A Cacém (Lisbona), in Portogallo, una comunità di missionari della Consolata, due sacerdoti, un fratello e tre seminaristi, apre le porte a tre giovani profughi africani accogliendoli in casa. Un’esperienza di missione interculturale e interreligiosa, e di famiglia.
È il 26 giugno 2019. Siamo all’aeroporto di Lisbona per dare il benvenuto a Salim e Ismael, 19 e 20 anni, musulmani del Sudan, sbarcati in Italia due mesi fa, e accolti dal Portogallo.
Sguardi indagatori, strette di mano. Chiedo all’interprete di tradurre in arabo queste parole: «È da tempo che vi aspettiamo. Benvenuti. Se vorrete, la nostra comunità sarà la vostra famiglia».
Nella nostra casa, a Cacém, periferia di Lisbona, in questo momento siamo in sette: tre seminaristi tra i ventisette e i trent’anni, uno colombiano, uno keniano, uno tanzaniano, tutti al quarto anno di teologia, poi ci sono fratel Gerardo Secondino, italiano con quindici anni di Mozambico alle spalle, padre Norberto Ribeiro Louro, un portoghese 84enne con una lunga storia missionaria, anche lui in Mozambico, un ospite venticinquenne della Guinea Bissau, studente universitario, e chi scrive.
La nostra casa è un grande spazio che ospita una Caf, «comunità apostolica formativa», cioè un piccolo seminario a dimensione famigliare e missionariamente attivo nel territorio.
Facciamo accoglienza, attività di animazione con gruppi, parrocchie, scout. Nei nostri terreni abbiamo ricavato 80 orti comunitari coltivati da famiglie bisognose della zona. Infine, collaboriamo con altre realtà del sociale.
Quando mi presento a Salim e Ismael, sento che i due giovani ci vengono affidati, e che loro si affidano a noi.
Forse siamo degli incoscienti. Ci stiamo mettendo in un’avventura senza sapere bene dove ci porterà: si troveranno bene questi due giovani con noi? Riusciremo ad accoglierli?
Aprire cuore e casa
L’accoglienza non è un’esperienza nuova per noi, perché fin dall’inizio di questa comunità formativa, nel 2015, la nostra casa è aperta per chi ne avesse bisogno: è stato con noi un giovane senzatetto portoghese con problemi di alcolismo, poi lo studente della Guinea Bissau, da solo in Portogallo, poi altri con altre storie che si sono fermati per tempi più o meno lunghi.
L’idea è che la comunità, già caratterizzata da una grande diversità culturale (come spesso accade nelle case dei Missionari della Consolata), cercando di vivere come una famiglia, si offra temporaneamente come famiglia anche a chi ne ha bisogno per un percorso di recupero, inserimento, autonomia.
La scelta di aprire la casa a Salim e Ismael è, quindi, in linea con l’esperienza di accoglienza già avviata e con lo stile di formazione che vogliamo offrire ai nostri seminaristi: una fraternità autentica e missionaria.
Inoltre, l’apertura ai profughi risponde anche all’appello più volte ripetuto da papa Francesco alle comunità cristiane e religiose perché accolgano nelle loro case i migranti che arrivano.
Salim, Ismael e Bright
L’occasione è venuta quando il Jesuit Refugee Service ci ha cercati per sapere se, come alcuni anni prima si era ipotizzato, la Consolata fosse ancora disponibile a cedere la casa di Cacém per l’accoglienza. Con la nuova comunità arrivata da pochi anni, non potevamo accogliere un grande numero di persone, ma subito abbiamo detto che eravamo aperti a fare qualcosa.
Salim e Ismael, quindi, sono i primi due profughi che accogliamo. Per arrivare da noi hanno fatto un lungo viaggio. Sono passati per il Ciad e la Libia, costretti a lavorare nelle miniere d’oro in condizioni disumane per pagare il debito contratto per il passaggio in macchina ricevuto, hanno attraversato il Mare Mediterraneo su un barcone.
Quando sono partiti dalle loro case, nel Darfur in guerra, avevano 15 anni. Si sono conosciuti in viaggio e sono arrivati a Messina, in Sicilia, cinque anni dopo.
Sedersi a tavola insieme
I primi tempi comunichiamo con Salim e Ismael tramite sguardi, gesti, sorrisi e qualche parola di inglese. Sedersi a tavola con loro due ha qualcosa di misterioso e profondo.
I primi mesi sono caratterizzati dai tentativi di comunicare, dall’attenzione a essere il più possibile accoglienti e a far sentire i nostri ospiti a casa loro, dall’emozione di vivere quella pagina di vangelo che dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35), che molte volte abbiamo ascoltato e che ora si concretizza in questo piccolo e coraggioso passo fatto come comunità. La parola di Dio «che opera in noi» (1Ts 2, 13) ha orientato una scelta, è diventata gesto, incontro, volto, presenza.
Scambi interreligiosi
Sin dai primi giorni, nonostante i limiti della comunicazione, i ragazzi s’inseriscono in modo sorprendente nella comunità. Osservano come funzionano le cose in casa e contribuiscono in modo attivo alla vita comunitaria: rispettano gli orari, lavano i piatti e fanno le pulizie con noi. Mentre noi celebriamo l’eucaristia alla sera, loro preparano la tavola per la cena. Presto si crea come una simbiosi tra noi, anche sul piano religioso: la differenza è vissuta con rispetto, naturalezza e curiosità da entrambe le parti. Non è infrequente che ci chiedano spiegazioni sulla nostra fede. Il fatto di essere musulmani in una comunità di religiosi non crea nessuna perplessità: Salim e Ismael sono genuinamente sostenuti dalla loro spiritualità e per loro, che pregano quattro volte al giorno, non è strano parlare di preghiera e vedere che noi ci riuniamo per le nostre celebrazioni. A nostra volta, noi possiamo vedere da vicino come i musulmani vivono il Ramadan, condividere le loro feste.
Poco prima dello scoppio della pandemia, a inizio 2020, arriva nella nostra casa un altro ospite. Si chiama Bright, ha 28 anni, è nigeriano, pentecostale, fuggito dalle persecuzioni religiose.
Bright ci racconta di aver viaggiato per tre anni. Giunge da noi molto provato da ciò che deve aver sofferto in Libia. Ci racconta che è un saldatore e che dei mesi trascorsi a Bari ricorderà sempre la pasta che mangiava tutti i giorni.
Il suo primo discorso alla comunità riunita è un’ispirata preghiera di ringraziamento a Gesù.
Il Giovedì Santo, nel mezzo del lockdown, quando celebriamo la messa in casa, laviamo i piedi ai tre giovani. Il servizio che la nostra comunità sta facendo è fatto alla scuola di Gesù.
Toccare la carne
L’arrivo di Salim, Ismael e Bright, con tutto quello che porta con sé, conferma ancora una volta la verità di quel testo per noi molte volte ispiratore, che troviamo nella parte finale dell’Evangelii Gaudium, quando papa Francesco parla di un rinnovato impulso missionario: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (EG 270).
Prendersi cura di qualcuno significa diminuire le distanze, accogliere qualcuno in casa vuol dire accettare che diventi parte di noi, lasciare che i suoi problemi diventino anche un po’ i nostri: per questo la vita si complica, ma si complica meravigliosamente, perché da questo incontro ne usciamo tutti più ricchi.
Verso un futuro migliore
Certo che la differenza culturale mette alla prova non poche volte la nostra capacità di ascolto e di dialogo. Non è facile nemmeno capire la sofferenza discreta di chi continua a essere perseguitato dalla preoccupazione per i familiari lontani ancora in pericolo. Accompagniamo con un’apprensione, quasi da genitori, i loro primi colloqui di lavoro.
Sperimentiamo poi anche la gioia del chiarimento e del perdono, della fiducia e dell’amicizia che cresce nelle piccole attenzioni quotidiane. Abbiamo accesso a uno spessore umano che non ci lascerà uguali.
Molte volte papa Francesco ci ha esortati a guardare negli occhi il povero e a toccare la sua mano quando facciamo l’elemosina, indicando così un atteggiamento imprescindibile che deve marcare qualsiasi tipo di solidarietà, perché sia anzitutto attenta alla persona. Abbiamo l’esempio di Gesù, che nei Vangeli molto spesso tocca le persone che hanno bisogno di essere curate, che sempre cerca il contatto.
Ricevendo in casa questi giovani non facciamo l’elemosina: li aiutiamo a realizzare il sogno di un futuro migliore che li ha condotti sino ai margini dell’Europa. Quando li guardo negli occhi vedo futuro: un futuro sognato, che ha radici in un passato di sofferenza, che è stato come una stella che li ha guidati in un viaggio lungo e pieno di pericoli, fino a correre il rischio di morire nelle acque del Mediterraneo.
Come una famiglia
Nell’enciclica Fratelli tutti, il papa ci ricorda che ogni gesto di solidarietà per essere autentico deve nascere dall’amore, chiede il coinvolgimento nella relazione: «L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti» (FT 94).
Durante il lockdown della prima fase della pandemia, quando la nostra comunità sembra l’arca di Noè, ci rendiamo conto chiaramente di cosa sia questa «amicizia sociale» di cui parla il papa.
In casa siamo in tredici: oltre a noi sei missionari, ai tre giovani profughi e allo studente guineano, c’erano anche un uomo, padre di due figli, divorziato e ospitato temporaneamente in attesa di trovare altra sistemazione, e una coppia di pensionati sardi, bloccati in Portogallo per un’emergenza di salute e per la chiusura delle frontiere.
Mentre tutto fuori si ferma, dentro, in comunità, la vita continua: i turni di cucina, le lezioni di informatica e di portoghese per sostituire quelle sospese fuori, i lavori di manutenzione e pulizia della casa e del parco, persino alcuni momenti di preghiera interreligiosa per chiedere la fine della pandemia. Tutti ci sentiamo e siamo utili e responsabili gli uni degli altri. Anche chi è accolto.
Facendo un esercizio del corso di portoghese, Bright, descrivendo ai compagni il luogo dove vive, sintetizza: «In casa viviamo tutti insieme, come una famiglia».
Guardando la nostra tavola durante i pasti e le persone così diverse che, attorno a essa, prendono posto, spesso con il gusto di stare insieme e di raccontarsi, penso più volte che, in quest’angolo di periferia urbana, stiamo celebrando nel nostro piccolo una liturgia dell’accoglienza dal respiro universale.
Un passo per volta
Il progetto promosso dall’Alto commissariato per le migrazioni del governo portoghese prevede una permanenza dei giovani di un anno e mezzo presso di noi. Un tempo utile per conseguire l’autonomia linguistica e finanziaria. Vista però la difficile situazione causata dalla pandemia e visto che le istituzioni non offrono molte possibilità, in comunità decidiamo di nostra iniziativa di tenere con noi i giovani ancora per sei mesi, per aiutarli a consolidare la loro autonomia.
Salim e Ismael non hanno una formazione scolastica perché sono partiti presto dal loro paese, ma sono molto intelligenti. Salim vorrebbe diventare meccanico. Dopo aver preso la terza media, farà un corso di formazione. Intanto ha trovato un lavoro. Ismael ha il sogno di diventare ingegnere. Deve completare gli studi di base. Nel frattempo, ha iniziato a lavorare come muratore in un’impresa di un nostro amico.
In questo processo ci accorgiamo di come sia importante fare il primo passo: molte istituzioni a cui bussiamo sono immediatamente disponibili ad aiutare in diversi modi: i nostri Laici missionari della Consolata, ad esempio, si mobilitano da subito per molte necessità, e uno di loro assume Bright nella sua piccola impresa di montaggio di pannelli solari. Bright sarà con noi ancora fino alla primavera del 2022.
Le avventure della carità e della missione iniziano sempre con un primo passo fatto con coraggio e amore da qualcuno, al quale poi si uniscono altri per continuare il cammino che spesso si apre in modo imprevisto.
Vivere il vangelo
La domenica in cui salutiamo Salim e Ismael, che ora hanno la possibilità di affittare una stanza, a maggio 2021, viviamo un momento molto toccante: durante il pranzo chiedo che sia proclamato il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, quello nel quale Gesù parla del giudizio finale identificandosi con i bisognosi: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare… ero straniero e mi avete accolto…». La lettura è fatta in portoghese e in arabo.
È emozionante ascoltare le parole di Gesù pronunciate in arabo da quei giovani musulmani. Non è difficile per loro riconoscersi nello straniero, solo, con i soli vestiti che ha addosso. E per noi è evidente che quelle parole di Gesù le abbiamo vissute: sentiamo lo stupore per la semplicità del Vangelo e la forza con cui esso trasforma la nostra vita quando proviamo a metterlo in pratica.
In questi due anni, nonostante la religione diversa, accogliendoci gli uni gli altri, abbiamo scritto insieme una pagina di Vangelo e di bene. Il Vangelo è semplice, ed è possibile e bello viverlo, basta aprirgli il cuore e la casa.
Amici, fratelli, figli
Nei loro discorsi di ringraziamento, sinceri e visibilmente commossi, ci dicono di aver ritrovato nella nostra comunità la famiglia che hanno lasciato cinque anni fa, quando sono partiti dal loro paese. Uno di loro cita persino le parole di Gesù, «amatevi gli uni gli altri», affermando di avere vissuto proprio questo. Di essere stato accolto non come un bisognoso, ma come un amico, un fratello, un figlio.
Salim e Ismael, che non conoscevano molto della nostra religione, attraverso la nostra accoglienza, hanno capito chi sono i cristiani.
Non abbiamo accolto i profughi per fare un’attività tra le altre, ma per vivere, noi sacerdoti, insieme al fratello missionario e ai nostri seminaristi in formazione, la vocazione di cristiani e di missionari. L’apertura e l’accoglienza fanno parte dello stile di vita di una comunità missionaria. È un modo di vivere il Vangelo, non tanto preoccupati di testimoniare qualcosa, ma anzitutto desiderosi di vivere autenticamente il nostro essere missionari, di dare senso alla nostra presenza qua dove siamo.
