Una vita per dono


Per scaricare quesot testo completo di note clicca qui.

Per il sito-blog su sr Leonella, clicca qui


Carissimi Missionari e Missionarie,

Il prossimo 17 settembre celebriamo il X anniversario del martirio della nostra sorella, la Serva di Dio Suor Leonella Sgorbati, uccisa nel 2006 a Mogadiscio – Somalia. Le ultime sue parole furono:

«Perdono, perdono, perdono…». Il martirio di Suor Leonella è espressione della radicalità dell’offerta della propria vita e profezia della sua donazione. Il suo martirio è profezia che rende visibile l’amore e testimonia il dono e la responsabilità che abbiamo nella nostra vocazione di consacrati per la missione. Mettiamoci all’ascolto di Suor Leonella per riscoprire la bellezza della nostra vocazione e per amare senza riserve e con grande generosità nella nostra missione. Leonella c’insegna il perdono, il perdono come regalo per rompere il circolo vizioso di rispondere al male con il male, il perdono che ci rende liberi per immaginare il nostro futuro, il perdono come dono e questo ci basta!

  1. La Causa di Beatificazione e Canonizzazione

leonella-office-face1.1 La richiesta del X Capitolo generale MC

Il 20 giugno 2006 la Direzione Generale MC, in un incontro con le Superiore di Circoscrizione, aveva indetto un tempo di preparazione al primo centenario dell’Istituto che si sarebbe celebrato nel 2010.

La domanda che accompagnava questa indizione era la seguente: «Che cosa chiede lo Spirito di Dio all’Istituto MC, oggi, per essere fedeli all’intuizione carismatica del Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, che ci volle donne consacrate, votate alla Missione anche a costo della vita?».

La risposta a questa domanda fondamentale ci venne appena qualche mese dopo con il martirio di Suor Leonella Sgorbati che, come Gesù, si è offerta nel perdono e nell’amore totale.

L’Istituto lesse, nel dono di vita di Suor Leonella, un richiamo forte del Signore alla fedeltà alla Missione. Per questo, il X Capitolo generale MC del 2011 chiese alla Direzione generale di dare inizio al procedimento per riconoscee il martirio:

«Suor Leonella Sgorbati ha vissuto l’amore incondizionato a Cristo e ha realizzato il desiderio del Fondatore: “servire la missione anche a costo della vita” (cf. Conf. S., 24 settembre 1916). Alla luce delle parole del S. Padre Benedetto XVI, della testimonianza di tante Sorelle e di tanta gente, il X Capitolo Generale chiede alla Direzione generale di dar inizio alla procedura per il riconoscimento del martirio di suor Leonella Sgorbati avvenuto a Mogadiscio il 17 settembre 2006 perché diventi per tutte noi esempio di come vivere la missione, anche nel contesto dell’oggi».

Dopo aver valutato la richiesta del X Capitolo generale 2011, l’attuale Direzione generale MC, considerando importante dare avvio all’Inchiesta Diocesana per il riconoscimento del martirio di Suor Leonella, ha nominato la Postulatrice della Causa nella persona di Suor Renata Conti, MC. Verificata e raccolta in un Dossier la “Fama di Martirio e di Segni”, la Direzione generale ha quindi domandato – attraverso la Postulazione – al Vescovo competente, Sua Eccellenza Mons. Giorgio Bertin, Vescovo di Djibouti e Amministratore Apostolico di Mogadiscio, di volere accogliere questa richiesta perché Suor Leonella, con la sua vita e soprattutto con la sua morte per la fede, potesse essere un esempio e incoraggiamento per le sorelle dell’Istituto nel loro impegno missionario, sostenere i Cristiani del Medio Oriente3 nel loro cammino di fedeltà a Cristo e alla Chiesa e dire alla società che la santità della Chiesa è visibile nei suoi membri, anche oggi.

1.2. L’iter dell’Inchiesta diocesana

Il primo passo realizzato dalla Postulatrice fu di raccogliere e sistematizzare la documentazione che riguardava la “Fama di Martirio e di Segni” di cui godeva Suor Leonella.4

Il Dossier elaborato riunisce, per temi, i numerosi documenti pervenuti all’Istituto in occasione della sua morte.

Il giorno 25 settembre 2012, a Nepi (VT – Italia), in Casa Generalizia MC, S.E.R. Mons. Giorgio Bertin diede inizio ufficiale al percorso dell’Inchiesta Diocesana con la S. Messa. Parteciparono numerosi Missionarie e Missionari della Consolata e tanta altra gente.

A nome dell’Istituto e accompagnata dalla Postulatrice, Madre Simona lesse il Supplex libellum, ossia la richiesta formale di dare inizio alla Causa. Successivamente, Suor Renata presentò al Vescovo il Dossier contenente i documenti sopra citati.

Mons. Bertin rispose con il seguente messaggio:

«Con immensa gioia e gratitudine verso Dio, accolgo la vostra domanda di dare inizio all’Inchiesta Diocesana per il riconoscimento del Martirio di Suor Leonella Sgorbati, uccisa nella mia Giurisdizione Ecclesiastica, in Somalia, il 17 di settembre del 2006. La sua vita e il suo martirio nel segno del perdono ci sono di esempio e di motivo per dare inizio al cammino di verifica e di ricerca attraverso le testimonianze e lo studio dei documenti allegati al dossier. Possa lo Spirito di Dio illuminare e sostenere quanti saranno impegnati nel portare avanti l’Inchiesta Diocesana».5

Da settembre 2012 a settembre 2013 Mons. Giorgio Bertin, in collaborazione con la Postulatrice, prepararono ciò che conceeva l’organizzazione del tribunale:

  • Nomina delle commissioni storica e teologica  per lo studio degli scritti non editi: Lettere circolari alle sorelle del Kenya, due diari personali e la corrispondenza

La commissione storica fu conformata da: P. Antonio Magnante IMC, Mons. Luigi Paiaro, Vescovo emerito della Diocesi di Nyahururu (Kenya) e Suor Chiara Piana MC; la commissione teologica da: Mons. Carlo Ghidelli, Vescovo emerito della Diocesi di Lanciano (Italia) e P. German Arana SJ, Rettore del Seminario Pontificio Comillas (Spagna).

  • Nomina dei membri del Tribunale per l’iter diocesano.

Essi furono: P. Francesco Giuliani IMC, giudice delegato; P. Giovanni Tortalla, promotore di giustizia; Suor Kathy Meier MC, notaio attuario; Signor Vincenzo Marini e signora Marilena Credidio, notai aggiunti.

L’Inchiesta Diocesana ebbe inizio in Djibouti il 16 di ottobre 2013 alle ore 09:00 e si concluse il 15 gennaio 2014 alle 12:30 con una S. Messa di ringraziamento per i lavori portati a termine. L’inchiesta si sviluppò in quattro tappe: prima tappa a Djibouti, seconda tappa a Nairobi con la partecipazione anche dei testimoni della Somalia, terza tappa nel Meru e quarta tappa a Torino con la partecipazione anche dei familiari. I testimoni furono 46: 2 vescovi, 1 sacerdote diocesano, 4 Missionari della Consolata, 2 Religiose di altre Congregazioni, 19 Missionarie della Consolata e 18 laici.

Alla conclusione dell’Inchiesta Diocesana e dopo aver ottenuto il “nulla osta” della Congregazione per le Cause dei Santi, la Postulatrice elaborò la Positio che venne consegnata alla stessa il 7 aprile 2016.

leonella-with-student

  1. Importanza della testimonianza martiriale di Suor Leonella

 Il 17 settembre 2006 Suor Leonella Sgorbati veniva colpita a morte da una raffica di colpi di arma da fuoco. Con lei moriva la guardia del corpo, Mohamed Mahamud, che aveva cercato di difenderla. L’assassinio della nostra sorella la unisce di fatto alla scia di sangue che ha segnato indelebilmente la storia recente della Somalia: Mons. Salvatore Colombo (Mogadiscio, 1989), p. Pietro Turati (Gelib, 1991), Graziella Fumagalli (Merca, 1995) e Annalena Tonelli (Borama, 2003).

Il telegramma inviato da Benedetto XVI tramite il Segretario di Stato all’Istituto MC pare rivolto a tutta la Chiesa:

«[…] Nel riaffermare ferma deplorazione per ogni forma di violenza Sua Santità auspica che sangue versato da così fedele Discepola del Vangelo diventi seme di speranza per costruire autentica frateità tra i popoli nel rispetto reciproco convinzioni religiose di ciascuno […]».

Poche righe, senza articoli né punteggiatura, com’è lo stile del telegramma. Ma dove si stigmatizza con chiarezza tutta la semplicità e la grandezza della fede di chi muore per una causa in cui crede e in cui investe la vita, tutta. In queste poche righe è espressa una convinzione forte: Suor Leonella non è morta, ha versato il sangue. E nel linguaggio della Chiesa, «l’azione del “versare il sangue per…” è l’azione dei martiri».6

Possiamo desumere l’importanza della testimonianza martiriale della Serva di Dio per la Chiesa perseguitata del Medio Oriente anche da alcune espressioni di una lettera che il Patriarca Latino di Gerusalemme, Fuad Twal, indirizzò al Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, in data 4 aprile 2013 con copia a Mons. Giorgio Bertin ofm.

Nella lettera sopra citata il Patriarca rilevava come i Vescovi Latini per le Regioni Arabe si auguravano che il sangue versato da Suor Leonella Sgorbati fosse come l’acqua che fa fiorire il deserto. Essi erano convinti che l’amore fino a versare il sangue e le ultime parole pronunciate da Suor Leonella sarebbero state, per tutti gli abitanti del Coo d’Africa, l’esempio di una riconciliazione e di un perdono sempre possibili.7

Ricordare il martire è un inno alla vita e non alla morte. Giovanni Paolo II, durante la giornata dei Martiri celebrata al Colosseo nell’anno giubilare del 2000, ricordava che la memoria dei martiri non doveva andare perduta, anzi doveva essere ricuperata in maniera documentata perché la storia del martirio è quella di una lotta tremenda e tragica, che va scritta, capita e non dimenticata.

Anche Papa Francesco rileva come la Chiesa è chiamata a ricordare i martiri perché essi ci insegnano che dobbiamo mettere Cristo al centro della nostra vita ed il loro esempio ha molto da dire a ciascuno di noi e alla Chiesa tutta.9 Nella sua visita apostolica in Corea il Santo Padre rilevava come l’esempio dei martiri mostra l’importanza della carità nella vita di fede e la loro eredità dove ispirare tutti gli uomini e le donne di buona volontà ad operare in armonia per una società più giusta, libera e riconciliata ed aggiungeva che essere martiri voleva dire soprattutto essere testimoni di Gesù.

foto2

  1. Dimensione Eucaristica e martiriale della vocazione missionaria in Suor Leonella

Suor Leonella operò nella sua vita la scelta radicale di eliminare tutto quanto lei definiva il «fascino della nullità»11, per impegnarsi con passione e determinazione affinché lei e Gesù non fossero solo

«buoni vicini di casa»,12 ma si stabilisse tra loro una unione sponsale.13 Ella cercò la completezza umana e spirituale con Gesù, con accenti di squisita delicatezza. In tutte le espressioni che Suor Leonella usò rivolgendosi a Gesù,14 si percepisce come una interiore nostalgia mistica:

«Che nostalgia – ella annotava quando andava a salutare le Suore Sacramentine appena arrivate in missione – […] nostalgia di una vita che ha solo il Signore per ragione e motivo».

Il martirio di Suor Leonella è stato preparato da un’intensa relazione con Gesù nel mistero Eucaristico nel corso di tutta la vita. Nei suoi diari si percepisce però che durante il mese allamaniano, vissuto a Castelnuovo nel febbraio del 2006, essa fu particolarmente e gradualmente attratta da questo mistero e Gesù Eucaristia le concesse grazie particolari d’intima unione, fino al punto di sentirsi una cosa sola con Lui, secondo le parole stesse di Gesù:

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (Gv 6, 56-57).

Diceva: «Se il Suo corpo e il mio sono una cosa sola, se il Suo sangue e il mio sono una cosa sola, allora è possibile essere sempre in Lui, dono d’amore, dono di Lui, per tutti. Sempre, in ogni momento! Allora è possibile testimoniare sempre che Lui c’è e ci ama».

