Un vescovo che sussurri il Vangelo

testi di Federica Bello, cardinal Luis Antonio Tagle, Anto nio Pompili e Camilla Ceraso
foto di Gigi Anataloni, quando non specificato diversamente |


L’ordinazione episcopale di padre Giorgio Marengo, primo missionario della Consolata nel paese asiatico, prefetto apostolico di Ulan Bator. «È la terra che il Signore ha pensato per me».

Nella sacrestia del santuario

Con gli sguardi rivolti all’effigie della Consolata, cuore del santuario torinese dedicato alla Vergine, mentre si diffondeva l’audio di un canto a Maria in lingua mongola, musicato nelle steppe. Si è conclusa così, la mattina dell’otto agosto scorso, a testimoniare quel profondo legame di «cuore e Vangelo» tra la Chiesa torinese e quella mongola (che ha seguito la diretta web), la consacrazione episcopale di padre Giorgio Marengo, primo missionario della Consolata nel paese asiatico, che lo scorso aprile papa Francesco ha nominato prefetto apostolico di Ulan Bator (o Ulaanbaatar), dal nome della capitale.

La consacrazione è avvenuta per le mani del cardinale Luis Antonio Tagle, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Coconsacranti Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, e il cardinale Severino Poletto, arcivescovo emerito della città, che nel 2001 ordinò sacerdote padre Marengo. Concelebranti numerosi vescovi del Piemonte, l’arcivescovo Gabriele Giordano Caccia, rappresentante della Santa Sede all’Onu, il superiore dei missionari della Consolata, padre Stefano Camerlengo, confratelli dell’Istituto missionario e preti diocesani. Stretti intorno alla famiglia – la mamma Laura e la sorella Mariachiara -, anche tutto il consiglio delle missionarie della Consolata. Palpabile la gioia per la consacrazione di un sacerdote molto amato ovunque ha operato.

Chi è Giorgio Marengo?

Vescovo titolare di Castra Severiana (antica diocesi dell’Algeria), padre Marengo, cuneese di nascita (7 giugno 1974) è cresciuto a Torino dove è stato scout e ha frequentato le parrocchie di sant’Alfonso e Maria Regina delle Missioni. Entrato nel seminario dei missionari della Consolata a Rivoli (To) nel settembre 1993, ha studiato filosofia alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (1993-95). Dopo un anno di noviziato a Vittorio Veneto (Tv) ha emesso i primi voti il 25 agosto 1996. Trasferito nel seminario di Bravetta (Roma), ha completato gli studi di teologia nella Pontificia Università Gregoriana (1996-99). Ha poi compiuto ulteriori studi presso la Pontificia Università Urbaniana, conseguendo licenza (2002) e dottorato in missiologia (2016).

Ordinato sacerdote a Torino da mons. Severino Poletto il 26 maggio 2001, dal 2003 ha svolto il suo ministero pastorale in Mongolia, dove è stato uno dei primi due missionari della Consolata a entrare nel paese. Dal 2016 ha avuto il compito di coordinare i gruppo dei missionari in Mongolia ed essere membro del consiglio della Regione Asia, che include anche i missionari presenti in Corea del Sud e in Taiwan.

La consacrazione episcopale sarebbe dovuta avvenire a Ulaanbaatar, ma per la pandemia la scelta è caduta su Torino, in quel santuario «dove mi piace pensare che il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, oggi si unisca a noi – ha ricordato il rettore, monsignor Giacomo Martinacci – non dal coretto a lato dell’altare, dove sostava per invocare la Consolata, ma dal cielo per assicurare a padre Giorgio la sua preghiera».

La grande prostrazione mentre si invoca lo Spirito

Vantarsi solo dell’Amore

Una preghiera segnata dalla commozione in tanti momenti della celebrazione a partire dalle parole che il cardinale Tagle ha rivolto a padre Marengo: un invito a sperimentare nel suo ministero «l’amore rassicurante di Dio che dà la capacità di essere profeti e l’umiltà di chi non è padrone ma custode del gregge». «Un vescovo – ha aggiunto – può solo vantarsi dell’amore compassionevole di Gesù».

E poi l’augurio: «Lascia che il tuo cuore, che i tuoi scritti, le tue parole, i tuoi sorrisi sussurrino Gesù alla gente, ai poveri, ai sofferenti, alla steppa, ai fiumi, agli eterni cieli blu della Mongolia. Sussurra Gesù con la fiducia e la condivisione del tuo cuore e così nelle tue conversazioni, nei momenti di convivenza e nelle tue serate silenziose in Mongolia lo Spirito Santo porterà il tuo umile sussurro anche alle terre e ai cuori a te inaccessibili».

La grande prostrazione mentre si invoca lo Spirito

Giorno di luce

Un desiderio di annuncio e di «condivisione del cuore per il popolo mongolo» che emerge anche dai simboli scelti per lo stemma episcopale di Marengo: oltre alla Consolata, una croce nestoriana e un calice come quelli in uso in Mongolia. Un cammino segnato dal motto Respicite ad eum et illuminamini («Guardate a lui e sarete raggianti»), perché non c’è annuncio senza gioia, come testimoniato dal volto sorridente mostrato anche nelle prime parole da vescovo (in italiano e in mongolo): «Oggi è intensa la luce del mistero celebrato, oggi è un condensato di grazia che posso accogliere solo con grande riconoscenza. La Trasfigurazione è luce per confortare i discepoli. Questo giorno luminoso è luce a cui dovrò sempre ricorrere per seguire il Signore che mi manda in Mongolia, nella terra che ha pensato per me al servizio di chi ancora non lo conosce e allora oggi solo il grazie può risuonare».

Consegna del Pastorale del venerabile mons. Pinardi, “affezionato discepolo dell’Allamano”

Gratitudine a cui si è aggiunta quella di mons. Nosiglia: «Questo è un bel segno di gioia e speranza per la nostra Chiesa». Con l’augurio dal cardinale Poletto: «Oggi lo affido di cuore alla Consolata che lo accompagni sempre».

Federica Bello*

* Adattato dall’articolo che l’autrice, giornalista de «La Voce e il tempo» di Torino e compagna di scuola e di parrocchia di padre Giorgio, ha pubblicato su Avvenire il 9 agosto 2020.



Dall’omelia del cardinal Tagle

Sussurra Gesù

L’imposizione della mani ad opera del card Tagle e poi dei vari vesvovi presenti

Miei cari fratelli e sorelle in Cristo, ringraziamo il Signore per averci riunito, come una comunità di fede, in occasione di questa consacrazione episcopale. Chiamando monsignor Giorgio Marengo da Torino e dai missionari della Consolata a diventare vescovo in Mongolia e nella Chiesa Universale, Dio ha manifestato il Suo amore fedele verso il Suo popolo in tutte le parti del mondo. Noi ringraziamo mons. Giorgio per aver risposto a quella chiamata e per essere qui oggi! Avevo paura che sarebbe scappato! Chi non tremerebbe e non si tirerebbe indietro di fronte al peso del ministero episcopale? Che cosa si aspetta il Popolo di Dio da un vescovo? Permettetemi di condividere con voi alcuni degli insegnamenti del Concilio Vaticano II sul ministero e sulla vita di un vescovo.

[…] In Christus Dominus, il concilio esorta i vescovi ad insegnare il valore della persona umana e della famiglia (CD 12), a preoccuparsi dell’insegnamento del catechismo (14), a promuovere la santità del clero, dei religiosi e dei laici (15), ad incoraggiare varie forme di apostolato e a mostrare un particolare interessamento per gli emigranti, gli esuli, i profughi (18).

 

Questi sono solo alcuni dei molti nobili ministeri del vescovo. Sono sicuro che avete visto vescovi svolgere il proprio ministero fedelmente, instancabilmente, e in maniera perfino eroica. È una benedizione averli visti portare avanti così i compiti loro assegnati. Ma c’è qualcosa che non vediamo? Cosa succede nel cuore di un vescovo? Come si forma il cuore di un vescovo?

Molte volte, nel corso del suo ministero, un vescovo si chiede «Come posso fare ciò che ci si aspetta da me? Come posso veramente onorare il ministero episcopale?». La risposta è semplice: come esseri umani, non possiamo farlo. Ecco perché abbiamo bisogno di un sacramento, perché è solo attraverso la grazia e la presenza di Dio che un povero peccatore può rispondere ad una chiamata che oltrepassa le sue capacità umane. […] Dopo la Risurrezione, Gesù incontra un Pietro più umile, non affannato a dare prova di sé, ma capace di amare e servire Gesù e il gregge di Gesù. Un vescovo non deve dare prova di sé, perché non ha comunque nulla di cui dare prova. Come Pietro, un vescovo può solo vantarsi dell’amore compassionevole di Gesù, che affida ad un povero peccatore la cura del Suo gregge. […] Come Paolo, un vescovo non dovrebbe formare i fedeli a sua immagine e somiglianza, ma sull’immagine di Cristo. Come Pietro, un vescovo non diventa il padrone del gregge, ma ne è sempre un custode. Esso resta il gregge di Gesù: «Pasci i miei agnelli, pascola le mie pecore».

Foto di gruppo con i vescovi concelebranti

Monsignor Giorgio, il «dramma interiore» che hanno sperimentato Geremìa, Pietro e Paolo sarà il dramma invisibile del tuo episcopato ogni giorno. Il tuo ministero attivo e visibile deve essere accompagnato dalla tua invisibilità, che ha origine dall’umile ammissione delle limitazioni e delle debolezze, dalla dipendenza dalla Parola di Dio, dalla sua presenza e dalla sua protezione, dalla cura del gregge di Gesù come custode. La tua gioia è vedere il gregge crescere nella conoscenza, nell’amore e nel servizio a Gesù, il suo vero Pastore.

Com’è misterioso il nostro ministero: la sua visibilità è alimentata dalla nostra invisibilità. Quest’arte delicata è un dono di Dio, ma tu puoi alimentarla se guarderai sempre a Gesù, così da irradiare la Sua luce, come affermato nel tuo motto episcopale, Respicite ad eum et illuminamini (Guardate a lui e sarete raggianti, Salmo 34,6).

Come Maria, nostra Madre della Consolata, tieni Gesù nel tuo cuore, anche quando non sempre Lo comprendi, e lascia che la Sua consolazione dia forza agli altri. Lascia che il tuo cuore, i tuoi occhi, il tuo volto, i tuoi sorrisi, i tuoi canti e i tuoi scritti sussurrino Gesù, la Buona Novella vivente alla gente, ai poveri, ai sofferenti, alla steppa, ai fiumi, alle colline e agli eterni cieli blu della Mongolia! Sussurra Gesù con la fiducia e la convinzione del tuo cuore, nelle tue conversazioni, nei momenti di convivenza e nelle serate silenziose con i tuoi amici in Mongolia. Lo Spirito Santo porterà il tuo umile sussurro anche alle terre e ai cuori a te inaccessibili. Amen.

cardinal Luis Antonio Tagle


Uno stemma, un programma

Guadate a Lui e sarete raggianti

Lo stemma di un vescovo non è un ornamento, ma esprime la sintesi di un programma di vita, indica lo stile di un cammino, l’anima di una missione.

Il campo principale dello scudo è d’argento metallo che in araldica, per la sua candida lucentezza ben si adatta ad accompagnare la figura della Vergine Maria richiamando la sua purezza. La figura della Vergine è rappresentata secondo le fattezze della Madonna Consolata, patrona dell’arcidiocesi di Torino, venerata dai missionari che da Lei prendono nome e dai quali proviene il titolare dello stemma. I missionari della Consolata furono fondati dal beato Giuseppe Allamano, nipote del Cafasso e rettore del Santuario mariano torinese per 46 anni. I missionari, avendo la Consolata come ispiratrice e Madre, proprio come la Vergine, vogliono portare al mondo la vera Consolazione, che è Gesù, il vangelo, e insieme: la vicinanza agli emarginati, il conforto agli afflitti, la cura dei malati, la elevazione umana, la difesa dei diritti umani, la promozione della giustizia e della pace. L’immagine araldica ripropone quella del quadro della Madonna Consolata venerato oggi nel santuario del capoluogo piemontese. Dono del cardinale Della Rovere (che fu il costruttore del Duomo di Torino), è attribuito ad Antoniazzo Romano. Opera della fine del XV secolo si ispira alla Madonna del Popolo di Roma.

