle nera, dice: “Beh, questo è come noi, dobbiamo aiutarlo. Non ha la benzina per andare a dire la messa, diamogli la benzina. Cosa mangia?”, allora vedi che all’offertorio portano farina, fagioli, galline. È bello. Questo con noi non succedeva. Si aspettavano che fossimo noi ad aiutare loro. Adesso la cosa cambia. C’è un cambiamento positivo. La Chiesa inizia a sostenersi da sola».
Il carisma della Consolata
La prossima estate mons. Pante ordinerà un nuovo sacerdote locale. Più avanti, «se Dio vuole», altri tre. Anche la provenienza del clero locale è segno del cammino di riconciliazione nella diocesi di Maralal. Sono preti samburu, turkana, pokot, kikuyu. Ci sono giovani locali che diventano anche missionari. Il vice superiore generale dei missionari della Consolata, ad esempio, è un Samburu, padre James Lengarin.
Parlando dei suoi confratelli missionari, mons. Pante conclude con una riflessione sulla Consolata: «Il carisma della Consolata, la consolazione, è portare Gesù prima di tutto. Portare un Gesù che guariva le folle, che dava da mangiare. Noi lavoriamo ancora così. La Consolata è la fondatrice della diocesi di Marsabit da cui poi Maralal è stata staccata. Però adesso il nostro tempo finisce. Abbiamo solo quattro centri che presto saranno consegnati al clero diocesano. E noi andremo in un altro posto. Andremo ad aprire altre missioni, cominciando da zero altrove. Il nostro carisma è cominciare da zero, non stare lì sempre. È incominciare e poi andare, muoversi».
Per finire mons. Pante torna al 1972, come per chiudere un cerchio: «Agli esercizi spirituali del 1972 a Nyeri eravamo 80 sacerdoti: tutti bianchi. Adesso, vai a fare gli esercizi spirituali: sono tutti africani, eccetto cinque o sei vecchietti europei. Ecco come è cambiata la missione in quarant’anni. Ecco, i missionari della Consolata africani sono il nostro futuro. I primi saranno gli ultimi, gli ultimi primi».
Luca Lorusso
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2019 all’insegna della missione
Buon anno! I nostri auguri ai missionari e missionarie della Consolata, ai
laici che ci seguono e ci vogliono bene, ai tanti amici che, conoscendo il
nostro beato fondatore, seguono il suo esempio e continuano ad invocarlo con
fiducia.
Abbiamo da poco iniziato il cammino di questo 2019 e ci
siamo augurati vicendevolmente che sia «buono» (anzi, migliore dell’anno appena
passato). Certamente ci riserva una bella sorpresa: un intero «mese missionario
straordinario», il prossimo ottobre, dentro il quale si incastonerà il «Sinodo
per l’Amazzonia».
Inutile dire che il Sinodo 2019 ci tocca da vicino, perché
parecchi nostri missionari lavorano in quell’immenso territorio che si allarga
in vari paesi latinoamericani e dove «una profonda crisi è stata scatenata da
un prolungato intervento umano, caratterizzato da una “cultura dello scarto” e
da una “mentalità estrattiva”».
Papa Francesco, prima dell’indizione del Sinodo
amazzonico, così scriveva al cardinale prefetto della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli: «Indìco un mese missionario straordinario
nell’ottobre 2019, al fine di risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio
ad gentes e di riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria
della vita e della pastorale. Ci si potrà ben disporre ad esso, anche
attraverso il mese missionario di ottobre del prossimo anno, affinché tutti i
fedeli abbiano veramente a cuore l’annuncio del Vangelo e la conversione delle
loro comunità in realtà missionarie ed evangelizzatrici; affinché si accresca
l’amore per la missione, che “è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è
una passione per il suo popolo”».
A questi due eventi, vorremmo aggiungere la memoria di un
centenario che ci è caro e che celebra la nostra presenza missionaria in
Tanzania, dove i primi quattro «arditi della Consolata» sbarcarono nell’aprile
del 1919; avevano il permesso e la benedizione dello stesso fondatore, che
aveva acconsentito a quella terza apertura missionaria del suo giovane
Istituto, nonostante «la scarsità di personale» e in obbedienza al papa…
soggiungendo: «Io sorrido quando sento dire che c’è tanto lavoro. Più lavoro c’è
e più se ne fa; ma bisogna lavorare con energia, che è la caratteristica del
missionario».
Sia ancora lui, allora, a ispirarci e accompagnarci nel
nuovo anno perché, nella preghiera, nella riflessione e in gesti concreti di
apertura e solidarietà, ci prepariamo al prossimo «straordinario ottobre» che
colora di intensa gioia missionaria i giorni della nostra attesa.