Le parole di Gesù erano per lei esperienza e le ripeteva continuamente. Questa esperienza l’aveva segnata come un marchio di fuoco.16 Fu proprio all’interno di questa esperienza che Suor Leonella percepì chiaramente la chiamata di Gesù a vivere il mistero eucaristico fino alla fine, fino al dono della vita, fino allo spargimento del sangue, come Lui e a questo invito rispose con il suo Sì d’amore. Non sapeva come questa chiamata si sarebbe concretata; era sicura però che si trattasse del dono della sua stessa vita, in maniera radicale e in un tempo breve. Lei disse il suo Sì, con tutto l’amore del suo cuore, con gratitudine e umiltà per tanta grazia, con tanta consapevolezza della sua fragilità e sofferenza e del fatto che l’amore fedele per Gesù era più forte.17 Da quel giorno quante volte Suor Leonella ha ripetuto il suo Sì, quante volte ha supplicato di pregare per lei perché fosse fedele!

Quando fu colpita a morte, le sue ultime parole non potevano essere se non quelle di Gesù: “Perdono”!

Suor Leonella scriveva nel suo diario n. 2 il 27 febbraio 2006:

«Il mio andare in Somalia è la risposta a una chiamata: tu Padre hai tanto amato la Somalia da donare il tuo Figlio… e io dico con lui “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue donato per la salvezza di tutti”. Ho solo questo momento presente per… »

La sua penna si ferma qui. Forse non ha osato andare oltre.

  1. Missione come dialogo di vita

 Suor Leonella dona la sua vita, fino all’effusione del sangue, nella missione tra i non cristiani, da lei vissuta come un andare a cercare i più poveri, coloro che non hanno mai conosciuto il messaggio dell’Amore di Dio, la mitezza e la mansuetudine del Figlio. Scriveva alle sorelle del Kenya nella circolare dell’11 novembre 1994:

«Sorelle carissime, rivediamo insieme le nostre posizioni; Siamo disposte a schierarci dalla parte dei più poveri? Siamo disposte a scelte che ci renderanno forse meno efficienti, più povere, più spoglie e più abbandonate alla Provvidenza? Siamo disposte ad andare a cercare coloro che il messaggio dell’Amore di Dio non l’hanno mai conosciuto, anche se questo implica distacco e sacrificio fino a dare la vita? Siamo disposte a dare la vita, a dare il sangue se occorre testimoniando la mitezza e la mansuetudine del Figlio? Si, io credo di si. Credo che nel cuore di ciascuna di noi è viva e vibrante la freschezza della nostra prima chiamata…».

Per Suor Leonella la missione era dialogo di vita e dono senza riserve. Il 28 febbraio 2006 scriveva nel suo diario 2, rivolgendosi a Gesù:

«Forse anche a te sarà costato “lasciare” il Padre e partire per la tua Missione, ma il tuo amore per il Padre e per noi ha vinto, magari anche tu hai pianto … ma hai teso le braccia alla volontà d’amore … e la tua missione ci ha salvato, mi ha salvata… Tu per primo hai amato e hai, per amore, dato la vita… Il Tuo Sì è nostra vita. Non c’è amore più grande. Tu sei con me… Buon Pastore. La missione Somalia è ciò che Tu mi chiedi ora. Ti dono la mia vita in tutto e per tutto come Tu desideri… Mi chiami ad amare Te, ad amare le sorelle, ad amare la gente, i Fratelli dell’Islam… Possiedimi Signore e ama in me… che io sia una cosa sola in te e Tu possa donare loro la gioia di sentirsi amati da te».

Qui il dialogo della vita tocca le radici più profonde del nostro carisma!

«Insieme a Suor Leonella, un Somalo, un uomo musulmano, ha versato il suo sangue nel tentativo di salvarla, dopo che il primo sparo l’aveva raggiunta. Si tratta di Mohamed Mahamud, sposo e padre di quattro figli. […].

Suor Leonella e Mohamed Mahamud uniti per sempre nel dono della vita. Lei offrendola per i suoi Figli e Figlie Somali, Lui in un gesto estremo per tentare di salvarla …

Lei, donna cristiana, fedele al Suo Signore e alla Missione, lui, uomo musulmano, certamente fedele ad Allah ed al Profeta; uniti nel servizio al loro Popolo, sognando la Pace, la fratellanza … Mohamed per i suoi figli, Suor Leonella per ogni Somalo e per tutti i popoli …

C’è un dialogo di vita, stupendamente in atto in questo gesto; c’è il superamento di barriere, il dono di sé, per sempre… mistero dell’Amore, mistero di Pasqua, di Risurrezione… speranza e consolazione».18

È importante continuare ad ascoltare, approfondire e cogliere il messaggio di “Vita” di Suor Leonella, per tutti noi, consapevoli che il suo esempio ci stimola a vivere la Missione cercando strade di comprensione, riconciliazione e dialogo, nella certezza che solo quando sapremo unire cuore e forze, vita e sangue, potremo costruire il Regno a cui tutti, musulmani e cristiani, uomini e donne di ogni religione e cultura, che credono nella Vita, sono chiamati a dare il proprio apporto.

leonella-970614a

  1. Suor Leonella e la Consolata

Un altro aspetto molto presente nella vita di Suor Leonella è il rapporto con la Consolata. Un rapporto filiale molto sentito. Nel periodo in cui Suor Leonella fu Superiora regionale in Kenya, quasi tutte le sue circolari alle sorelle della Regione parlano di Maria. Suor Leonella percepisce Maria come Colei che, nel suo Figlio, dona la Consolazione. Suor Leonella non stacca mai Maria da Gesù e dalla missione. Diceva alle sorelle:

«[…] siamo chiamate ad essere presenza umile e rispettosa, come Maria, che condivide la vita ed il cammino di fede delle persone e dei popoli… . Presenza di consolazione, rimanendo con il popolo afflitto o in festa, fidandosi più di Dio che dell’umana prudenza con il coraggio dello Spirito per portare il Vangelo nelle situazioni concrete della vita, specialmente nei momenti di rischio, di insicurezza, di scomodo, fino a dare la vita».19

Suor Leonella si chiede: «Che cosa vuole dire “donare la Consolazione” oggi? Cosa vuol dire entrare nel mistero dell’Incaazione, e diventare il Figlio oggi? Perché è proprio nel rapporto filiale che conosceremo per esperienza che cosa è la Consolazione e che cosa significa essere Consolate per Consolare.» E risponde lei stessa:

«Significa accogliere che il Figlio sia libero in ciascuna di noi, in me, libero di perdonare attraverso la mia persona a chi mi reca offesa, libero di spezzare il pane della bontà, della comprensione e della compassione nella mia comunità, libero di fare in me il cammino che il Padre ha fatto fare a Lui con le scelte che il Padre indica. Libero di farmi percorrere il cammino della pazienza, della mansuetudine, dell’umiltà che passa attraverso l’umiliazione…

Libero di amare attraverso di me con l’Amore più grande, l’Amore che va fino alla fine… che è più forte dell’odio e dell’inferno… nella verità, nella pratica di ogni giorno e di ogni momento… e per diventare così abbiamo bisogno che la Consolata generi in noi questo Figlio Consolazione affinché lo possiamo riconoscere anche nel volto degli umiliati ed oppressi».

Nella festa della Consolata del 1996 scriveva:

«Contempliamo la Madre che accoglie nel suo Grembo e genera per noi la Consolazione stessa – il Figlio – e generando Lui genera anche noi in Lui “figlie nel Figlio” Missionarie dell’Amore del Padre oggi, perché portiamo la Sua Tenerezza in questo nostro tempo dove l’umanità ed il creato tutto sembra gemere e grondare sangue!

Contempliamo la Consolata nell’attitudine di donarci il Figlio! Questa Madre che diventa “Tabeacolo e Calice” affinché nutrendoci di questo Figlio che lei ci porge diventiamo davvero figlie nel Figlio!

Il Fondatore passava ore a contemplare la Madre, passava ore ad adorare il figlio reso pane spezzato per noi! E così, anche noi, diventiamo consapevoli e capaci, per l’energia stessa del nostro carisma, di dare risposte d’amore coraggiose alle sfide dell’oggi perché l’umanità riscopra la sorgente della sua identità e felicità».

  1. Conclusione

Carissimi Missionari e Missionarie, il prossimo 17 settembre sia per noi tutti una giornata di viva memoria del dono di Suor Leonella! Celebriamo con intensa gratitudine questo anniversario, nelle nostre comunità tra i diversi popoli a cui siamo inviate, possibilmente assieme: Missionari, Missionarie e Laici Missionari della Consolata.

Carissime e carissimi, mostriamo con la nostra vita sull’esempio di Leonella, che l’amore è più forte della morte. L’amore ispira la fiducia, scaccia la paura e porta la pace. Un amore disposto anche a morire, come Gesù, come Leonella e tanti altri che lo hanno capito. Senza amore, nessun gruppo di persone può diventare comunità. È l’amore più forte della morte a rendere i membri della comunità capaci di restare insieme nonostante i propri difetti e fallimenti. È l’amore a costruire relazioni di fiducia che danno pace a una comunità. È l’amore a trasformare le persone in testimoni premurosi e disposti a sacrificarsi gli uni per gli altri. È l’amore del Signore risorto che prende forma in una persona e in una comunità. Ciò di cui il mondo ha bisogno ora è l’amore. È la sola cosa di cui vi è sempre troppo poco. Suor Leonella c’insegna questo amore, c’insegna che una comunità può essere veramente missionaria solo quando vive l’amore, il perdono e la misericordia. È di questo che il mondo, noi missionarie e missionari, tutti abbiamo bisogno adesso! Buona missione!

Sr. Simona Brambilla MC, Superiora generale della Missionarie della Consolata
P. Stefano Camerlengo IMC, Superiore generale dei Missionari della Consolata   

 




Misericordia e


I Missionari della Consolata, testimoni di Misericordia e Con•sol•azione. Racconti di esperienze vive da Taiwan, dall’Angola nelle immense periferie della capitale, dalla diocesi di Noto in Sicilia e dal Venezuela a Carapita e Tucupita.


1. Nell’Anno della Misericordia e nel mese della Consolata

Consolatori in azione

Protagonisti di queste pagine non sono i soliti missionari di origine italiana, ma una nuova generazione di giovani africani, latinoamericani e asiatici. Sono loro i nuovi servi della «consolazione» realizzata tramite opere di misericordia concrete e senza confini.

La foto di apertura di questo dossier è stata scattata nel 2015 in Kenya, nella missione di Wamba. Al centro, dietro tutti e più alto di tutti, c’è padre Mathews Owuor Odhiambo; attorno a lui donne samburu e turkana felici di posare con giovani cinesi di Taiwan. Un avvenimento speciale questo, perché non riguarda i soliti turisti dall’Asia, ma un gruppo missionario che si sta formando a Hsinchu, vicino a Taipei, attorno a due missionari della Consolata, un kenyano (padre Mathews appunto) e uno spagnolo, che dal 2014 studiano cinese per iniziare una nuova presenza missionaria a Taiwan.

Non è certo una notizia da prima pagina, ma è significativa di una nuova realtà missionaria che sta crescendo. Una realtà che chiede occhi nuovi per essere vista. Io stesso mi sono reso conto della novità proprio solo alla conclusione del lavoro redazionale su queste pagine. La mano di Dio misericordioso continua a scrivere nella storia degli uomini con penne e matite nuove: i giovani delle Chiese del Sud del mondo.

Quanto vi offriamo è in parte già stato pubblicato in «Da Casa Madre», una rivista intea del nostro Istituto, ed è frutto anche dell’instancabile peregrinare del superiore generale, padre Stefano Camerlengo, che, accompagnato dai superiori locali, in questi anni ha quasi fatto il giro del mondo per visitare tutti i suoi missionari dall’Argentina alla Mongolia, dal Sudafrica all’Inghilterra, dal Canada a Taiwan, su è giù attraverso ventitré nazioni diverse.

Da queste pagine esce un messaggio di speranza e di vitalità senza pari, antidoto allo scoraggiamento che prende un po’ noi cristiani europei che stiamo assistendo alla scristianizzazione del nostro continente. Il titolo Con•sol•azione l’abbiamo rubato ai ragazzi di una nostra scuola secondaria in Colombia dedicata alla Consolata. Per la festa della loro scuola hanno scelto, cantato e ballato lo slogan «Con sol acion» (con sola azione). Un bel modo per dire che la fede non è teoria ma carità in azione nello stile «consolatino».