Nelle due campiture superiori troviamo su un campo azzurro, colore tipicamente mariano, due figure scelte per il loro alto valore simbolico, ma anche a motivo della loro particolare fattezza, in riferimento alla Mongolia, territorio nel quale già da quasi venti anni prima della sua nomina vescovile mons. Marengo si è impegnato nella sua opera missionaria.

Pietra tombale di Liu Yiyong del 1324 con croce nestoriana (BabelStone / Wikimedia)

Ritroviamo infatti innanzitutto una croce nestoriana. La croce, segno per eccellenza della redenzione operata da Cristo e primo e più importante distintivo dei cristiani di tutti i tempi e di ogni luogo della terra, ha qui la caratteristica forma patente e fioronata con cui veniva usata nella chiesa nestoriana. Con tale aspetto la croce si ritrova presente nei territori asiatici in cui questa chiesa è stata o è tuttora presente. Spesso accompagnata dalla figura della colomba (simbolo dello Spirito Santo) e del fiore di loto, si presenta di fatto come una croce trionfante, con i bracci che si allargano alle estremità quasi a significare la vita del Crocifisso Risorto che si estende verso il mondo intero.

Tazza d’argento dei nomadi della Mongolia (mongolianstore.com)

L’altra figura è invece un calice per la celebrazione della santa messa nella forma caratteristica di quelli in uso in Mongolia. Il simbolismo eucaristico è chiarito dalla presenza dell’ostia che sormonta il vaso sacro. L’Eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa, è anche la forza dello slancio missionario. D’altra parte l’azione missionaria della Chiesa è orientata ad accompagnare gli uomini alla piena comunione con Cristo che proprio nella celebrazione eucaristica trova la sua attuazione sacramentale.

Don Antonio Pompili
socio ordinario dell’Istituto araldico genealogico italiano


La Chiesa cattolica in Mongolia

Oggi la Chiesa cattolica in Mongolia conta circa mille e 300 fedeli su una popolazione di poco più di 3 milioni, in un paese grande 5 volte l’Italia.

L’evangelizzazione moderna della Mongolia è cominciata ufficialmente il 14 marzo 1922 quando venne eretta la Missione sui iuris. I missionari però poterono entrare nel territorio solo nel 1992. È stata elevata a Prefettura apostolica di Ulaanbaatar nel 2002 con primo vescovo il missionario di Scheut mons. Wenceslao Selga Padilla dalle Filippine. Contava allora 114 cristiani, tra cui 2 sacerdoti, 7 religiosi e 17 suore.

Nel 2020, oltre alla cattedrale dedicata ai santi Pietro e Paolo, ci sono 7 parrocchie e due cappelle (San Tommaso e Dio Misericordioso), oltre al Mandak Karan Centre gestito insieme dalle missionarie e missionari della Consolata, i quali risiedono in un appartamento dentro un palazzo di Ulaanbaatar e curano la parrocchia della Madre della Misericordia ad Arvaiheer dove sono arrivati nel 2006.

I missionari presenti sono:

  • missionari di Scheut
  • salesiani di Don Bosco
  • missionari della Consolata
  • due fidei donum dalla
    Corea e dalla Francia.

Le suore missionarie sono:

  • le missionarie del Cuore
    Immacolato di Maria (ICM)
  • suore di s. Paolo di Chartres
  • missionarie della Carità
    di Madre Teresa
  • missionarie della Consolata
  • Inbo sisters della Corea
  • suore della Congregatio Jesu


Un servizio di vicinanza

 

Il 12 agosto, pochi giorni dopo la sua consacrazione espiscopale, padre Giorgio è stato ricevuto in udienza da papa Francesco. In un’intervista presenta le priorità del suo ministero episcopale.

«Abbiamo vissuto un momento molto cordiale e molto bello in cui ho chiesto al Santo Padre proprio una parola di incoraggiamento che mi ha dato e che porto nel cuore. Lui è molto interessato alla realtà della Chiesa in Mongolia, del popolo mongolo in generale. Sappiamo quanto al papa stia a cuore tutta la realtà della Chiesa anche laddove non ci sono grandi numeri anzi proprio laddove la Chiesa è più in minoranza, lì il cuore del papa è sempre molto vibrante, e questo è bello». Questo il commento di padre Giorgio dopo l’udienza parlando con Gabriella Ceraso di Vaticannews.

La giornalista lo ha incarzato: «C’è qualcosa nel magistero del papa che, dopo questo colloquio, si sente di voler vivere in particolare nella terra in cui appunto ritornerà, in Mongolia?».

Ecco la risposta del nuovo vescovo. «Il punto principale è la vicinanza alla comunità cattolica della Mongolia che è piccola ed è in minoranza assoluta rispetto alla società. Per questo ha bisogno di sentire che, chi è stato chiamato a guidarla, è vicino. Quindi vicinanza in termini di visite alle comunità, di celebrazioni insieme, di tempo riservato all’ascolto delle persone, della loro storia, delle loro situazioni, ovviamente insieme ai missionari e alle missionarie che animano queste comunità. Questa è una priorità per me.

Proprio perché la comunità cattolica è così sparuta, è anche importante curare che le relazioni con le autorità civili siano il più possibile positive. Occorre continuare sulla linea della collaborazione e dell’aiuto reciproco che esiste già, perché anche il mio predecessore è stato molto forte in questo.

Poi serve un’attenzione particolare al dialogo interreligioso, visto che la Mongolia è un paese che ha dei punti di riferimento religiosi soprattutto nel Buddismo e nello Sciamanesimo: quindi continuare questo ponte di relazioni di fraternità con persone che hanno altre fedi.

Dunque il dialogo interreligioso, la vicinanza ai poveri, ai piccoli, alle persone sofferenti in una società che è in rapido cambiamento; e anche un’attenzione a tutto ciò che è approfondimento direi sia culturale – cioè storia e tradizioni, identità culturale dei mongoli che hanno molto da dire e da dare al resto dell’umanità – e sia spirituale. Cioè una cura alla spiritualità: le persone mongole hanno una grande sensibilità e hanno bisogno – coloro che già l’hanno abbracciata – di approfondire la loro fede, di farla sempre più propria.

Quindi un discorso di profondità, di autenticità nel camminare nella fede, una scuola di preghiera continua per aiutare le persone a poter camminare sulla loro strada con facilità e serenità».

Gabriella Ceraso*

* Testo adattato dall’intervista a mons. Giorgio Marengo pubblicata su Vaticannews il 12 agosto 2020.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Collettivismo vs individualismo

Spettabile Missioni Consolata,
ho letto con molto interesse l’articolo a firma di Piergiorgio Pescali sul contenimento del Covid-19 in Corea del Nord (MC 5/2020). Lo stesso giornalista firma un riquadro (pag. 54) dove mette a confronto i sistemi di contenimento in Occidente e quelli in Oriente, evidenziando la tesi secondo la quale i processi democratici vigenti in Occidente rallentano la presa di decisione in situazioni di emergenza. Questo aspetto, unito all’individualismo tipico della cultura occidentale, non giova al contenimento del virus. Viceversa, citando testualmente Pescali, «il sistema comunitario orientale […] detta le regole dall’alto secondo un sistema antico e collaudato. E in Asia, nata e costruita su fondamenta culturali assai diverse da quelle occidentali, spesso funziona». Questo, unito alla cultura orientale più orientata al benessere collettivo che all’individuo, gioverebbe nel contenimento del virus.

La posizione di Pescali non mi sorprende: è in corso un dibattito politico e filosofico sulla effettiva efficacia delle democrazie e illustri politologi indicano come modelli di stato efficiente paesi come Singapore (come sostiene ad esempio, il noto politologo Parag Khanna ne «Il secolo asiatico»).

Trovo però molte crepe in questo ragionamento: se è vero che un potere centralizzato decide prima, questo non significa che il potere assoluto od oligarchico sia il migliore sistema per guidare una nazione. Cina, Corea del Nord, Vietnam, Thailandia, Myanmar (per citare solo alcune nazioni confinanti o adiacenti la Cina) sono brutali dittature che imprigionano chi dissente, spostano forzatamente intere popolazioni, controllano la vita di ogni singolo cittadino e non hanno alcuna trasparenza nelle loro comunicazioni. Siamo così sicuri che siano modelli da prendere ad esempio? Nello stesso numero della vostra rivista, avete fatto un servizio sulla persecuzione terribile che il governo cinese attua nei confronti dei seguaci della Chiesa di Dio Onnipotente.

Sottolineo che, nella nostra democrazia, imperfetta e sicuramente da rivedere, abbiamo gli strumenti del decreto legge, legislativo e della presidenza del consiglio dei ministri, che permette di gestire le emergenze.

Concludo chiedendomi, e chiedendovi, se non sia il caso di pensare a un modello cristiano di politica. Cristiano non in senso assolutistico, ma cristiano nel cuore della questione, ovvero agire per il bene di tutti, conservando la libertà di avere la propria opinione, nel rispetto degli altri. Possibile che un concetto così semplice sia solo utopia?

Perdonatemi la prolissità! Cordiali saluti,

Lorenzo Bragagnolo
22/05/2020

 

Non è ovviamente mia competenza specifica entrare nell’argomento del «modello cristiano di politica». Mi permetto qui di ricordare solo che uno dei capisaldi della concezione cristiana della politica si trova espresso nel Concilio Vaticano II, al numero 74 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes.

Secondo il Concilio, in vista del bene comune, «gli uomini, le famiglie e i diversi gruppi che formano la comunità civile […] avvertono la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle proprie capacità» (n. 74). «La comunità politica esiste dunque in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (ivi).

Perché questa comunità politica non si disgreghi nello scontro di opinioni diverse, «è necessaria un’autorità [pubblica] capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene comune, non in forma meccanica o dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sul senso di responsabilità» (ivi).

È un testo che merita di essere letto e riletto, anche perché «la politica» oggi è contagiata da molti virus e stanno crescendo sia la disaffezione per essa che l’idea di soluzioni messianiche e autoritario populiste.

 

Il capestro del debito

Gentilissima redazione,
sono un fedele lettore da molto tempo e mi soffermo spesso sulle rubriche di Francesco Gesualdi riguardanti l’economia.

Mi piacerebbe molto avere una sintesi, magari sotto forma di tabella, del debito di tutte le nazioni sotto forma di dare/avere per capire con uno sguardo chi tiene i «cordoni della borsa» dell’economia mondiale e quindi fare pressioni su di loro per azzerare il debito e liberare per sempre il mondo da questa schiavitù che affossa sempre più alcuni, ed arricchisce sempre più altri.

Alla faccia di tutte le dichiarazioni di buona volontà che circolano specialmente in questo periodo di virus, che, sotto sotto, ci ha fatto riflettere e ha messo in discussione tutti i modelli economici e dato spazio alla rivincita della natura sui disastri che giornalmente perpetriamo nei suoi confronti.

È ora di girare pagina, ma veramente e non solo con dei proclami. Cordialmente

Valerio Liberati
22/05/2020

Caro Valerio,
grazie per la tua sollecitazione. Ciò che auspichi sarebbe senz’altro di grande utilità, ma al tempo stesso di non facile realizzazione. Innanzi tutto, per la varietà di fonti che andrebbero consultate e subito dopo per la quantità di voci che andrebbero esaminate. Infatti, la posizione finanziaria verso l’estero di ogni paese è determinata dal saldo commerciale, dai movimenti di capitale, dal debito accumulato dal governo centrale, dal debito delle imprese, dal debito delle banche e altri aspetti ancora. Per una sola persona si tratterebbe di un’impresa titanica, quasi impossibile da realizzare, ma se a lavorarci fosse un gruppo, allora il discorso sarebbe diverso. Quello che potremmo fare è chiedere a MC di lanciare pubblicamente l’idea con l’obiettivo di chiedere a chiunque si senta di voler e poter partecipare, di farsi avanti. Se l’iniziativa riuscisse, si potrebbe formare un gruppo di volontari che iniziano con questa ricerca e magari proseguono con molte altre di cui si sente il bisogno per ripristinare una corretta informazione.