P. Giacomo
Mazzotti
L’Allamano nella vita di ogni giorno
Questa rubrica che propone diversi aspetti della ricca personalità del
beato Giuseppe Allamano, durante l’anno 2019 conterrà due pagine con la pretesa
di una certa novità: un Allamano «a tu per tu».
Non si può dire che l’Allamano non sia conosciuto,
soprattutto nei territori dove vivono e operano i suoi missionari e
missionarie, sia in Italia che in tante altre nazioni. Sono state pubblicate
tutte le sue conferenze come pure tutta la sua corrispondenza scritta e
ricevuta. Le pubblicazioni che trattano di lui sono numerosissime e in diverse
lingue.
Non è facile offrire ancora qualcosa di nuovo
sull’Allamano. A ben pensarci, però, c’è ancora una strada da percorrere. Si
tratta di aprire gli archivi e ascoltare certe sue parole che abitualmente
rimangono nascoste. L’Istituto possiede un archivio molto ricco, nel quale, tra
il resto, è conservata una grande quantità di testimonianze sull’Allamano.
Subito dopo la sua morte, molti sacerdoti, religiosi,
suore e laici, che lo avevano conosciuto da vicino, hanno sentito il desiderio
di riferire i propri ricordi personali. Non volevano che la memoria di un tale
personaggio finisse per scomparire. Quando poi è stata iniziata la causa per la
beatificazione, molte di queste testimonianze sono state garantite dal
giuramento.
È interessante riprendere in mano questi documenti, per
lo più manoscritti, e rileggerli con attenzione. Spesso i testimoni non si
accontentano di parlare di lui, ma riportano addirittura sue parole che
ritengono di ricordare, scrivendo: «l’Allamano diceva…» e, tra virgolette,
riportano le sue espressioni in forma diretta.
Riguardo queste testimonianze, si deve tenere presente
che il testimone ridice le parole dell’Allamano come le ricorda, affidandosi
cioè alla propria memoria. Non è quindi sempre possibile pretendere l’esattezza
assoluta della terminologia, ma solo quella del concetto.
La novità di queste pagine consiste nel fatto che
contengono le parole e le reazioni dell’Allamano «nella vita di ogni giorno».
Non l’Allamano delle conferenze o delle lettere, ma nei suoi interventi in
situazioni concrete della vita, diverse l’una dall’altra e quindi spontanee. In
definitiva un Allamano immediato proprio
come era nella vita ordinaria.
Proporrò queste parole, riferite dai testimoni e poco
conosciute, attraverso dei fatterelli e facendo notare come l’Allamano li seppe
vivere e interpretare. Le sue parole collegate a questi episodi sono quelle che
i testimoni riferirono avendole udite direttamente da lui.
Al Paese
Il primo tema che propongo riguarda Castelnuovo, suo paese natale, oggi
detto il paese dei santi (Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Giuseppe Allamano).
Sono quattro fatterelli che dimostrano la sua semplicità umana e la sua
ricchezza interiore.
Il primo fatto
tocca la sua vocazione al sacerdozio a proposito della quale l’Allamano seppe
dare la giusta importanza ad un dettaglio della sua infanzia. Un giorno, il
parroco e il sindaco del paese capitarono a casa sua a visitare la mamma.
Avendolo visto lì in cucina, piuttosto timido, domandarono alla mamma: «Che
cosa facciamo di questo ragazzo?». La risposta di quella saggia donna dimostra
che conosceva di quale stoffa era fatto il figlio: «Gli lascio fare quello che
vorrà», rispose. Il parroco, che stimava il ragazzo, non si accontentò: «Non lo
sprechi; lo faccia studiare».
Un fatto così
semplice poteva passare inosservato, ma non per l’Allamano, che fin da ragazzo
sapeva rendersi conto della presenza di Dio nella propria vita.
Ecco il suo
commento, confidato anni dopo ad un suo missionario: «Se non fossero passati da
casa mia il sindaco e il parroco, forse non avrei seguito la vocazione». Sembra
che abbia voluto dire: «È stata la Provvidenza a mandarli a casa mia proprio
quel giorno, quando io ero in cucina con la mamma, che così fu convinta e mi
mandò a studiare a Valdocco da Don Bosco».
Un secondo
fatterello riguarda il suo rapporto proprio con la mamma, quella «santa donna»,
come lui la chiamava, alla quale era molto legato, particolarmente durante gli
anni di una lunga malattia che la portò alla cecità e alla totale sordità. La
mamma era la sorella di Giuseppe Cafasso, morto in concetto di santità. Per
ottenere la guarigione, sicuramente il figlio, affezionato, l’avrà raccomandata
all’intercessione dello zio. Riferendosi poi al fatto che non era stata
guarita, pur essendo sorella, si accontentò di questo bonario commento
confidato ad una suora missionaria: «I Santi non fanno le grazie ai parenti». Né
perse la sua fiducia nel Cafasso, del quale curò la causa presso la Santa Sede
fino alla beatificazione.