Gigi Anataloni


2. Taiwan: dire «Consolata» in cinese

Cambiare il nome ma non il cuore

L’apertura di una nuova presenza missionaria a Taiwan ha portato una grossa novità per il nostro Istituto: per la prima volta1, infatti, abbiamo dovuto rinunciare a presentarci ufficialmente come Missionari della Consolata, ovverosia con il nome della nostra patrona così com’è, senza traduzioni. I nostri primi missionari a Taiwan, sul posto dal 2014 e ancora alle prese con il lungo tirocinio dell’apprendimento del cinese, ci spiegano il perché.

Per esistere come congregazione religiosa a Taiwan è necessario assumere un nome che si possa scrivere mediante gli ideogrammi, perché su tutti i documenti ufficiali esso viene riportato in caratteri cinesi. Due opzioni sono possibili:

  • si individua un nome che conservi il suono originale «Consolata»;
  • si esprime «Consolata» con una parola cinese che ne rispetti il significato.

Il vescovo della diocesi di Hsinchu, dove ci troviamo, ci ha presentato sin da subito la necessità di trovare un nome cinese per il nostro Istituto, ma ci ha lasciati liberi di decidere su quale delle due vie seguire.

Siccome il fondatore, il beato Giuseppe Allamano, desiderava che il titolo della nostra Madre venisse conservato inalterato in tutte le lingue (così è stato fatto in tutti i paesi in cui siamo presenti), abbiamo subito pensato che la prima opzione fosse la più adatta e abbiamo chiesto a varie persone come si potesse rendere il suono «Consolata» con i caratteri cinesi. Qui la prima grande sorpresa: siccome la lingua cinese non è fonetica, non è possibile riprodurre fedelmente per iscritto il suono «Consolata», ma soltanto trovare un termine che si pronunci in modo simile: cioè «Cansulata» o «Consoulata».

La ragione principale che ci ha portati a propendere per la seconda opzione è stata però di natura pastorale: ci siamo accorti, parlando con i fedeli che conoscono l’inglese, che quando il nostro Istituto veniva presentato, la gente non sentiva nemmeno il termine «Consolata», che per i cinesi non aveva alcun significato. La scrittura cinese contiene in ogni carattere il senso di ciò che viene espresso, per cui quando le persone leggono un nome, istintivamente vi cercano un significato e, se non lo trovano, passano semplicemente oltre. La lingua cinese, poi, è il grande principio di unità di tutto un popolo, perché si scrive in un unico modo pur venendo pronunciata differentemente a seconda dei vari dialetti locali. Se avessimo scelto un ideogramma che nel cinese classico riproduce il suono «Consolata», quando andassimo nel Sud di Taiwan, dove si parla il Taiwanese, potremmo trovarlo pronunciato in un modo diverso, che magari non ricorderebbe nemmeno da lontano il suono del nome della nostra Madre.

Dopo esserci consultati con il vescovo, con le nostre insegnati di cinese, con preti locali e missionari stranieri, ci siamo seduti attorno a un tavolo per cercare di disceere quale fosse la vera fedeltà al desiderio del fondatore e alla tradizione del nostro Istituto: mantenere un nome privo di significato per la gente e che sarebbe stato soggetto a varie storpiature o trovare un nome che esprimesse in modo comprensibile la consolazione che Maria ha ricevuto da Dio, cioè suo figlio Gesù, e che, tramite i suoi missionari, offre al mondo?

Ci è sembrato che il contesto in cui ci trovavamo ci conducesse verso la seconda opzione. Abbiamo quindi presentato i frutti del nostro discernimento ai superiori a Roma che hanno approvato e dato il via libera affinché assumessimo il nome cinese che meglio esprime chi siamo nella lingua e nella cultura locali.

Siamo contenti di avere un nome cinese, ? ??? Shan Mu Shen Wei, che letteralmente significa «Santa Madre della Consolazione divina» e che rende il nostro Istituto un po’ più vicino a questa gente e a questo mondo.

Eugenio Boatella e Mathews Odhiambo

Note

  1. 1. Già una volta l’Istituto aveva dovuto rinunciare al nome di «Consolata». Lo aveva fatto nel 1971 quando, per rientrare in Etiopia (da cui era stato cacciato nel 1942 con le forze coloniali italiane), aveva dovuto mandare i suoi come «Missionari di Fatima».

Taiwan, perché?

La decisione di aprire la missione di Taiwan è frutto del discernimento congiunto della Direzione Generale Imc e dei missionari della Consolata presenti nel continente asiatico.

Le ragioni che hanno portato a questa scelta sono molteplici. Innanzitutto, il desiderio da tempo coltivato di avvicinarci al mondo cinese, alla sua cultura e al suo profondo universo spirituale. Taiwan è oggi un terreno estremamente fertile per crescere nella dimensione missionaria del dialogo interreligioso. In secondo luogo, ha influito sulla nostra scelta la vicinanza alle altre due nostre presenze, Corea del Sud e Mongolia, che permette ai nostri missionari di lavorare in una prospettiva continentale, riunendosi per incontri formativi o di rinnovamento spirituale e per valutare e pianificare insieme la missione. Infine, alcune altre caratteristiche che ci hanno convinto della bontà di questa opzione: la lingua ufficiale dell’isola, ovvero il cinese mandarino, che è anche l’idioma più parlato nella Cina continentale e nel mondo; l’accoglienza da parte del governo e della chiesa locale, che semplifica le pratiche burocratiche per stabilire una comunità sul posto; il grande bisogno di personale della chiesa stessa dopo l’esaurimento del boom dovuto alla grande immissione di personale religioso che, fuggendo dal continente, trovava rifugio sull’isola negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione cinese.

Oggi la chiesa locale non ha personale autoctono sufficiente a garantire l’assistenza pastorale ai pochi cattolici dell’isola (sono meno di trecentomila persone su una popolazione complessiva di circa 23 milioni di abitanti), ma grazie alla presenza di tanti missionari e missionarie provenienti da altre parti del mondo può portare avanti il lavoro di evangelizzazione ad gentes e di promozione sociale di qualità e con autorevolezza.

È il caso della diocesi di Hsinchu, dove i nostri primi missionari sono arrivati nel settembre 2014 e dove sono tutt’oggi totalmente impegnati nello studio della lingua cinese. A poca distanza dalla capitale Taipei, Hsinchu è una cittadina fiorita intorno a grandi industrie dell’informatica e laboratori manifatturieri. Molti dei prodotti «made in Taiwan» passano per questa località, che è anche sede di uno dei più importanti Politecnici del paese. Grande è la presenza di migranti, provenienti in particolare da Filippine, Thailandia e Vietnam. Molti di loro sono cattolici e vengono assistiti spiritualmente e pastoralmente dall’attiva rete ecclesiale organizzata dal vescovo locale, mons. John Baptist Lee, ben contento di aggiungere alla sua squadra anche una piccola comunità missionaria come la nostra. Ai padri Eugenio Boatella e
Mathews Odhiambo, a Hsinchu sin dagli inizi della nostra missione, si aggiungeranno ben presto altri due missionari che stanno completando il loro periodo di preparazione alla missione in Asia.

Ugo Pozzoli


3. Angola: un paese che stenta a ritrovarsi, tuttavia… in cammino

Rinascere dopo 500 anni

Un passato che non cancella le sue tracce; un paese dilaniato dalla guerra che stenta a riconoscersi; un’identità nascosta che si affaccia con timidezza: vi presentiamo l’Angola, il paese dove i missionari della Consolata hanno iniziato una nuova avventura nel 2014.

Nel 1961 l’Angola inizia il suo difficile cammino verso l’indipendenza dal Portogallo con rivendicazioni intee di carattere anti coloniale che provocano l’instaurazione di un regime repressivo su tutto il territorio da parte del governo di Lisbona. Nel 1975 finalmente ottiene l’indipendenza, ma una feroce guerra civile l’attende dietro l’angolo.

Due sono le fazioni contrapposte: l’esercito governativo del Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla) e le forze ribelli dell’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (Unita). L’Mpla da sempre appartenente al blocco dell’allora Unione sovietica e alleato di Cuba, l’Unita appoggiata dalle maggiori nazioni del mondo industrializzato occidentale (Usa in testa) e dal Sudafrica.

Solo nel 2002 la corsa al controllo delle immense ricchezze del paese ha termine lasciandolo in ginocchio. I giochi di potere fanno il loro corso con una divisione «equa» del governo e della gestione delle risorse: all’Unita il controllo sul mercato dei diamanti, all’Mpla l’egemonia petrolifera.

Luanda, specchio del paese

Petrolio e diamanti continuano a essere ancora oggi l’unica attrattiva economica per l’estero. La stratificazione sociale è solo un vago ricordo: oggi si vive nelle favelas o negli occidentalissimi quartieri residenziali di Luanda. Il colosso Cina sta gettando le sue reti: l’Angola è il primo esportatore di petrolio in quel paese. Le multinazionali fanno da padrone a braccetto con un governo ancora fortemente corrotto. Mentre il flusso di denaro continua a scorrere «dal basso verso l’alto», sfidando ogni legge fisica, circa l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

La guerra civile ha prodotto una crescita abnorme delle periferie. Quelle di Luanda sono uno specchio dell’evoluzione del paese negli ultimi anni: più è cresciuta l’economia e più si è accentuato il divario tra le classi sociali. Nelle periferie vive la maggioranza della popolazione, ma le condizioni di vita sono disastrose: servizi sanitari e scuole di tutti i livelli insufficienti, mancanza di acqua potabile, fognature inesistenti, energia elettrica incostante,  trasporti  pubblici  disastrosi,  disoccupazione, assenza di spazi per lo sport e il divertimento, delinquenza, spazzatura accumulata… e la lista potrebbe continuare.

Luanda è la capitale politica dell’Angola e tutte le istituzioni dello stato hanno qui le loro sedi. Il parlamento, il palazzo presidenziale e i vari ministeri sono tutti nel «centro» della città (gli antichi rioni attorno alla baia), dove hanno sede anche le principali imprese e una miriade di uffici amministrativi e commerciali. A Luanda funzionano le uniche industrie del paese. Fino al 2002, anno della fine della guerra civile, queste si limitavano ad attività legate al petrolio, alla trasformazione di prodotti agricoli, bevande, cemento, costruzioni civili, meccanica. In questi ultimi anni si sono moltiplicati gli investitori (esteri, ma anche nazionali) che stanno mutando il volto industriale della città. A fare da padrone è il settore petrolifero, ma anche quello dei diamanti, al secondo posto nelle esportazioni, stimola investimenti e occupazione: esiste una fabbrica di taglio dei diamanti e un’altra è in costruzione.

Luanda è anche la capitale culturale: vi funziona l’Università statale, intitolata ad Agostinho Neto, primo presidente. Negli ultimi anni sono state aperte varie università private, tra cui spicca quella cattolica. I principali assi stradali partono da Luanda, e la collegano alle province del paese. In questi ultimi tempi, grazie a crediti e investimenti stranieri, soprattutto cinesi, è stato fatto un notevole sforzo per rimettere a nuovo la rete stradale. La popolazione di Luanda non ha smesso di crescere e in 30 anni si è moltiplicata di 9-10 volte.

L’arte di arrangiarsi

Chi si dedica al commercio spesso non ha un locale adatto allo scopo, così, spesso sacrifica una parte della propria abitazione per ricavare un esiguo negozio, o utilizza una struttura precaria nella propria via di fronte a casa. Ci lavora il capofamiglia, ma anche i figli danno una mano. Il problema maggiore è il finanziamento necessario per acquisire la merce; il settore informale non ha accesso al credito bancario, e la gestione dei ricavi dell’attività è molto approssimativa.

Nei quartieri poveri si comincia a lavorare già a 11-12 anni, e il luogo di lavoro più frequente è la strada. Sono varie le ragioni che spingono un (o una) adolescente verso un lavoro di strada: necessità di pagarsi le spese per la scuola (libri e quadei) e la relativa retta mensile, quando i genitori non ne hanno i mezzi; comprare i capi di abbigliamento, secondo la moda del momento; comprare telefonino e scheda di ricarica; aiutare un fratello o una sorella più piccoli, o i genitori se per malattia non possono lavorare. Un lavoro tipicamente femminile è la zunga, cioè la vendita ambulante, trasportando sulla testa, in una bacinella o in una scatola i propri prodotti. Le zungueiras percorrono ogni giorno chilometri e chilometri. I ragazzi si stanno adattando a questo lavoro: quando escono da scuola ricevono della merce da un negoziante e percorrono le vie o le fermate dei taxi, e alla sera dividono il guadagno con il fornitore.