Francesco Gesualdi
02/06/2020

Suggerimenti

Splendido il dossier sul ruolo attuale delle missioni, complimenti. Mi permetto un suggerimento: fare un servizio di analogo respiro sull’articolo di Civiltà Cattolica che partendo da un’analisi dell’impatto del virus, delinea un esplosivo programma politico, praticamente socialista, ma di quelli che i socialisti di oggi non osano neanche parlarne.

Un altro suggerimento, basato sulla lettura dell’ottimo articolo sul numero di marzo sullo sfruttamento delle acque del Mekong: fare un servizio analogo sullo sfruttamento del Nilo, che porterà tra non molto a una inarrestabile crisi in Egitto, con spinta a una enorme migrazione. I Cinesi hanno già fatto dell’Etiopia la loro riserva alimentare, acquistando terreni aridi che verranno irrigati con le dighe che stanno costruendo vicino alle origini del Nilo. E probabilmente la stessa cosa sarà fatta nel Sud Sudan quando e se sarà pacificato: a questo punto il Nilo in Egitto sarà ridotto a un rigagnolo, e una delle più popolose nazioni dell’Africa sarà ridotta alla disperazione. L’Egitto ha 100 milioni di abitanti, di cui almeno cinque di soldati e poliziotti: può succedere di tutto, a partire da una inarrestabile emigrazione.

D’altra parte, da sempre l’acqua è un elemento importante della politica estera: dal Tibet partono i fiumi che irrigano l’India, alcuni passando per il Pakistan, altri per il Kashmir non a caso in perenne tensione. I curdi si battono per un’indipendenza che nessuno gli vuol dare, perché controllano buona parte dell’acqua che va in Turchia e Iraq e tutta quella che va in Siria. E in Siria, nelle alture del Golan che Israele ha conquistato nasce il Giordano, ormai ridotto a un rigagnolo a causa dello sfruttamento intensivo delle acque, tanto che il lago di Tiberiade, luogo evangelico, credo sia di fatto prosciugato e il Mar Morto sta trasformandosi in una miniera a cielo aperto.

Claudio Bellavita
13/05/2020

Grazie dei preziosi suggerimenti di cui faremo tesoro nelle nostre possibilità. Il problema dell’acqua è certamente cruciale per il mondo, anche per alcune dissennate politiche in atto, tipo la distruzione sistematica dell’Amazzonia o la massiva cementificazione dell’ambiente o, ancor peggio, la corsa di imprese private e multinazionali a prenderne il controllo sia da noi in Italia che in molte parti del mondo, facendo questo a spese dei poveri.

Soldi per armare terroristi

Ciao carissimi,
spero di trovarvi tutti bene. Vi scrivo perché sono rimasto molto colpito dalle discussioni scatenatesi in seguito alla liberazione di Silvia Romano. Concordo sullo squallore di certi commenti volgari e irrispettosi che si sono diffusi a valanga. Nondimeno, dalle «nostre» parti (sinistra e Chiesa missionaria) è mancato un commento sull’inopportunità di avere versato dei soldi a una tra le peggiori organizzazioni terroristiche del pianeta.

Fin dalla mia prima esperienza africana, avvenuta negli ormai lontani anni ‘80, ho maturato la consapevolezza di quanto male facciano le armi nel Sud del mondo. Animato da questa convinzione, ho partecipato con entusiasmo a tantissime iniziative, dall’obiezione alle spese militari al viaggio dei 500 a Sarajevo. […]

Ebbene, adesso sento con dispiacere la mancanza di una nostra critica, educata e circostanziata (lontana mille anni luce dagli insulti e dalle minacce), al finanziamento di Al Shabaab.

Negli ultimi anni, a seguito di alcune missioni in Niger, ho percepito con chiarezza il terrore degli abitanti nei confronti di possibili attacchi da parte di gruppi jihadisti. Considerare il terrorismo islamico solo come un nostro problema, equivale a limitarsi alla punticina di un iceberg che invece costituisce un’enorme spada di Damocle nei confronti di molti paesi.

Per questo, pensando alla preoccupazione espressami da tanti africani, non sono riuscito a gioire alla notizia della liberazione dell’incolpevole Silvia, considerato che i soldi versati per lei potrebbero trasformarsi in morte per molti somali e kenyani. Forse che la sua vita vale più delle loro? Dire che tanto le armi arriverebbero ai terroristi anche senza il pagamento del riscatto, equivale al ragionamento di chi sostiene che l’Italia fa bene a vendere armi a certi paesi, tanto se non lo fa lei lo fanno gli altri.

Ho compiuto diverse missioni in paesi a rischio, e mia moglie sa bene che mai e poi mai vorrei che, se fossi rapito, qualcuno versasse dei soldi ai terroristi per me. Certo, al di là di quella che è la mia volontà, lo stato italiano potrebbe sempre decidere di comportarsi come vuole. Ma in tal caso sarebbe giusto che fosse criticato, perlomeno da chi prova orrore nei confronti degli attentati e dei conflitti armati.

Come insegnano anche molti missionari, chi parte deve essere preparato sia psicologicamente sia professionalmente, poiché le buone intenzioni non bastano. Per questo è scandaloso l’invio di Silvia, arruolata su due piedi da una Onlus alla buona per andare a «portare il suo sorriso» in uno dei posti più pericolosi della terra.

Del terzomondismo di facciata di molte Onlus e Ong ho già parlato diffusamente nel mio libro «Ripartire da ieri, la nuova sfida del volontariato internazionale», pubblicato dalla Emi nel 2015, che alcuni di voi hanno letto. Qui mi limito a esporvi la mia delusione per il fatto che certe critiche ho dovuto leggerle (per lo più espresse in forma sguaiata) sulla stampa di destra, dopo averle inutilmente cercate sulla nostra. Penso che, per essere credibili, bisogna avere il coraggio di uscire dal «politicamente corretto», altrimenti si rischia di adagiarsi sul «coppibartalismo» per cui certe cose si criticano solo se sono attuate dalla parte avversa.

Ma le armi ad Al Shabaab non sono meno mortifere di quelle vendute ai despoti di Egitto e Arabia Saudita. Chiedere chiarezza sulle transazioni di armamenti che vedono coinvolto il nostro paese senza poi chiederne altrettanta su come e quanto sia stato pagato per la liberazione di Silvia, equivale a una forte perdita di credibilità, offrendo per di più il destro a chi non aspetta altro per screditare le nostre idee e le nostre proposte.

Scusate l’intrusione, ma siete fra i pochi che non mi fanno sentire un marziano su questa Terra. E poi, tante cose le ho imparate e continuo a impararle da voi. Per questo mi sento autorizzato a chiedere un po’ più di coraggio e coerenza. Un abbraccio!

Alberto Zorloni
02/06/2020

Caro Alberto,
condivido appieno la tua critica e il tuo disagio nei confronti dell’osceno mercato delle armi in cui anche il nostro paese è coinvolto su larga scala. Per quanto riguarda Silvia, ho gioito alla notizia della sua liberazione, dopo avere seguito da vicino tutta la vicenda fin dai primi momenti.

L’ho seguita spinto da molti motivi: dalla compassione (nel senso originario) per il dramma di una ragazza mandata allo sbaraglio (bastava vedere le foto della casa in cui stava), dal fatto che ho «informatori» sul posto e una nostra missione, Adu, non molto distante da Chakama; dal fatto di avere vissuto in Kenya – certamente non il posto più pericolodo della Terra – una ventina d’anni e di sentire quel paese come parte di me, dall’avere già avuto esperienza diretta di altre persone rapite da somali, come le due missionarie del Movimento contemplativo missionario di Cuneo nel novembre 2008 e liberate nel febbraio 2009.

Resto convinto che un rispettoso silenzio e una maggiore discrezione avrebbero giovato a tutti. Anche per avere il tempo di far emergere i fatti, senza costruire castelli su informazioni non confermate (vedi le fantastiche storie sui milioni pagati da questo o quello, con in ballo armamenti, petrolio e grattacieli).

Questo avrebbe evitato di spargere tanto odio e tante falsità, evitando di screditare il mondo del volontariato che in questi tempi di Covid-19 sta dando una splendida prova di sé in
Italia e nel mondo.

Quanto alla battaglia contro l’amoralità del mondo degli armamenti, è una battaglia sacrosanta che si può fare senza usare le Silvie di turno, altrimenti si diventa amorali come quel mondo che non accettiamo.


Speciale Covid e missionari

Padre Remo Villa celebra l’eucarestia con mascherina a Tura mission

Da Tura mission, Tanzania

15/03/2020 Dicono che siamo circondati dal coronavirus: Congo, Ruanda, Kenya e Sudafrica. Ma qui niente, stando alle notizie ufficiali. Sarà vero? Speriamo di sì, però…

Qui a Tura (quasi al centro del paese), e in tutta la zona, la gente conosce il nome della malattia e basta. Un po’ poco non ti pare?

Oggi dopo le messe ho mostrato un video ricevuto due giorni fa, in swahili. Attenzione massima e silenzio di tomba. Manca l’informazione e penso anche la preparazione. Nonostante tutto, ricordiamoci che il sole ogni mattina illumina la nostra vita…

23/03/2020 Ho celebrato la messa all’aperto anche per non essere troppo stretti, come capita nelle nostre chiese, in tempi di coronavirus che sta entrando anche qui in Tanzania. Ma eravamo proprio pochi, moltissimi infatti erano ancora alle prese con l’inondazione. Ho promesso loro che ritornerò presto ad incontrarli e stare con loro con calma e serenità. Oltre al coronavirus anche l’inondazione. La comunità cristiana ha ospitato nella chiesetta sei nuclei familiari, trenta persone circa. Gesto stupendo che mi fa comprendere il buon cuore della mia gente.

Martedì 17 marzo il primo ministro ha parlato ufficialmente alla Tv annunciando le prime decisioni per combattere questa pandemia, tra cui la chiusura delle scuole, divieto di incontri e assembramenti politici e partitici, destinazione al ministero della Salute della somma per la fiaccolata dell’indipendenza, preparazione di alcuni reparti ospedalieri per l’emergenza, ed altro.

I casi di coronavirus sono molto pochi, dicono i dati ufficiali. Che il Signore aiuti la nostra gente già provata in tante altre maniere.

29/03/2020 Qui a Tura la vita va avanti nella normalità. Però le piogge abbondanti e torrenziali sembra non vogliano lasciarci. I risultati sono allagamenti dappertutto con rovina di ponti e ponticelli e tante le case ripiegate su se stesse o addirittura portate via dall’acqua

26/04/2020 Oggi, domenica, secondo le direttive dei vescovi per combattere il Covid, niente canti durante le celebrazioni. Questo ci ha impressionati un po’ tutti: la messa senza canti è come il cibo senza sale, almeno qui da noi. La vivacità e la gioia pasquale ne hanno risentito parecchio.

03/05/2020 Poca gente alla messa, per fortuna la nostra chiesetta aperta ci permette di mantenere le distanze aumentando il numero dei blocchi di cemento su cui sedersi.

24/05/2020 Festa di Pentecoste, due messe, ma senza guanti e pinzette, solo con mascherina a portata di mano e all’aperto. La seconda a 40 km di distanza, circa un’ora. La comunità è Isuli da me visitata in marzo. Solita chiesetta piccola con finestre e porta senza infissi, e quindi arieggiata. Però, dato l’«amico» corona, e due begli alberi, la messa è stata all’aperto con venticello che allontanava il caldo del mezzodì. Più di quaranta adulti ed altrettanti bambini seduti per terra su un grande telone.

padre Remo Villa,
Tura mission, TZ

Padre Giampaolo davanti alal casa Imc a Yokkok

Yokkok, Corea del Sud

La Corea ha affrontato molto bene l’emergenza virus. Un po’ di anni fa, al tempo della Sars, la Corea aveva avuto molti contagi e decessi. Per questo motivo quando è arrivato il Covid-19 era preparata. Test per tutti, specialmente dove c’erano i focolai più importanti.

Ogni giorno sui telefonini arrivano messaggi che ti allertano sulla situazione e ti dicono se nella tua zona ci sono infettati e quali sono le zone, palazzi, ospedali, centri da evitare. Così tutto è sotto controllo.