Il terzo fatto riguarda la sua
presenza a Castelnuovo. Dopo l’ordinazione, si recò al paese sempre più
raramente. Quando il cognato Giovanni Marchisio si ammalò, andò a trovarlo, ma
senza dilungarsi troppo. Lo raccontò così: «Sono stato a trovare mio cognato;
mi fermai poche ore; alle due ero ancora a Torino, alle sette avevo già finito
il viaggio. Da ben quindici anni non ero più stato a Castelnuovo».
Un ultimo
episodio piuttosto curioso. Al sacerdote don Pagliotti, suo penitente, saputo
che dedicava la nuova chiesa parrocchiale in Torino a S. Agnese, espresse la
sua soddisfazione aggiungendo questa confidenza: «I miei genitori avevano già
deciso, prima della mia nascita, di pormi il nome di Agnese… se fosse nata una
bambina. E poiché nacqui proprio il giorno di S. Agnese [21 gennaio 1851], mia
madre mi instillava gran devozione a questa cara martire, e alla sua protezione
ho pure riposto l’esito del gran passo dell’istituzione delle Missioni della
Consolata».
P. Francesco Pavese
Venezuela: Un paese sotto anestesia
La situazione sociale, economica e politica è precaria, e peggiora rapidamente. Molti fuggono dal paese. I missionari della Consolata, presenti dalla capitale Caracas alle foci del rio Orinoco, hanno scelto di restare accanto alla gente alimentando la speranza e condividendo la vita con i più poveri.
«Volevo offrirvi un caffè, ma oggi non ho niente». Lo sfogo viene da una madre che riceve una visita a casa sua nella regione di Barlovento, stato di Miranda, in Venezuela. La situazione economica, politica e sociale del paese è così complicata che diventa difficile da capire. Con ampi poteri, il governo di Nicolás Maduro, seguendo il suo ispiratore, Hugo Chávez, controlla tutte le istituzioni e impone la sua ideologia. Forse è per questo che ci sono ancora persone che difendono la «Rivoluzione Bolivariana». Tuttavia, crescono le critiche non solo dell’opposizione, ma anche di alcuni settori della sinistra e della popolazione in generale che soffre le dure conseguenze di una disastrosa gestione economica.
«Non c’è prospettiva per il futuro e la cosa più triste è che le persone si abituano a vivere male. Il Venezuela è un paese anestetizzato da una diffusa rassegnazione», dice padre Adan Ramirez, cancelliere della curia a Caracas, analizzando lo stato generale e lo spirito della popolazione.
Ci sono persone che credono nella possibilità concreta di un cambiamento, ma manca un leader per transformare questo desiderio in un progetto politico alternativo.
«Tra aprile e luglio (2017) in particolare, in varie parti del paese si sono svolte proteste di massa a favore e contro il governo. Il diritto di riunione pacifica non è stato garantito. Secondo i dati forniti dalle autorità, nel contesto di queste proteste di massa sono rimaste uccise almeno 120 persone e più di 1.777 sono state ferite, tra manifestanti, membri delle forze di sicurezza e passanti» (dal Rapporto annuale 2017-2018 di Amnesty International). Centinaia le persone arrestate.
La situazione già precaria sta peggiorando rapidamente. Sebbene il paese abbia grandi riserve di petrolio, l’iperinflazione ha spinto l’economia nel caos.
È un Venezuela in fiamme quello di oggi, di contrapposizioni forti e sanguinarie. Per questo si scorge quella rassegnazione che nasce quando, alzando gli occhi al cielo, non si vedono più le stelle.
La corruzione e la mancanza di beni di prima necessità colpiscono la popolazione che già soffre a causa della carenza di energia elettrica, acqua, gas, trasporti, farmaci e servizi pubblici.
Senza nessuna prospettiva di lavoro, milioni di venezuelani emigrano, soprattutto giovani e professionisti. Quasi tutte le famiglie hanno qualcuno all’estero. Molti genitori affidano i bambini ai nonni e se ne vanno fuori dal paese alla ricerca di fortuna.