Sono migliaia le persone che passano, a piedi o nei taxi collettivi, e c’è possibilità di vendere loro l’acqua fresca, in sacchetti di plastica, o una bibita ghiacciata, o una salviettina agli autisti di taxi o di camion, per asciugarsi il sudore e pulirsi dalla polvere che sovrasta perennemente le strade di Kilamba, una delle periferie di Luanda. Fuori dai magazzini ci sono altri lavoratori: i roboteiros, i conducenti di grosse carriole di legno, con ruota recuperata da una macchina, che trasportano le scatole e i sacchi di prodotti che la gente ha comprato all’ingrosso per poi rivenderli al dettaglio nei loro negozietti.

Ci sono anche giovani che scaricano la merce dai camion e la ripongono nei magazzini. Al mercato s’incontrano molti ragazzi occupati: c’è chi segue i potenziali acquirenti per vendere sacchetti di tutti i tipi in cui riporre le compere; ci sono le ragazzine che aiutano la mamma a preparare piatti a buon mercato e altre che passano tra le bancarelle proponendo uova sode o gelati; ci sono i kinguila, i cambiavalute, perché il dollaro continua a circolare insieme alla moneta locale. Ci sono i matoxeiros, una turbolenta categoria di mediatori tra il cliente e il venditore; ci sono i motoqueiros, che foiscono il servizio di moto-taxi. Nessuno rimane con le mani in mano, e la sera tutti hanno qualcosa in tasca.

Una Chiesa confusa

La Chiesa cattolica, presente in Angola da più di cinquecento anni, è considerata un’istituzione prestigiosa e mantiene rapporti molto stretti con le autorità governative. Troppo stretti, secondo alcuni osservatori. Sembra che alla vigilia delle ultime elezioni, i politici al potere abbiano voluto ingraziarsi i vescovi locali, offrendo loro generosi regali. «Ci hanno donato delle automobili», ammette senza imbarazzo un vescovo che abbiamo incontrato. «Le abbiamo accettate, dopo avee discusso tra noi, precisando a chiare lettere che non avremmo mai rinunciato alla nostra incondizionata libertà di parola». Decisione «inopportuna e rischiosa», mormorano a denti stretti alcuni religiosi.

Gli equilibrismi diplomatici delle alte gerarchie ecclesiali, chiamate necessariamente a confrontarsi e a collaborare con lo stato, non oscurano la straordinaria opera sociale e pastorale svolta dalla Chiesa cattolica in Angola. Dalle sterminate bidonville della capitale fino ai più isolati villaggi dell’interno, centinaia di suore e sacerdoti portano avanti ogni giorno una battaglia silenziosa e risoluta in favore dei poveri.

«Ci sforziamo di spargere semi di speranza in una società sempre più spietata che non concede spazio agli ultimi», spiega un missionario, impegnato da anni accanto ai giovani angolani. «Il 60% della popolazione ha meno di 15 anni», ricorda. «Le nuove generazioni sono però attratte dall’illusione dei soldi facili, dal miraggio del consumismo sfrenato, dalle vetrine lucenti delle boutique alla moda. L’arricchimento materiale dell’Angola si sta accompagnando a un drammatico impoverimento morale. Dobbiamo aiutare i giovani a percorrere una nuova strada».

Oggi i missionari gestiscono innumerevoli scuole, spazi ricreativi, centri di formazione, oratori, rifugi per ragazzi di strada. «Sono fragili scialuppe di salvataggio in un mare tempestoso», avverte un missionario. «La guerra ha distrutto molte famiglie, disperso interi villaggi, gonfiato le periferie di deslocados, gli sfollati delle campagne… La gente fa sempre più fatica a tirare avanti». La criminalità è diffusissima, furti e rapine sono il pane quotidiano delle gang giovanili.

«Terra di Maria»

I grandi navigatori ed esploratori portoghesi, prima di allontanarsi dalla patria, promettevano alla Vergine di diffondere il suo culto tra tutti i popoli con i quali avrebbero stabilito contatti. Così, quando i primi portoghesi, nel sec. XV, misero piede nel territorio del Regno indigeno del Congo-Angola, eressero numerose chiese e cappelle, sia pure molto modeste.

L’Angola venne chiamata «Terra di Maria» fin dai tempi in cui i primi missionari portoghesi, qui arrivati il 29 aprile 1491, costruirono subito una chiesetta intitolata a Nossa Senhora Santa Maria. Oggi in Angola si contano non meno di 100 chiese e cappelle dedicate alla Madre di Dio. Tra le principali ricordiamo: il santuario Nostra Signora di Fatima, inaugurato nella capitale Luanda dai Cappuccini nel dicembre 1964, e Nostra Signora di Nazaré, sempre a Luanda; il santuario Nostra Signora da Muxima e Madonna degli Angeli nella Provincia di Bengo; al centro del paese, a Nova Lisboa, si trova un altro santuario dedicato a Nostra Signora di Fatima; e al Sud, a Sá da Bandeira, il Santuario della Montagna (do Monte). E ben nove delle undici cattedrali del paese sono oggi intitolate alla Madonna: a Luanda, Huambo, Malanje, Luso, Uije, Benguela, Saurino, Novo Redondo e Njiva.

È da notare che tutti questi edifici sacri venivano costruiti per provvedere all’aumento continuo dei cristiani che già verso la fine del sec. XV erano più di 20.000. Oggi i cattolici rappresentano il 55% della popolazione.

I cristiani qui chiamano da sempre affettuosamente la Vergine Mama Nzambi (Madre di Dio) e incontrandosi erano soliti scambiarsi il saluto con le parole: «Siano lodati il SS. Sacramento e la purissima Concezione della SS. Vergine!».

In Angola il Vangelo è arrivato 500 anni fa, anche se non è quasi mai andato oltre la capitale, la linea costiera e alcuni centri lungo il fiume Kwanza, toccando quasi solo portoghesi e i cosiddetti assimilados, mentre la stragrande maggioranza della popolazione non ha mai beneficiato del suo annuncio esplicito. Solo nella seconda metà del XIX secolo, con l’arrivo di alcune congregazioni missionarie (tra cui gli Spiritani), c’è stato uno sforzo serio di evangelizzazione, specialmente nelle zone rurali.

Consolata in Angola: una storia con futuro

Dopo molti anni, i missionari della Consolata hanno realizzato il sogno del loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano: creare missioni in Angola. Nel 1920, per mancanza di personale, dovette rifiutare l’invito che al riguardo gli era stato fatto. Finalmente il Capitolo Generale del 2005 ha optato per l’apertura nel secondo paese lusofono in Africa, dopo il Mozambico in cui siamo dalla fine del 1925. In un primo momento si era pensato alla Guinea Bissau, dove le missionarie della Consolata già lavorano, ma poi si è scelta l’Angola.

Gli studi per l’apertura della missione in Angola sono iniziati nel 2009. Si è posta l’attenzione su tre territori differenti: la diocesi di Namibe, nel Sud del paese, regione povera e con pochi missionari; l’antica diocesi di Mbanza-Congo, al Nord, anche questa bisognosa di personale missionario, e la periferia urbana intorno alla capitale Luanda, nelle diocesi appena create di Caxito e Viana, dove si concentrano circa cinque milioni di persone, in condizioni che reclamano una presenza di consolazione. Motivi vari, soprattutto il fatto che circa la metà della popolazione angolana, a causa della lunga guerra civile che ha lacerato il paese, si concentra a Luanda e nella sua immensa periferia, hanno portato alla scelta della diocesi di Viana, con l’apertura della missione il primo agosto 2014 nella zona in cui oggi c’è la parrocchia di sant’Agostino di Kapalanga.

Il primo gruppo è formato da tre giovani missionari: i padri  Silvestre Oluoch, keniano, Fredy Gòmez Pèrez, colombiano e Dani Romero Gonzales, venezuelano.

Un’accoglienza generosa

I padri Fredy, Silvestre e Dani ci raccontano che fin dal loro arrivo, provenienti dal Mozambico, sono stati accolti molto bene. Vivono in una casa affittata come la maggior parte delle famiglie della zona. A piedi o con i mezzi pubblici, i tre missionari percorrono ogni giorno l’immenso quartiere di Kapalanga per l’assistenza religiosa e per conoscere i loro fedeli. Qui accompagnano la comunità cristiana nel cammino di fede e di speranza, con una presenza di consolazione soprattutto tra i più poveri. Poco per volta si sono fatti conoscere dai cattolici del quartiere e prestano assistenza pastorale a sette cappelle sparse nel territorio.

Dopo un anno di lavoro pastorale e, vedendo la maturità della comunità cristiana e il buon lavoro fatto dai nuovi missionari, il vescovo di Viana, ha deciso di creare la nuova parrocchia di sant’Agostino di Kapalanga.

I missionari mettono in evidenza lo sforzo e la collaborazione della comunità cristiana locale: il suo lavoro, la generosità e affetto che ha dimostrato con i missionari. Tutto ciò che si è realizzato, lo si è fatto con contributi locali: la sistemazione del terreno della parrocchia, la legalizzazione del terreno delle cappelle e persino la costruzione del salone-chiesa che ora è terminato. La situazione della nuova parrocchia è buona. La sua maturità e crescita sono possibili perché i fedeli sanno condividere i loro beni. Per il prossimo anno i cristiani si mobiliteranno per raccogliere fondi per la costruzione della casa parrocchiale e l’acquisto di un’auto a servizio dei missionari.

Quanto alle preoccupazioni e sfide da affrontare, i tre confratelli hanno messo in risalto: migliorare la pastorale di insieme con un obiettivo chiaro; aumentare comunione e corresponsabilità tra tutte le forse pastorali e i movimenti della parrocchia.

Nuove aperture

Nel dicembre 2015 con padre Marco Marini, abbiamo fatto la prima visita ufficiale nel paese. Oltre al contatto con i missionari, alla presenza alle celebrazioni liturgiche dell’Avvento, della Novena e di Natale, sempre molto partecipate e animate dai fedeli, abbiamo avuto l’opportunità di visitare altre diocesi ed entrare in contatto con vescovi e missionari. L’obiettivo era quello di identificare i luoghi per iniziare due nuove presenze della Consolata in Angola da aprirsi nel 2016. Si sono scelte due diocesi: quella di Caxito, non molto distante da Luanda, e la diocesi di Luena, nella provincia di Moxico, a più di 1.250 Km dalla capitale. Luena si trova nell’estremo Est dell’Angola, confina con il Congo e lo Zambia. Con una estensione di 223.023 chilometri quadrati, due volte e mezza il territorio del Portogallo, e appena 750.000 abitanti, è la diocesi più grande dell’Angola. Vi sono poco più di una ventina di sacerdoti.

Sono stati giorni di intenso lavoro, tra ascolto, riflessione e condivisione; come frutto di questo lavoro sono state fatte delle scelte e dati orientamenti che potranno illuminare la presenza missionaria della Consolata in questo paese. La nostra breve presenza in Angola è una storia che potrà avere futuro.

Stefano Camerlengo e Diamantino Guapo Antunes
Adattato da «Da Casa Madre», 03 / Marzo 2016


4. Italia: gli istituti missionari a favore dei migranti

Progetto Lampedusa

La misericordia spinge i missionari a cercare nuove strade anche in Italia. Accanto al ben noto padre Alex Zanotelli, impegnato nei quartieri caldi di Napoli, ci sono tanti altri uomini e donne che stanno rispondendo all’invito di Cristo «vai e anche tu fatti prossimo». In Sicilia sta nascendo un’iniziativa di servizio condiviso che vede coinvolti due missionari e due missionarie di quattro Istituti diversi.

Il nome Lampedusa evoca senza dubbio, oltre all’isola italiana più vicina all’Africa che all’Italia stessa, drammi di cui ancora oggi purtroppo siamo testimoni: genti in fuga dai propri paesi in guerra oppure dall’estrema povertà che partono con la speranza di trovare serenità e vita migliore al di là del mare. Spesso questa speranza muore con loro inghiottita dalle acque. Quando riesce invece a mettere un piede all’asciutto, è ancora segnata da un percorso difficile che incontra muri, diffidenze, paure, indifferenza, accoglienza negata.