Ermanno Savarino, Comunità apostolica formativa dei Missionari della Consolata a Cacém, Lisbona, Portogallo
*Reu: Regione Europa IMC
Kirghizistan. Dove le montagne toccano il cielo
«Tutto era pronto per partire per il Kirghizistan»: così avevamo informato i lettori di questa rivista, ormai due anni fa, ma solo dopo tanto tempo di attesa, a metà agosto del 2021, finalmente, le Missionarie della Consolata hanno potuto stabilirsi nel paese, dopo aver aperto una prima comunità nel Kazakistan nel 2020.
Già sembrava che questa missione «non s’avesse da fare». Prima c’è stata l’impossibilità a viaggiare per il Covid, poi la difficoltà nell’ottenere i visti.
Io, suor Ivana, ho ricevuto il visto nel dicembre 2020. Appena ricevuto sono dovuta entrare immediatamente nel paese per evitare di perderlo. Le mie sorelle, suor Judith Kikoti (del Kenya) e suor Adanech Mitiku Shawo (etiope), l’hanno ricevuto solo agli inizi di agosto 2021 e finalmente anche loro sono partite.
Sono stati tempi di grande incertezza, ma che sicuramente ci hanno insegnato, ancora una volta, che la Missione è di Dio, che i suoi tempi e cammini sono perfetti, e che la nostra pazienza non è mai troppa.
Ed eccoci allora in Kirghizistan, paese dell’Asia centrale abitato da circa 6,5 milioni di persone, per la maggior parte musulmane. Precisamente siamo a Jalalabad (Žalal-Abad), come l’omonima città pakistana o afghana, zona Sud Occidentale del paese, a poca distanza dal confine con l’Uzbekistan, nella missione dove sono presenti due gesuiti polacchi, che accompagnano i pochi cattolici di questa zona.
L’inserimento in una nuova realtà richiede tempi lunghi per la conoscenza sia della lingua che della cultura e della storia del paese. Quest’ultima è una chiave di lettura importantissima della realtà in cui ci troviamo; perciò, attualmente siamo impegnate su questi fronti, ma anche nella «costruzione» della nostra comunità religiosa. Dopo questa prima fase del «vedere e conoscere», successivamente faremo un discernimento sui cammini da intraprendere, previa una riflessione in dialogo con l’amministratore apostolico, padre Anthony James Corcoran, sj. Il fatto di essere in loco ci offre già la possibilità di testimoniare la nostra fede.
Mettere su casa
Gli inizi, soprattutto se così tanto desiderati e sospirati, sono sempre belli. La gioia di tornare a riunirci come comunità dopo diversi mesi, e di avere finalmente raggiunto la nostra terra promessa, ci ha dato quella giusta carica di entusiasmo per incominciare a entrare in questa nuova e sfidante realtà. È un paese mussulmano, dove l’appartenenza a quella che fu l’Unione Sovietica è un ricordo ormai lontano, soprattutto per il 50% della popolazione che ha meno di 25 anni, e nelle zone nelle quali i cosiddetti «russi» (vengono chiamati così tutti i discendenti di europei presenti nel paese), che fino agli anni ‘90 erano numerosi, sono ormai pochi.
Il Kirghizistan è immerso in una stupenda natura, dove gli incontaminati paesaggi montani, il cielo terso, gli aspri crinali e gli ondulati pascoli estivi popolati da pastori che vivono al riparo delle loro yurte, sono di una bellezza affascinante.
Il «mettere su casa» è stata una bella occasione per una conoscenza sul campo di questa realtà. Siamo le prime suore che abitano in Jalalabad e sicuramente, le prime che si sono avventurate nel bazar (grande mercato popolare) e ai mercati.
Questa città è la terza per grandezza e importanza del paese con i suoi 100mila abitanti. Ma l’aspetto esteriore e la mentalità della sua popolazione è più da villaggio, e il suo bazar è il centro della vita commerciale e anche sociale.
Il nostro modo di vestire e i nostri visi, destano molta curiosità tra le bancarelle: pochi ci identificano come «monache», molti invece ci chiedono chi siamo, da dove veniamo, se abbiamo marito e figli (1), e che cosa facciamo. Certo, ci vedono anzitutto come possibili clienti straniere, per cui le buone maniere sono di obbligo, anche se alcuni ne approfittano per aumentare i prezzi, ma in molti casi abbiamo sentito grande apertura e simpatia nei nostri confronti, e siamo anche state aiutate.
In strada con la gente
Le «matschiutke», i piccoli pulmini da 15 o 18 posti a sedere, che utilizziamo per spostarci nella città, sono per noi, non solo un mezzo di trasporto, ma un osservatorio della realtà in cui siamo inserite. Questi mezzi pubblici sono molto usati, economici, comodi. Anche i bambini delle scuole li usano, in quanto qui, come in tutto il paese, non esiste un trasporto scolastico dedicato. Dallo scarso flusso di auto private, anche nelle ore di punta, capiamo che la macchina è un bene che poche famiglie si possono permettere (2), e al Sud vedere una donna al volante è ancora abbastanza raro.
Ci ha piacevolmente sorprese il constatare come nelle «matschiutke» sia viva la cultura di lasciare il posto alla persona più anziana. È interessante notare come un adolescente seduto lasci il posto anche a un giovane di 30 anni. Questo significa per noi avere sempre un posto assicurato. Inoltre, in questi mezzi di trasporto, come anche nel bazar, non si sentono schiamazzi o persone che parlano forte al telefono, anzi sembra tutto ovattato.
Tre lingue diverse
A differenza del Nord del paese, dove ancora molti parlano russo, qui al Sud è raro sentire parlare questa lingua. Qui predominano il kirghiso e l’uzbeco, anche se i venditori qualche parola la conoscono, fortunatamente per noi, soprattutto se hanno più di 40 anni e hanno vissuto nel tempo dell’Unione Sovietica, quando era obbligatorio parlare in russo, pena il carcere e multe salate. Questo ci ha fatto subito capire che abbiamo una grande sfida davanti a noi: non solo imparare il russo, che è la lingua utilizzata nelle comunità cristiane, ma necessariamente anche il kirghiso e l’uzbeco.
Abbigliamento
Dicevo che il nostro abbigliamento è strano per le persone locali, in quanto quasi tutte le donne, vestono secondo la loro cultura, ossia con vestiti lunghi e con il velo islamico, ad eccezione delle giovani, soprattutto le universitarie, delle donne impiegate in uffici o scuole, e delle poche «russe» che vestono all’europea.
Ci sono tanti modelli di veli: quelli che nascondono solo i capelli e quelli che coprono anche il viso. Il velo è un accessorio che ci aiuta a distinguere, a parte i tratti del viso, se una donna è kirghisa o uzbeca: le donne kirghise, infatti, portano il velo legato alla nuca, ed è sempre molto colorato o bianco (questo colore identifica le novelle spose). Invece quelle uzbeche portano un velo fermato nella parte anteriore della testa che copre tutto il collo ed è di tonalità più scura.
C’è però in questi anni una crescita della tendenza, che alcuni chiamano moda e altri la identificano come un segno di radicalizzazione islamista, per la quale molte giovani donne e bambine indossano il velo con una specie di cuffia sotto, tipo passamontagna che contorna il viso.
Anche gli uomini sono soliti coprire il capo: i Kirghisi usano, specialmente nelle feste o negli incontri importanti, il «Kalpak», un cappello a cono in feltro bianco con i bordi di diversi colori e decorazioni ricamate, che tradizionalmente informa sull’età e la posizione sociale di chi lo indossa. Gli Uzbechi invece indossano quotidianamente il «tubeteica», una specie di zucchetto, generalmente di colore scuro (verdone, grigio, nero o blu), con o senza ornamenti ricamati bianchi o grigi.
Pastori e contadini
Qui al Sud del paese convivono Kirghisi e Uzbechi. Questi ultimi sono quasi un milione, rappresentano il 14% della popolazione di tutto il paese. Hanno lingua, tradizioni e stili di vita molto diversi: i Kirghisi (3) erano, e lo sono ancora attualmente (se non tutti fisicamente, ma almeno nella mentalità, come mi diceva un’amica kirghisa), un popolo nomade, dedicato all’allevamento di cavalli, mucche e pecore, mentre gli uzbechi un popolo più sedentario dedicato tradizionalmente all’agricoltura e al commercio. I due popoli, al tempo dell’Unione Sovietica, vivevano pacificamente dividendo gli spazi di questa regione, i primi sulle montagne e i secondi nelle pianure. Ma con la caduta dell’Urss, avendo stabilito i confini delle nuove repubbliche indipendenti a tavolino e, in molti casi, prendendo le strade esistenti come le linee di frontiera, molti Uzbechi si ritrovarono in territorio kirghiso. Come tutti gli altri abitanti nati in Kirghizistan appartenenti ad altre minoranze etniche, il loro passaporto è kirghiso con la specificazione della nazionalità di origine. Questo significa che: se tuo padre è uzbeco tu sarai sempre uzbeco, se tuo padre era russo, tu sarai per la società sempre russo, e, di conseguenza, questo porta a uno sbarramento nell’accedere agli incarichi pubblici e/o di rilevanza nella società (4). I due popoli, anche se sottostanno alle leggi della stessa nazione, di fatto vivono una vita separata: ci sono negozi, ristoranti, moschee e scuole separate, queste ultime per garantire a ciascuno il diritto all’apprendimento della propria lingua. In questo momento la convivenza è pacifica, ma solo nel 2010 Jalalabad e la vicina città di Ošh (a 100 chilometri di distanza) furono teatro di gravi scontri tra le tue etnie, perché molti Kirghisi sentivano che la loro sovranità era minacciata dagli Uzbechi, che per le loro capacità imprenditoriali, si stavano arricchendo nella loro terra. Il bilancio di quegli scontri fu pesante: secondo fonti non ufficiali, più di 3mila morti, 9 su 10 Uzbechi, case date in fiamme, e tante persone fuggite all’estero.
Un seme piccolo piccolo
Immersa in questa realtà del Sud del paese c’è la nostra Chiesa Cattolica, due piccole comunità parrocchiali formate da «russi» (5), una in Jalalabad, che raccoglie anche i parrocchiani dei villaggi vicini, e una a Ošh, per un totale, almeno nei registri parrocchiali, di cento persone, ma in realtà sono molte meno.
La storia della Chiesa in Kirghizistan è recente, comincia ufficialmente nel 1997, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, per volere di papa Giovanni Paolo II, quando fu affidata ai gesuiti. Lo scopo del loro arrivo era esclusivamente l’accompagnamento spirituale dei fedeli cattolici che si trovavano in queste terre e che, durante gli anni sovietici, erano stati costretti a vivere la loro fede di nascosto per l’ateismo di stato. Negli anni ‘90 i cattolici presenti in queste terre erano molti, ma a causa di una non facile situazione economica, di difficoltà ad accogliere il nuovo stato delle cose, ossia essere comandati da Kirghisi, della paura di possibili vendette da parte di questi ultimi e per le politiche di accoglienza dei paesi di origine, come tanti «russi» di altre religioni, sono andati via. Come dicono con rammarico alcuni dei nostri parrocchiani cinquantenni che hanno vissuto il cambiamento: «Adesso siamo pochi, ma una volta sì che eravamo tanti!». I motivi di chi è rimasto sono essenzialmente tre: o aveva un buon lavoro, o era troppo povero per affrontare la migrazione, o non ha avuto il coraggio di andarsene e ricominciare vita da un’altra parte.
Purtroppo, i nostri giovani, senza prospettiva di lavoro, se possono, lasciano il paese appena maggiorenni. Oggi la nostra Chiesa è un piccolo gregge, visto da Kirghisi e Uzbechi come una religione straniera per i «russi», accompagnato da sette gesuiti, un prete diocesano slovacco Fidei donum, cinque sorelle francescane e noi tre suore Missionarie della Consolata, distribuiti in tre zone del paese.
Le sfide che si presentano davanti a noi, e le domande, sono tante: quale futuro per la Chiesa cattolica in questo paese? Come aiutare il cammino di riconciliazione tra questi popoli? Risposte non ne abbiamo, ma ciò che conta ora è accogliere e amare questa realtà ed essere docili ai cammini che Dio ha preparato per noi qui in Kirghizistan, dove finalmente siamo arrivate.
Ivana Cavallo
Note
1 Per i Kirghisi e gli Uzbechi presenti in questa zona, è assurdo che una donna non abbia marito, tanto è vero che una vedova poco tempo dopo la morte del marito deve risposarsi, perché c’è la credenza che una donna non sposata porti energia negativa alla famiglia.
2 La situazione economica nel paese è molto difficile. Secondo l’ultimo censimento, su sei milioni di abitanti, più di un milione è all’estero per lavorare e inviare soldi alla famiglia. Gli stipendi sono molto bassi, per cui è normale che chi lavora come dipendente, abbia più di un lavoro.
3 Nel 1970 solo il 14% dei Kirghisi viveva nelle città, di fatto i cattolici cinquantenni dicono che quando loro studiavano, poteva esserci uno o al massimo due bambini kirghisi in classe, il resto erano tutti russi. Nel 2009 la percentuale era salita già al 30%.
4 I Kirghisi, per la prima volta nella storia, nel 1990 si organizzano come stato, un processo non facile che si rispecchia anche nella fatica di arrivare alla stabilità politica e allo sviluppo economico, causata soprattutto dalla forte corruzione, dovuta in parte a un mancato senso della concezione della proprietà privata. Infatti, fino a 30 anni fa i Kirghisi hanno sempre vissuto sulle montagne, e chi arrivava per primo occupava i pascoli per il proprio bestiame, e quindi non avevano mai avuto bisogno di organizzarsi come stato. L’educazione scolare e il servizio pubblico sanitario sono una eredità dei tempi dell’Unione Sovietica.
5 Queste terre dell’Asia Centrale ai tempi dell’Unione Sovietica, videro crescere la loro popolazione di russi (qui intesi come quelli provenienti veramente dalla Russia), tedeschi, polacchi, ucraini, ceceni, tatari, curdi, etc., sia perché meta delle deportazioni di massa di molti popoli che vivevano nei territori dell’Urss, considerati pericolosi e sovversivi negli anni della Seconda guerra mondiale, sia perché negli anni successivi c’era una grande offerta di lavoro nelle miniere e nelle fabbriche aperte dal regime in queste terre, senza contare tutti i funzionari che venivano direttamente dalla Russia.