Secondo il cardinale Baltazar Porras Cardozo, arcivescovo di Mérida e amministratore apostolico di Caracas, il paese non ha la forza di reagire. «I partiti di opposizione sono disabilitati, i loro leader sono incarcerati o costretti a fuggire all’estero. Le istituzioni sono controllate dal governo che domina anche l’economia. La paura è grande, soprattutto tra i giovani che sono disillusi», dice il cardinale, che sottolinea anche le sfide di questa crisi per la Chiesa: «Rilanciare la speranza e la fede del popolo, oltre che curare l’odio, frutto della polarizzazione».
Il Venezuela è il paese con le maggiori riserve di petrolio del mondo, e questo fa dell’oro nero l’unico motore dell’economia, rappresentando oltre il 95% dei proventi delle esportazioni. Nel 2014, un barile di petrolio era scambiato a 115 dollari americani. Oggi è valutato a 70 dollari, dopo essere sceso a 26 nel 2016.
Il governo di Maduro accusa «la borghesia» di creare una struttura economica che non favorisce lo sviluppo. Un altro nemico sempre citato nelle spiegazioni del presidente sono gli Stati Uniti che, secondo lui, interferiscono per destabilizzare il paese.
La Consolata in Venezuela
In Venezuela lavorano 13 missionari della Consolata:
a Barlovento nelle parrocchie di Panaquire, El Clavo e Tapipa;
nell’archidiocesi e nella città di Barquisimeto, con un Centro di animazione missionaria (Cam);
nel vicariato di Tucupita tra gli indigeni Warao a Tucupita e
Nabasanuka;
a Caracas nella la sede della delegazione, nel seminario propedeutico e di filosofia, e nella parrocchia di Carapita in periferia.
Oltre a soddisfare i bisogni materiali, i missionari si preoccupano di mantenere viva la speranza della gente con una presenza di consolazione spirituale.
I padri keniani, Charles Gachara Munyu e Silvano Ngugi Omuono, lavorano in tre parrocchie di Barlovento, nella diocesi di Guarenas, regione a 100 chilometri da Caracas, controllata da gruppi armati che operano impunemente. Per visitare le 36 piccole comunità del territorio, i missionari hanno bisogno di avvisare i capi di questi gruppi per non correre rischi. Anche la strada nazionale che dà accesso a Tapipa, Panaquire e El Clavo è controllata. «Spesso siamo fermati dai “malandros”, (come vengono chiamati i ragazzi) che minacciano e rubano gli oggetti di valore», afferma padre Silvano. Il missionario ha già avuto la pistola puntata alla testa quattro volte. In una di queste era acompagnato dal vescovo. «Ho pensato qualche volta di lasciare il paese, ma non sono venuto qui per la mia sicurezza. Credo che sia stato Dio a mandarmi, e così Egli mi proteggerà. Vedendo la situazione della gente e come apprezzano la nostra presenza, riprendo coraggio per continuare la mia missione».
«Una volta assunta la missione dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito, con un cuore aperto alla gente, imparare dalla realtà per aiutare con quello che abbiamo. La nostra cultura è diversa, ma il contributo che diamo è quello di creare e formare le comunità di base che in Kenya sono forti».
Questa è la richiesta principale degli animatori, come fa notare il catechista di Panaquire, Frank Rondón: «Abbiamo bisogno di formare ministri della Parola e dell’Eucaristia, catechisti e altri leader che possano assumere il lavoro di animazione delle comunità e non dipendere, così, sempre dai padri».
Nella diocesi di Guarenas ci sono cinque parrocchie senza parroco, e i missionari della Consolata che già lavorano in tre parrocchie, stanno studiando la possibilità di assumerne una quarta a Caucagua, a 15 km da Tapipa.
La pastorale afro
A Barlovento la popolazione è afro americana. «Dopo oltre 30 anni di presenza, adesso possiamo concentrarci in modo più mirato sulla pastorale afro. È necessario creare consapevolezza che essere afrodiscendenti ha il suo valore che può essere integrato nell’esperienza della fede cristiana, con un impatto sulla società, la politica, l’educazione e la salute», afferma padre Charles, missionario con un master in Teologia Biblica. «Questo è un processo lento, ma dobbiamo stabilire alleanze con altre organizzazioni per ottenere i diritti. Per molti anni, la Chiesa non ha riconosciuto l’identità afro del popolo sostenendo che erano tutti venezuelani. La nostra presenza è un segno di speranza, ma dobbiamo ancora lavorare sulla resistenza», dice il padre, presente nel paese dal 2002.
I missionari non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo le messe o semplicemente facciamo una visita. Il fatto di andare a vedere la gente è sufficiente per dire che non sono soli. Le persone apprezzano molto l’amicizia», aggiunge padre Charles. Eduin Ruiz, uno dei coordinatori della pastorale afro, spiega che «l’obiettivo è riscattare l’identità e i valori della cultura negata nel corso della storia. Ciò richiede un lavoro di inculturazione del Vangelo». Padre Silvanus offre un piccolo esempio di forte potere simbolico: «La stessa campana suonata nel passato per avvertire della fuga di uno schiavo, oggi serve per invitare gli afro americani a partecipare alle celebrazioni».