A partire da questa situazione è nato il «progetto Lampedusa»: la Conferenza degli Istituti missionari in Italia (Cimi), proprio per la fedeltà al carisma missionario ad gentes che la caratterizza, ha desiderato offrire alla Chiesa italiana il proprio contributo a servizio dei migranti costituendo una comunità intercongregazionale, maschile e femminile, in Sicilia. È un progetto che mira, più che ad aprire un centro di prima accoglienza, a offrire percorsi di formazione e sostegno, mettendo assieme, ciascun Istituto, la propria ricchezza ed esperienza nel campo della mondialità e della intercultura.

È così che a novembre 2015, suor Giovanna Minardi, missionaria dell’Immacolata, e io, missionario della Consolata, siamo partiti per la Sicilia, inviati dalla Cimi, per conoscere quanto già si sta facendo a favore dei migranti, per pensare un progetto che possa inserirsi nel contesto e rispondere alle necessità e richieste del territorio, e per trovare una diocesi disponibile a ricevere la nascente comunità. Il primo mese è stato quindi dedicato soprattutto all’incontro e al dialogo con alcune realtà della chiesa siciliana e con organismi preposti al servizio ai migranti, quali Caritas Migrantes e Centri diocesani missionari. Questo ci ha portati a visitare le diocesi di Palermo, Ragusa, Agrigento, Messina, Catania e Noto.

La Sicilia non è solo terra di sbarchi, già di per sé un problema grande e causa di molte sofferenze, ma anche di tanti migranti che si fermano e in qualche modo cercano una sistemazione lavorativa. È il caso del ragusano, nella piana di Vittoria e Acate, dove, sotto un manto di serre che producono la maggior parte degli ortaggi che troviamo sulle nostre tavole italiane, vive una popolazione di oltre 15.000 immigrati dedita al lavoro agricolo. Un lavoro stagionale per lo più sottopagato, che ha il sapore dello sfruttamento; immigrati che vivono in abitazioni fatiscenti e malsane; situazioni di precarietà a cui si affianca spesso, soprattutto verso le donne, uno sfruttamento che ha poco del lavorativo.

In questo percorso di conoscenza della realtà, ci siamo sentiti particolarmente benvenuti nella diocesi di Noto, periferia estrema della Sicilia e dell’Italia, tanto da portarci ad approfondire il dialogo con il vescovo che ha dato piena disponibilità ad accoglierci. Alcuni momenti di quell’incontro sono sembrati molto significativi, quasi una conferma di essere giunti al momento giusto, nel luogo giusto, giudati non solo dal nostro impegno, ma dallo Spirito che soffia dove vuole!

Il nostro primo appuntamento con il direttore della Caritas di Noto, il professor Maurilio Assenza, laico e totalmente volontario in questo servizio, ha scritto al cardinal Montenegro, vescovo di Agrigento: «Sì, continuiamo con segni anche belli, tra cui l’incontro con padre Ganni e suor Giovanna, missionari venuti a Modica nel loro giro siciliano per capire dove e come avviare una comunità missionaria intercongregazionale proprio mentre si apriva la Porta santa della Casa don Puglisi (casa della carità, non chiesa né santuario, ma casa che ospita mamme e figli in situazioni disagiate e tra queste anche alcune famiglie di immigrati, nda). Trovando sintonie e pensando a una collocazione in diocesi per un servizio di animazione che può allargarsi ad altre parti della Sicilia, abbiamo avuto un colloquio con il vescovo che ha accolto la proposta e affidato i passi successivi al vicario generale… Mi viene da pensare all’antica idea di un centro per la mondialità e la pace che potrebbe in qualche modo realizzarsi».

Il giorno in cui abbiamo incontrato il vescovo della diocesi di Noto, mons. Antonio Staglianò, che ha manifestato tutto il suo entusiasmo all’idea che la comunità intercongregazionale potesse mettere radici nella sua diocesi, la Chiesa celebrava la memoria di santa Giovanna Saverio Cabrini, patrona dei migranti.

Il cammino della comunità, dopo la piena approvazione della Cimi, si fa concreto. Innanzitutto con l’arrivo di altri due missionari a completare la comunità: padre Vittorio Bonfanti, dei missionari d’Africa, con venti anni di missione in Mali, terra da cui provengono un buon numero di migranti, e suor Raquel Soria, missionaria della Consolata argentina, che colora di inteazionalità la comunità nascente. In secondo luogo con lo stabilirsi a Modica in un appartamento attiguo al santuario della città, messoci a disposizione dalla diocesi.

Chiamati a portare il nostro contributo di conoscenza dell’altro, delle culture e del mondo per sensibilizzare all’accoglienza, ci siamo ritrovati a testimoniare una straordinaria accoglienza ricevuta. E questo ci fa ben sperare! La nostra comunità si inserisce in un contesto fertile, già capace di concreti gesti di solidarietà, come l’adesione al progetto Caritas della Cei, «Rifugiato a casa mia». A partire da questa realtà incontrata la comunità si inserisce suggerendo cammini di conoscenza dell’altro, diverso per cultura, lingua, nazione e fede, attingendo dall’esperienza maturata in anni di vita vissuti tra i popoli del mondo.

Sta di fatto che tutti gli Istituti missionari presenti in Italia si stanno coinvolgendo in prima persona, rispondendo concretamente a questa periferia esistenziale che ha volti e nomi di tanti fratelli e sorelle migranti che affidano le loro speranze a un viaggio in cui giocano la vita, viaggio per cui le acque del mare non sono che il primo grande ostacolo.

Gianni Treglia


5. Venezuela: Per costruire frateità

Nella «selva» di Caracas e del Delta (dell’Orinoco)

Da quasi dieci anni vagabondo per il mondo missionario. E ogni volta che too da un viaggio mi sembra di sapee meno di prima. Ho meno certezze e più dubbi. Ma è forse per questo
motivo che amo girare: perché il mondo sa ancora sorprendermi e meravigliarmi. Con questo spirito sono andato e tornato dal Venezuela un paese affascinante e contraddittorio.

Il Venezuela, una nazione benedetta da Dio con incalcolabili risorse naturali e umane, vive, oggi, un momento molto difficile della sua storia.

Nel 1999, il popolo venezuelano, stanco della situazione politica, aveva intravisto in Hugo Rafael Chávez la soluzione alla corruzione e al clientelismo, quindi la speranza del cambiamento. Oggi però, morto Chávez, con la politica in stallo tra parlamento e presidente Maduro e la gravissima crisi economica, la reale situazione del Venezuela è complessa, difficile e precaria.

La Conferenza episcopale venezuelana ha denunciato i problemi senza paura. In diverse occasioni ha manifestato la sua opposizione «all’usura, alla corruzione e alla speculazione». I vescovi hanno messo in guardia sullo spreco, sulle spese fatte in modo sfrenato: «Ci preoccupa che molte persone, in un impeto di euforia, ritengono che con l’acquisto di alcuni elettrodomestici abbiano risolto i principali problemi che li affliggono. È anche preoccupante che questo clima di euforia possa degenerare in violenza e scontri tra le persone, cosa che diventa difficile da controllare, e tutti dovremmo rifiutare». Essi ricordano continuamente che «la situazione economica del paese deve essere affrontata in primo luogo dalle autorità pubbliche in dialogo con gli uomini d’affari, commercianti e istituzioni. È necessario creare un clima di fiducia che consenta la riattivazione della produzione e dello sviluppo socio economico a vantaggio della comunità, in particolare dei più poveri e vulnerabili».

La presenza dei missionari della Consolata

La mia visita canonica in Venezuela è stata caratterizzata dalla parola chiave «frateità». Un grande valore da riscoprire e rivalorizzare. Ho incontrato persone felici di ciò che sono, missionari giovani e generosi che, pur nelle innumerevoli difficoltà quotidiane, sanno trovare e vivere la gioia dell’incontro, la forza dello stare assieme costruendo qualche cosa di buono. I sedici missionari (venezuelani, italiani e kenyani) sono disponibili, impegnati, innamorati della loro missione e della gente con cui la realizzano. La gente è aperta e molto disponibile e accogliente, ci sono persone che pur vivendo in città sanno mettersi a disposizione per la missione pagando anche di persona.

A Caracas i nostri missionari insieme ad altri missionari e missionarie di altre congregazioni hanno aperto una casa di accoglienza per persone senza casa, gente della strada che può qui trovare riparo e sostegno e, se disponibile, anche aiuto per rilanciarsi nella vita.

Carapita

A Caracas, capitale del Venezuela, abbiamo una parrocchia situata nella periferia, abitata da almeno 150-200.000 persone che vivono in casette di fortuna incollate sulle colline. È un agglomerato di problemi, violenza, droga e malavita, ma anche di gente per bene che si guadagna il pane con un duro lavoro quotidiano e che poi, alla sera, si mette ancora in coda per arrivare alla sua casetta e vivere un momento di serenità con la propria famiglia. In questa situazione i nostri missionari cercano di costruire speranza ed essere segno di consolazione per un gruppo di cristiani che, certamente, non sono maggioranza, ma sono presenza e frateità.

Inoltre a Caracas, oltre alla parrocchia di Carapita, abbiamo la Casa regionale, con un centro per l’Animazione missionaria vocazionale (Amv). La casa regionale è un pochino originale in quanto non rappresenta lo stile delle solite case regionali, luogo di uffici e di organizzazione, ma è proprio la casa di tutti e dove tutti possono trovare un letto per dormire, un pasto da condividere e qualcuno che ascolta i loro problemi. E quando dico tutti voglio dire tutti, non soltanto i missionari.

L’impegno missionario è attivamente condiviso con i laici della Consolata e con gli amici della Consolata, un’esperienza importante che vale la pena di far conoscere.

Tucupita

Tra tutte queste nostre presenze merita un ricordo particolare quella in mezzo agli indigeni. Abbiamo un’équipe di cinque missionari di diverse nazionalità che lavorano in due comunità distinte a Tucupita: una nella città stessa, dove gli indigeni si trasferiscono in tempi difficili o alla ricerca di qualsiasi tipo di lavoro, e l’altra, la Comunidad Apostólica de Nabasanuka, nella Parroquia Divina Pastora de Araguaimujo, nel Delta Amacuro dove gli indigeni Warao vivono su palafitte piantate in riva al fiume.

Il Delta Amacuro è uno degli stati del Venezuela. È situato nella parte orientale del paese nella valle dell’Orinoco e confina a Nord con l’Oceano Atlantico, a Sud con lo stato di Bolívar, a Est con l’Oceano Atlantico e la Guyana e a Ovest con lo stato di Monagas. Forma, con gli Stati Bolívar e Amazonas, una macroregione nota come Guyana venezuelana. Circa la metà della superficie dello stato (20.000 km² su un totale di 40.200) è occupata dal vasto delta del fiume Orinoco all’interno del quale si trovano numerosissime isole formate da depositi alluvionali e separate fra di loro da diversi canali navigabili.

In queste due comunità i nostri missionari, con l’aiuto di molti volontari, amici, collaboratori e laici della Consolata, cercano di essere punto di riferimento, segno di consolazione, casa di speranza. È impressionante quante persone riescano a coinvolgere e a mettere dentro il progetto, allargando sempre il cerchio, permettendo a tanti d’incontrarsi, di conoscersi, di volersi bene e di formare spazi nuovi d’interculturalità per il bene di tutti.

I laici della Consolata

Per finire questa presentazione della nostra vita e presenza in Venezuela, vorrei dire una parola sui laici della Consolata. Quasi in tutti i paesi dove siamo presenti abbiamo delle persone che si avvicinano a noi e vogliono condividere il nostro carisma, la nostra missione. Chiaramente il carisma non è proprietà di nessuno e ha valore proprio perché condiviso. Ma certamente in Venezuela ci sono giovani, coppie e famiglie, adulti speciali che hanno la volontà grande di camminare con noi fino in fondo e pagando di persona con grandi sacrifici e grande disponibilità, mettendosi al servizio della gente e della missione. Sono persone che dobbiamo ringraziare e incoraggiare in quanto la loro presenza è per noi stimolo e richiamo a essere sempre più autentici testimoni, missionari veri della Consolata. Ci stanno insegnando che il laico è titolare della missione e non eterno supplente del sacerdote, che ha un ruolo fondamentale nella missione attuale e del futuro.