Altrove in ogni dove
testo di Ugo Pozzoli |
Prima puntata di una serie di riflessioni e racconti di esperienze sul campo per inquadrare la missione nel vecchio continente. Dallo spunto del messaggio del papa per la giornata missionaria, mettiamo i primi tasselli.
«Tutto in Cristo ci ricorda che il mondo in cui viviamo e il suo bisogno di redenzione non gli sono estranei e ci chiama anche a sentirci parte attiva di questa missione». Così scrive papa Francesco nel messaggio per la Giornata missionaria mondiale in programma il 24 ottobre.
«Il mondo in cui viviamo» è il contesto nel quale ci troviamo, l’ambiente dove siamo chiamati a vivere la nostra fede come persone e comunità cristiane.
«Nessuno è estraneo – continua Francesco -, nessuno può sentirsi estraneo o lontano a questo amore di compassione», amore che avvicina, tocca, chiama, convoca, sana, perdona, riconcilia… salva.
Tutti chiamati a essere «altrove e in ogni dove», dove l’altrove è uno spazio diverso dal nostro, da quello che occupiamo, dal metro quadrato dei nostri bisogni, delle nostre certezze, del nostro io ingombrante. L’ogni dove è dappertutto, ogni spazio conosciuto e non, al di là di oceani e deserti o anche solo dietro l’angolo, magari dentro di noi.
L’altrove è lontano
Facciamo fatica ad accogliere l’idea che «altrove e in ogni dove» può essere anche qui in Europa. Questo, del resto, è anche abbastanza comprensibile, per esempio, per un Istituto come il nostro, nato in Italia all’inizio del XX secolo (1901), in un tempo di piena espansione missionaria (e coloniale), quando la terra di origine era considerata «solo» una «base logistica» di missioni concepite per altri continenti.
«Siamo per i pagani», recitava il mantra del buon missionario animato dallo spirito di quel tempo. Siamo per i non cristiani, per andare in Kenya, Etiopia, Tanzania, Mozambico; poi in America: Brasile, Argentina, Colombia; infine, in Asia. In Europa si rimaneva per servizi specifici in favore dell’Istituto, e si ritornava, obtorto collo, per dare una mano in quella che prima era chiamata «propaganda» e poi «animazione» missionaria, l’attività che aveva lo scopo di sensibilizzare le nostre Chiese alla missione, raccogliendo fondi e suscitando vocazioni, per continuare il lavoro ad gentes da un’altra parte, qualunque essa fosse.
L’altrove è qui
Oggi non è più così. Stiamo vivendo un tempo che non è soltanto un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca.
È sufficiente guardare le nostre chiese vuote e le strade piene di gente di ogni provenienza per capire che i crocicchi dove il Signore ci invia a chiamare partecipanti al banchetto del Regno (Mt 22, 9) possono essere gli incroci dei quartieri delle nostre città europee. Sentirsi chiamati e inviati ad annunciare il nome di Cristo a chi non lo ha mai sentito pronunciare non implica obbligatoriamente dei grandi spostamenti. Quegli «estremi confini» che rappresentano l’orizzonte del mandato missionario, risultano essere a volte fisicamente vicini. Eppure, non per questo più facili da raggiungere.
La missione è un dono ricevuto che a nostra volta offriamo, è il dono della fede, aperto alla speranza e reso autentico nell’amore. È il frutto di un’esperienza di incontro con il Signore, un incontro talmente profondo e significativo che cambia la vita e stimola alla condivisione, a far parte con altri della ricchezza ricevuta.
Oggi più che mai, anche in Europa, questo dono aspetta di essere scambiato.
Non possiamo tacere
«Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» è il titolo del messaggio che il papa rivolge quest’anno alla cristianità in occasione di questa domenica speciale dedicata alla missione. È una citazione dal libro degli Atti degli Apostoli (At 4,20), il libro della missione tanto caro a Francesco, «Cosa, però, abbiamo visto e ascoltato? O per meglio dire, abbiamo visto e ascoltato qualcosa?».
Vedere e ascoltare sono verbi fondamentali per chiunque voglia imbarcarsi nell’avventura di essere discepolo missionario del Vangelo.
Ma vedere e ascoltare che cosa? Innanzitutto, la realtà. Vivere con attenzione per poter cogliere i segni dei tempi: leggere la vita che scorre nelle vene di questo nostro continente, e non leggerla soltanto attraverso le pagine di un libro.
Il missionario è persona che si cala nel contesto e incontra la cultura del suo tempo nel luogo nel quale essa esiste e si esprime: nelle persone.
La missione nasce da un incontro, si perfeziona nel dialogo e si concretizza in un abbraccio.
Eppure, lo sappiamo bene, si possono vivere un tempo e un luogo senza realmente vederli e sentirli. Anche oggi, anche qui, nel mondo dove, come dice Francesco nel suo messaggio, la pandemia ha evidenziato e amplificato il dolore, la solitudine, la povertà e le ingiustizie di cui tanti già soffrivano, si può vivere senza rendersi conto di ciò che chiama la nostra presenza e, se non ce ne rendiamo conto, neppure ce ne facciamo carico.
La pandemia colpisce in particolare le persone più vulnerabili, che restano indietro e rischiano di diventare invisibili e il cui grido rimane muto.
L’esperienza di vedere e ascoltare l’uomo non può prescindere, per il missionario, dall’esperienza del vedere e ascoltare il Maestro, Gesù. L’incontro con l’uomo è in stretta connessione con ciò che abbiamo visto e ascoltato nell’incontro con Lui, con ciò che abbiamo appreso e che non possiamo tenere per noi stessi. Non possiamo tacere l’amore che ci sospinge. E siamo chiamati a condividerlo lì dove ci troviamo, facendo nostre le ansie, le gioie, le paure, i sogni delle persone che quotidianamente incontriamo.
Sognare l’Europa
Proprio i sogni, ci ricorda ancora papa Francesco, sono importanti, e lui ne ha riservati parecchi anche per l’Europa. Nel messaggio pronunciato il 6 maggio 2016, in occasione del conferimento del premio Carlomagno, il papa si è rivolto alla terra dei suoi avi (l’Europa appunto) confidandole i sogni che nutre per lei. Merita riportarli qui, perché ognuno di essi rappresenta un possibile impegno missionario verso una terra che ha bisogno di sentire nuovamente scorrere nelle sue vene aperte il flusso inarrestabile del Vangelo: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo.
Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».
Sognare missione Europa
Nei prossimi mesi, a partire da questo, MC vi porterà a spasso per il nostro vecchio continente, facendovi percorrere le strade intasate di un quartiere multietnico di una grande città del Nord Italia, partecipare alla vita che si svolge quotidianamente fra i palazzoni della periferia di Lisbona, esplorare le rotte mediterranee della miseria e della speranza che uniscono il Nord Africa con la Spagna. Vi farà incontrare persone, consacrate e non, che vivono la loro missionarietà senza farsi troppi scrupoli sul dove e il perché, ma semplicemente, come dice ancora Francesco nel suo messaggio, «lasciano fiorire il miracolo della gratuità, del dono gratuito in sé» e vivono la loro vocazione come restituzione di quanto hanno ricevuto, confidando che il sogno possa, al risveglio, trasformarsi in realtà.
Ugo Pozzoli
* Regione Europa IMC
Nuova presenza dei Missionari della Consolata in Marocco
Dall’inizio di novembre i Missionari della Consolata hanno cominciato a rendere concreto un progetto da lungo sognato: un presenza in Marocco a servizio dei rifugiati sub sahariani.
Da alcuni anni i missionari della Consolata in Spagna stanno cercando un maggiore coinvolgimento nel lavoro degli immigrati. Soprattutto a Malaga, con la cura pastorale nella chiesa di Cristo Re e con il coinvolgimento sociale nella “Piattaforma di solidarietà con gli immigrati” e in altre forme, hanno iniziato ad aprirsi alla collaborazione con altre forze. Si è tenuto conto della situazione strategica delle città di confine, Ceuta, Melilla, Nador e Tangeri come indicato dalla Conferenza 2018 della Delegazione di Spagna e dal Consiglio Continentale dell’epoca.
La proposta del Vescovo: Oujda
Dopo tre visite da parte di gruppi di missionari della Consolata (missionari e laici insieme), a cui ho partecipato anche io, abbiamo ricevuto la proposta concreta del cardinale Crisbal Lopez, vescovo di Rabat, di assumerci la responsabilità di lavorare con gli immigrati a Oujda (Uchda, in spagnolo), una città marocchina nell’estremo orientale del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria e a circa 60 km a sud del Mediterraneo. Oujda è la capitale della regione orientale vasta circa 1.000 km2, uno dei 12 grandi territori amministrativi marocchini. Si tratta di un punto di passaggio di tante persone provenienti da diversi paesi dell’Africa subsahariana, che qui arrivano con l’intenzione di raggiungere l’Europa dopo aver attraversato il deserto ed essere passati attraverso tante tribolazioni. Qui la lingua ufficiale è l’arabo, ma si parla anche il francese insieme al dariya, una variante dell’arabo.
Secondo il vescovo Christopher, da “Chiesa samaritana” che siamo, la parrocchia ha sentito il dovere di accogliere coloro che hanno bussato alla sua porta chiedendo aiuto. E per più di due anni, il parroco Antoine Exelmans, sacerdote francese “fidei donum” e attuale vicario generale della diocesi, ha organizzato questa attività che cerca, seguendo le linee guida di Papa Francesco, di “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” gli immigrati.
In questa parrocchia di St. Louis, una chiesa del ventesimo secolo, viene offerto un servizio di accoglienza di emergenza tutto l’anno per i migranti in situazioni vulnerabili. Circa 1000 persone passano da qui ogni anno, ma nel 2020 sono già passate più di 2000 persone. Sono praticamente tutti subsahariani: più dell’80% proviene dalla Guinea Conakry, e altri provenienti da Camerun, Sudan, Madagascar, ecc. Molti di quelli accolti qui sono minorenni.
Il Consiglio della regione d’Europa dei Missionari della Consolata mi ha chiesto di coordinare il processo e la possibile presenza a Oujda. Dopo diversi mesi di corrispondenza con il Vescovo di Rabat, il 3 novembre sono arrivato a Rabat, e dopo alcuni giorni di introduzione alla realtà del Marocco e della chiesa qui con l’aiuto dello stesso vescovo, il 12 novembre ho iniziato questa esperienza a Oujda, a 530 km da Rabat, sede dell’arcidiocesi.
Principi di orientamento per la nostra presenza a Oujda
Fraternità
Anche se ero già stato qui in visita l’anno scorso, mi sono reso conto che l’arrivare fin qui è una bella esperienza impegnativa di vita di fede e di fraternità, che richiede di “conoscere la realtà dall’interno, anche con coraggiose opzioni di presenza…”
È una presenza di fraternità che si vive anche nella sua bellezza di realtà ecumenica ecumenico e fortemente interreligiosa con una convivenza pacifica in Marocco, un paese con più del 98% della popolazione che pratica l’Islam. Il re del Marocco Mohamed VI ha sottolineato a Papa Francesco nella sua visita apostolica in Marocco nel marzo dello scorso anno che “le religioni abramiche esistono per essere aperte e conoscersi, in una coraggiosa competizione per fare del bene l’una con l’altra”.
Legami con Malaga
Dopo la presentazione di cui sopra, è chiaro il rapporto che esiste tra la nostra presenza qui con l’Europa, e in particolare con la Spagna, o più in particolare ancora, con la nostra comunità a Malaga. A causa del nostro coinvolgimento in questo fenomeno a Malaga e del processo che culmina nella nostra installazione qui, considero questa presenza come un “allegato” alla comunità di Malaga, missionari e laici insieme.
Itineranza
È la caratteristica inarrestabile del fenomeno dell’immigrazione. Pertanto, nessuno sa quanto durerà la nostra presenza qui. Questa presenza comporta anche un certo “itineranza mentale”, cioè la flessibilità. Si tratta di una missione dinamica, corrispondente alla natura del fenomeno stesso, suscettibile di cambiamenti dovuti a fattori socio-politici, ecc. Inoltre, è essenziale tessere reti collaborative. Con la nostra comunità di Malaga, e con tutta la nostra regione Europa e BMI e l’intera congregazione. Naturalmente, è importante anche l’appoggio e la collaborazione con altri organismi ecclesiali ed extra-ecclesiali.
Evangelizzazione e pastorale
Sappiamo che “la Buona Notizia è l’essenza e il contenuto di tutto ciò che siamo e facciamo come missionari” (PMC n. 86.1). Per parafrasare il vescovo emerito di Rabat, monsignor Vincent Landel, si può dire che “i cristiani sono l’unico Vangelo che leggono molti musulmani”. La Conferenza Episcopale della Regione del Nord Africa (CERNA) nella sua lettera pastorale del 2014 riconosce la presenza della Chiesa in queste terre come “servi della speranza” e quindi ci invita all'”apostolato dell’incontro”, come Maria, in questi “incontri dell’umanità”.
La presenza pastorale qui comprende anche l’accompagnamento alla comunità cristiana di circa 50 parrocchiani, la maggior parte dei quali studenti subsahariani, così come funzionari diplomatici, turisti, ecc. Allo stesso modo, per questo compito, aspetto con ansia l’arrivo di almeno altri due confratelli della Consolata.
Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale dei Poveri 2020, Papa Francesco ci invita a “tendere la mano ai poveri” ricordandoci che “tenere gli occhi sui poveri è difficile, ma molto necessario per dare alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione”. Speriamo di avere la cooperazione di tutti, che la saggezza del Signore ci accompagni, e contiamo sempre sull’intercessione della Madonna del Marocco.
Missione Madagascar: «sembra di essere nell’ottocento»
testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC |
Da circa un anno un gruppo di giovani missionari della Consolata è presente in Madagascar. Le sfide non mancano ma l’entusiasmo è alle stelle. E mentre i «nostri» stanno studiando la lingua e il contesto, arriva il coronavirus. Ma le autorità sembra riescano a circoscriverlo.