La terra è ricca per coltivare il cacao, che sarebbe un potenziale economico per le famiglie, ma, purtroppo, il governo impone dei prezzi molto bassi rendendone impossibile il commercio. «La qualità dell’istruzione si sta deteriorando, molte scuole sono state chiuse e i giovani non ricevono una formazione professionale adeguata», lamenta Eduin Ruiz, che aggiunge: «In molte famiglie i bambini non possono contare sulla presenza del padre e finiscono per strada dove sono vittime di violenza, povertà e delinquenza. La nostra lotta è per la vita, contro la droga, l’alcolismo e l’insicurezza».
Essere segni di Consolazione
In visita al Venezuela, padre Stefano Camerlengo, superiore generale, ha lasciato tre parole di incoraggiamento. «La Consolazione: che non è un’idea, una politica, ma Gesù Cristo il Salvatore; la Comunione: la comunità non è costituita solo dal padre, ma da tutti coloro che vivono e lavorano per i valori comuni; la Liberazione: come insiste il papa Francesco, essere Chiesa in uscita significa che non dobbiamo solo pregare tra noi, ma dobbiamo andare a cercare e includere gli altri nella proclamazione del Vangelo che è gioia e salvezza per tutti».
La gente ricorda con affetto tutti i missionari della Consolata che negli ultimi 30 anni hanno lavorato nella regione. La catechista Alejandrina Pimentel rammenta che «ognuno contribuisce con il suo carisma. Cerchiamo di capire tutti. Vado in chiesa per la mia fede e non per il prete», osserva. Pedro Vamonde vede l’importanza di continuare il lavoro: «La vicinanza ai missionari ci ha aiutato a cambiare. La Chiesa siamo noi e dobbiamo contribuire di più per sostenerla». I missionari della Consolata si sono stabiliti in Venezuela nel 1971 con il padre Giovanni Vespertini, nella diocesi di Trujillo. Con l’arrivo nel 1974 di padre Francesco Babbini e di altri, i missionari hanno esteso la loro presenza nell’arcidiocesi di Caracas. Anche le missionarie della Consolata hanno tre comunità nel paese, a Caracas, a Puerto Ayacucho e Tencua.
Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per l’America
Qualche cifra
Il 20 agosto 2018 è stato introdotto il nuovo «bolivar soberano» (BsS) dal valore di 100mila bolivares (Bs) vecchi.
1 $ = 61 BsS (mercato nero: 90)
Il 1 ottobre è stata lanciata la cryptovaluta «Petro» dal valore di 60 $, ufficialmente acquistabile dal 5 novembre 2018.
Prezzi di alcuni prodotti essenziali
prezzo ufficiale in BsS in nero
1 kg di carne 90 250
12 uova 120 360
1 l di latte 49 120
1 kg pollo 78 180
1 kg di formaggio 80 300
1 l olio da cucina 36 80
1 kg di riso 42 70
1 kg zucchero 32 120
1 kg farina polenta 20 30
1 kg farina bianca 54 150
1 l benzina regolare 0,70 (= 70mila Bs, prima costava 1 Bs)
1 l benzina premium 0,90 (da 6 Bs)
1 l Diesel 0,50 Questi prezzi della benzina sono validi solo per chi ha il «carnet de la patria».
Salario minimo: da settembre 2018: 1.800 BsS (30 $ ca.)
Il mese di novembre si apre con la solennità di «Tutti i Santi» e, quest’anno, si apre subito dopo il Sinodo dei giovani che ha avuto tra le sue parole chiave «santità», non certo politically correct (parlando di giovani). Tra i vari documenti del Sinodo, appare anche questa annotazione: «Convinti che la santità “è il volto più bello della chiesa”, prima di proporla ai giovani, siamo chiamati tutti a viverla da testimoni, divenendo così una comunità “simpatica”. Solo a partire da questa coerenza, diventa importante accompagnare i giovani sulla via della santità. Se sant’Ambrogio affermava che “ogni età è matura per la santità”, senza dubbio lo è anche la giovinezza».
Tutti noi adulti, dunque, siamo invitati a diventare «simpatici», ossia attraenti e capaci di accompagnare i nostri giovani sulle strade della santità. In questo, per noi missionari della Consolata, è stato maestro e testimone esemplare il beato Allamano che, con autorevolezza e sapienza, ha saputo esercitare con i giovani aspiranti missionari una vera «pedagogia della santità»; come appare, ad esempio, nelle poche lettere da lui scritte a fratel Benedetto Falda, missionario poco più che ventenne e appena arrivato in Africa.