Stefano Camerlengo

 

I Warao

L’etnia Warao è molto probabilmente di origine asiatica, come testimoniano i più recenti studi antropologici. Nel periodo precolombiano abitavano le più fertili terre dell’Ovest. Cacciati da una tribù di guerrieri si rifugiarono nella zona orientale del delta, in quello che oggi è parte dello stato del Delta Amacuro. Durante la fase coloniale riuscirono a mantenere una certa indipendenza dagli spagnoli grazie all’ambiente inospitale della regione.

La vita scorre con le stagioni del fiume: Rio Negro, quando il livello del fiume si alza e allaga tutte le terre emerse; Rio Amarillio, quando nel Nord la terra gialla viene trascinata al fiume dai temporali impetuosi; Rio Blanco, nella stagione di secca, in cui piove poco e la terra sedimenta lungo il corso dell’Orinoco, lasciando il fiume limpido alla fine del suo viaggio. Per ogni stagione il Warao sa cosa, come e quando si deve cacciare e pescare. Le altri fonti di sostentamento sono il platano, l’ocumo, una radice tozza di gusto simile alla manioca, e la palma di Morice, che fornisce oltre ai frutti anche una farina (yukuma) molto apprezzata. La palma di Morice è la pianta più importante per i Warao: le foglie sono usate per il tetto delle abitazioni, da queste si ricavano anche le fibre che intrecciate preparano il chinchorro (l’amaca) e tutti gli oggetti che vengono venduti in città. Dal tronco, oltre alla farina, si ottengono medicamenti contro la febbre e la dissenteria, mentre i frutti racchiudono una polpa sottilissima, schiacciata tra la buccia a dure scaglie rossastre ed il nocciolo legnoso».

Mediamente i genitori Warao hanno dagli 8 ai 10 figli. La mortalità infantile, anche a causa dell’alimentazione scarsa e poco varia, è molto elevata. Le cifre ufficiali parlano di statistiche pienamente nella media venezuelana, ma sono falsate poiché i bambini non sono registrati all’anagrafe fintanto che non raggiungono i 4 anni, quando ormai è stata superata la fase a rischio. Le coppie nella cultura tradizionale si sposano molto presto e molto semplicemente. Quando la ragazza raggiunge la pubertà, il giovane si reca dalla suocera per chiedere la mano della figlia e, ottenuto l’assenso, si stabiliscono nella casa dei genitori della sposa. Il capo clan è il padre della sposa, che tramite le figlie comunica ai generi i compiti, dal preparare il campo per la semina dell’ocumo, all’andare al monte e cercare un albero per costruire una nuova curiara (barca). Le abitazioni sono palafitte, chiuse su due o tre lati quelle modee, aperte su tutti i lati quelle tradizionali per permettere all’aria di mitigare il caldo umido del fiume. Al tetto vengono fissate delle ceste con i vestiti e le amache, e a terra, sopra delle pietre, viene acceso il fuoco per cucinare. Gli spostamenti possono essere unicamente in curiara, una canoa molto nervosa e instabile, ma che nelle mani dei Warao diventa estremamente docile.

 Federico Franzoso,
di Impegnarsi Serve

 




Cari missionari

Farinella

Spettabile redazione,
vedo che Paolo Farinella, prete, come si firma, continua a scrivere su Missioni Consolata come esperto commentatore della Bibbia. Non metto in dubbio che Farinella sia un esperto biblista, mi domando però se sia anche un cristiano. Ho ritrovato un articolo che era apparso su La Repubblica il 30 aprile dello scorso anno. Già allora avrei voluto scrivervi, ma avevo perso l’articolo in questione (nel quale Farinella attaccava apertamente Renzi come uccisore della democrazia e quindi da eliminare come  se fosse un tiranno, ndr). […] Ora io non ne faccio una questione politica ma etica; fra l’altro non sono un ammiratore del presidente del consiglio. Farinella identifica Renzi come un tiranno da uccidere, parla di andare in montagna a fare la resistenza come se Renzi fosse Mussolini, il Mussolini di Salò. Ciò mi ricorda quello che qualche intellettuale scriveva negli anni Settanta a proposito del governo e della Dc e che spinse qualche giovane a darsi al terrorismo. Ebbene, io gli anni settanta li ricordo e non voglio più leggere una rivista che ospita un collaboratore che scrive in modo simile a quegli intellettuali degli anni Settanta, che furono poi definiti «cattivi maestri». Vi prego perciò di togliere il mio nome dalla vostra mailing list.

Paolo Cozzi
Milano, 11/03/2016

I rapporti tra questa rivista e don Paolo Farinella sono ben chiari da tempo: collabora con noi soprattutto per quell’ottimo biblista che è lasciando in secondo piano il cittadino appassionatamente impegnato in politica, quella con la «p» maiuscola, la più grande virtù civica e sociale.

Separati chiaramente i due ambiti, stiamo lavorando insieme in amicizia e rispetto reciproco. Qualcuno, anche tra i miei passati superiori, ha pensato che questa fosse una scelta di comodo, come se di don Paolo noi «usassimo» solo quella parte che ci conviene chiudendo non solo un occhio, ma tutti e due, sulle sue posizioni critiche rispetto alla politica, alla Chiesa e al papa stesso. I direttori miei predecessori, e io stesso, abbiamo ricevuto forti pressioni perché don Farinella sparisse dalle pagine di questa rivista.

Lui continua a essere pubblicato su MC perché i suoi scritti sono un aiuto di grande qualità a conoscere e amare la Parola di Dio. Per questo, pur non condividendo alcune delle sue valutazioni ed esteazioni politiche ed ecclesiali, ritengo che gli scritti di don Paolo, a cui rinnovo la stima di tutta la redazione, arricchiscano queste pagine.

Certo, mi spiace che il nostro lettore si sia sentito disturbato da quello che don Farinella scrive o che scrivono di lui su altre pubblicazioni al punto da rifiutare la nostra rivista. Perdere un lettore non può essere motivo di gioia. Ricordo però che alla fine del ciclo sulle nozze di Cana, abbiamo ricevuto molte email e telefonate che esprimevano disappunto al non trovare più le pagine di «Così sta scritto».

La nostra non è una rivista che vuol piacere a tutti i costi. Conosciamo i nostri limiti e cerchiamo di servire la Verità con passione e rispetto, senza pretendere di avee il monopolio.

Quanto alla fede di don Paolo, se neppure il suo vescovo ha sentito il bisogno di sospenderlo dal ministero sacerdotale, benché sia stato apertamente criticato dallo stesso, chi sono io per giudicarlo?

Ragioni di speranza

Caro padre,
oggi è l’11 marzo, giornata mondiale delle persone con sindrome di down e il mio pensiero ha associato le tue riflessioni contenute nell’editoriale «Non si eliminano così anche gli ulivi?» a una recente esperienza che ho vissuto per ragioni di lavoro e che mi ha riempito di ammirazione e di speranza. Ho incontrato una coppia di genitori che hanno adottato un bambino down che quest’anno compie due anni; da quando è presso la famiglia adottiva, e cioè da un anno circa, ha fatto tanti progressi e la cosa più sorprendente è l’impegno che mette in atto per corrispondere alle attenzioni e agli stimoli che riceve, tanto da arrabbiarsi se non riesce a padroneggiare, ad esempio, il meccanismo del gattonamento che gli consentirebbe di spostarsi da solo. Effettua esperienze, quando non è a casa o al baby parking di logopedia, psicomotricità e musica, e i genitori sono in contatto con centri down di diverse città per essere informati riguardo tutte le possibilità educative, scolastiche, terapeutiche e giuridiche atte ad accompagnarlo nell’apprendimento e nella conquista dell’autonomia presente e futura.

Le tue parole riguardo la specificità dell’uomo che è «la capacità di gratuità, d’amore, di dono di sé, di sacrificio e di pensare “noi” e non solo “io”» l’ho vista incarnata in  questa coppia che con gioia ha confermato l’adozione di un bambino che secondo certe logiche comporterebbe molte spese sociali e molti problemi. Il loro amore è veramente generativo e contagioso e non può che sostenere la speranza che un tale tipo di amore non sia scomparso! Se la cura e il rispetto per la vita fossero anche trasferiti agli ulivi affetti da Xylella, a mio parere, in quanto figlia di un contadino con la passione per le piante, forse si troverebbe un rimedio meno drastico del loro abbattimento.

Auguro una Santa Pasqua, evento che fonda la fede che cerchiamo di vivere e anche un po’ di capire!

Milva Capoia
Collegno, 21/03/2016

A mio zio, padre Ottavio Santoro

Carissimi,

sono Vita, la nipote di Padre Ottavio Santoro. Mi piacerebbe pubblicaste il testo seguente che ho letto nella chiesa del Resurrection Garden, a Nairobi, il 24 novembre scorso durante il funerale di mio zio.

«Purtroppo ho perso un altro “pezzo” della mia famiglia. Dopo la morte di mio padre, padre Ottavio è stato un secondo padre per me. Questa per me è una grandissima perdita. Penso che lo sia anche per tutta la Comunità dei Missionari della Consolata e la Chiesa. Padre Ottavio ci ha lasciati con il corpo, ma il suo spirito rimarrà per sempre con noi. Qui, al “Resurrection Garden”, “lui” è in ogni angolo, in ogni fiore, in ogni pietra, tutto parla di “lui”.

Ha vissuto da povero, ma ha fatto delle cose meravigliose.  Ha lavorato in silenzio per dare voce a Dio con la consapevolezza del potere dell’amore e non dell’amore per il potere. La sua priorità sono sempre stati i poveri e i bambini per dare dignità a tutti davanti alla vita.

Da vent’anni la Pasqua l’ho sempre trascorsa con lui. La scorsa Pasqua mentre chiacchieravamo, mi diceva compiaciuto, che nei giorni precedenti, in un solo giorno, erano state celebrate venti Messe (da vari gruppi nelle varie chiese e cappelle del Resurrection Garden, ndr). Gli ho risposto che stava facendo concorrenza a San Pietro a Roma. Non mi ha risposto, ma il suo lungo sguardo, mi ha detto che il suo obiettivo era stato raggiunto e cominciava a fare i conti con la vita.

Alla fine di maggio (2015), quando si è definito il viaggio del Santo Padre, in una mail mi ha chiesto di raggiungerlo. Ho prenotato subito il volo, ma la sensazione che ho avuto è che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. Vorrei ringraziare tutti coloro che l’hanno sostenuto e aiutato. Un grazie particolare a Ceghe, Anastasia, Peter, Michael, Solomon e Michael per l’amore con cui l’hanno servito. Amiamolo come “lui” ci ha amati e preghiamolo che possa riposare in pace. Che Dio ci benedica».

Chi era padre Ottavio Santoro?

95 Pope JPII - 085cutNato a Martina Franca (Ta) nel 1933, dieci anni dopo entra nel seminario dei Missionari della Consolata a Parabita (Le). Dopo il noviziato in Certosa Pesio, la filosofia a Torino e la teologia a Washington negli Usa, nel 1958 è ordinato sacerdote ed è subito destinato al Kenya dove arriva alla fine dello stesso anno. In Kenya rimane fino alla morte, a parte un breve periodo di servizio nell’animazione missionaria negli Usa tra il 1964 e il 1968. Dopo i primi anni come vice parroco, vice rettore nel seminario diocesano, professore in una scuola secondaria, nel 1972 è nominato amministratore di tutte le opere della Consolata in Kenya. In questo servizio rivela un particolare talento e buon gusto per le costruzioni, tra cui il Seminario filosofico e l’espansione della Consolata School in Nairobi, considerata ancor oggi una delle migliori scuole del Kenya. Dal 1986 al 1994 è amministratore della nascente Università Cattolica dell’Africa orientale (Cuea) a Lang’ata, Nairobi, che sotto la sua guida si arricchisce delle strutture fondamentali. Per non restare con le mani in mano, nello stesso tempo segue la costruzione del seminario teologico della Consolata, l’Allamano House, e del Tangaza College, l’università teologica della maggior parte delle congregazioni religiose che sono in Kenya. Nel 1990 il cardinal Otunga lo spinge a iniziare la costruzione del Resurrection Garden (Giardino della Resurrezione), inaugurato nel 1994. Il giardino si espande su un’area di circa otto ettari con un percorso di cappellette e piloni, decorati con mosaici e bronzi raffiguranti scene bibliche, che si conclude nel vasto santuario centrale: la chiesa della Pentecoste. Nel giardino ci sono anche 112 lapidi su cui è inciso il «Padre nostro» in altrettante lingue dei cinque continenti, una casa per esercizi spirituali, una per ritiri e incontri di formazione e varie casette per ritiri individuali. Il giardino, diventato ecumenico, è meta di pellegrinaggi, da tutte le diocesi del Kenya. Nel settembre 1995 Giovanni Paolo II vi concluse il primo Sinodo africano. Dal 2005 in una cappella del giardino riposa il corpo del cardinale Maurice Michael Otunga di cui P. Ottavio ha promosso la causa di beatificazione diventandone il primo postulatore. Padre Santoro ha ricoperto il ruolo di direttore del «Centro Ecumenico di Spiritualità Resurrection Garden» fino alla morte, avvenuta il 18/11/2015, rivelandosi non solo un raffinato costruttore, ma un uomo di grande spiritualità con una particolare attenzione ai poveri, come ben sanno gli oltre 400 bambini di cui seguiva attentamente il progresso grazie al sostegno a distanza degli amici del Grg (Gruppo Ressurrection Garden di Modena).