È il 29 gennaio 2019. padre Godfrey Msumange, detto Baba Godfrey, sbarca all’aeroporto di Nosy Be, Madagascar. È l’anniversario della fondazione dell’Istituto Missioni Consolata di cui Baba Godfrey è consigliere generale per l’Africa. Oggi non è un giorno come un altro, l’arrivo del sacerdote tanzaniano sancisce l’apertura di una nuova presenza per l’Istituto di Torino fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1901. Si tratta del decimo paese sul continente africano. Padre Godfrey è accolto dal vescovo di Ambanja (si legge Ambanza), monsignor
Rosario Vella, salesiano (oggi trasferito alla diocesi di Moramanga), e da una folta rappresentanza della diocesi.
Siamo sull’isola di Nosy Be, costa Nordorientale del paese. Il tempo è stupendo, il mare bellissimo. Ma le sfide che aspettano i missionari sono enormi. Il gruppo raggiungerà Ambanja al di là dello stretto, con un motoscafo da Hell-Ville (Andoany), capoluogo del distretto di Nosy Be. Qui c’è la sede della vasta diocesi.
Il viaggio di padre Godfrey rappresenta l’apertura ufficiale della missione, ma i missionari che vi lavoreranno devono ancora arrivare, problemi burocratici di permessi e visti li hanno trattenuti a Nairobi (Kenya). Sono i padri Jean Tuluba (Rd Congo), Kizito Mukalazi (Uganda) e Jared Makori (Kenya). Loro sbarcheranno sull’«Isola rossa» il 13 marzo, iniziando, di fatto, la nuova avventura.
Ma come si è arrivati a questo giorno? Facciamo un passo indietro.
Il precursore
Fin dal 1999, padre Noè Cereda, missionario della Consolata innamorato dell’isola, aveva ottenuto dai suoi superiori un permesso speciale, ad personam, per poter lavorare nel paese, pur non essendoci missioni dell’Istituto. Passò alcuni anni proprio a Hell-Ville, poi, dal 2005, si trasferì in capitale, Antananarivo. Padre Cereda ha lavorato con le suore Ancelle (o discepole) del Sacro Cuore, fondate a Lecce e arrivate sull’isola nel 1988. Nel settembre del 2010, padre Stefano Camerlengo, attuale superiore generale e all’epoca vice superiore, fece una visita a padre Noè. Restò molto colpito dalla bellezza dell’isola, ma anche dalle difficili condizioni di vita.
Due anni più tardi, il vescovo italiano di Ambanja, monsignor Vella, scrisse una lettera ufficiale chiedendo ai missionari della Consolata di aprire una missione nella sua diocesi. La risposta tardò, ma la riflessione fu portata avanti. Nel giugno 2016 una nuova visita del consiglio generale, composta dai padri Dietrich Pendawazima, Hieronimus Joya e Marco Marini, accompagnati proprio da padre Noè, sancì infine la decisione. Il vescovo propose tre possibili missioni: Ankaramibe, sulla direttrice stradale verso Sud tra Ambanja e Antsohihy; la seconda nei pressi della stessa città di Antsohihy; la terza più all’interno, a 15 km da Bealanana, una località chiamata Beandrarezona. La decisione cadde proprio su quest’ultima.
La scelta
«Questa scelta, seppure la più complessa, è sicuramente quella più ad gentes rispetto alle altre – ci spiega Baba Godfrey -. Nelle altre due località c’era già la presenza di sacerdoti, mentre a Beandrarezona ci andavano una volta ogni due anni. Inoltre la zona è di difficile accesso, durante la stagione delle piogge la strada diventa un letto di fango. Anche sul versante della promozione umana le esigenze sono moltissime. Dal punto di vista missionario, in questa zona solo tre persone ogni cento sono cristiane».
In Madagascar, a livello nazionale, i cristiani sono circa il 45%, e metà di questi sono cattolici. I restanti praticano religioni tradizionali, che sono molto importanti sull’isola. I musulmani sono invece una minoranza. La popolazione è di circa 24,2 milioni di abitanti su una superficie di 587.041 km2, poco meno del doppio dell’Italia. Nel paese le infrastrutture stradali sono basiche e restano enormi le difficoltà per collegare le diverse regioni.
La popolazione è composta da diciotto etnie, ma la cosa più interessante è la compresenza di gruppi di origine africana (bantu) e di altri di origine asiatica. I primi sono legati ai popoli delle coste del Mozambico e della Tanzania. I secondi, hanno tratti indonesiani e malesi, in particolare la lingua malgascia è simile a quella parlata nel bacino del fiume Barito, nel Kalimantan, il Borneo indonesiano. Vi sono poi influenze arabe, indiane ed europee. Nella diocesi di Ambanja la popolazione maggioritaria è di etnia Sakalava, di origini tipicamente bantu.
Il paese ha indici di sviluppo molto bassi, e permane intorno al 160 su 189 paesi della classifica delle Nazioni Unite sull’indice di sviluppo umano.
Continua Baba Godfrey: «Una delle cose che noti nell’area di Beandrarezona sono i coltivatori di riso. Si è in mezzo alle colline e alle risaie: c’è una grande riserva di acqua in questa zona. Ho visto una natura rigogliosa, cascate, fiumi, tante potenzialità. Pare una terra ancora vergine, soprattutto in queste zone remote. La gente è molto semplice. Sembra di essere nell’Ottocento. Collaborando con le autorità locali potremmo fare grandi cose per questa gente».
Inoltre, una comunità di suore francescane malgasce si è da poco installata a Beandrarezona. «Sono molto contento di questo. Noi uomini andiamo fino a un certo punto, ci vuole sempre la donna».
I primi tre
Padre Jean Tuluba è di Wamba (Rdc), è un giovane missionario che ha già lavorato cinque anni a Roraima, nel Nord del Brasile, tra i popoli indigeni di quella regione. Lo raggiungiamo per telefono, nonostante le difficoltà. È pieno di entusiasmo per questa nuova missione. «Siamo a 1.000 km dalla capitale, a 300 da Ambanja, sede della diocesi, e a 15 km, di strada terribile, da Bealanana, la città più vicina. Abbiamo fondato una nuova parrocchia perché prima il territorio era vastissimo». E l’estensione della parrocchia continua a essere molto grande, anche a causa delle strade, poche e in pessime condizioni. Padre Jean continua: «Le sfide sono tante, e sono simili per tutta la chiesa del Madagascar. Prima di tutto la povertà. Il paese non è povero, ha molte risorse, ma a causa della geopolitica il popolo viene impoverito ogni giorno. Abbiamo constatato, dopo un anno di studio e comprensione della realtà, che la povertà è quasi ovunque. L’attività principale è l’agricoltura e la produzione di riso in particolare. A livello politico la storia del Madagascar è fatta di colpi di stato e sconvolgimenti, ma adesso con il nuovo presidente Andry Rajoelina, che è giovane e capace la situazione sembra stabilizzarsi».
Padre Jean ci racconta come sia difficile lavorare con la gente, molto occupata nei campi. Gran parte delle famiglie non riesce a mandare i figli a scuola a causa del basso reddito e molte persone, se ci sono problemi di salute, devono mettersi in cammino per 15-20 km per raggiungere un dispensario o un ospedale. «Queste preoccupazioni sono impellenti e occorre dare loro qualche risposta. La prima attività evangelica della chiesa in Madagascar è la lotta alla povertà. Materiale oltre che spirituale. E intellettuale, perché molti giovani non studiano».
Ecco che numerose, a livello nazionale, sono le scuole cattoliche di vario ordine e anche i dispensari e i centri di salute. «Per lottare contro queste povertà – continua padre Jean – bisogna istruire la gente, perché fin tanto che il popolo è ignorante qualcuno continuerà a sfruttarlo e a mantenerlo in questa condizione. Se invece è armato della conoscenza sarà più facile che sappia difendersi e rivendicare i propri diritti». Questa è la posizione della chiesa del Madagascar. Quindi occorre investire nella formazione di bambini e giovani, ma anche delle famiglie, per aiutarli a formarsi a una gestione di famiglia e di comunità completa, sotto tutti i punti di vista.
Missione vera
Dopo oltre sei mesi ad Ambanja a studiare la lingua malagasy, i «nostri» tre missionari sono andati a installarsi a Beandrarezuma il 20 ottobre 2019, in occasione della Giornata missionaria mondiale. «La nostra prima attività è fare osservazione e conoscenza del popolo, delle sfide, delle realtà locali, per vedere come posizionarci come missionari della Consolata in mezzo a questa gente», continua padre Jean.
Oltre alle sfide generali che ritroviamo in tutto il paese, qui ne abbiamo altre. Nella diocesi di Ambanja non ci sono molti cristiani. Si stima che solo il 9-11% sono credenti e nella nostra missione ancora meno. L’attività principale è andare al campo e coltivare il riso, ogni giorno. Anche la domenica. Diventa difficile proporre delle attività pastorali. L’unico momento è domenica dopo la celebrazione dell’eucarestia, perché si ha un po’ di gente. Quello che riusciamo a fare lo facciamo subito dopo la messa».
Poi c’è tutta la problematica della logistica che pesa pure sull’attività pastorale.
«Qui non abbiamo una casa, ma siamo ospiti presso una famiglia, siamo tre in una piccola casa. C’è un terreno della diocesi, dove speriamo di costruire.
Le strade, e questo vale per tutto il paese, sono terribili. Mi ricordano le strade del Congo. Durante la stagione delle piogge (che terminano a maggio), sono impraticabili e non danno accesso a nulla. È difficile uscire di casa, perché non c’è posto dove andare, c’è fango ovunque, è difficile andare a piedi, in bici, moto o anche in auto. Noi abbiamo un’auto ma è ferma a Bealanana, nell’altra parrocchia, e dobbiamo fare a piedi i 15 km per arrivarci se dobbiamo viaggiare verso altre città.
Ci sono difficoltà di comunicazione, di movimento. Si passa tra montagne e valli in cui si produce riso: tutto è pieno di fango».
E continua fiducioso: «Poco a poco entriamo nella realtà e vediamo cosa si può fare per il nostro popolo qui.
La nostra sfida principale è dunque l’educazione. A Bendrarezona c’è una scuola costruita dal nostro ex vescovo Rosario Vella, che è gestita dalle suore. Ma i genitori hanno difficoltà a pagare la retta. Devono coltivare, vendere il riso e quindi pagare la scuola dei figli. Molti giovani non possono studiare perché le famiglie non hanno i soldi. Inoltre, terminata la primaria, dalla classe delle medie devono andare altrove, a Bealanana, Antsohihy o Ambanja, lontano dalla famiglia. Qui non ci sono scuole secondarie».
Madagascar e coronavirus
Anche la salute è un grosso problema e una priorità. I dispensari sono lontani dalla gente.
Il coronavirus è arrivato nel paese, ma grazie a diversi fattori e alle politiche intraprese dal presidente Andry Rajoelina, ad oggi, mentre scriviamo, i dati ufficiali parlano di 186 persone positive, di cui più del 50% i guarite (al 13/05/2020). Non c’è stato ancora alcun decesso.
«Il coronavirus è arrivato anche qui. Quando è cominciato in Europa le persone erano un po’ distratte. Il traffico aereo è continuato ed è così che è entrato nel paese il primo caso, verso la metà del mese di marzo. Qualche viaggiatore in arrivo dalla Francia. In quel momento noi tre eravamo a Antananarivo per rinnovare i nostri visti di residenza. Il presidente stesso ha annunciato alla televisione i primi quattro casi. Noi siamo stati allertati e siamo rientrati velocemente alla missione. Tutto era chiuso».
Padre Jean apprezza il modo con cui è stata gestita l’emergenza: «Il presidente stesso era il primo sulla linea del fronte, insieme al governo per sensibilizzare la popolazione sui pericoli del Covid-19, mostrando cosa succede negli altri paesi. È stato costituito un centro operativo di risposta contro il virus. Hanno chiuso tutto il traffico aereo e stradale. Hanno cominciato a seguire i casi. Sono stati molto attivi. E la popolazione ha obbedito. Anche se non è facile. Ogni due giorni il presidente presentava la situazione alla televisione. I casi di contaminazione non si moltiplicano qui in Madagascar. Poi il 20 aprile, il presidente Rajoelina ha presentato un rimedio tradizionale, che ha chiamato Covid-organics che l’Istituto malgascio di ricerca ha studiato sulla base della pianta di artemisia (molto efficace e largamente usata nella cura della malaria, ndr). Hanno trattato due casi di malati e sembra che siano guariti. È un prodotto locale.
Ha dichiarato il deconfinamento parziale, e la ripresa parziale di alcune attività, come le classi finali della scuola, che hanno ripreso mercoledì 22 aprile, rispettando sempre le distanze. A ogni scuola si inviano mascherine prodotte sul posto e anche la medicina locale, Covid-organics distribuita gratuitamente a tutti gli alunni e gli insegnanti. Il Madagascar è sulla strada giusta. Se si riprendono le attività poco a poco, vuol dire che va meglio. Avevamo paura, ora la situazione non sembra grave, ma non abbassiamo la guardia, occorre sempre rispettare le consegne del ministero della Salute.
A livello di chiesa non facciamo attività, anche su indicazioni del cardinale, monsignor Désiré Tsarahazana, presidente della Conferenza episcopale malgascia. Preghiamo a casa, senza messe e raggruppamenti. Ho speranza che il Covid-19 non farà molte vittime qui».
Tante missioni, tante sfide
Chiediamo a Baba Godfrey se, secondo lui, c’è differenza con le sfide in altre missioni di recente apertura, come l’Angola.
«Le sfide si assomigliano. Qui gli esperti dicono che occorre studiare almeno anno la lingua, senza la quale non riesci a parlare e quindi a fare missione. Occorre inoltre lavorare tanto in comunione, come ci insegna il Concilio Vaticano II, che definisce la missione come comunione. Oggi più di ieri ci chiedono di lavorare in stretta comunione con diversi enti sul territorio.
Si tratta di uno dei paesi più poveri del mondo, noi siamo all’inizio e vogliamo fare un progetto con la gente locale».
A proposito, ci racconta padre Jean «la popolazione di Beandrarezona ha iniziato a rimettere a posto la strada di collegamento con Bealanana, che è la più importante per il villaggio. Noi ci siamo dati disponibili e parteciperemo direttamente ai lavori». Anche questa è missione.