Ricordandolo con nostalgia e trepidando un poco per lui, l’Allamano gli scrive: «Ciò che ti raccomando particolarmente è di non mai scoraggiarti dei tuoi difetti, sia di umiltà, di ubbidienza, di carità o d’altro. Non sei ancora santo e di questa roba ne avrai sempre, finché vivrai, frutto in gran parte del tuo carattere vivace. Basta che abbia davanti a Dio il desiderio di emendarti… e poi, allegro come prima!». E ancora: «Comprenderai come il mio cuore paterno abbia esultato nel sapere della tua professione perpetua. Il caro p. Morino me ne scrisse una minuta relazione, riferendomi i punti principali del bel discorso del p. Cagliero. Metti in pratica tale predica e sarai il modello di quanti fratelli verranno dopo di te… Felice te! Sarai capo di una grande schiera di santi fratelli in cielo e dovrai lassù anche ringraziare me, che non ti risparmiai le correzioni».
Questi cenni brevissimi, ma luminosi, ci aiutano a scoprire, una volta di più, la volontà del Signore «che ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (Gaudete et exsultate, 1). Non solo, ma che questa «meta alta» a cui tutti siamo chiamati deve essere proposta ai giovani con l’accompagnamento, l’affetto e la guida sapiente… proprio come il beato Giuseppe Allamano ci ha mostrato e insegnato.
Giacomo Mazzotti
Suore per la Missione
I primi missionari della Consolata intravidero subito che il loro apostolato sarebbe rimasto penalizzato senza l’apporto delle suore. Il contatto con l’ambiente femminile e con i bambini, tutto l’apparato infermieristico e, parzialmente, anche quello scolastico, la cura degli ambienti delle missioni, erano situazioni nelle quali le suore si sarebbero mosse molto meglio.
Padre Filippo Perlo, procuratore del primo gruppo, appena quattro mesi dopo l’arrivo in Kenya, inviò un messaggio allo zio, il canonico Giacomo Camisassa, da trasmettere all’Allamano: «Per ora dica al Sig. Rettore che se vuole mandare 100-200 missionari, non vi è che l’imbarazzo della scelta del posto. Ad ogni passo si presentano splendide popolazioni. Se vi sono pochi preti mandi suore. Convertiremo il Kenya con le suore».
Sia l’Allamano che il Camisassa, conoscendo l’esperienza di altri istituti missionari, erano più che convinti della necessità di personale femminile in missione. Così, ben presto, l’Allamano si accordò con il canonico Giuseppe Ferrero, padre della Piccola Casa della Divina Provvidenza, il Cottolengo, ed ottenne che alcune suore Vincenzine partissero per collaborare con i suoi missionari in Kenya.
Le missionarie Vincenzine del Cottolengo
Le suore del Cottolengo rimasero in Kenya dal 1903 al 1925, e subito pagarono un alto prezzo in vite umane. La loro santa avventura missionaria si aprì con la morte di sr. Editta e di sr. Giordana già nel 1903, e si concluse con la morte di sr. Maria Carola nel 1925, mentre stava rientrando a Torino in nave. Per lei il mare divenne il suo sepolcro.
In occasione della beatificazione del Cottolengo, nel 1917, prima che tutte le missionarie Vincenzine lasciassero il Kenya, l’Allamano espresse pubblicamente la riconoscenza sua e dei missionari scrivendo: «Mirabile fu la fortezza con cui queste cooperatrici dei miei missionari li coadiuvarono nelle difficoltà degli inizi straordinariamente ardui e duri. Alcune di esse ne meritarono già il premio, volate in Cielo; ma altre ne presero il posto; e anche oggidì, in numero di 36, compatte e sempre molto agguerrite contro il clima, istruite da lunga pratica, compiono un’opera apostolica di cui la loro modestia vieta di dire il valore e il merito, precedendo, come anziane, le già numerose missionarie della Consolata, divenute loro compagne di apostolato».
Le missionarie della Consolata
Quando i responsabili del Cottolengo non furono più in grado di rispondere alle esigenze delle missioni che chiedevano suore sempre più numerose, l’Allamano si vide costretto a prendere in esame l’eventualità di iniziare un istituto femminile per conto suo. A spingerlo in questa direzione erano pure le insistenze dei missionari.
Per iniziare l’istituto delle missionarie, l’Allamano seguì il suo metodo di discernimento che usava per ogni attività importante e consisteva in questo trinomio: pregare, consigliarsi e ubbidire.