Vita Santoro,
Martina Franca, 16/03/2016

Padre Pierino Schiavinato

Padre Pierino Schiavinato
Padre Pierino Schiavinato

La mattina di questo Venerdì santo 2016 padre Pierino Schiavinato è andato a far compagnia ai santi. Nato nel 1939 a Montebelluna (Tv), sacerdote nel 1964, laureato in storia ecclesiastica, disciplina che insegna agli studenti di teologia, lavora per un breve periodo in questa rivista agli inizi degli anni ‘70 e poi viene inviato in Kenya, nel Meru, dove rimane fino al 1988 quando è incaricato di iniziare la rivista The Seed, che a fine 1992 consegna, ben avviata, al futuro direttore di MC. Dopo una parentesi prima a Londra, come professore di storia, e poi in Canada per animazione missionaria, rientra in Kenya con il nuovo secolo ed è inviato nella missione di Matheri, sempre nel Meru, dove rimane fino al 2014, quando è trasferito a Mukululu insieme a fratel Argese. Un’improvvisa malattia lo costringe a rientrare in Italia, dove, nonostante le lunghe cure, conclude la sua bella battaglia proprio nel giorno in cui il ricordo dell’Annunciazione del Signore e quello della sua morte coincidono.
Con noi lo piangono gli amici della Avi (Associazione Volontariato Insieme), di Montebelluna che tanto hanno collaborato con lui nell’amata terra del Meru.

Perdonino i lettori questo commento, ma alcuni parenti di missionari e anche miei confratelli hanno chiesto perché pubblichiamo la notizia della morte di alcuni confratelli e non di altri. Come regola pubblichiamo quello che i lettori ci mandano; raramente ne diamo la notizia noi stessi, come nel caso di padre Schiavinato, che ha avuto direttamente a che fare con questa rivista. Non vogliamo discriminare nessuno, ma in questi anni l’Istituto sta crescendo in Paradiso al ritmo di una ventina all’anno: 26 (2013), 18 (2014) e 20 (2015). I loro profili e i ricordi sono pubblicati in una nostra pubblicazione intea e, in forma ridotta, su «Famiglia IMC», la piccola rivista trimestrale per parenti e amici. Se qualcuno ha piacere di ricordare qualche nostro missionario su queste pagine, sappia di essere sempre benvenuto.

Clericus Cup

Il Seminario teologico internazionale IMC di Bravetta ha partecipato al mondiale di calcio pontificio. La Clericus cup è un campionato di calcio per sacerdoti, religiosi e seminaristi che studiano nelle università pontificie di Roma, promosso dal Centro Sportivo Italiano, dalla Conferenza episcopale italiana e dai Pontifici Consigli per i Laici e della Cultura. La Clericus cup è stata iniziata nel 2007 con l’obbiettivo di fare entrare lo sport nell’esperienza della vita sacerdotale, religiosa.

Nel 2016, anno della misericordia promulgato da Papa Francesco, si sta realizzando la decima edizione della coppa, che dura da febbraio fino a maggio, con il motto «la misericordia scende in campo» stampato sulle maglie.

Il Seminario teologico internazionale di Bravetta ha partecipato per la prima volta. Il campionato è un bel momento di fratellanza religiosa e di interscambio tra i vari istituti e congregazioni. Oltre alla nostra, hanno partecipato le squadre dei monaci Benedettini, del Collegio Nord-americano, degli Agostiniani e del Collegio Urbano che da due anni consecutivi è il vincitore della coppa. È stata una bella esperienza, anche se dopo una prima vittoria abbiamo subito due sconfitte consecutive e siamo stati eliminati. Ma ci stiamo già preparando all’edizione del 2017.

Eugenio Bento Cristovao
Bravetta, 14/03/2016

 




L’asino muoia, ma il carico arrivi

Ritornare in Tanzania con appena 62 anni di missione sulle spalle.

Ottantasette anni compiuti il 5 febbraio scorso, padre Giovanni Giorda, originario di Piossasco (To), missionario della Consolata, ci conduce in un duplice viaggio: nella storia della Chiesa tanzaniana e nella sua esperienza missionaria iniziata 62 anni fa.

<!--
/* Font Definitions */
@font-face
{
panose-1:2 15 5 2 2 2 4 3 2 4;
mso-font-charset:0;
mso-generic-
mso-font-pitch:variable;
mso-font-signature:-1610611985 1073750139 0 0 159 0;}
@font-face
{
panose-1:2 15 7 2 3 4 4 3 2 4;
mso-font-charset:0;
mso-generic-
mso-font-pitch:variable;
mso-font-signature:-1610611985 1073750139 0 0 159 0;}
/* Style Definitions */
p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal
{mso-style-priority:99;
mso-style-unhide:no;
mso-style-qformat:yes;
mso-style-parent:"";
margin:0cm;
margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:none;
mso-layout-grid-align:none;
text-autospace:none;
font-size:12.0pt;