E padre Godfrey parla di futuro: «Come prospettiva abbiamo quella di aprire altre missioni nel paese nei prossimi anni, non molte, si parla di due o tre. Piccole comunità, ma grandi segni».
Marco Bello (1-continua)
Madagascar in pillole
Popolazione: 26,26 milioni
Superficie: 587.041 km²
Pil pro capite: 527,50 Usd (2018)
Indice di sviluppo umano (classifica): 0,521 (162 su 189, 2018)
Tasso di fecondità: 4,78
Speranza di vita: 66,3 (2017)
Lingue ufficiali: Malgascio, Francese
Capitale: Antananarivo
Moneta: Ariary
Etnie: 18 etnie principali. Altipiani centrali (origine asiatica): Merina (3 milioni) e Betsileo (2 milioni). Costa (origine bantu), dei quali i maggiori sono: Betsimisaraka (1,6 milioni), Tsimihety (700mila), Sakalava (700mila).
Religioni: circa metà della popolazione malgascia è dedita a culti tradizionali locali, che tendono a essere centrati attorno all’idea del legame con i defunti. Il 45% dei malgasci sono invece cristiani, suddivisi circa in parti uguali fra cattolici e protestanti.
Amazzonie, riflessioni post Sinodo panamazzonico
Testi di: Gaetano Mazzoleni, Paolo Moiola, Jaime C. Patias. A cura di: Paolo Moiola |
Questo sinodo era un’esigenza storica. Non è nato all’improvviso, ma da un lungo percorso della Chiesa e del papato. Un missionario e antropologo con una lunghissima esperienza nell’Amazzonia commenta il documento finale (senza trascurare qualche puntatina polemica verso i critici).
Dopo oltre cent’anni dall’enciclica Lacrimabili statu di san Pio X sulle condizioni disumane dei popoli amazzonici, finalmente è stato realizzato un sinodo sulla Panamazzonia e sui suoi abitanti. Questa affermazione potrebbe meravigliare molti lettori, ma molto di più ha sorpreso qualche manipolo di cattolici – si potrebbe dire – «più papisti del papa», che hanno fatto di tutto per ostacolare e disturbare la realizzazione di questo sinodo speciale. Ma andiamo con ordine.
Diversi gli invasori, identici i risultati
La prima domanda da porsi è: perché un sinodo speciale sull’Amazzonia? La risposta è duplice: la prima legata all’attualità ambientale, la seconda alla preoccupazione della Chiesa per i più deboli.
Nei mesi scorsi i mass media ci hanno inondato di pessime notizie ambientali. Da un lato, la fascia equatoriale del mondo, in cui si trovano realtà come il bacino amazzonico, il bacino del Congo e la zona del Sud Est asiatico, aree che hanno registrato preoccupanti segni di distruzione da parte dell’uomo (con probabili ripercussioni sui cambiamenti climatici globali). Dall’altro, i mesi di giugno e luglio sono stati caratterizzati da notizie allarmanti sulla foresta amazzonica in fiamme.
Le problematiche della regione amazzonica erano già state affrontate dalla Chiesa con la bolla di Benedetto XIV Immensa Pastorum Principis del 20 dicembre 1741, la bolla di Urbano VIII del 22 aprile del 1639 Commissum nobis e, ancora più indietro nel tempo, la bolla Pastorale Officium di papa Paolo III, datata 29 maggio 1537.
La citata enciclica di San Pio X, Lacrimabili statu, datata 7 giugno 1912, aveva come oggetto la tutela dei diritti umani e naturali degli amerindi amazzonici. Ai tempi, queste popolazioni erano oggetto di indicibili soprusi. Era l’epoca dello sfruttamento del caucciù (fine secolo XIX – prima metà del secolo XX), un periodo storico corrispondente all’inizio dell’industria automobilistica nel mondo occidentale. Il ciclo del caucciù si sarebbe concluso con l’arrivo dei derivati del petrolio, dopo la seconda guerra mondiale.
Denunciando quelle situazioni disumane, san Pio X si dimostrò un papa antesignano rispetto alla sensibilità per le condizioni dei popoli indigeni e dell’Amazzonia. Dopo oltre 100 anni da quella denuncia, l’esperienza dimostra che sono cambiati gli invasori, ma i fatti si ripetono: conquista, occupazione, distruzioni, profitto, oro, morti e sempre le stesse persone che perdono.
Questi due elementi – il progressivo degrado della situazione ambientale e la condizione delle popolazioni autoctone amerindie – indicavano alla Chiesa la necessità di fare qualcosa.
Così, quando papa Francesco ha parlato per la prima volta della necessità di un sinodo sull’Amazzonia, la mia prima reazione è stata un’esclamazione di gioia: «Finalmente. Era ora!». Non solamente perché lo consideravo giusto, utile o una novità assoluta, ma per la sua esigenza storica.
Una Chiesa che ascolta
Scorrendo le pagine del Documento finale del Sinodo speciale, uscito a fine ottobre, mi pare esplicito l’invito a riflettere su diverse problematiche: ambientali, ecologiche, antropologiche ed ecclesiali.
La Chiesa «in uscita» si mette in «ascolto» del grido di aiuto dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene che l’abitano per riflettere su come annunziare, vivere, celebrare il messaggio evangelico ed essere Chiesa radunata dall’Eucaristia. Riascoltando le voci dell’Amazzonia, il sinodo speciale invita tutte le persone di buona volontà, nello spirito di Francesco d’Assisi, a prendersi cura della «casa comune», a praticare la solidarietà con i più poveri che devono recuperare la loro dignità di persone, di figli di Dio e la loro identità culturale. «Cristo indica l’Amazzonia»: con questa affermazione di san Paolo VI comincia il primo capitolo (numeri 5 – 19) del Documento finale. È un grido che viene da lontano: dalla Lacrimabili statu di san Pio X, attraversa tutto l’arco temporale e di pensiero del Concilio Vaticano II e arriva fino ai nostri giorni.
Per la Chiesa latinoamericana il percorso verso l’Amazzonia e i suoi abitanti si è snodato attraverso gli incontri della Conferenza episcopale latinoamericana (Celam): Medellìn (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992), Aparecida (2007), ma anche e forse soprattutto i molteplici incontri promossi dal «Dipartimento di Missioni» (Demis) dello stesso Celam con la guida del papa.
Dalla connessione all’alleanza
«Connessione» è un’ulteriore prospettiva essenziale del Documento finale perché presenta la stretta unione tra il grido della terra e quello dei poveri con la denuncia della distruzione del creato, dello sterminio del mondo naturale, della minaccia alla vita umana di coloro che abitano quei territori, ma anche con l’annuncio e la testimonianza della buona notizia di Gesù.
La connessione si fa alleanza quando si parla di Chiesa e popoli indigeni: Chiesa alleata del mondo amazzonico. Cristo, indicandoci l’Amazzonia, ci segnala le grandi sfide globali, la crisi socio-ambientale, il dramma delle migrazioni forzate e la convivenza tra culture e religioni differenti. L’ascolto dell’Amazzonia è un invito per la Chiesa alla conversione integrale perché ne riconosce il suo messaggio di vita: la voce e il canto dell’Amazzonia che diventa nello stesso tempo un grido di tutto il territorio e dei suoi abitanti. Dall’ascolto sorge la proposta di nuovi cammini di conversione pastorale, culturale, ecologica e sinodale.
Il percorso di una conversione pastorale (20 – 40) riguarda tutti i battezzati chiamati a costruire una Chiesa samaritana, misericordiosa e solidale. Una Chiesa missionaria impegnata nel dialogo ecumenico, interreligioso e culturale con volto e cuore indigeno o contadino (caboclo, ribereño, colono, afrodiscendente, …), migrante e giovane. Alla Chiesa della Panamazzonia è chiesto di diventare essa stessa missionaria. L’ascolto della Panamazzonia si trasforma – inoltre – in una conversione culturale (41 – 64).
Alleandosi con i popoli amazzonici la Chiesa si sente in dovere di rispettare e far rispettare i loro valori, le loro culture e il loro stile di vita come risultato di una forza vitale di adattamento storico. La Chiesa difende i diritti dei popoli amazzonici e denuncia tutti gli attacchi contro la vita delle loro comunità, il loro ambiente, con molteplici forme di sfruttamento.
Questa presa di posizione implica un’apertura sincera all’altro visto come fratello da cui si può imparare – ce lo dimostra la millenaria esperienza di adattamento dei popoli amerindi – e non come mezzo di cui servirsi a nostro beneficio. Per la Chiesa la difesa della «vita» e dei diritti dei popoli amerindi è un principio evangelico. L’alleanza tra popoli indigeni e Chiesa si realizza nell’ottica della fraternità, si manifesta in una sempre maggiore inculturazione della fede nella vita dei popoli amazzonici. In un’atmosfera di fraternità la Chiesa deve svolgere la missione di evangelizzare, il che non ha nulla a che vedere con il proselitismo, rifiutando al tempo stesso ogni forma di «evangelizzazione di stile coloniale».
I nuovi cammini di conversione ecologica (65 – 85) indicano che lo sfruttamento illimitato della «casa comune e dei suoi abitanti» deve essere fermato. Un’ecologia integrale non è un cammino tra i tanti che la Chiesa può scegliere per il suo futuro e quello di questo territorio, ma è l’unica via possibile e urgente; non esiste altro percorso praticabile per salvare la regione e i popoli indigeni. I cambiamenti nel sistema economico mondiale e la solidarietà globale sono urgenti e necessari.
Anche se la Chiesa non ha il potere di cambiare immediatamente e ovunque i modelli di sviluppo distruttivi e predatori, essa segnala e mostra da che lato sta. Il fondamento è la dottrina sociale della Chiesa, che implica espressamente l’ecologia. Deve impegnarsi per uno sviluppo equo, solidale e sostenibile con una denuncia coraggiosa dello scempio prodotto dall’estrattivismo.
L’introduzione del «peccato ecologico»
Nel porre in rilievo nuovi cammini di sviluppo «amichevoli» verso la casa comune, la Chiesa fa un’opzione chiara per la difesa della vita, della terra (territorio) e delle culture originarie amazzoniche (78).
In tale luce si comprende il «peccato ecologico» (82): ogni azione o omissione contro Dio, il prossimo, la comunità e l’ambiente. Tra le proposte concrete, spicca quella di un fondo mondiale per coprire parte dei bilanci delle comunità amazzoniche e la creazione di un osservatorio socio-ambientale pastorale che lavori in alleanza con i vari attori ecclesiali nel Continente – a partire dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – e con i rappresentanti delle etnie native.
Nell’orizzonte di comunione e partecipazione si devono cercare nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministerialità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico (86-119). La Chiesa ha bisogno di nuove esperienze sinodali, di un nuovo cammino fatto insieme, di una cultura del dialogo e dell’ascolto per rispondere alle sfide pastorali. In particolare, nel documento si sottolinea a questo riguardo la corresponsabilità dei laici.
Il volto femminile
Un’intera sezione del Documento è poi dedicata alla «presenza e all’ora della donna», al volto femminile della Chiesa amazzonica. Il ruolo straordinario dell’evangelizzazione al femminile viene riconosciuto con forza chiedendo la possibilità che anche le donne possano accedere ai ministeri di lettorato, accolitato e di dirigente di comunità.
Il testo del Documento finale è il risultato dello «scambio aperto, libero e rispettoso» svoltosi nelle tre settimane di lavori del Sinodo, per raccontare le sfide e le potenzialità dell’Amazzonia, «cuore biologico» del mondo, un cuore esteso su 9 paesi e abitato da oltre 33 milioni di persone, di cui circa 2,5 milioni di indigeni. Questa regione, seconda area più vulnerabile al mondo (dopo l’Artico) a causa dell’uomo, si trova «in una corsa sfrenata verso la morte» e ciò esige urgentemente una nuova direzione che consenta di salvarla, pena un impatto catastrofico su tutto il pianeta.
Amazzonia, «locus theologicus»
Questo, per sommi capi, il contenuto del documento finale di un sinodo benedetto, anche se arrivato molto tardi.
Penso di poterlo affermare sulla base dei miei 45 anni trascorsi nella regione amazzonica. Una regione dove, durante la stagione delle piogge (invierno), i fiumi si gonfiano, straripano e mandano a farsi benedire tutti i confini stabiliti «politicamente». Durante questa stagione i confini cambiano. È la legge della Panamazzonia, diversa dalla legge degli stati.
Come è diversa quella che dice: «I fiumi uniscono, non dividono». Diretta conseguenza di un altro principio: «Chi proibisce agli uccelli dell’altra sponda di venire a questa e viceversa? O chi impedisce ai pesci di questo lato del fiume di passare liberamente e tranquillamente all’altro?». Questa è saggezza e filosofia panamazzonica o, se si preferisce, «pensiero mistico religioso» di quell’area.
Qualcuno si è scandalizzato per espressioni come «buon vivere» o, ancora di più, «Pacha Mama» (madre terra). Eppure, un noto salmo biblico recita: «Venite ammirate le opere del Signore: ha fatto cose stupende sulla terra» (come, per esempio, il bacino e la selva amazzonica). In effetti, ci vuole così poco per riconoscere la foresta panamazzonica come un «locus theologicus»: basta viverci dentro.
Gaetano Mazzoleni
Il documento finale del sinodo, una lettura laica:
L’Amazzonia, cuore biologico del mondo
Come l’Instrumentum laboris, anche il documento finale del Sinodo panamazzonico ha tra i propri meriti la chiarezza delle posizioni. Almeno quando parla della situazione politica, ambientale e antropologica.
La situazione dell’Amazzonia, cuore biologico della Terra, è drammatica. Sono necessari – ricorda nei passaggi iniziali il documento finale del Sinodo – dei cambi radicali e urgenti nonché una nuova direzione che permetta di salvarla (2 – questi numeri si riferiscono al documento finale).
Nella regione amazzonica coesiste una realtà plurietnica e multiculturale, dato che, oltre ai popoli originari, esistono popolazioni meticce nate dall’incontro tra popoli diversi (8). I popoli indigeni hanno come orizzonte il «buon vivere», che significa vivere in armonia non soltanto con se stessi e con gli altri esseri umani, ma anche con la natura e con l’essere supremo (9).