Anche noi da prima delle Ceneri fino alla fine di aprile non ci siamo mossi dai nostri centri. Non c’erano messe pubbliche, catechesi né incontri di alcun tipo. La comunità di Tong du chon faceva la messa in streaming per i lavoratori stranieri.

Tutto sembrava andare bene, le messe pubbliche erano ricominciate e già si facevano alcuni incontri, quando c’è stata una nuova ondata di contagi, questa volta non del virus «leggero» di prima, ma di quello più pericoloso che è diffuso in Europa. E molti dei nuovi contagi sono proprio nella zona di Yokkok. Perciò è saltata la festa della Consolata che facevamo ogni anno. Molte scuole sono state richiuse e in alcune parrocchie hanno di nuovo sospeso le messe. Insomma quando tutto sembrava tornare alla normalità, siamo tornati all’emergenza. Per fortuna si può andare in giro con una certa libertà, ma tutti cercano di muoversi il meno possibile. Qui a Taejon (un milione e mezzo di abitanti) e nella nostra regione, gli infettati sono stati solo alcune centinaia, per cui l’ambiente è abbastanza tranquillo. Abbiamo potuto visitare alcuni monasteri buddisti in occasione della festa della nascita del Buddha, e abbiamo ripreso qualche incontro di approfondimento sulla fede. Vedendo come vanno le cose però, la stagione pastorale non riprenderà pienamente prima di settembre.

Siamo in una situazione di stallo, come il resto del mondo d’altronde. Credo però che noi in Corea e Taiwan siamo tra i più fortunati, e la luce al fondo del tunnel la vediamo già molto vicina.

padre Lamberto Giampaolo
Yokkok, Corea d.S., 30/05/2020

Duecento pacchi di cibo pronti per la distribuzione

San Antonio Juanacaxtle, Messico

19/04/2020 Giovedì faremo una riunione in uno spazio aperto con gli otto capi quartiere del rancho (paese) per lanciare il Revess (Rete di vicinato e solidarietà samaritana). L’iniziativa vorrebbe rendere più coeso il tessuto sociale e coinvolgere i giovani per piccole commissioni e per proteggere gli anziani.

Intanto il confinamento è stato decretato in tutto il Messico fino al 30 maggio perché credono che il 10 maggio raggiungeremo il picco. Vedremo.

Il governatore del nostro stato (Jalisco) ha inasprito le misure di sicurezza, soprattutto in relazione all’uso della mascherina. Certo, ci sono molte famiglie qui che vivono alla giornata e non possono rimanere a casa perché non hanno risparmi su cui vivere.

21/04/2020 Qui sembra che le misure di distanziamento sociale non riescano a fermare né Covid-19 né gli omicidi.

24/04/2020 Ieri è partito il Revess, in una bella riunione all’aperto, sulle panchine fuori dalla chiesa, mantenendo la distanza di sicurezza. Alla fine, abbiamo parlato anche della festa del patrono del rancho, che è il 13 giugno. Ho detto loro che il confinamento è fino al 30 maggio, ma che potrà essere allungato ulteriormente. Quindi niente festa. Ci sono rimasti male e hanno sottolineato che allora neanche la festa la Consolata (del 20 giugno) potrà essere fatta.

Erano più preoccupati per i festeggiamenti del villaggio che per il Covid-19. Infatti c’è un sacco di scetticismo sul coronavirus. Penso che fino a quando non toccherà qualcuno della loro famiglia, sarà difficile per loro convincersi della gravità della situazione.

06/05/2020 Il Revess ha cominciato a funzionare e sta iniziando i primi interventi con l’aiuto di volontari.

12/05/2020 Stiamo distribuendo cibo a destra e a manca perché le esigenze sono enormi e bisogna anche dedicare del tempo alle persone. Non puoi solo dare la borsa di cibo e andartene. Dobbiamo non solo saper ascoltare, ma anche saper dare per rispettare la dignità di coloro che sono nel bisogno. Sono lieto di poter fornire un minimo di consolazione.

17/05/2020 Secondo l’Istituto per l’economia e la pace, la violenza ha tolto l’equivalente del 21% del Pil al Messico. Il che è una barbarie. Siamo ancora alla media di 100 omicidi al giorno.

Di fronte a questa pandemia della violenza, il Covid-19 sembra un male minore. Siamo anche uno dei paesi che fa meno tamponi, quindi è difficile avere una visione globale della situazione. Penso che dobbiamo essere più attenti che mai al contagio proprio perché c’è l’impressione generale che il peggio sia passato, ma non ne sono tanto sicuro.

21/05/2020 Stanno arrivando un sacco di chiamate da persone che hanno il Covid-19 e stanno vivendo davvero male. Ci sono anche persone che soffrono di solitudine e hanno bisogno di parlare con noi.

Domani avremo altri 200 sacchetti di cibo da distribuire tra le famiglie. Li porteremo in ogni casa noi stessi, il che rende la distribuzione molto più lenta, ma anche molto più umana.

25/05/2020 Il confinamento, previsto fino al 1 giugno, sta creando situazioni complicate. Ieri hanno pesantemente minacciato uno di noi missionari perché si è rifiutato di celebrare una messa di anniversario – con partecipazione massiccia di gente – di un ragazzo morto due anni fa.

30/05/2020 Continuiamo a distribuire aiuti alimentari, anche se si prevede che tutto questo peggiorerà. I casi di Covid-19 continuano ad aumentare, così come i decessi e siamo uno dei paesi che fa meno test. D’altra parte, omicidi e femminicidi sono una realtà quotidiana.

padre Ramon Lazaro,
Guadalajara, Messico


Dall’Eswatini, disinfezione




Argentina: Amplificare la voce indigena

testo di José (Giuseppe) Auletta |


Anche in Argentina i missionari della Consolata hanno scelto di operare tra i popoli indigeni. Padre José (Giuseppe) Auletta, oggi tra i Huarpe della provincia di Mendoza, racconta i motivi di questa scelta partendo dalla propria esperienza personale.

La presenza dei missionari della Consolata in Argentina risale al 1946. Gli inizi ci situarono fra Buenos Aires e Rosario. Dopo pochi anni, ci fu la richiesta del vescovo di Resistencia (Chaco), mons. Nicola De Carlo (1940-1951), di dedicarci all’evangelizzazione degli indigeni Tobas, presenti sia nella provincia del Chaco che in quella di Formosa, al Nord Est dell’Argentina. Il servizio in quell’ampia zona andò avanti per un po’ di anni e poi si orientò più che altro a sopperire alla mancanza di clero nella Chiesa locale.

Ad ogni modo, il fatto che si richiedesse a noi missionari, proprio agli inizi della nostra presenza nel paese, e appellandosi allo specifico carisma «ad gentes», di dedicarci ai popoli indigeni, non è un segno da trascurare.

La scelta indigena appare anche negli atti delle Conferenze del nostro istituto. Nell’ultima, si è anche deciso la creazione della vicaria dei popoli indigeni a Yuto (provincia di Juijuy), dove c’è una popolazione guaranì numericamente e culturalmente significativa e dove già presta servizio un nostro confratello, padre Thomas Ishengoma.

La scoperta della realtÀ «Multi»

Donna Rosita Jofré della Comunità huarpe di Asunción. Foto José Auletta.

Per quanto riguarda la mia esperienza personale, capii la chiamata all’accompagnamento dei popoli indigeni quando fui destinato, alla fine del 1983, a Machagai (Chaco). Fu lì che ebbe inizio uno dei momenti forti della mia vita missionaria. Appena presi in carico la parrocchia, mi resi conto che la realtà era «multi»: multietnica e multiculturale, con i criollos/contadini, gli indigeni e gli immigrati europei.

Insieme alle suore della Consolata decidemmo di andare a fare le prime visite alla Colonia aborigen Chaco, che dista dalla parrocchia 20 chilometri. Così, almeno una volta al mese, stabilimmo un primo approccio alla realtà indigena dei Tobas, o Qom, come si chiamano nella loro lingua.

Finito il mio periodo di parroco, la grazia di Dio, con il permesso del superiore, consentì che andassi a vivere dieci anni con loro, inserito nella loro stessa realtà, condividendo la lotta per la terra, da loro iniziata novant’anni prima e coronata, in seguito, con l’aggiudicazione del titolo di terra comunitaria nell’anno 1996. Condivisi, inoltre, diversi progetti che migliorarono le condizioni di vita (strade, centri comunitari, acqua, case, ecc.): tutto portato avanti grazie al tradizionale spirito comunitario indigeno, in un graduale apprendistato da parte mia. Ricordo che quando iniziammo il primo progetto – una strada interna che avrebbe facilitato l’accesso alla scuola, ai posti di assistenza sanitaria e la comunicazione con il centro urbano – nella riunione comunitaria in cui si organizzava il lavoro, misi a disposizione l’aiuto di benefattori per una paga giornaliera di 10 pesos. Alzò la mano un membro della comunità e disse: «Padresito: la ringraziamo, però accettiamo la metà. Il resto è il nostro contributo per qualcosa che si trasformerà in un bene per noi».

Fu lì che appresi come accompagnarli, lasciando da parte assistenzialismo e paternalismo e dando spazio a un reciproco coinvolgimento.

Con lo spirito di Endepa

Sin dai primi anni nel Chaco cominciai a essere in contatto con Endepa (Équipe nazionale di pastorale aborigena).

Endepa mi ha aiutato a essere sempre più concreto e chiaro in questo impegno: prima insegnandomi – con incontri e formazioni – i criteri di accompagnamento, poi assegnandomi alcune responsabilità nella sua struttura organizzativa.

Vissi così una prima tappa, nel Chaco, di 17 anni, a cui fece seguito una seconda di 13, passando dal Nord Est al Nord Ovest, nella diocesi di Orán (provincia di Salta), dove ebbi a che fare con una pluralità etnica molto più varia: Tupí Guaraní, Kolla, Wichi, Tapiete, Chorote e altri.

Come avevo fatto nel Chaco, dovetti seguire problemi di conflitti per la terra, nei quali m’impegnai con tutte le mie forze. L’essere in contatto con quella realtà fu per me sorgente di una grande forza. Vedevo negli indigeni non solo la sofferenza e la fatica di andare avanti per colpa della violenza dei latifondisti e delle multinazionali, ma anche la fiducia che, alla fine, la giustizia avrebbe avuto l’ultima parola.

Questa testimonianza di resistenza indigena fu per me un gran regalo, rafforzando sempre più la convinzione che i popoli indigeni in Argentina sono l’espressione concreta del nostro «ad gentes». Dedicarci a loro ha a che vedere con il nostro carisma. Scoprire e inserirmi in questa realtà mi ha fatto sentire in sintonia con quel carisma.

Donna Rosalba Luxero della Comunità El Puerto, mentre lavora al telaio, importante attività artigianale degli Huarpe. Foto José Auletta.

«Qui non ci sono indigeni»

È stata, ed è, una gioia e una soddisfazione lavorare con lo spirito di Endepa, partecipando al suo impegno con i popoli indigeni e con la Chiesa locale, anche se – proprio a livello di Chiesa e di società – si fa fatica a superare l’idea che, in Argentina, «non ci siano indigeni».

Invece, i popoli indigeni sono una realtà evidente, soprattutto se consideriamo il momento forte dell’auto-riconoscimento della propria identità, in occasione della riforma della Carta costituzionale.

La prima Costituzione risaliva al 1853. Nel 1994, quando fu fatta la riforma, a cui anch’io partecipai, vedevamo i rappresentanti dei popoli indigeni che si aggiravano negli spazi dell’Assemblea costituente rendendo evidente la loro presenza, dal primo all’ultimo giorno. Li chiamavano i «Costituenti di corridoio». Sempre in contatto con un costituente o un altro, per dire loro con tutta chiarezza: «Noi siamo qui, esistiamo e abbiamo diritti!».

Che cosa successe con questa riforma? Dopo tante discussioni, venne approvato l’articolo 75 comma 17, che finalmente riconobbe la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni, il diritto alla terra, il diritto all’educazione bilingue e interculturale, il diritto a essere consultati su questioni che li riguardano, soprattutto circa l’uso delle risorse (beni) e del territorio. Entrare nella Costituzione rappresentava il riconoscimento dell’Argentina come paese plurietnico e plurinazionale.