mso-fareast-
mso-bidi-
color:black;}
.MsoChpDefault
{mso-style-type:export-only;
mso-default-props:yes;
font-size:10.0pt;
mso-ansi-font-size:10.0pt;
mso-bidi-font-size:10.0pt;}
@page WordSection1
{size:612.0pt 792.0pt;
margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm;
mso-header-margin:36.0pt;
mso-footer-margin:36.0pt;
mso-paper-source:0;}
div.WordSection1
{page:WordSection1;}
--
«Nel 2000 in diocesi vi fu un pellegrinaggio della croce. Nella parrocchia di Tosamaganga era programmato per 14 giorni. Un giovane, come risposta a un mio commento sulla fatica di accompagnare la Croce di Gesù per due settimane attraverso tutte le 17 succursali della parrocchia (avevo 73 anni), mi disse: “Punda afe, mzigo ufike”, “l’asino muoia, ma il carico giunga a destinazione”. Anche la gente aveva capito che quell’asino ero io, e il carico era la Croce di Gesù da portare a destinazione, cioè ai poveri, agli ammalati, agli orfani, ai catecumeni». La sua voce ci accompagna in luoghi e tempi lontani. Ci pare di essere di fronte non a una singola persona, ma a un’intera nazione, la Tanzania, e a un’intera Chiesa, quella locale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento. Ci sembra di stare di fronte alle generazioni che si sono avvicendate - anche a quelle vissute prima del suo arrivo - nelle terre in cui padre Giovanni Giorda ha speso più di 60 anni di sacerdozio. Abbiamo la netta impressione che tutte le esperienze vissute in più di mezzo secolo stiano lì, vivide dietro le sue palpebre, scalpitanti dietro le sue labbra, ansiose di lasciarsi conoscere. Forse per questo padre Giovanni tende ad aggirare le nostre domande per seguire un suo filo. Il suo racconto è irrefrenabile, con un suo formulario ben definito, un suo percorso sicuro, affinato da una probabile consuetudine a proporlo e riproporlo con il medesimo intreccio narrativo. La storia in questo modo assume una dimensione quasi epica, che viene suffragata dal volto solcato da rughe profonde, dagli occhi consumati e brillanti allo stesso tempo, da una gestualità insolitamente contenuta per un italiano. Quello che padre Giovanni Giorda ci trasmette è l’esperienza di un Dio che accompagna il suo popolo, i poveri, gli ammalati, i giovani della Tanzania, nel susseguirsi dei decenni, delle storie personali e famigliari, comunitarie e nazionali.
Padre Giovanni, puoi dirci qualcosa di te?
«Sono stato ordinato sacerdote diocesano il 29 giugno 1950 nel duomo di Torino dal cardinal Fossati insieme ad altri ventidue compagni. Oggi siamo rimasti in cinque, gli altri sono in paradiso che pregano per noi. In seminario ho sempre preso parte ai circoli missionari. Dopo l’ordinazione, com’era consuetudine per i preti giovani, sono andato a stare nel Convitto della Consolata. È stato in quel periodo che mi sono deciso, e il 16 luglio 1951, con altri due preti, uno di Mondovì che è poi diventato vescovo in Colombia, mons. Cuniberti, e padre Franco Cravero, originario di Torino, siamo andati alla Certosa di Pesio (Cn) per fare il noviziato dai missionari della Consolata. Il 16 luglio 1952 abbiamo fatto i voti, e quel giorno padre Cravero e io abbiamo ricevuto la lettera con la destinazione: Tanganika (l’attuale Tanzania). Il 9 dicembre 1952 siamo partiti. In treno fino a Venezia, poi in motonave per 14 giorni fino a Dar es Salaam. Sbarcati la vigilia di Natale, abbiamo proseguito via terra per Tosamaganga, a 500 km. Qui abbiamo cominciato la missione».
Quindi Tosamaganga, che è la missione in cui tutt’ora lavori, è stata la tua prima destinazione?
«No. Appena arrivato lì, sono partito per la missione di Malangali, Itengule, a 150 km a Sud, per tre mesi. Poi un padre della missione di Ujewa si è ammalato, e sono andato lì a sostituirlo: era la Pasqua del 1953. Per visitare i villaggi inizialmente andavo a piedi, poi in bicicletta. La zona di Ujewa appartiene alla tribù dei Wasangu. Si trova a un’altitudine di mille metri, ma fa molto caldo, a differenza della zona di Tosamaganga, che è a 1500 metri. La zona del Tanganika del Sud dove ho trascorso tutta la mia vita missionaria si chiama Southe Mainland Province, la zona degli altipiani del Sud, in cui clima e agricoltura sono molto buoni. Ciò che viene coltivato lì serve anche per le altre regioni che sono più secche. Alla fine del 1953 il vescovo mi ha chiesto di andare a insegnare in seminario. Così sono tornato a Tosamaganga. Questa volta per rimanerci diversi anni insegnando filosofia e teologia. Parecchi miei studenti sono diventati sacerdoti e vescovi. Alcuni sono già in paradiso e pregano anche per me».
Puoi raccontarci qualcosa della chiesa locale?
«Per il Tanzania del Sud, Tosamaganga è stata la base dell’evangelizzazione. La chiesa cattolica in Tanganika è entrata nel 1868 con i padri missionari dello Spirito Santo che, arrivando dalle isole Réunion e passando da Zanzibar, sono sbarcati a Bagamoyo. A loro era stata affidata la parte Nord del paese - ricordo che nel 1968, quando ero a Kilolo, una missione nella regione di Iringa a circa 1800 metri di altitudine, al freddo, abbiamo festeggiato i 100 anni della chiesa cattolica Tanzaniana -. Dieci anni dopo, nel 1878, sono arrivati dall’Uganda i missionari d’Africa, i cosiddetti padri Bianchi. A loro era stato affidato tutto il Tanganika dell’Ovest. Rimaneva scoperto il Tanganika del Sud. Così nel 1888, dalla Germania, sono arrivati i missionari benedettini. La loro prima missione è finita male: arrivati a Dar es Salaam si sono messi a liberare gli schiavi, e gli arabi che facevano affari con il commercio degli schiavi sono saltati loro addosso uccidendone diversi. La seconda spedizione è avvenuta nel 1891. Questa volta è andata meglio, e nel 1896 sono arrivati a Tosamaganga i primi due missionari. Per quella regione del paese il governo colonizzatore tedesco aveva messo il proprio quartier generale a Iringa, che è attualmente la capitale della regione omonima di Iringa. Lì, ai tempi, c’era il sultano dei Wahehe. I due benedettini, arrivati nella zona proprio per evangelizzare i Wahehe si sono stabiliti su una collina, non troppo vicini e nemmeno troppo lontani dal quartier generale dei tedeschi, distante circa 12 km. Il 1° gennaio 1897 la stazione missionaria di Tosamaganga è stata inaugurata. In quello stesso anno ci sono stati i primi otto battesimi - nell’ufficio parrocchiale conserviamo ancora i registri di quei tempi -, e i benedettini hanno anche fondato un’altra missione per evangelizzare i Wasangu a Madibira, a 150 km a Sud. Nel 1898-99 sono arrivate le suore benedettine. Delle prime quattro, morte giovanissime, si conservano ancora le tombe nel cimitero di Tosamaganga. In seguito i benedettini hanno fondato diverse altre missioni anche a Nord e a Est».  
E i Missionari della Consolata quando sono arrivati?
«Poi è iniziata la prima guerra mondiale. Dal Kenya, colonia britannica, gli inglesi sono scesi in Tanganika per attaccare i tedeschi, e li hanno vinti. I missionari dello Spirito Santo e i padri Bianchi non sono stati toccati, perché non erano tedeschi, ma i benedettini nel 1918 sono stati radunati a Dar es Salaam ed espulsi. Il vescovo del vicariato apostolico di Dar es Salaam, che a quei tempi comprendeva anche il territorio di Iringa, sapeva che in Kenya c’erano dei missionari italiani, e ha scritto una lettera a mons. Filippo Perlo, missionario della Consolata, per chiedergli un “prestito” di personale. È stato così che i primi quattro missionari della Consolata sono partiti per il Tanganika, e sono arrivati a Tosamaganga il 26 maggio 1919. Mons. Perlo li aveva mandati senza interpellare il beato Allamano, e nemmeno il papa. Solo a cose fatte ha scritto una lettera in cui diceva: “In genere, quando uno ha bisogno di aiuto, si rivolge ai ricchi, non ai poveri. Si sono rivolti a noi poveri, per un aiuto. E noi abbiamo risposto di sì, cercando di fare un’opera di carità”». Si commuove padre Giorda ricordando la lettera di mons. Filippo Perlo. La voce gli trema. Quelle parole lo toccano. Le sente sue. «Noi missionari della Consolata siamo arrivati in Tanzania in prestito. E ci siamo ancora. Ora siamo una sessantina senza contare le suore, e siamo presenti in diverse diocesi. Sparsi per il mondo ci sono anche una quarantina di missionari della Consolata nativi del Tanzania. La prefettura apostolica di Iringa è stata eretta nel 1922, separandone il territorio dalla prefettura di Dar es Salaam, e in quell’anno è partita la prima spedizione di missionari della Consolata direttamente dall’Italia, non più dal Kenya: preti, fratelli e suore, arrivati a fine gennaio 1923. Il superiore di quella spedizione era mons. Francesco Cagliero, di Castelnuovo don Bosco, che ha retto quella prefettura dal ’23 al ’35, fondando diverse stazioni missionarie. Morto per incidente stradale, gli è subentrato nel ’36 mons. Attilio Beltramino, che ho assistito all’ultima sua messa il 3 ottobre 1965, quando è morto per infarto. Beltramino in 30 anni ha avviato quasi 30 stazioni di missione. Nel frattempo la diocesi di Iringa è stata divisa in due, con la nascita della diocesi di Njombe. Zone in cui la popolazione era pagana e dove il cristianesimo è stato accolto. Dai missionari della Consolata sono nati anche altri istituti religiosi: mons. Cagliero nel 1931 ha fondato l’istituto delle suore africane di Santa Teresa del Bambino Gesù. Oggi sono circa 400 consacrate. Alcune sono missionarie in Sicilia, altre in Haiti. Mons. Beltramino durante la seconda guerra mondiale ha dato inizio, assieme a padre Ghiotti, alla congregazione dei fratelli africani Servi del Cuore Immacolato di Maria. Oggi una congregazione fiorente presente in diverse zone del Tanzania».
Tornando a te. Dopo Itengule e Ujewa nel 1953, sei andato a insegnare al seminario di Tosamaganga. Quanto sei rimasto lì, e cosa hai fatto dopo?
«Dopo la morte di mons. Beltramino nel 1965, ho lasciato Tosamaganga per andare in una missione appena aperta, Kilolo, dove sono stato fino alla fine del 1969, incaricato della parrocchia e dei fratelli africani. Dal ‘70 sono stato parroco a Tosamaganga. Dopo 10 anni sono ritornato nella zona di Ujewa in cui ero stato all’inizio, nella parrocchia di Chosi, 265 Km a Sud di Iringa, dall’80 all’89. Lì ho patito il caldo come mai in vita mia. Nell’89 sono tornato a Tosamaganga, dove sono stato parroco fino al 2007, quando ho compiuto 80 anni! Da allora sono coadiutore del nuovo parroco, p. Giacomo Rabino».  
Ci puoi parlare dell’aspetto spirituale della tua esperienza missionaria?
«Ormai sono più di 60 anni che vivo in Tanzania. Sono più tanzaniano che italiano. In questi anni ci sono stati alcuni punti forti nella mia vita spirituale. Ne vorrei elencare quattro. Il primo è il motto del beato Giovanni XXIII: “Obbedienza e pace”. Con l’obbedienza si acquista la pace del cuore. Un secondo punto l’ho scoperto nel 1987. Ero venuto in Italia per la mia mamma ammalata. Ritornando in Tanzania ho fatto tappa un paio di giorni ad Addis Abeba. La provvidenza ha voluto che in quei giorni Madre Teresa di Calcutta fosse lì. Ricordo ancora l’incontro che ho avuto con lei. Abbiamo parlato un quarto d’ora. Poi lei mi ha dato un’immagine che raffigurava Gesù flagellato, con le parole del Salmo 69: “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati”. E di suo pugno ha scritto: “Be the one”, “Sii tu quello” (che consola Gesù). Terzo punto, nel 1996. Sulla rivista Jesus ho letto il teologo Hans Urs von Balthasar che spiegava la messa: “Abbiamo ridotto il ‘fate questo in memoria di me’ all’invito a ripetere un rito, ma l’eucaristia presenta Gesù che dà la vita, e quindi quando dice ‘fate questo in memoria di me’, dice ‘fatelo anche voi’, ‘date la vita per i vostri fratelli come io l’ho data’”. Con il quarto punto arriviamo al 2000: ero parroco a Tosamaganga, che allora contava 17 succursali distanti anche 15-20 km. La diocesi di Iringa aveva programmato il pellegrinaggio della croce, che a Tosamaganga è durato 14 giorni. Io ho detto ai giovani che per me sarebbe stata una grande fatica girare per due settimane in tutte le succursali, e un ragazzo mi ha risposto: “Padre, non avere paura”. E poi ha aggiunto: “Punda afe, mzigo ufike”, cioè “l’asino muoia, il carico giunga a destinazione”. L’asino ero io. E il carico era la croce di Gesù. Un proverbio africano che non avevo mai sentito. Anche Gesù dice: “Se il chicco di grano muore porta frutto”. Però io non sono ancora morto, nonostante in questi 60 anni ne abbia corso diverse volte il pericolo. Nel 1982, ad esempio, mi hanno portato all’ospedale di Tosamaganga per la malaria. Una suora mi ha assistito per tutta la notte perché era convinta che io “partissi”. Un’altra volta, nel 1958, sono caduto in un burrone con un camion, ma non mi sono fatto niente… Quello che è importante per me, e per tutti i missionari, è far sì che il carico, cioè Gesù, la sua grazia, il suo perdono, la sua misericordia, la sua bontà giungano alla gente. Facendo quello che faceva Gesù stesso: predicare il Vangelo, curare gli ammalati, insegnare».
Qual è lo stato attuale della Tanzania?
«Abbiamo moltissimi orfani. Alcuni di questi sono sieropositivi. Noi cerchiamo di aiutarli con il cibo, con le spese per la scuola. A Tosamaganga seguiamo almeno una ventina di scuole attraverso i nostri catechisti diffusi sul territorio che ci segnalano le situazioni di difficoltà. Riguardo al cibo, aiutiamo attraverso le nostre piantagioni: abbiamo mais, fagioli, girasoli. Dobbiamo dire grazie ai benefattori italiani che, nonostante la crisi, continuano a dare le loro offerte. Pochi giorni fa un giovane tanzaniano che ora è a Dodoma per studiare all’università mi ha scritto una mail. È un ragazzo orfano che riceve un contributo dal governo, ma che deve pagare una parte delle spese. Mi ha chiesto aiuto, e io gliel’ho promesso».
Che differenze ci sono tra la Tanzania del ‘52 e quella di oggi?
«I ragazzi di allora erano addormentati. Oggi sono vivaci quasi come i nostri italiani. Dal punto di vista politico, oggi c’è un sistema con più partiti, nonostante ci sia al potere sempre il vecchio partito, quello di Julius Nyerere che ha portato all’indipendenza nel 1961 e che, dopo l’unione del Tanganika con Zanzibar nel 1964, ha preso il nome di Ccm (Partito della rivoluzione). Questo è ancora al governo nonostante sia pieno di corruzione. Vedremo cosa succederà quando nel 2015 ci saranno le elezioni. La gente del Tanzania è gente calma, che sopporta e sta in silenzio. Negli ultimi anni però non sopporta più. C’è una nuova generazione che ha studiato. Le università sono piene di giovani che capiscono la situazione e iniziano a dimostrare».
Ci sono problemi di radicalismi religiosi.
«Non molti, ma dobbiamo stare all’erta perché, specialmente a Zanzibar, dove la popolazione è quasi tutta musulmana, c’è un gruppo di estremisti denominato Uamsho (Risveglio) che due anni fa ha ucciso un prete cattolico. Ogni tanto si sente di questi gruppi che bruciano le chiese. Un anno fa nella zona di Arusha c’è stato un attentato contro il vescovo e il nunzio apostolico che dovevano inaugurare una chiesa: è passato un uomo in moto e ha gettato una bomba. Ci sono stati tre morti. Dall’ultimo censimento sembra che in Tanzania vivano tra i 42 e i 45 milioni di persone. Tutte le denominazioni cristiane: cattolica, luterana, anglicana, ecc. contano più del 50% della popolazione. I cattolici sono poco meno del 30%. In seguito ai fatti di violenza religiosa che da almeno un anno destabilizzano il Tanzania, tutte le chiese cristiane si sono incontrate per riflettere su cosa fare».
Quindi il dialogo con le altre chiese cristiane è positivo. Ma con i musulmani come va?
«I musulmani sono al massimo il 30%. Sono concentrati soprattutto sulla costa, verso la quale da molti anni c’è una continua migrazione di cristiani dall’interno del paese: Dar es Salaam oramai ha almeno 50-60 parrocchie. Le relazioni tra i fedeli delle due religioni sono buone. Il problema sono gli estremisti che vogliono coinvolgere sempre più persone. Nel territorio di Tosamaganga c’è qualche gruppo di musulmani, ma sono tranquilli. A Iringa ci sono diversi musulmani, e alcuni di questi vanno all’università cattolica».
Come viene percepito il nuovo pontefice nella chiesa tanzaniana?
«Noi missionari siamo molto contenti. Lo Spirito santo ha lavorato per l’elezione di papa Francesco. Qualcuno è preoccupato perché va troppo in mezzo alla gente, e così facendo si prende dei rischi. Ma sopra eventuali malfattori con cattive intenzioni c’è il Signore, c’è lo Spirito Santo che li tiene a bada, e che aiuteranno il papa a portare avanti tutte le riforme che presenta. Noi siamo contenti perché Francesco mostra uno stile di chiesa che noi missionari un pochino avevamo già: andare in mezzo ai poveri, agli ammalati, aiutarli». Parlando del papa e dei poveri padre Giorda si commuove di nuovo. È bello ascoltare la sua voce rotta dall’emozione di un’intera vita dedicata alla missione.

Luca Lorusso

CRONOLOGIA:
  • 9 dicembre 1952: partenza da Venezia
  • 24 dicembre 1952: arrivo a Dar es Salaam e partenza per Tosamaganga
  • Fine 1952-Pasqua 1953: missione di Malangali, Itengule
  • Pasqua 1953-fine 1953: Ujewa
  • 1954-1965: Tosamaganga seminario
  • 1965-1969: a Kilolo parroco
  • 1970-1980: parroco a Tosamaganga
  • 1981-1988: a Chosi
  • 1989-2007: parroco a Tosamaganga
  • 2007-oggi: coadiutore a Tosamaganga.