Questa realtà plurietnica, pluriculturale e plurireligiosa richiede un’apertura al dialogo, riconoscendo la molteplicità degli interlocutori: oltre ai popoli indigeni, quelli rivieraschi, i contadini, gli afrodiscendenti, le organizzazioni della società civile, i movimenti sociali popolari, lo stato (23). Senza dimenticare le altre chiese cristiane e denominazioni religiose, anche se le relazioni tra cattolici e pentecostali, carismatici ed evangelici non sono facili (24). Va poi precisato che, in Amazzonia, il dialogo interreligioso si rivolge specialmente alle religioni indigene e ai culti afro. Queste tradizioni meritano di essere conosciute, comprese nelle loro espressioni e nelle loro relazioni con la foresta e la madre terra (25).
Nella foresta non soltanto la vegetazione è in connessione, ma anche i popoli sono collegati in una rete di alleanze che porta vantaggi per tutti. Grazie a questo sistema di interrelazioni e interdipendenze il pur fragile equilibrio dell’Amazzonia si è preservato nel tempo (43).
La visione indigena e quella occidentale
Il pensiero dei popoli indigeni offre una visione integrale della realtà, una visione capace di comprendere le molteplici connessioni esistenti tra tutti gli elementi del creato. Questo contrasta con la corrente dominante del pensiero occidentale che, per comprendere la realtà, tende a frammentarla, senza riuscire ad articolare una visione complessiva e unitaria. Oltre a ciò, nei popoli indigeni s’incontrano anche altri valori come la reciprocità, la solidarietà, il senso di comunità, l’eguaglianza (44).
L’avidità per la terra è alla radice dei conflitti che portano all’etnocidio, così come all’assassinio e alla criminalizzazione dei movimenti sociali e dei suoi dirigenti. La demarcazione e la protezione delle terre indigene è un obbligo degli stati nazionali e dei loro rispettivi governi. Senza dubbio, buona parte dei territori indigeni sono sprovvisti di protezione e quelli già demarcati (per esempio, la terra degli Yanomami) sono invasi a causa dell’estrattivismo minerario e forestale, dei grandi progetti infrastrutturali, delle coltivazioni illecite (in primis, la coca) e dei latifondi che promuovono le monocolture e l’allevamento estensivo (45).
Come spiega molto bene la Laudato si’, l’«ecologia integrale» ha il suo fondamento nel fatto che tutto è in connessione. Questo significa che ecologia e giustizia sociale sono intrinsecamente unite (66). Una delle cause principali della distruzione dell’Amazzonia è il cosiddetto «estrattivismo predatorio» che risponde alla logica dell’avarizia, propria del paradigma tecnocratico dominante (67).
La visione indigena e quella occidentale
Risulta scandaloso che si criminalizzino i leader indigeni e le comunità per il solo fatto di reclamare i propri diritti. In questi ultimi anni, la regione amazzonica ha visto un continuo incre-
mento dello sfruttamento delle risorse naturali (legname, petrolio, oro e molto altro) e lo sviluppo di megaprogetti infrastrutturali (dighe, centrali elettriche, strade). Tutto questo si è tradotto in pressioni dirette sui territori ancestrali senza la possibilità per gli indigeni di ottenere giustizia (69).
È evidente che l’intervento dell’uomo ha perso il suo carattere «amichevole», per assumere un’attitudine vorace e predatoria che tende a sfruttare le risorse naturali disponibili fino al loro esaurimento (71). Molte attività estrattive, come le miniere su grande scala (quelle illegali in particolare, si pensi all’estrazione dell’oro), riducono in maniera sostanziale il valore della vita in Amazzonia. In effetti, si appropriano della vita dei popoli e dei beni comuni della terra, concentrando potere economico e politico nelle mani di pochi. A peggiorare le cose, molti di questi progetti distruttivi si realizzano nel nome del progresso e sono appoggiati o permessi dai governi locali, nazionali e stranieri (72).
Il futuro dell’Amazzonia è riposto nelle mani di tutti noi. Esso dipende principalmente dall’abbandono immediato del modello di sviluppo attuale che distrugge la foresta, non porta benessere e pone in pericolo l’immenso tesoro naturale amazzonico e i suoi guardiani (73).
La Chiesa riconosce la conoscenza tradizionale dei popoli indigeni rispetto alla biodiversità, una conoscenza viva e sempre in marcia. Il furto di essa è chiamata biopirateria, una forma di violenza contro queste popolazioni (76).
Nel nuovo modello sostenibile e inclusivo diventa una necessità urgente lo sviluppo di politiche energetiche che riducano drasticamente l’emissione di biossido di carbonio (CO2) e degli altri gas legati al cambiamento climatico. Inoltre, va assicurato l’accesso all’acqua potabile, che è un diritto umano fondamentale (77).
La difesa della vita dell’Amazzonia e dei suoi popoli necessita di una profonda conversione personale, sociale e strutturale (81). Occorre adottare comportamenti responsabili che rispettino e valorizzino i popoli dell’Amazzonia, le loro tradizioni e conoscenze, proteggendo la loro terra e cambiando i nostri modi di vivere. Dobbiamo ridurre il consumo eccessivo e la produzione di rifiuti solidi, stimolando il riuso e il riciclaggio. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e dall’uso delle plastiche. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini alimentari, visto l’eccessivo consumo di carne e pesce. Dobbiamo attivarci nella semina di alberi. Dobbiamo cercare alternative sostenibili nell’agricoltura, nel campo energetico e nella mobilità. Dobbiamo promuovere a tutti i livelli l’educazione all’ecologia integrale (84).
Valorizzare la donna e le lingue autoctone
La saggezza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile. Sia nel mondo indigeno che in quello occidentale la donna è la persona che lavora in una molteplicità di campi (101). Eppure, nella vita quotidiana le donne sono vittime di violenza fisica, morale e religiosa. La Chiesa si schiera in difesa dei loro diritti e le riconosce come protagoniste e guardiane della creazione e della casa comune (102).
Avviandosi alla conclusione, il Documento finale ricorda che la Chiesa cattolica deve dare una risposta alla richiesta delle comunità amazzoniche di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione, le tradizioni, i simboli e i riti originari nelle loro dimensioni trascendenti, comunitarie ed ecologiche (116). E tutto va fatto usando le lingue proprie dei popoli che abitano l’Amazzonia (118).
Paolo Moiola
Scheda
Contro il sinodo e contro papa Francesco: Tribalista ed ecologista
Il Sinodo panamazzonico ha avuto molti avversari interni alla Chiesa cattolica. Per capirne di più, abbiamo dato un’occhiata ai loro siti.
Povero padre Corrado Dalmonego, non solo hanno messo il suo essere missionario tra virgolette («questo “missionario”»), ma ne hanno anche travisato il cognome (Dalmolego), segno – lo diciamo per inciso – non di sbadataggine ma di sciatteria. L’ambito è il sito dell’agenzia Corrispondenza Romana e la firma è quella di Cristina Siccardi, saggista torinese molto critica verso il pontificato di papa Francesco. È la stessa persona che sul medesimo sito, il 6 novembre, scriveva scandalizzata: «Il papa in persona, il 4 ottobre scorso, alla vigilia del Sinodo, ha partecipato ad una cerimonia nei giardini del Vaticano, insieme a vescovi e cardinali, guidata in parte da sciamani, dove sono stati usati degli oggetti che nulla hanno a che vedere con il Cattolicesimo, in particolare la donna nuda e incinta, la Pachamama. Papa Francesco ha anche riverito due vescovi che portavano in processione la Pachamama sulle loro spalle nella Sala del Sinodo, per essere poi collocata in un luogo d’onore. E statue di figure femminili nude in legno sono state venerate nella Basilica Vaticana, di fronte alla Tomba di San Pietro!».
Sarebbe interessante sapere il parere di Cristina Siccardi sul nudo nell’arte sacra o, senza andare lontani, sui corpi nudi della Cappella Sistina.
Corrispondenza Romana è il sito – uno di quelli ascrivibili al fondamentalismo cattolico anti papa Francesco (vedereriquadro) – che ha esultato per il gesto, definito «coraggioso», del giovane austriaco che «il 21 ottobre ha rimosso dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina (una delle sedi esterne del Sinodo, ndr) e ha gettato nel Tevere le statuette di Pachamama, la divinità pagana rappresentante la “Madre Terra” amerindia».
Il Sinodo è una minaccia
L’offensiva contro il malcapitato padre Corrado – missionario in Amazzonia (Catrimani, Roraima, Brasile), giovane ma preparatissimo, tanto da essere chiamato come uditore al Sinodo – era iniziata già a giugno 2019 con un attacco firmato dal cileno José Antonio Ureta sempre su Corrispondenza Romana.
Ureta così descrive gli Yanomami tra i quali padre Dalmonego opera: «Gli Yanomami sono un gruppo etnico composto da 20 a 30 mila indigeni che vivono nella foresta tropicale in modo molto primitivo […]. I loro vestiti sono molto sommari e li usano a malapena come ornamento ai polsi, alle caviglie e come cintura attorno alla vita. Gli uomini della tribù generalmente hanno varie mogli, comprese adolescenti appena entrate nella pubertà. Gli uomini sono soliti consumare la pianta “epená” o virola, che contiene una sostanza allucinogena». José Antonio Ureta è membro di «Tradizione, famiglia e proprietà», un movimento nato in Brasile che lotta contro «la grave minaccia che il Sinodo sull’Amazzonia rappresenta per la civiltà occidentale» e contro «un’ecologia falsa, i cui promotori cercano di controllare la società con il pretesto di salvare l’ambiente». Lo stesso Ureta e la citata Cristina Siccardi sono tra i cento firmatari della protesta (Contra Recentia Sacrilegia) per – si legge testualmente (9 novembre) – «gli atti sacrileghi e superstiziosi commessi da Papa Francesco, il Successore di Pietro, durante il recente Sinodo sull’Amazzonia tenutosi a Roma». Le accuse dei firmatari verso il pontefice partono tutte dal suo atteggiamento definito sacrilego verso la «dea pagana Pachamama». Nell’elenco si trova anche Roberto De Mattei, storico, presidente della «Fondazione Lepanto», direttore della rivista Radici Cristiane e di Corrispondenza Romana, nonché discepolo di Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore del movimento «Tradizione, Famiglia e Proprietà». È sul sito da lui stesso diretto che de Mattei ha attaccato il nuovo «Patto delle Catacombe», firmato il 20 ottobre nelle catacombe di Domitilla in una celebrazione presieduta dal cardinale Hummes. Il professore ha usato parole sarcastiche per descrivere l’evento, definendolo «il patto socio-cosmico dell’era di Greta Thunberg» (Corrispondenza Romana, 22 ottobre). Molti dei firmatari del documento Contra Recentia Sacrilegia sono statunitensi come statunitense è il sito National Catholic Register. È il sito che ha attaccato (Edward Pentin il 17 ottobre) duramente anche la Repam (presieduta dal cardinal Hummes) e il Cimi (guidato da dom Roque Paloschi), la prima molto impegnata nell’organizzazione del Sinodo, il secondo da anni in prima linea nell’impagabile difesa dei popoli indigeni e dell’Amazzonia.
I tre vaticanisti
L’offensiva anti Sinodo e anti papa Bergoglio è proseguita sulle pagine web di alcuni vaticanisti. «Il sinodo dell’Amazzonia è passato agli archivi, ma lo “scandalo” che ne ha accompagnato il cammino è lontano dall’essere sanato», scrive Sandro Magister nel suo blog Settimo Cielo il 13 novembre. Poi parla di idolatria a causa di quella «statuetta lignea di una donna nuda e gravida». Infine, boccia il Sinodo per «l’irrilevanza, se non l’assenza, dell’annuncio cristiano e l’enfasi scriteriata data invece alla cultura e alla religiosità pagane, senza esercitare su di queste il necessario giudizio». Secondo l’autore, oggi il «populismo» di papa Francesco è focalizzato sulle tribù amazzoniche e sull’«esaltazione del “buen vivir”» (30 novembre).
In un suo precedente scritto (30 ottobre), Magister aveva individuato il vero punto nevralgico – a suo dire – del Sinodo amazzonico: «È di dominio pubblico che questo sinodo è stato ideato e organizzato precisamente con questo obiettivo primario: “aprire” all’ordinazione di “viri probati” in Amazzonia per poi estendere la novità a tutta la Chiesa».
Anche Aldo Maria Valli, vaticanista della Rai, si concentra (con una certa dose di sarcasmo verso alcuni suoi critici) sulla questione dell’ordinazione di uomini sposati (viri probati). «In seguito al molto discusso Sinodo amazzonico – scrive il 16 novembre – si sta facendo più vicina l’ipotesi non di permettere a tutti i preti di sposarsi, bensì di ordinare, in certe aree, uomini sposati, anzi anziani sposati (poveri anziani!). Ma sappiamo come vanno queste cose. E dovrebbero saperlo anche i maestrini che pretendono di darmi lezioni. Dopo che è stato aperto un pertugio, da esso può passare di tutto. Nel caso specifico, si tratta di un pertugio amazzonico, che sembra lontano da noi, ma non lo è. Serviva un pretesto, e di solito il pretesto arriva da un caso limite».
Per parte sua, Marco Tosatti, un altro vaticanista (dai toni ancora più ruvidi e perentori), la butta tutta in politica: nella lotta tra la sinistra perdente (quella del Pd, di Repubblica, di Zuppi, «cardinale in quota Pd», Tosatti dixit) e la destra vincente (quella di Salvini, Meloni, ma anche – sostiene il vaticanista – di Casa Pound, il movimento neofascista), papa Bergoglio è schierato inopinabilmente con la prima. Però, ha perso, pure sul Sinodo, anche se questo si è svolto – scrive Tosatti – «in una situazione di manipolazione altissima» (29 ottobre), su alcuni temi come i viri probati e il diaconato femminile. Ma – avverte – occorre stare vigili perché il papa è il «detentore del mazzo», un pontefice che «si scaglia contro i cattolici che non sentono e pensano esattamente come lui», un papa con una «memoria selettiva» (16 novembre) perché esprime timori per un ritorno in auge di idee naziste, ma non dice nulla della Cina, del Nicaragua e del Venezuela.