In tutto questo cammino Endepa è stata presente. Attualmente faccio parte del Coordinamento nazionale che è composto da una coordinatrice presidente e due coordinatori per le tre regioni (Sud, Nord Ovest e Nord Est). Io rappresento la regione Nord Ovest, insieme con un’altra persona.

Questa appartenenza permette di sentirmi ed essere considerato semplicemente un fratello, nella condivisione del cammino delle comunità originarie, celebrando la fratellanza, che per me è la migliore definizione di missione.

Condividere il cammino con i popoli originari

Asunción, padre Auletta si toglie le scarpe in segno di rispetto per la terra indigena degli Huarpe. Foto: archivio Auletta.

Il cammino condiviso con i popoli indigeni è un vero apprendistato in cui l’agente pastorale – laico, religioso, missionario – accede a una profonda e collettiva esperienza dello Spirito che in tutto esercita il primato, che vive ed è presente in ogni forma del Creato. Questo atteggiamento contemplativo e vitale offre alla Chiesa e all’umanità una profetica purificazione di fronte al secolarismo imperante e alla perdita dei valori spirituali e del senso della vita.

Inoltre, la sfida dell’inculturazione obbliga oggi più che mai a valorizzare l’esperienza religiosa dei popoli originari che credono che il Dio di Gesù Cristo sia stato presente e abbia operato da sempre nelle loro culture e successivamente fu loro annunciato nel Vangelo. Di questo Gesù di Nazareth fa gioiosa esperienza il missionario nel suo quotidiano camminare con i popoli. Si arriva così alla convinzione, secondo la quale, l’esperienza religiosa dei popoli indigeni è valida ed è stata suscitata dallo Spirito. Perciò deve muovere al dialogo interreligioso con coloro che si mantengono fedeli alla cosmovisione e alle esperienze religiose dei predecessori, superando i diversi etnocentrismi.

 

Compagni di cammino

Asunción, padre Auletta si toglie le scarpe in segno di rispetto per la terra indigena degli Huarpe. Foto: archivio Auletta.

È importante superare la paura della scomodità che possono dare gli indigeni all’interno della Chiesa, dovendo cambiare certi schemi. Trent’anni fa la Chiesa era chiamata a essere la «voce dei senza voce». Oggi i popoli indigeni hanno voce propria e la Chiesa deve soltanto amplificarla.

«Non è più ammissibile continuare a vedere gli indigeni come oggetti di studio o solamente come vittime e oggetto di benevolenza, ma come compagni di cammino, come soggetti protagonisti della nostra storia, del nostro sviluppo ed evangelizzazione» (Petul Cut Chab Huistán, teologo indigeno del Chiapas).

Come ebbe a dire papa Francesco a Puerto Maldonado (Perú): «Più che parlare di “minoranze etniche”, bisogna parlare di “rappresentanti autorevoli” della loro realtà e identità di popoli». «Gentes», appunto, e non minoranze.

Riprendendo il «vissuto» della missione come fratellanza, mi preme mettere in risalto che questa ha come basi fondamentali due elementi: la presenza dei «semi del Verbo» in ogni popolo e cultura e il paradigma dell’interculturalità.

 

Un rapporto tra eguali

I «semi del Verbo» sostengono la saggezza, le varie espressioni di spiritualità e perfino una vera e propria teologia indigena.

Il paradigma dell’interculturalità ci permette di stabilire un rapporto da uguali fra culture, lasciando da parte ogni pretesa di superiorità che, per troppo tempo, abbiamo manifestato nel nostro modo di fare missione.

Diventa, per noi missionari ad gentes, essenziale scuoterci dal torpore e prendere coscienza della necessità di formarci al riguardo sin dai primi anni, in vista del presente e del futuro di quanti scelgono la missione.

L’Argentina fa parte di un continente con una ricchissima varietà di popoli indigeni. Finalmente riconosciuti, essi non sono solo il passato, ma il presente per qualsiasi società. Come anche per il carisma dei missionari della Consolata, arricchito dal «cosmo vissuto» di questi popoli.

José (Giuseppe) Auletta*

(*) Oggi padre Auletta lavora nella provincia di Mendoza, occupandosi, su delega del vescovo mons. Marcello Colombo, del territorio denominato «Secano Lavallino» abitato da 11 comunità indigene appartenenti al popolo huarpe. Le comunità sono sparse su una superficie di 700mila ettari (7mila chilometri quadrati). Ne parleremo in maniera approfondita in un prossimo articolo.


Il coronavirus in Argentina

Tanta uva, poca solidarietà

Anche in Argentina è arrivato il virus della Covid-19. Nell’attualità sembra che i casi siano relativamente pochi, sia di malati che di morti (27.373 positivi, 765 deceduti, all’11 giugno). Tuttavia, dare cifre di contagiati, quantità di tamponi, ricoverati con diversa gravità e deceduti, è molto relativo, se non azzardato, soprattutto con riferimento a quanto succede nelle grandi città (Buenos Aires, Rosario, Córdoba, Santa Fe, Mendoza) o in provincie dell’interno, ognuna con situazioni diverse.

La maggior parte dei casi complicati si registra nella capitale e nella Gran Buenos Aires e in fase di lento però costante aumento, soprattutto negli insediamenti tipo «villas miserias».

La situazione potrebbe aggravarsi in prossimità della stagione fredda di metà autunno e successivamente della prima parte dell’inverno.

Il governo nazionale, in accordo con le provincie, ha adottato misure restrittive abbastanza rigide (un lockdown dal 19 marzo fino al 7 giugno), ma c’è parecchia incertezza circa la decisione di un allentamento delle stesse e l’inizio delle fasi che permetterebbero l’apertura graduale delle varie attività sia istituzionali (istruzione, giustizia ecc.) che private (produzione, commercio, sport ecc.).

Ci sono state eccezioni, nel contesto generale dell’isolamento sociale, che hanno permesso lo svolgimento di alcune attività produttive. Tra queste, nella provincia di Mendoza, è stata autorizzata la vendemmia, iniziata alla fine di dicembre e conclusa a fine aprile. Quella della vendemmia è un’attività che attrae molta mano d’opera proveniente dalle provincie del Nord Ovest (Salta e Jujuy) e anche da alcune più lontane come Formosa, del Nord Est del paese. Molti operai appartengono a comunità indigene.

Quest’anno si è verificata una situazione molto complicata, per quanto riguarda il ritorno a casa di quanti erano stati impegnati nella raccolta non solo dell’uva ma anche delle olive e delle mele cotogne, che è coincisa con le misure di restrizione che non consentivano il viaggio di ritorno al luogo di provenienza: un doloroso panorama di centinaia di lavoratori e lavoratrici migranti rurali, bloccati nei terminal dei bus. È stato un vero dramma umano che ha evidenziato l’assembramento di intere famiglie, in condizioni sanitarie d’emergenza in mezzo alla pandemia della Covid-19, nell’incerta e lunga attesa che le imprese di pullman ricevessero l’autorizzazione per il viaggio di ritorno, pur avendo già riscosso i soldi del biglietto. Le autorità governative provinciali hanno brillato per la loro assenza, nonostante il permesso ottenuto per realizzare la vendemmia che senz’altro ha favorito le grandi imprese vitivinicole. L’inumana situazione creatasi potrebbe essere definita «la vendemmia dello scarto».

Le varie équipe di pastorale aborigena, così come la pastorale dei migranti e altre organizzazioni solidali hanno cercato di collaborare per alleviare tanta sofferenza, sia in occasione del ritorno come dell’arrivo delle persone alle proprie comunità d’appartenza.

José (Giuseppe) Auletta


Imc in Argentina

La presenza dei missionari della Consolata (Imc) in Argentina ha visto notevoli cambiamenti nel corso degli oltre settant’anni di presenza:

  • il numero delle comunità Imc del Nord è stato importante fino al Duemila (Bartolomé de las Casas, El Colorado, Pirané, Palo Santo – diocesi di Formosa – nell’omonima provincia; Machagai e Colonia Aborigen Chaco – diocesi di San Roque – nella provincia del Chaco), per poi ridursi progressivamente, fino a spostarsi in seguito dal Nord Est al Nord Ovest;
  • qui attualmente operiamo in quattro centri (Tartagal – diocesi di Orán – nella provincia di Salta; Yuto, Alto Comedero e Seminario filosofico nella città di San Salvador di Jujuy – diocesi di Jujuy – nell’omonima provincia);
  • nel resto del paese, dopo aver lasciato Rosario (provincia di Santa Fe) e San Francisco (Córdoba) dove però conserviamo il collegio, le altre presenze Imc sono: Las Heras (Mendoza), con parrocchia e Comunità apostolica formativa (Caf), Merlo (parrocchia e quasi parrocchia) e Martín Coronado – ex noviziato (provincia di Buenos Aires); Casa regionale (Buenos Aires, capitale).

Jo.Au.

L’interculturalità

  • È un modo di intendere e orientare il nostro comportamento sociale. Quando ci decidiamo a cercarla, la incontriamo nella capacità di ascoltare l’altro, sapendo che questo scambio favorisce crescita e arricchimento reciproci.
  • L’interculturalità non pretende di fare di due uno, ma di rispettare ogni parte del tutto. Un rispetto che comprende ogni cultura, ogni forma di espressione, ogni sviluppo, ogni valore sociale e giuridico, ogni voce, ogni popolo.
  • L’interculturalità ha bisogno di una interazione pacifica e di un contesto di uguaglianza. Probabilmente, parte dell’umanità fa ancora fatica a capire che non esiste un pensiero unico, una sola cultura, una sola storia o un’unica espressione della verità.
    Nel caso dell’Argentina, questo sforzo di comprensione fu fatto, in termini istituzionali, grazie alla riforma della Costituzione nazionale dell’anno 1994, una tappa fondamentale per i popoli indigeni. Anche se fra la parola scritta e la realtà rimane una grande distanza.
  • L’interculturalità esprime la possibilità di un nuovo paradigma, più giusto, più equo e, perciò, più umano.

Jo.Au.

 




Consolata mission centre: Si aprono i cancelli

testo di Francesco Bernardi |


Dal 2008 il Consolata mission centre è luogo di formazione, incontro, scambio, crescita. Giovani, vescovi, protestanti, musulmani, personalità, attivisti dei diritti umani, bambini sieropositivi all’Hiv: ciascuno trova lì uno spazio per proseguire la sua strada con maggiore consapevolezza e verità.

Sul pavimento spicca a caratteri cubitali e istoriati la data «2008». È l’anno in cui fu inaugurata la chiesa del «Consolata mission centre».

È l’anno in cui il centro aprì i suoi battenti: la porta con bassorilievi della chiesa e quella del salone conferenze; le porte ariose della sala da pranzo e della cucina; quelle della casa dei missionari e delle camere per gli ospiti.

Al Consolata mission centre possono dormire comodamente cento persone; in 250 possono sedersi attorno alla tradizionale polenta e ad altre saporite vivande; in 300 possono partecipare, nel maestoso salone, a dibattiti e conferenze con oratori che intrattengono l’uditorio con scritti, filmati e power point.

Inoltre ci sono sale, salette e quattro gazebo per discussioni di gruppo. E alberi, aiuole, fiori. Maree di fiori estasianti.

Benvenuti nel Consolata mission centre. Siete a Bunju, 35 chilometri a Nord di Dar es Salaam («porto della pace»), la metropoli del Tanzania, ricca di circa sei milioni di persone.

Se procedete ancora verso Nord per altri 35 chilometri, ecco Bagamoyo, ex porto degli schiavi, razziati dall’intero paese. «Bagamoyo» significa «lascia il tuo cuore», proprio in riferimento agli schiavi deportati.

Nel 2008, quando il Consolata mission centre spalancò cancelli, porte e finestre, la prima impressione del visitatore poteva essere: «È un enorme apparato immerso nella confusione e nel nulla». Vero. L’ambiente circostante era una spianata inselvatichita, un groviglio di rovi, serpenti e sporcizia.

Ebbene, pulizia subito. «Piantiamo alberi degni di tale nome. Piantiamo, ad esempio, mwa arobaini».