Certo pregò molto. Non disse mai quanto, ma in occasione della memoria liturgica del beato Cottolengo si lasciò sfuggire questa confidenza con le suore: «Oggi è la festa del beato Cottolengo. Prima d’incominciare il vostro istituto io sono andato a pregare sulla sua tomba. Naturalmente ho dovuto pregare e poi consigliarmi e ciò ho fatto non solo coi galantuomini di questo mondo, ma anche coi Santi. Gli ho detto: “Ho da fare questo istituto o no? Veramente avrei più caro di non farlo; la mia pigrizia vorrebbe quello. Anche voi avreste fatto tanto volentieri il canonico, eppure avete realizzato questo complesso di carità. Dunque, devo farlo o non farlo?“». Poi quasi scherzando: «Quel che mi abbia detto non lo dico a voi. Però, se non si faceva l‘istituto per i missionari, non si faceva per voi sicuro». E le suore capirono.
Si consigliò, come disse, anche con i «galantuomini di questo mondo». Sicuramente con il suo arcivescovo, il card. Richelmy, e con il prefetto di Propaganda Fide, il card. Girolamo Gotti. Tutti lo spingevano per quella direzione, incoraggiandolo ad iniziare presto. Chi, però, diede la spinta decisiva fu il papa san Pio X. L’Allamano stesso raccontò come si svolsero le cose durante un’udienza privata con il papa. Mentre ricordava alle suore la fondazione dei missionari, fece questa precisazione: «Poi, ma molto più tardi, siete venute voi, ma voi siete del papa Pio X. Una volta che gli parlavo di questa nuova fondazione, mi disse: “Bisogna farla”. E avendo io aggiunto che credevo di non avere la vocazione per questo, egli mi rispose: “Se non l’hai te la do io”. Ed ecco le suore».
Su questo particolare l’Allamano ritornò altre volte, perché per lui non era solo un dettaglio insignificante, ma la più esplicita espressione della volontà di Dio. Alle missionarie disse ancora: «L’idea della fondazione venne dal papa Pio X, che è il rappresentante di Gesù Cristo in terra, quindi non c’è stato neppure un momento che questa istituzione non sia stata di Nostro Signore». E in altra occasione: «È il papa Pio X che vi ha volute; è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie». L’obbedienza al papa fu il fondamento della sua serenità di fondatore e di educatore delle missionarie.
C’è una testimonianza che aggiunge un aspetto originale e forse determinante. Secondo quanto scrisse padre Giuseppe Gallea, sembra che sia stato addirittura Pio X a suggerire la vera motivazione della fondazione: «Le opere in missione – avrebbe detto il pontefice all’Allamano -, procederanno meglio se le suore saranno formate con lo stesso spirito che avete dato ai missionari».
Molte suore, poche missionarie
Raccomandando alle loro preghiere il card. G. Gotti morente, l’Allamano così si espresse con le missionarie: «Era un uomo di fede; fu anche lui che mi incoraggiò a fondare le suore; egli stesso mi disse: è volontà di Dio che ci siano le suore. “Ma, risposi io, suore ce ne sono già tante”. E lui: “Molte suore, poche missionarie”».
Ben presto si passò alla realizzazione pratica, dando vita alla prima comunità delle missionarie della Consolata, ufficialmente il 29 gennaio 1910. L’annuncio al pubblico fu senza rumore. Sul periodico «La Consolata» del mese di febbraio 1910, figurano poche righe, che non accennano ad una “fondazione” ma la lasciano supporre: «La Direzione del periodico riceve spesso domande di informazioni da persone che vorrebbero prendere parte come suore nelle missioni della Consolata. Avvertiamo che per questo si rivolgano alla “Direzione Istituto Missionarie”, corso Duca di Genova, 49 – Torino». Tutto qui, secondo lo stile dell’Allamano: operare con ardore, ma senza apparire!
Francesco Pavese
Il valore dell’interculturalità
Crescere vivendo nell’interculturalità
L’interculturalità non è semplicemente un modello nuovo e più efficiente, magari per impostare la nostra attuale internazionalità o almeno mantenerla il più possibile libera da conflitti. Interculturalità, nella spiritualità del nostro Istituto, significa molto di più, cioè è invito a una visione più profonda dell’attuale mondo plurale e in continua evoluzione, e delle persone che lo abitano, indipendentemente da lingua, cultura e religione.
Una visione che è in sintonia con la «contemplazione cristiana a occhi aperti» e che va considerata anche nelle relazioni interpersonali all’interno delle nostre comunità formative.