Insomma, per costoro è tutto chiaro: papa Francesco non solo è un vero cattocomunista, ma ha riportato in vita la teologia della liberazione. Magari – come ha suggerito Julio Loredo, presidente per l’Italia di Tradizione, Famiglia e Proprietà (il Giornale, 20 novembre) – nelle sue forme aggiornate: la teologia indigena e la teologia ecologica. Loredo è la stessa persona che, a febbraio 2019, con chiaro intento spregiativo aveva definito la Chiesa «tribalista ed ecologista».
Quelli sopra elencati sono gli indirizzi dei principali siti contrari (o fortemente contrari) al Sinodo panamazzonico e a papa Francesco. Gli ultimi tre appartengono ad altrettanti vaticanisti: Aldo Maria Valli, Marco Tosatti e Sandro Magister. Va detto che nomi e contenuti all’interno di questi siti si ripetono spesso perché alcune persone sono presenti in vari ambiti (Roberto de Mattei su tutti) e perché la citazione reciproca è molto praticata. È giusto ed opportuno che i lettori li conoscano anche per comprendere meglio l’entità della battaglia interna che il papa argentino si trova a dover affrontare.
Pa.Mo.
Il documento finale del sinodo: una lettura missionaria
Il grido della Terra: dopo l’ascolto, l’azione
Il Sinodo è stato un successo, ma adesso viene il difficile: passare dall’ascolto all’azione. E questa dovrà sfidare «altari» e «troni». La Chiesa sarà sempre missionaria, ma in modo diverso. La «conversione» passa anche attraverso un nuovo tipo di presenza sul territorio amazzonico e al fianco dei popoli che lo abitano.
Il Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre è stato una benedizione per la Chiesa e per l’umanità. Allo stesso tempo, ha posto sul tavolo le principali sfide per la missione in un mondo globalizzato e minacciato. L’intero processo di preparazione e realizzazione di questo evento ecclesiale convocato da papa Francesco ha rafforzato la convinzione che territorialità e popoli determinano una missione che deve includere l’ecologia. Questa prospettiva aveva già acquisito slancio durante la visita del papa a Puerto Maldonado in Perù (gennaio 2018), un gesto che aveva sottolineato l’importanza di ascoltare gli indigeni e gli altri popoli.
La sfida ad «altari» e «troni»
Questo processo di ascolto del «grido dei poveri e del grido della terra» sfida «altari» e «troni» nella ricerca di nuovi modi di essere Chiesa. Il rinnovamento desiderato comporta necessariamente la conversione.
Durante l’assemblea sinodale, svoltasi dal 6 al 27 ottobre a Roma, la riflessione ha avuto come temi: la conversione pastorale, la partenza missionaria, la conversione culturale, il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la conversione sinodale, i nuovi ministeri, la teologia, catechesi e formazione inculturata, il riti amazzonici, la Chiesa povera, con e per i poveri. Temi che rappresentano una sfida alla missione della Chiesa e, quindi, si scontrano con «altari» al proprio interno (come raccontato a pag. 41 di questo dossier, ndr).
D’altra parte, temi come conversione integrale, conversione ecologica, modelli di sviluppo sostenibile, cura della casa comune, promozione ecologica integrale, grido dei poveri e grido della terra, interdipendenza tra tutti gli esseri, ecc., sfidano i «troni» del sistema capitalista attuale che è neoliberista e predatore.
È bene sottolineare che tutte queste domande sono interconnesse da una «spiritualità dell’ascolto» e dall’annuncio della buona novella con uno «spirito profetico».
Nel pontificato di Francesco, le basi per questo cambiamento sono state poste nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013)* e nell’enciclica Laudato si’ (2015). Allo stesso modo, il documento finale del sinodo (che dovrebbe orientare l’esortazione post sinodale) indica un passaggio dall’ascolto alla conversione integrale ponendo l’Amazzonia come «luogo teologico» simbolico per l’intera Chiesa universale.
I nuovi percorsi della Chiesa
Una lettura missionaria del documento finale aiuta a mettere in luce che il tema della missione è ben articolato in cinque percorsi (e altrettanti capitoli) di «conversione»: integrale, pastorale, culturale, ecologica e sinodale.
Quando, a inizio del capitolo 2 del documento, si legge: «Una chiesa missionaria in uscita richiede da noi una conversione pastorale» (20), scorgiamo la sintonia tra il sinodo e la teologia della missione del Concilio Vaticano II e delle conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam). Infatti, al numero 21 si legge: «La Chiesa, per sua natura, è missionaria e ha la sua origine nell’“amore fontale di Dio” (AG 2). Il dinamismo missionario che scaturisce dall’amore di Dio si irradia, si espande, trabocca e si diffonde in tutto l’universo. “Siamo inseriti dal battesimo nella dinamica dell’amore attraverso l’incontro con Gesù, che dà un nuovo orizzonte alla vita” (DAp 12). Questo straripamento spinge la Chiesa alla conversione pastorale e ci trasforma in comunità viventi, lavorando in gruppi e reti al servizio dell’evangelizzazione. La missione così intesa non è opzionale, un’attività della Chiesa tra le altre, ma la sua stessa natura: la Chiesa è missione! “L’azione missionaria è il paradigma dell’intera opera della Chiesa”(EG 15)» (Doc. finale 21).
Ciò che colpisce è la convinzione che la missione appartiene a tutti, la Chiesa è missione, e quindi «ogni cristiano è una missione» di Dio nel mondo. Con ciò, la missione cessa di essere qualcosa di esterno come «ornamento» e diventa qualcosa di essenziale: «La vita è missione» (EG 273) e questo pone la Chiesa sulla soglia per entrare «nel cuore di tutti i popoli» (Doc. finale 18).
Una revisione dello stile missionario
Proponendo la conversione nei modi più diversi, il sinodo ribadisce che la «gioia del Vangelo» prima di essere diretta verso gli altri è diretta alla Chiesa stessa e ai suoi missionari. La conversione integrale si manifesta principalmente attraverso la conversione pastorale (missionaria) e sinodale. Per i missionari questa conversione richiede una seria revisione dello stile di missione che presuppone una presenza incarnata nella realtà e nella vita dei popoli. «La nostra conversione pastorale sarà samaritana, in dialogo, accompagnando le persone con volti concreti di indigeni, contadini, discendenti africani (quilombolas), migranti, giovani e abitanti delle città. Tutto ciò comporterà una spiritualità di ascolto e annuncio» (Doc. finale 20).
La conversione pastorale implica anche una prospettiva missionaria di itineranza, vicinanza e una presenza più efficace con i popoli, superando le visite sporadiche (desobrigas) e creando relazioni permanenti nella missione. Il sinodo sottolinea l’importanza di gruppi itineranti composti da diversi carismi, istituzioni e congregazioni, religiose e religiosi, laici e sacerdoti che lavorano formando una rete viaggiante (Doc. finale 39 e 40). Non bisogna più camminare da soli. La missione si svolge in una rete e in comunione ecclesiale. Il desiderio è che la Chiesa assuma in Amazzonia la sinodalità missionaria (Doc. finale 86-88).
Davanti alla realtà amazzonica
Questo sinodo è stata una cosa unica. Le numerose attività (incontri, dibattiti, celebrazioni, mostre) della «Tenda amazzonica: la casa comune» (con sede principale nella chiesa della Traspontina in via della Conciliazione, a Roma) durante l’assemblea sinodale hanno portato a Roma rappresentanti dei popoli del territorio panamazzonico per «ascoltare insieme» con Francesco, i padri e le madri sinodali. Francesco ha invitato la periferia a sedersi nel centro del cristianesimo, la «foresta amazzonica» è stata piantata nella «foresta di pietre» e la «città eterna» è stata ossigenata.
Nella missione, i protagonisti sono la realtà e i suoi popoli che, oltre ad essere valorizzati, devono anche assumersi la loro responsabilità. «Questo sinodo vuole essere un forte appello per tutti i battezzati in Amazzonia ad essere discepoli missionari. (…) Pertanto, crediamo che sia necessario generare un maggiore impulso missionario tra le vocazioni native; l’Amazzonia deve essere evangelizzata anche dai suoi abitanti» (Doc. finale 26). In questo senso, la proposta di nuovi «ministeri per uomini e donne in modo equo» (95) e l’«elaborazione di un rito amazzonico» (119) sono encomiabili.
L’ambiente e il «peccato ecologico»
Un altro momento saliente di questo sinodo è stato quello di affermare che l’ecologia integrale e la cura della casa comune sono parti costitutive della missione della Chiesa. Pertanto, l’azione evangelizzatrice con i suoi progetti e missionari non può dimenticare la cura della vita del pianeta. In questo senso, la definizione di «peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente» (Doc. finale 82) rappresenta un aggiornamento importante dell’insegnamento della Chiesa per la pratica della fede cristiana.
Decolonizzare la missione
Il sinodo per l’Amazzonia segue la linea della Conferenza di Medellin che, nel 1968, ha dato una contestualizzazione al Concilio Vaticano II in America Latina. Esso ha avuto anche il contributo di altri continenti. Questo cambio di prospettiva è importante per la «decolonizzazione» della missione e l’allontanamento dal pensiero eurocentrico. È bene ricordare che papa Francesco è un figlio del Concilio e del Sud, un fattore rilevante per «decolonizzare» la missione. L’Amazzonia ci sfida a passare dalla visione della missione come «espansione» alla missione come «incontro» senza proselitismo. «Siamo tutti invitati ad avvicinarci alle popolazioni amazzoniche su una base di uguaglianza, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del ben vivere. […] Rifiutiamo un’evangelizzazione in stile coloniale. Proclamare la buona novella di Gesù implica riconoscere i semi della Parola già presenti nelle culture» (Doc. finale 55).
Nonostante resistenze e incomprensioni, questo sinodo è un kairos, un momento tempestivo di grazia e speranza. Molto al di là del ricco documento prodotto, stiamo affrontando un processo che dovrebbe condurre a nuovi percorsi per una Chiesa divenuta molto più consapevole che, senza una conversione integrale e sinodale, non ci saranno cambiamenti reali nel suo modo di essere e di vivere la missione.
Jaime C. Patias
Dal 16 novembre 1965 al 20 ottobre 2019
Il «Patto delle catacombe» rivive e si rinnova
Nelle catacombe di Domitilla è stato firmato un nuovo patto. Per la casa comune. Per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana.
Il Concilio Vaticano II aveva ispirato, durante il suo svolgimento, un gruppo di vescovi guidati da mons. Helder Camara (1909-1999) a costruire una Chiesa servitrice e povera. Questa utopia prese forma il 16 novembre 1965, nelle Catacombe di Santa Domitilla a Roma, dove pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, quarantaquattro padri conciliari celebrarono un’eucaristia e, con un gesto profetico, firmarono l’«Alleanza della Chiesa dei poveri e dei servi», meglio noto come il «Patto delle catacombe». Molti altri vescovi si unirono successivamente al Patto. I firmatari del documento si impegnarono a vivere in condizione di povertà, a rinunciare a tutti i simboli o privilegi di potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.
Questa alleanza è stata considerata il seme della Chiesa di Francesco, che tre giorni dopo essere stato eletto successore di San Pietro, disse ai giornalisti: «Come vorrei una chiesa povera per i poveri!». Bergoglio conosceva bene la «barca» che stava cominciando a guidare. Ed è stata la sua sensibilità per «il grido dei poveri e il grido della terra» che lo ha portato a convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia, alimentato dall’enciclica Laudato si’ (2015) e dalla riaffermazione di una Chiesa che «non può dimenticare i poveri e la cura della Creato». Il pontificato di Francesco è diventato un forte richiamo alla conversione della Chiesa e dei poteri politici ed economici. È ovvio che ciò disturba coloro che, nella Chiesa, ignorano i poveri e non vogliono né perdere i loro privilegi, né mettere in discussione i potenti del mondo globalizzato che obbediscono solo ai desideri del profitto.
Una nuova alleanza per la casa comune
Sebbene non facesse parte della programmazione ufficiale del sinodo, il 20 ottobre 2019, giornata missionaria mondiale, potrebbe anch’essa divenire una data storica, perché nella stessa sede del Patto del 1965, è stato firmato un nuovo Patto, questa volta per la casa comune: una chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana. La proposta era stata costruita nei mesi precedenti il sinodo e aveva preso forma nelle prime due settimane della sua realizzazione a Roma.
Prima dell’alba di domenica 20 ottobre, cinque pullman parcheggiati in Via dei Cavalleggeri, vicino alla sala del sinodo, aspettavano un variegato gruppo composto da vescovi sinodali, esperti, leader pastorali, indigeni e religiosi e altre persone coinvolte nelle attività della tenda «Amazzonia, casa comune». La destinazione del gruppo erano le catacombe di Santa Domitilla nel moderno quartiere Ardeatino di Roma.
Con 17 chilometri di gallerie, quattro piani e oltre 150mila tombe, queste catacombe sono tra le più grandi di Roma. Vi furono sepolti numerosi martiri del primo cristianesimo, tra cui la stessa Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano che donò la terra ai cristiani, e Nereo e Aquilleo che diedero il nome alla basilica semi sotterranea costruita alla fine del IV secolo su richiesta di papa Damaso I.
Mentre il gruppo scendeva le scale verso la basilica, il silenzio e la commozione hanno preso il sopravvento. La canzone «Alla luce dei martiri della fede», del noto cantautore Antonio Cardoso, annunciava il significato di quella visita. «Torniamo qui – dice il testo – tutte le volte che è necessario. Dopo il Concilio ci siamo incontrati per camminare con i poveri e Gesù. Torniamo qui per riscattarci in Amazzonia. Cerchiamo tutte le alleanze in queste tombe alla luce dei martiri della fede». E, usando la tintura rossa estratta dal seme dell’urucum (annatto) dell’Amazzonia, tutti hanno lasciato le loro impronte digitali su un panno morbido, simbolo della memoria del Gesù martire e di coloro che, per fede in lui, hanno versato il loro sangue.