Mwa arobaini è un albero di origine indiana, che incuriosisce e incanta. È tenacissimo. Resiste alla siccità come pochissimi. Ha una vitalità che non conosce remore. I suoi rami entrano presto in casa, se non li ridimensioni debitamente. Infatti la gente lo massacra quando lo pota, e lo abbandona con moncherini che gridano pietà. Ma, poco dopo, è di nuovo garrulo nel suo verde lussureggiante.

È un albero beneaugurante per il nostro centro, infatti si chiama mwa arobaini, «di quaranta», perché si dice che guarisca quaranta malattie.

 

Il centro di Bunju. Foto Ema Maglioli

Arrivano i cardinali

Oggi, chi frequenta il centro, ringrazia e complimenta i missionari della Consolata per «aver pensato in grande e in bello».

Il Consolata mission centre viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente ne usufruiscono proprio tutti: uomini e donne a livello personale o raccolti in movimenti o gruppi, professori e studenti d’università, difensori dell’ambiente e dei diritti umani, bambini. Numerose suore. Seminaristi, preti, vescovi.

E proprio i vescovi furono fra i primi «clienti».

Come non ricordare l’incontro che fu ospitato dal 28 giugno al 5 luglio del 2009, richiesto dalla congregazione per la Dottrina della fede di Roma? Vi parteciparono i presidenti delle Commissioni episcopali teologiche dell’intera Africa.

Tra i circa trenta prelati presenti, c’erano, da Roma, il cardinale Levada e l’arcivescovo Ladaria; dal Senegal, il cardinale Sarr; dal Ghana il cardinale Turkson; dal Congo l’arcivescovo Monsengwo. L’eucaristia di apertura fu presieduta dal cardinale di Dar es Salaam, Polycarp Pengo.

L’anno successivo, dal 4 al 7 novembre, ci fu un congresso missionario. Vi parteciparono vescovi, professori di università, missionari e missionarie di vari istituti religiosi, laici. Settantadue persone in tutto.

Method Kilaini, vescovo ausiliare di Bukoba, città tanzaniana sul lago Vittoria, disse: «Come storico, io ammiro i missionari. Ammiro il loro coraggio, la loro forza, nonché la loro capacità di capire la nostra lingua e cultura. Molti di loro hanno anche criticato il nostro modo di vivere. Tuttavia, nel complesso, hanno contribuito molto a documentare e salvare gli elementi positivi della nostra cultura».

Catechisti e giovani

I frequentatori prediletti del Consolata mission centre sono i catechisti e i giovani. Il centro è stato pensato e realizzato specialmente per loro.

I catechisti sono la spina dorsale dell’evangelizzazione. Il sacerdote, senza il catechista, finirebbe per essere solo un «distributore» di sacramenti e sacramentali all’ultimo istante.

Sì, certo, il presbitero la notte di Pasqua o il Lunedì dell’Angelo battezza persino 150 persone. Ma chi le ha preparate? Il catechista. E chi visita gli ammalati, chi prepara i fidanzati al matrimonio, chi celebra i funerali? Il catechista. Sempre lui. E quasi sempre «sottopagato», pur avendo famiglia.

I catechisti, nel Consolata mission centre trovano una formazione accurata e approfondita attraverso corsi settimanali, sotto il patrocinio dell’ufficio catechetico diocesano di Dar es Salaam.

I partecipanti variano da settanta a cento, e provengono anche da Zanzibar e Morogoro.

Alcuni temi affrontati sono rivoluzionari nel contesto africano: ad esempio la pianificazione delle nascite, secondo il metodo Billings. Urgente è, soprattutto, la formazione biblica. L’eucaristia è l’azione di Gesù Cristo maestro e salvatore, non uno show di cerimonie e canti, pure se gradevoli.

I giovani frequentano in massa il centro: anche quattrocento per volta, se si tratta di incontri di una giornata. Meno nei seminars di tre giorni. Le famiglie, infatti, sono chiamate a partecipare alle spese di viaggio, vitto e alloggio.

Gli argomenti dibattuti si avvalgono di testimonianze di altri giovani, riflessioni di missionari e missionarie, lezioni di psicologia per la conoscenza di se stessi.

Ai giovani non si proclama «voi siete il futuro della chiesa e della società», bensì «voi siete il futuro che incomincia oggi».

La chiesa spende tante risorse per l’educazione dei bambini, ma poche «pagnottelle» per i giovani. Potrà succedere che «cinque pani e due pesci» sfa-mino cinquemila persone? (cfr. Matteo 14, 13-21).

Diritti umani e Radio Maria

Qualche tempo prima dell’emergenza Covid, sono arrivati dall’intero Tanzania diversi giovani della Comunità di sant’Egidio. A tavola hanno spezzato il pane con quattro coetanei che stavano redigendo un «Rapporto sui diritti umani in Tanzania», nonché con un quartetto di ambientalisti.

La settimana successiva è stata la volta di diversi operatori di Radio Maria provenienti da vari paesi africani. Costoro, in cortile, hanno potuto anche esercitare il loro inglese, giacché il centro ospitava, in contemporanea, una scuola di Boston gemellata con una di Dar es Salaam. Erano liceali provenienti da collegi dei gesuiti. Missionario il loro motto: «Men and women for others» (uomini e donne per gli altri).

La luce che il faro del Consolata mission centre sprigiona è pure ecumenica e interreligiosa, giacché il centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, pentecostali; senza escludere i musulmani.

Protestanti in arrivo

«E chi è costui?», mi sono detto un giorno. «Dall’abbigliamento sembra un pastore luterano».

Tutte le volte che ne incontro uno, ricordo padre Igino Lumetti, buon’anima, che quarant’anni fa cercò di aiutare un pastore protestante rimasto in panne sulla strada per un guasto all’auto. Padre Igino gli si accostò. Ma il protestante, quando seppe che era un prete cattolico, rifiutò l’offerta.

Ora, cosa è venuto a fare al Consolata mission centre questo «eretico» in camicia nera e colletto clericale romano?

«Padre – ha esordito l’ospite -, complimenti per questo magnifico centro. È un luogo che sa leggere e interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo. Ne abbiamo assoluto bisogno».

Avendo vissuto sette anni a Roma e trentaquattro a Torino, mi è venuto spontaneo pensare: «Cavolo! Quanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere e del Po!». Come sono mutati i rapporti con i protestanti.

Il ministro dell’Interno

Alcune settimane fa è comparso al nostro centro un pezzo da novanta del governo. Un incidente stradale gli aveva strappato il figlio maggiore, ventenne. L’uomo si era chiuso in camera per quattro giorni, solo nella sua disperazione, affogando nel whisky.

Un giorno, mentre sedeva in parlamento accanto al presidente della Repubblica, è stato scoperto dal suo alito cattivo. È stato svergognato in pubblico dal presidente stesso e rimosso dal suo ufficio seduta stante. Era ministro dell’Interno. È arrivato al Consolata mission centre con la moglie taciturna. Entrambi in cerca di serenità. Dopo una settimana di riflessione, prima di rincasare, hanno chiesto: «Padre, ci ripeta ancora il discorso notturno di papa Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II nel 1962, in piazza san Pietro, illuminata da migliaia di fiaccole».

«Cari figlioli, disse pressappoco il papa buono, oggi abbiamo terminato una giornata di pace. Stanotte anche la luna in cielo è venuta a pregare con noi… Andando a casa, troverete i bambini. Fate una carezza ai vostri bambini e dite loro: questa è la carezza del papa!».

«E noi faremo altrettanto», hanno concluso i due.

Bimbi che fanno pipì

Tempo fa il centro si è sobbarcato una spesa corposa fuori programma. Erano attesi un’ottantina di ragazzi, tra cui numerosi bimbi. Come proteggere i materassi se non comprando teli di plastica impermeabili alla pipì? Ecco la spesa extra.

Con i bambini c’erano alcuni genitori ed educatori. Hanno soggiornato al centro per 15 giorni, al termine dei quali, ai più grandi è stato rivelato che erano nati sieropositivi al virus dell’Aids.

In quel giorno si sono alzate strazianti grida di dolore nel centro.

Anche i ragazzi sieropositivi sono nostri «clienti».

Elevare l’ambiente

Ebbene, dopo una complessa gestazione, nel 2008, i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata mission centre per offrire a tutti un luogo in cui pregare, pensare e cambiare.

È un punto di riferimento per l’intero Tanzania con la parola «missione» al centro.

La struttura ospita pure la redazione della rivista in lingua swahili «Enendeni» (Andate): mo-desta nella veste tipografica, ma significativa nei contenuti, specialmente in tema di formazione, pace, giustizia.

L’editoriale di marzo 2020 recita: «Se manchi di giustizia, le tue preghiere, i tuoi digiuni, le tue offerte, sono ipocrisia». Espressioni forse scontate in Italia, non in Tanzania.

Delle quattro riviste cattoliche del paese, Enendeni non è la… peggiore!

Il Consolata mission centre ha un alto costo di gestione, con i prezzi in costante ascesa e i nostri quattordici lavoratori da retribuire ogni mese.

Qui risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese, ci chiedono un anticipo di stipendio. E quanti richiedono un prestito.

Noi missionari abbiamo scelto l’impegno nel centro perché crediamo nell’«elevazione dell’ambiente» a 360 gradi, alla stregua della magna carta del Vangelo, come dettava il nostro fondatore beato Giuseppe Allamano.

Tuttavia carmina non dant panem, scriveva il vecchio Orazio. Ossia: lo studio, la ricerca culturale (meno che meno quella evangelica) e la formazione, non fanno quattrini. Il centro sarebbe in bancarotta da tempo, se non ci fosse il sostegno di amici italiani amanti della missione.

Recita un proverbio swahili: «Elimu ni mali» (la conoscenza è un capitale). Sì, la conoscenza, la verità, la chiarezza. Non bastano l’entusiasmo, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, «formarsi», perché guerre, carestie, corruzione, Aids…, sono emergenze crudeli in Africa e la «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria.

I missionari della Consolata ne sono convinti. Ecco perché hanno inventato il Consolata mission centre: per promuovere ed evangelizzare l’uomo, partendo dalla cultura locale e con il fine della «consolazione».

Presidente, attenzione

Mentre scrivo siamo a fine maggio, e non sono sereno. Il Consolata mission centre sprofonda nella solitudine: anche in Tanzania imperversa il coronavirus.

«La nostra economia viene prima della lotta al Covid-19». Parole discutibili di John Magufuli, presidente del Tanzania. La vita deve andare avanti. Ma come?

Fonti ufficiali parlano di 21 decessi per coronavirus e 509 contagiati totali. Dati fasulli, perché risalgono all’8 maggio, e non se ne forniscono altri per ora.

Ha destato scalpore (e ilarità) la seguente dichiarazione del presidente: «Abbiamo sottoposto ad analisi campioni di capra, olio d’auto, papaia… ed ecco che alcuni elementi sono positivi al coronavirus. Siamo di fronte a fatti strani. Non possiamo fidarci delle informazioni degli esperti».

Risultato: si usino mascherine, disinfettanti, acqua e sapone; si chiudano le scuole. Ma le merci circolino liberamente. «Non possiamo chiudere il porto di Dar es Salaam – dichiara ancora Magufuli -, perché sette paesi confinanti fanno affidamento su di esso per i loro rifornimenti alimentari». Vero e non vero, giacché Uganda, Zambia e Kenya ignorano la «benevolenza» del presidente tanzaniano, avendo chiuso le loro frontiere.

Anche le chiese sono aperte, perché «il Covid-19 non può entrare nella casa di Dio», afferma ancora Magufuli. Però, da Pasqua i fedeli in chiesa sono rari.

Gli ospedali governativi ospitano pochi malati di Covid-19, perché i contagiati non vi trovano adeguata assistenza. Quelli privati, come l’Aga Khan, sono un lusso. L’uomo della strada resta in casa curandosi con bevande al limone e zenzero o decotti tradizionali di erbe.

Fra la gente si registra rassegnazione o fatalismo. L’uso di mascherine è diminuito, anche nelle città, luoghi più esposti al virus, nonostante la paura sia tanta a causa delle persone che si vedono morire «senza ragione».

Intanto Magufuli ha proclamato tre giorni di ringraziamento a Dio, «affinché le preghiere possano continuare a tenere lontano il virus».