Voi, cari giovani, siete privilegiati su questo punto, perché le vostre comunità sono di fatto internazionali e, conseguentemente, interculturali. Voi potete formarvi e crescere nell’esperienza vissuta dell’interculturalità.
La vostra generazione, fatta adulta, non potrà non essere interculturale. Nei nostri noviziati e case di formazione i segni dell’interculturalità sono già numerosi ed evidenti. Vi invito a continuare a percorrere il cammino intrapreso dando il meglio di voi. In un mondo caratterizzato dal pluralismo culturale, è compito profetico della Chiesa e nostro, come Istituto, offrire al mondo nuovi modelli esemplari della vita comunitaria.
Ci potrebbe essere il rischio che, impegnandosi ad aderire alle varie culture, gradatamente si sottovaluti o si trascurino l’origine e la tradizione. Ricordiamoci che tutto possiede il suo valore. L’albero si mantiene vivo e produce frutto, se conserva le sue radici vive e sane. I futuri missionari della Consolata saranno necessariamente una famiglia interculturale, ma con tutti i valori e con lo spirito immutato proprio dell’Allamano. Questo ideale è stimolante e merita perseguirlo.
Il beato Allamano
Cari giovani, vi propongo un esercizio interessante, che consiste nel confrontare voi stessi con il fondatore vivo e perenne. Perché sia efficace, questo confronto deve essere realizzato spesso, non una volta sola, e in modo concreto, vitale e adatto al particolare momento che uno sta vivendo.
«Confrontarsi» con il fondatore significa compiere un gesto formativo di prim’ordine, purché sappiate porvi di fronte a lui, così come siete, lasciandovi conoscere e interrogandolo, magari discutendo, per poi rispondergli. Le risposte, però, non ve le dovete dare per conto vostro, con l’ausilio della vostra fantasia. Esse devono essere oggettive, cioè contenere la verità dello spirito del fondatore. Dire: «Oggi, il fondatore mi direbbe o farebbe così…», può essere comodo. Perché sia anche vero, si richiedono genuine disposizioni interiori, che impediscano di «barare».
Oltre alla conoscenza, è indispensabile la «Sapienza», e questa virtù ce la dona lo Spirito. Per cui, prima di confrontarvi con il fondatore, oltre alla coscienza di conoscere lui, la sua storicità, il suo pensiero, dovete «pregare», per avere luce e forza: luce per non sbagliarvi, forza per non voltarvi da un’altra parte e fingere di non aver capito. Il fondatore, anche oggi, non chiede l’impossibile, ma la coerenza, nel clima di fervore che ha sempre proposto ai suoi missionari.
Quando l’Allamano era con noi su questa terra, assicurava personalmente questo confronto con la comunità e con i singoli, mediante la sua opera formativa. Conosceva ognuno personalmente. Ora, continua a garantire questo confronto con l’ispirazione.
Come allora, anche oggi, a quanti sono suoi discepoli, è richiesto di essere attivi, accogliendo il suo insegnamento, seguendo le sue proposte, confrontando con lui la propria vita e la propria attività. Chi non realizza questo contatto esistenziale di conoscenza, sequela e confronto perché è negligente o perché non gli interessa, si pone al di fuori del suo influsso. Lo possiamo paragonare a quanti, durante la sua vita terrena, erano svogliati, distratti o freddi e non lo seguivano. Senza dubbio, nessuno di loro è diventato missionario della Consolata o, se lo è diventato, lo era solo giuridicamente, ma non nell’identità vocazionale.
Perché il contatto con colui che sentite «padre» della vostra vocazione si realizzi pienamente per tutti voi, vi assicuro la mia preghiera presso la Consolata e il fondatore, ai quali chiedo una speciale benedizione sui nostri noviziati e case di formazione, che sono il futuro della nostra famiglia missionaria.
Signore, ti ringraziamo per il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Padre e maestro, ci ha insegnato ad essere missionari in spirito di famiglia e santità di vita. Aiutaci a vivere con fedeltà e ardore la nostra consacrazione missionaria nella condivisione dello stesso carisma, nell’amore fraterno e nello zelo apostolico. Insegnaci ad annunciare a tutti che Tu sei Padre e chiami ogni persona, popolo e cultura a fare parte del tuo progetto universale di salvezza. Amen.
Aquiléo Fiorentini
Padre Aquiléo Fiorentini, brasiliano di nascita, è stato il primo superiore generale non italiano dell’Istituto missioni Consolata. Era pertanto logico che sentisse particolarmente importante il tema dell’interculturalità, verso cui l’Istituto sta camminando a passi veloci. Cogliamo da una sua lettera, del 20 maggio 2010, rivolta ai missionari giovani, una riflessione sul tema dell’interculturalità e della fedeltà al fondatore.