Tra martiri e profeti
Padre Oscar Beozzo ha ricordato la storia del Patto del 1965, sottolineando che allora le guide del gruppo erano l’arcivescovo Helder Camara, l’arcivescovo Leonidas Proaño, vescovo degli indigeni in Ecuador, e l’arcivescovo Enrique Angelelli, che in seguito sarà assassinato dalla dittatura militare argentina.
L’eucaristia è stata presieduta dal cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), che era accompagnato dal cardinale Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo in Perù, vicepresidente della stessa organizzazione.
Il ricordo del Patto del 1965 era rinnovato dalla stola di dom Helder usata a messa dal cardinale Hummes, che, emozionato, alla fine l’ha consegnata a dom Erwin, uno dei grandi profeti viventi dell’Amazzonia. Era presente anche una tunica di dom Helder, indossata da dom Adriano Ciocca, vescovo di São Felix do Araguaia, dove vive dom Pedro Casaldáliga, uno di coloro che hanno realizzato il patto all’estremo. Il calice e la patena usati nella messa appartenevano a padre Ezequiel Ramin, un missionario comboniano italiano, martirizzato nel 1985 a Cacoal, Rondônia, Brasile, per volere dei proprietari terrieri della regione.
Nella casa comune tutto è connesso
A differenza del primo, questo Patto per la casa comune è stata firmato da tutti i presenti (oltre 200 persone, tra cui 80 padri sinodali e due membri di altre chiese delegate fraterne nel Sinodo) con rilievo per la partecipazione degli indigeni e delle donne. Si tratta di un documento aperto che può ancora essere firmato in occasione di riunioni o attività in difesa della casa comune in tutto il mondo.
Chi firma i suoi 15 impegni rinnova l’opzione preferenziale per i poveri e si prende cura della casa comune con un’ecologia integrale in cui tutto è interconnesso (la sostenibilità della foresta, dei fiumi e del bioma amazzonico); valorizza e difende la diversità culturale, le tradizioni spirituali e lo stile di vita dei popoli amazzonici; desidera camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane e religioni; valorizza le comunità e riconosce i ministeri; segue uno stile di vita sobrio, semplice e solidale; vuole ridurre la produzione di rifiuti e l’uso di materie plastiche, e favorire la produzione e la commercializzazione di prodotti agroecologici; difende i perseguitati e la vita dove essa è minacciata.
Saper ascoltare le voci scomode
Di fronte alle sfide ecologiche, sociali ed ecclesiali, questo nuovo Patto è una risposta alle preoccupazioni di papa Francesco che, anche alla messa di chiusura del Sinodo (il 27 ottobre), ha nuovamente ricordato: «Quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non vengono ascoltate e talvolta sono derise o messe a tacere perché scomode. Chiediamo la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa». E come afferma il Patto: «Con loro abbiamo sperimentato il potere del Vangelo che opera nei piccoli».
Jaime C. Patias
Hanno firmato questo dossier:
Gaetano Mazzoleni. Missionario della Consolata, dopo gli studi di teologia, si è specializzato in antropologia culturale presso la Catholic University of America di Washington. Ha vissuto in Colombia dal 1965 al 2010 con un intervallo di un anno in Venezuela. Durante la sua lunga esperienza si è sempre occupato di popoli indigeni, prima come missionario, poi come missionario e antropologo.
Jaime C. Patias. Missionario della Consolata, giornalista, attualmente è membro della Direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata con responsabilità sulla regione americana.
A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
Zambujal: C’era una volta il campo degli ulivi
Zambujal, il «campo degli ulivi», non è più campagna ma un’anonima periferia urbana abitata da immigrati, rom e famiglie scappate dalle ex colonie portoghesi. Qui sono presenti i missionari e le missionarie della Consolata.
A Zambujal, un bairro dentro l’area metropolitana della città di Lisbona, circa 15mila persone vivono per la gran parte in casermoni di quattro o cinque piani tutti uguali con finestre piccole e strette. Gran parte delle finestre dei primi piani è chiusa da pesanti grate. Le inferriate sono presenti anche all’interno dei palazzi nei quali quasi tutte le porte degli appartamenti sono protette da cancelli con catene e lucchetti. Le ampie strade lastricate, molte chiuse al traffico, che separano i caseggiati sono vuote.
Il nome Zambujal viene da una parola araba che significa campo di olivi, ma qui è difficile trovare qualcosa che richiami il verde o l’aria accogliente di un uliveto. Si incontra solo qualche fila di alberi appena piantati che lottano per sopravvivere.
Vivere insieme alla gente che si serve
Tre missionari della Consolata, padre José Matías, padre Albino Brás, entrambi portoghesi, e il diacono Geoffrey Menya, kenyano, risiedono e lavorano nel quartiere. I tre non vivono in una casa religiosa o in una canonica, ma hanno affittato un appartamento al terzo piano di uno di quei tanti anonimi palazzoni di cemento. «Abbiamo fatto la scelta di vivere non solo in mezzo alla gente, ma anche come la gente», dice padre Matías (che non si fa chiamare José per non essere confuso con i tanti altri che portano il suo stesso nome). «In questo modo stiamo mettendo in pratica la missione ad gentes che abbiamo scelto quando siamo diventati missionari».
Padre Matías è stato uno dei primi a venire a Zambujal, già nel 2003, quando dalla casa dei missionari a Cacem, a una decina di minuti di macchina da qui, ha cominciato a visitare le famiglie del quartiere e celebrare la messa dove poteva al piano terra di qualcuno dei grandi edifici residenziali dell’area. «Ma il fatto che non vivessimo qui, rendeva difficile avere contatti profondi e duraturi con la gente», ricorda padre Matías.
Quando lui è stato trasferito in Spagna, i suoi confratelli hanno continuato a collaborare con la parrocchia di Zambujal, fino al 2012, anno in cui hanno deciso di prendere una residenza permanente nel quartiere per iniziare una presenza regolare in collaborazione con le suore della Consolata. Padre Albino Brás, con un confratello e un seminarista del Kenya, ha così iniziato la nuova avventura.
Padre Matías, lasciata la Spagna, è tornato in Portogallo all’inizio del 2016. «Il lavoro qui è molto impegnativo. I bisogni umani e spirituali della gente sono tantissimi», sottolinea il missionario che un tempo è stato in Mozambico, «e, anche se qualche volta è davvero dura, non c’è alternativa alla scelta di vivere insieme alla gente che si serve».
È quello che pensano anche le missionarie della Consolata, suor Severa Riva e Ivaní de Morais che hanno preso un appartamento non molto distante da quello dei missionari condividendo lo stesso spirito.
Il multiculturalismo di Zambujal
Nonostante il loro impegno, i missionari riescono ad avere contatti regolari solo con una piccola parte della popolazione di Zambujal. È una realtà molto difficile, resa ancora più complicata dalle divisioni etniche del quartiere. Gli abitanti sono, infatti, divisi in tre grandi gruppi, con innumerevoli sottogruppi. Ci sono i portoghesi nativi del posto, poi gli immigrati che parlano portoghese e provengono dalle ex colonie (soprattutto da Capo Verde) e infine i Rom. Ognuno dei gruppi tende a non mescolarsi con gli altri e fare vita a sé. Normalmente la convivenza, pur difficile, è pacifica, ma ogni tanto si carica di tensione e violenza. I pesanti cancelli davanti alle porte di ingresso degli appartamenti, ne sono un segno.
Virtualmente tutti gli appartamenti di Zambujal ricadono sotto la categoria del social housing (come le nostre case popolari, ndr). Infatti furono costruiti dal governo negli anni ’60 e ’70 per accogliere i molti portoghesi che scappavano dalle ex colonie man mano che queste recuperavano l’indipendenza, non senza guerre e violenze, abbandonando i loro possedimenti oltremare. Il processo di decolonizzazione dei territori oltremare – da Capo Verde all’Angola al Mozambico in Africa, da Timor Est a Goa a Macao in Asia – causò un grande afflusso nel paese di ex coloni portoghesi e di immigranti di ogni gruppo etnico.
Quello portoghese è stato il più longevo tra gli imperi coloniali europei e uno dei più estesi, cominciato con la conquista di Ceuta in Marocco nel 1415, e continuato con la conquista e colonizzazione di parte dell’Africa, del Brasile e dell’Asia. Il processo di decolonizzazione, partito dal 1822, con la perdita del Brasile, proseguito negli anni ’60 e ’70 del Novecento con l’indipendenza delle colonie africane, si è concluso all’inizio del nuovo millennio, con il trasferimento di Macao alla Cina nel 1999 e la concessione della sovranità a Timor Est nel 2002. Più di cinquanta stati possono oggi rintracciare le loro origini nell’impero portoghese.
Per molti portoghesi che sono stati obbligati a lasciare le antiche colonie, il Portogallo era in realtà una terra straniera. La gran parte di loro, come i loro padri e i loro nonni, erano nati e cresciuti nei territori d’oltremare. Pur parlando portoghese erano degli stranieri e per molti di loro l’integrazione nella società nazionale è stata molto difficile. Al numero di questi forestieri si è poi aggiunta la grande quantità di migranti provenienti da quelle stesse ex colonie. I due gruppi vengono spesso uniti sotto l’unica definizione di Palops (gente proveniente da Países Africanos de Língua Oficial Portuguesa): proprio per loro il governo ha costruito quartieri come Zambujal.
Le iniziative di aggregazione
Scendiamo con i padri Albino e Matías le sei rampe di scale che portano dal loro piccolo appartamento al marciapiede sulla strada principale del quartiere. Giriamo a sinistra e, dopo pochi passi, attraversiamo un’ampia porta di ferro e vetri. Entriamo nel Centro de Consolação e Vida. Da qui partono tutte le attività dei missionari. Una vivacissima ed energica suor Ivaní ci fa da guida.
Oltrepassato l’ampio corridoio che fa da ingresso, nel quale si apre una stanzetta che serve da ufficio di accoglienza e sala d’attesa, entriamo nel laboratorio di taglio e cucito. Un gruppo di donne intente ai loro lavori ci accoglie: c’è chi taglia la stoffa, chi cuce, chi ricama, il tutto sotto lo sguardo attento di Elisa Cruz, una laica missionaria della Consolata. Stanno confezionando borse di vario tipo, tutte fatte a mano, dall’A alla Z. Ne esaminiamo alcune, la qualità è eccellente. La suora apre allora un grande armadio e abbiamo modo di apprezzare la bellezza e il disegno originalissimo dei tessuti creati e lavorati da quelle donne. Elisa ci spiega che tutta la loro produzione è su commissione e, quindi, tutto è già venduto ancor prima di essere fatto. Pagate le spese, il guadagno va tutto a sostenere il centro e le sue attività.
Dietro il laboratorio ci sono due piccole aule che servono per corsi di alfabetizzazione e scuola serale per gli adulti. Una piccola cappella con una porta che dà direttamente sulla strada è il cuore del Centro di Consolazione e Vita. Lì ci si ritrova per la messa e per la preghiera personale o a piccoli gruppi. Naturalmente non manca l’angolo cucina, necessario per quando si organizzano piccole feste, anche se la maggior parte del cibo viene portata già pronta da casa.
Il Caza (Centro artístico do Zambujal) è il punto d’orgoglio e di gioia di tutti coloro che sono coinvolti nel centro. Quando i locali non sono usati per la scuola o per il laboratorio, si trasformano in un vivaio di creatività: musica, arte, cinema, danza, yoga e tante altre attività.
Alla base di tutto c’è, sempre presente, l’obiettivo dello sviluppo umano e spirituale delle persone, gli interventi sociali, l’opera di dialogo e incontro tra i vari gruppi, l’attenzione all’ambiente, la catechesi e preparazione ai sacramenti, l’evangelizzazione. «Le vie del Signore sono infinite», dice sorridendo padre Albino. «Abbiamo fatto molti progressi con i diversi gruppi che vivono in zona, soprattutto con i Capoverdiani. Rimane però il grande problema dei Rom, che tendono a isolarsi e non interagiscono molto con gli altri. A volte arrivano al punto di escludere dalla loro comunità chi tra loro frequenta il centro. Ma noi continuiamo con i tentativi di coinvolgerli».
Usciamo dal Caza e ci dirigiamo alla palestra, un’altra delle iniziative di aggregazione dei missionari. Ci accoglie Luis, un giovane capoverdiano, che si presta subito a farci da guida. È una palestra perfettamente funzionante come potreste trovare ovunque. I macchinari non sono proprio all’ultimo grido, ma funziona tutto perfettamente. Tutti gli attrezzi sono stati regalati da altre palestre quando hanno rinnovato il loro equipaggiamento. Attraverso quest’attività i missionari raggiungono tre obiettivi: offrono un servizio molto pratico soprattutto ai giovani, creano un centro di aggregazione e di incontro dove persone di diverse provenienze possono interagire tra loro e allo stesso tempo incontrare i missionari, e, attraverso la quota di iscrizione (degli oltre duecento membri) si autofinanziano e pagano il personale addetto.
Il bel colore dell’olivo
Tornando verso l’appartamento dei missionari, c’imbattiamo in un gruppo che esce da un caffè che fa anche da drogheria, dove puoi comprare di tutto a tutte le ore. Alcuni di quegli uomini riconoscono padre Matías e il diacono Geoffrey. Non possiamo non fermarci. C’è una gran voglia di chiacchierare. Un anziano ci fa vedere un sacchetto pieno di caracóis (lumache) che ha appena raccolto in un prato, con la moglie ci farà una bella zuppa. Dal bar una voce di donna ci chiama. Dobbiamo proprio entrare. La signora Clara, nativa dell’arcipelago Madeira, ci accoglie con un grande sorriso e grande cordialità, sprizzando giovialità da tutti i pori. Ci offre un espresso, a spese della casa. Vicino a noi un uomo beve un bicchiere di vino, aperitivo prima della cena.
Il quartiere può sembrare squallido e triste, ma per un momento la gente di Zambujal dimentica i suoi problemi. Il cemento non sembra più così impenetrabile e i piccoli alberi che fiancheggiano la strada potrebbero anche crescere grandi e forti e riprendersi un po’ il bel colore dell’olivo.
Domenic Cusmano*
* Testo tradotto e adattato da Gigi Anataloni dalla rivista «Consolata Missionaries» (n. 1, 2017), pubblicata in inglese e francese dai missionari della Consolata in Canada e negli Stati Uniti.