Forse sarebbe meglio pregare per una buona morte.

E qui mi rattristo. Vivo in un luogo che vuole «centrare la vita» nella trasparenza, nella solidarietà e nella verità.

Che cosa stiamo centrando oggi in Tanzania?

Francesco Bernardi

Entrata al centro di Bunju; foto Ema Maglioli.




Missione Madagascar: «sembra di essere nell’ottocento»

testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC |


Da circa un anno un gruppo di giovani missionari della Consolata è presente in Madagascar. Le sfide non mancano ma l’entusiasmo è alle stelle. E mentre i «nostri» stanno studiando la lingua e il contesto, arriva il coronavirus. Ma le autorità sembra riescano a circoscriverlo.

È il 29 gennaio 2019. padre Godfrey Msumange, detto Baba Godfrey, sbarca all’aeroporto di Nosy Be, Madagascar. È l’anniversario della fondazione dell’Istituto Missioni Consolata di cui Baba Godfrey è consigliere generale per l’Africa. Oggi non è un giorno come un altro, l’arrivo del sacerdote tanzaniano sancisce l’apertura di una nuova presenza per l’Istituto di Torino fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1901. Si tratta del decimo paese sul continente africano. Padre Godfrey è accolto dal vescovo di Ambanja (si legge Ambanza), monsignor
Rosario Vella, salesiano (oggi trasferito alla diocesi di Moramanga), e da una folta rappresentanza della diocesi.

Siamo sull’isola di Nosy Be, costa Nordorientale del paese. Il tempo è stupendo, il mare bellissimo. Ma le sfide che aspettano i missionari sono enormi. Il gruppo raggiungerà Ambanja al di là dello stretto, con un motoscafo da Hell-Ville (Andoany), capoluogo del distretto di Nosy Be. Qui c’è la sede della vasta diocesi.

Il viaggio di padre Godfrey rappresenta l’apertura ufficiale della missione, ma i missionari che vi lavoreranno devono ancora arrivare, problemi burocratici di permessi e visti li hanno trattenuti a Nairobi (Kenya). Sono i padri Jean Tuluba (Rd Congo), Kizito Mukalazi (Uganda) e Jared Makori (Kenya). Loro sbarcheranno sull’«Isola rossa» il 13 marzo, iniziando, di fatto, la nuova avventura.

Ma come si è arrivati a questo giorno? Facciamo un passo indietro.

AfMC foto Godfrey Msumange

Il precursore

Fin dal 1999, padre Noè Cereda, missionario della Consolata innamorato dell’isola, aveva ottenuto dai suoi superiori un permesso speciale, ad personam,  per poter lavorare nel paese, pur non essendoci missioni dell’Istituto. Passò alcuni anni proprio a Hell-Ville, poi, dal 2005, si trasferì in capitale, Antananarivo. Padre Cereda ha lavorato con le suore Ancelle (o discepole) del Sacro Cuore, fondate a Lecce e arrivate sull’isola nel 1988. Nel settembre del 2010, padre Stefano Camerlengo, attuale superiore generale e all’epoca vice superiore, fece una visita a padre Noè. Restò molto colpito dalla bellezza dell’isola, ma anche dalle difficili condizioni di vita.

Due anni più tardi, il vescovo italiano di Ambanja, monsignor Vella, scrisse una lettera ufficiale chiedendo ai missionari della Consolata di aprire una missione nella sua diocesi. La risposta tardò, ma la riflessione fu portata avanti. Nel giugno 2016 una nuova visita del consiglio generale, composta dai padri Dietrich Pendawazima, Hieronimus Joya e Marco Marini, accompagnati proprio da padre Noè, sancì infine la decisione. Il vescovo propose tre possibili missioni: Ankaramibe, sulla direttrice stradale verso Sud tra Ambanja e Antsohihy; la seconda nei pressi della stessa città di Antsohihy; la terza più all’interno, a 15 km da Bealanana, una località chiamata Beandrarezona. La decisione cadde proprio su quest’ultima.

La scelta

«Questa scelta, seppure la più complessa, è sicuramente quella più ad gentes rispetto alle altre – ci spiega Baba Godfrey -. Nelle altre due località c’era già la presenza di sacerdoti, mentre a Beandrarezona ci andavano una volta ogni due anni. Inoltre la zona è di difficile accesso, durante la stagione delle piogge la strada diventa un letto di fango. Anche sul versante della promozione umana le esigenze sono moltissime. Dal punto di vista missionario, in questa zona solo tre persone ogni cento sono cristiane».

In Madagascar, a livello nazionale, i cristiani sono circa il 45%, e metà di questi sono cattolici. I restanti praticano religioni tradizionali, che sono molto importanti sull’isola. I musulmani sono invece una minoranza. La popolazione è di circa 24,2 milioni di abitanti su una superficie di 587.041 km2, poco meno del doppio dell’Italia. Nel paese le infrastrutture stradali sono basiche e restano enormi le difficoltà per collegare le diverse regioni.

La popolazione è composta da diciotto etnie, ma la cosa più interessante è la compresenza di gruppi di origine africana (bantu) e di altri di origine asiatica. I primi sono legati ai popoli delle coste del Mozambico e della Tanzania. I secondi, hanno tratti indonesiani e malesi, in particolare la lingua malgascia è simile a quella parlata nel bacino del fiume Barito, nel Kalimantan, il Borneo indonesiano. Vi sono poi influenze arabe, indiane ed europee. Nella diocesi di Ambanja la popolazione maggioritaria è di etnia Sakalava, di origini tipicamente bantu.

Il paese ha indici di sviluppo molto bassi, e permane intorno al 160 su 189 paesi della classifica delle Nazioni Unite sull’indice di sviluppo umano.

Continua Baba Godfrey: «Una delle cose che noti nell’area di Beandrarezona sono i coltivatori di riso. Si è in mezzo alle colline e alle risaie: c’è una grande riserva di acqua in questa zona. Ho visto una natura rigogliosa, cascate, fiumi, tante potenzialità. Pare una terra ancora vergine, soprattutto in queste zone remote. La gente è molto semplice. Sembra di essere nell’Ottocento. Collaborando con le autorità locali potremmo fare grandi cose per questa gente».

Inoltre, una comunità di suore francescane malgasce si è da poco installata a  Beandrarezona. «Sono molto contento di questo. Noi uomini andiamo fino a un certo punto, ci vuole sempre la donna».

I primi tre

Padre Jean Tuluba è di Wamba (Rdc), è un giovane missionario che ha già lavorato cinque anni a Roraima, nel Nord del Brasile, tra i popoli indigeni di quella regione. Lo raggiungiamo per telefono, nonostante le difficoltà. È pieno di entusiasmo per questa nuova missione. «Siamo a 1.000 km dalla capitale, a 300 da Ambanja, sede della diocesi, e a 15 km, di strada terribile, da Bealanana, la città più vicina. Abbiamo fondato una nuova parrocchia perché prima il territorio era vastissimo». E l’estensione della parrocchia continua a essere molto grande, anche a causa delle strade, poche e in pessime condizioni. Padre Jean continua: «Le sfide sono tante, e sono simili per tutta la chiesa del Madagascar. Prima di tutto la povertà. Il paese non è povero, ha molte risorse, ma a causa della geopolitica il popolo viene impoverito ogni giorno. Abbiamo constatato, dopo un anno di studio e comprensione della realtà, che la povertà è quasi ovunque. L’attività principale è l’agricoltura e la produzione di riso in particolare. A livello politico la storia del Madagascar è fatta di colpi di stato e sconvolgimenti, ma adesso con il nuovo presidente Andry Rajoelina, che è giovane e capace la situazione sembra stabilizzarsi».

Padre Jean ci racconta come sia difficile lavorare con la gente, molto occupata nei campi. Gran parte delle famiglie non riesce a mandare i figli a scuola a causa del basso reddito e molte persone, se ci sono problemi di salute, devono mettersi in cammino per 15-20 km per raggiungere un dispensario o un ospedale. «Queste preoccupazioni sono impellenti e occorre dare loro qualche risposta. La prima attività evangelica della chiesa in Madagascar è la lotta alla povertà. Materiale oltre che spirituale. E intellettuale, perché  molti giovani non studiano».

Ecco che numerose, a livello nazionale, sono le scuole cattoliche di vario ordine e anche i dispensari e i centri di salute. «Per lottare contro queste povertà – continua padre Jean – bisogna istruire la gente, perché fin tanto che il popolo è ignorante qualcuno continuerà a sfruttarlo e a mantenerlo in questa condizione. Se invece è armato della conoscenza sarà più facile che sappia difendersi e rivendicare i propri diritti». Questa è la posizione della chiesa del Madagascar. Quindi occorre investire nella formazione di bambini e giovani, ma anche delle famiglie, per aiutarli a formarsi a una gestione di famiglia e di comunità completa, sotto tutti i punti di vista.

AfMC foto Godfrey Msumange

Missione vera

Dopo oltre sei mesi ad Ambanja a studiare la lingua malagasy, i «nostri» tre missionari sono andati a installarsi a Beandrarezuma il 20 ottobre 2019, in occasione della Giornata missionaria mondiale. «La nostra prima attività è fare osservazione e conoscenza del popolo, delle sfide, delle realtà locali, per vedere come posizionarci come missionari della Consolata in mezzo a questa gente», continua padre Jean.

Oltre alle sfide generali che ritroviamo in tutto il paese, qui ne abbiamo altre. Nella diocesi di Ambanja non ci sono molti cristiani. Si stima che solo il 9-11% sono credenti e nella nostra missione ancora meno. L’attività principale è andare al campo e coltivare il riso, ogni giorno. Anche la domenica. Diventa difficile proporre delle attività pastorali. L’unico momento è domenica dopo la celebrazione dell’eucarestia, perché si ha un po’ di gente. Quello che riusciamo a fare lo facciamo subito dopo la messa».

Poi c’è tutta la problematica della logistica che pesa pure sull’attività pastorale.

«Qui non abbiamo una casa, ma siamo ospiti presso una famiglia, siamo tre in una piccola casa. C’è un terreno della diocesi, dove speriamo di costruire.

Le strade, e questo vale per tutto il paese, sono terribili. Mi ricordano le strade del Congo. Durante la stagione delle piogge (che terminano a maggio), sono impraticabili e non danno accesso a nulla. È difficile uscire di casa, perché non c’è posto dove andare, c’è fango ovunque, è difficile andare a piedi, in bici, moto o anche in auto. Noi abbiamo un’auto ma è ferma a Bealanana, nell’altra parrocchia, e dobbiamo fare a piedi i 15 km per arrivarci se dobbiamo viaggiare verso altre città.

Ci sono difficoltà di comunicazione, di movimento. Si passa tra montagne e valli in cui si produce riso: tutto è pieno di fango».

E continua fiducioso: «Poco a poco entriamo nella realtà e vediamo cosa si può fare per il nostro popolo qui.

La nostra sfida principale è dunque l’educazione. A Bendrarezona c’è una scuola costruita dal nostro ex vescovo Rosario Vella, che è gestita dalle suore. Ma i genitori hanno difficoltà a pagare la retta. Devono coltivare, vendere il riso e quindi pagare la scuola dei figli. Molti giovani non possono studiare perché le famiglie non hanno i soldi. Inoltre, terminata la primaria, dalla classe delle medie devono andare altrove, a Bealanana, Antsohihy o Ambanja, lontano dalla famiglia. Qui non ci sono scuole secondarie».

Il Presidente del Madagascar, Andry Rajoelina, alla cerimonia di lancio del “Covid Organics” in Antananarivo, il 20 Aprile 2020. / Photo by RIJASOLO / AFP

Madagascar e coronavirus

Anche la salute è un grosso problema e una priorità. I dispensari sono lontani dalla gente.

Il coronavirus è arrivato nel paese, ma grazie a diversi fattori e alle politiche intraprese dal presidente Andry Rajoelina, ad oggi, mentre scriviamo, i dati ufficiali parlano di 186 persone positive, di cui più del 50% i guarite (al 13/05/2020). Non c’è stato ancora alcun decesso.

«Il coronavirus è arrivato anche qui. Quando è cominciato in Europa le persone erano un po’ distratte. Il traffico aereo è continuato ed è così che è entrato nel paese il primo caso, verso la metà del mese di marzo. Qualche viaggiatore in arrivo dalla Francia. In quel momento noi tre eravamo a Antananarivo per rinnovare i nostri visti di residenza.  Il presidente stesso ha annunciato alla televisione i primi quattro casi. Noi siamo stati allertati e siamo rientrati velocemente alla missione. Tutto era chiuso».

Padre Jean apprezza il modo con cui è stata gestita l’emergenza: «Il presidente stesso era il primo sulla linea del fronte, insieme al governo per sensibilizzare la popolazione sui pericoli del Covid-19, mostrando cosa succede negli altri paesi. È stato costituito un centro operativo di risposta contro il virus. Hanno chiuso tutto il traffico aereo e stradale. Hanno cominciato a seguire i casi. Sono stati molto attivi. E la popolazione ha obbedito. Anche se non è facile. Ogni due giorni il presidente presentava la situazione alla televisione. I casi di contaminazione non si moltiplicano qui in Madagascar. Poi il 20 aprile, il presidente Rajoelina ha presentato un rimedio tradizionale, che ha chiamato Covid-organics che l’Istituto malgascio di ricerca ha studiato sulla base della pianta di artemisia (molto efficace e largamente usata nella cura della malaria, ndr). Hanno trattato due casi di malati e sembra che siano guariti. È un prodotto locale.

Ha dichiarato il deconfinamento parziale, e la ripresa parziale di alcune attività, come le classi finali della scuola, che hanno ripreso mercoledì 22 aprile, rispettando sempre le distanze. A ogni scuola si inviano mascherine prodotte sul posto e anche la medicina locale, Covid-organics distribuita gratuitamente a tutti gli alunni e gli insegnanti. Il Madagascar è sulla strada giusta. Se si riprendono le attività poco a poco, vuol dire che va meglio. Avevamo paura, ora la situazione non sembra grave, ma non abbassiamo la guardia, occorre sempre rispettare le consegne del ministero della Salute.

A livello di chiesa non facciamo attività, anche su indicazioni del cardinale, monsignor Désiré Tsarahazana, presidente della Conferenza episcopale malgascia. Preghiamo a casa, senza messe e raggruppamenti. Ho speranza che il Covid-19 non farà molte vittime qui».

AfMC foto Godfrey Msumange

 

Tante missioni, tante sfide

Chiediamo a Baba Godfrey se, secondo lui, c’è differenza con le sfide in altre missioni di recente apertura, come l’Angola.

«Le sfide si assomigliano. Qui gli esperti dicono che occorre studiare almeno anno la lingua, senza la quale non riesci a parlare e quindi a fare missione. Occorre inoltre lavorare tanto in comunione, come ci insegna il Concilio Vaticano II, che definisce la missione come comunione. Oggi più di ieri ci chiedono di lavorare in stretta comunione con diversi enti sul territorio.

Si tratta di uno dei paesi più poveri del mondo, noi siamo all’inizio e vogliamo fare un progetto con la gente locale».

A proposito, ci racconta padre Jean «la popolazione di Beandrarezona ha iniziato a rimettere a posto la strada di collegamento con Bealanana, che è la più importante per il villaggio. Noi ci siamo dati disponibili e parteciperemo direttamente ai lavori». Anche questa è missione.

E padre Godfrey parla di futuro: «Come prospettiva abbiamo quella di aprire altre missioni nel paese nei prossimi anni, non molte, si parla di due o tre. Piccole comunità, ma grandi segni».

Marco Bello
(1-continua)

AfMC foto Godfrey Msumange

Madagascar in pillole

  • Popolazione: 26,26 milioni
  • Superficie: 587.041 km²
  • Pil pro capite: 527,50 Usd (2018)
  • Indice di sviluppo umano (classifica): 0,521 (162 su 189, 2018)
  • Tasso di fecondità: 4,78
  • Speranza di vita: 66,3 (2017)
  • Lingue ufficiali: Malgascio, Francese
  • Capitale: Antananarivo
  • Moneta: Ariary
  • Etnie: 18 etnie principali. Altipiani centrali (origine asiatica): Merina (3 milioni) e Betsileo (2 milioni). Costa (origine bantu), dei quali i maggiori sono: Betsimisaraka (1,6 milioni), Tsimihety (700mila), Sakalava (700mila).
  • Religioni: circa metà della popolazione malgascia è dedita a culti tradizionali locali, che tendono a essere centrati attorno all’idea del legame con i defunti. Il 45% dei malgasci sono invece cristiani, suddivisi circa in parti uguali fra cattolici e protestanti.

AfMC foto Godfrey Msumange

AfMC foto Godfrey Msumange




Brasile. Fratello indigeno, Sorella Amazzonia

testi di Roque Paloschi e Silvia Zaccaria |


Nato a Moncalvo (Asti) più di 100 anni fa (era il 1919), monsignor Aldo Mongiano ci ha lasciati lo scorso 15 aprile. Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, ricorda l’incontro con lui e le sue battaglie nel cuore dell’Amazzonia brasiliana.

Arrivai a Boa Vista, capitale di Roraima, il 13 luglio 2005, per essere ordinato vescovo della diocesi dello stato amazzonico.

Il 15 luglio, al mattino, in una celebrazione eucaristica nella Casa regionale delle suore della Consolata, feci la mia professione di fede alla presenza di dom Servilio Conti e dom Aldo Mongiano, entrambi vescovi emeriti di Roraima.

Il 17, dopo l’ordinazione episcopale, i due vescovi mi condussero in mezzo al popolo che aveva partecipato alla celebrazione. Dom Aldo rimase a Roraima per alcuni mesi, fino a metà ottobre. Di solito ci incontravamo tre volte alla settimana per parlare e condividere le grandi sfide che la diocesi aveva. Conversazioni che mi aiutarono a capire la vita e la missione in quella terra. Ho visto lì, chiaramente, che il cuore e la vita di dom Aldo avevano il marchio delle popolazioni indigene.

Il 7 settembre, pur avendo già 85 anni, insistette per camminare con i gruppi di pastorale sociale e i movimenti popolari nell’ambito delle manifestazioni per il Grido degli esclusi (Grito dos excluídos). All’inizio della camminata, il vescovo emerito mi disse: «Dom Roque, è importante sostenere la lotta dei gruppi pastorali e dei movimenti popolari».

Il 17 settembre di quello stesso 2005 fu bruciata e distrutta la missione di Surumu, sede delle grandi assemblee dei tuxawa (capi indigeni) e della scuola di formazione di insegnati e leader indigeni. Tutto, in poche ore, fu trasformato in ceneri da un gruppo di persone potenti e contrarie al diritto alla terra e all’autonomia dei Macuxi, Wapixana, Ingaricó e degli altri popoi indigeni di Roraima. Potevo vedere la sofferenza, il dolore che provava dom Aldo. La settimana seguente andammo a Surumu e, in mezzo alle ceneri e alle macerie, disse: «È dalle ceneri che costruiremo il futuro dei popoli indigeni con la forza e il coraggio che Dio ci darà».

A quei tempi la compagnia e la presenza di dom Aldo furono molto importanti per me, giovane vescovo, e per gli indigeni, generando in noi sicurezza e coraggio.

Accanto alle vittime

Alcuni anni dopo, era il 2011, avemmo un’altra piacevole sorpresa: senza alcuna comunicazione, a febbraio dom Aldo tornò a Boa Vista a visitarci. Stavo facendo una visita pastorale di 45 giorni nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, visitando centri e comunità. Quando queste vennero a sapere dell’arrivo di dom Aldo, lo pregarono di far loro visita. Pertanto, organizzammo il suo viaggio in coincidenza con la fine della visita pastorale.

Il suo arrivo alla missione Maturuca si trasformò in una vera festa, con balli e tanta gioia. Nella settimana che trascorsi lì, io ebbi modo di sentire la grande gratitudine delle comunità per la missione, per i missionari e in un modo molto speciale per lui.

Alla celebrazione dell’addio, arrivò una donna anziana per regalargli un ricordino, una piccola pentola di terracotta fatta dalle donne macuxi di Maturuca. Nella sua lingua l’indigena disse: «Dom Aldo, sappiamo che non puoi portare molte cose nel tuo viaggio in aereo, ma accetta e prendi questa piccola pentola. È stata creata con questa terra che tu e la missione ci avete aiutato a preservare e riconquistare, è piena del sangue dei nostri capi che sono stati assassinati, del nostro sacrificio e della dedizione dei missionari. Ecco il nostro riconoscimento per il tuo coraggio nel lottare per i diritti delle popolazioni indigene». Le lacrime scorrevano nel silenzio di una notte che i libri di storia non racconteranno.

Papa Paolo VI, oggi santo, coniò questa espressione resa nota dalla sua Evangelii Nuntiandi: «L’uomo contemporaneo ascolta i testimoni meglio dei maestri». A Roraima, ho compreso quanto dom Aldo fosse stato testimonianza vivente di un uomo innamorato della missione. Era consapevole che essa si coniuga con l’incarnazione e la croce. Ecco perché, insieme ai missionari della Consolata, prese la croce assieme ai popoli indigeni di Roraima.

Possiamo assicurarvi che dom Aldo è stato un vescovo conciliare, cioè ha sempre cercato di camminare con la coscienza della Chiesa del Popolo di Dio.

Dio gli ha concesso la grazia di essere un missionario in Africa per i popoli del Mozambico e qui in Brasile, a Roraima, con i popoli indigeni, schiavi e vittime del mondo coloniale. Quindi, egli ha incarnato la Costituzione pastorale Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, la tristezza e l’angoscia delle persone di oggi, specialmente dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, la tristezza e le ansie dei discepoli di Cristo».

Gli attacchi delle élite

Nel 1967 papa Paolo VI scrisse l’enciclica Populorum Progressio, in cui affermava che la Chiesa ha l’obbligo di mettersi al servizio di tutti gli uomini e di tutta l’umanità, per aiutarli a passare da condizioni meno umane a più umane. Nel 1968 ebbe luogo la Conferenza di Medellín dell’episcopato latinoamericano e, nel 1972, la Chiesa amazzonica brasiliana tradusse il documento di Medellín con l’incontro di Santarém. Nello stesso anno, la Chiesa aveva creato il Consiglio missionario indigenista (Cimi)1. Con tutto questo movimento e i segnali dello Spirito, dom Aldo bevve il Vangelo della liberazione e della libertà umana.

Quando arrivò a Roraima, nel 1975, egli trovò un clima che contagiava la vita e la missione.

Dom Aldo, con i missionari della Chiesa di Roraima, divenne il migliore alleato dei popoli indigeni. Ecco perché venivano additati con disprezzo dall’élite locale che affermava che la Chiesa cattolica era «dannosa» per la società di Roraima. Ricordo le risposte di un vecchio indigeno catechista, quando fu intervistato da un giornalista su una stazione radio governativa. Il giornalista chiese: «Perché ci sono così tanti attacchi contro la Chiesa, contro i missionari? Ti hanno addestrato per i guerriglieri? Ti hanno distribuito armi?». Il vecchio catechista indigeno rispose con l’eleganza di un diplomatico: «Guarda, i missionari non hanno fatto quasi nulla per noi. Ci hanno aiutato a capire che siamo anche figli e figlie di Dio; che non dovremmo vergognarci della nostra lingua, perché quella è la lingua che Dio ci ha dato e dobbiamo coltivarla; che questa terra ci appartiene, perché i nostri antenati hanno vissuto qui per oltre tremila anni».

Il primo passo che dom Aldo fece fu di continuare il percorso che i missionari stavano seguendo: unire i popoli indigeni animando e sostenendo le assemblee dei tuxawa e l’organizzazione del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).

Aveva un modo semplice e pratico per aiutare le comunità a capire l’importanza di unire le malocas di tutte le etnie indigene. Ne è un esempio quella che viene chiamata l’omelia delle bacchette: «Un ramo da solo è molto facile da spezzare, ma se metti insieme un fascio, questo non accadrà».

La missione aiutò le comunità a superare la maledizione del bestiame che invadeva e distruggeva i campi, con l’idea che «il veleno del serpente è anche l’antidoto». Dom Aldo, i missionari e gli indigeni trovarono nello stesso bestiame la cura: il famoso progetto «Una mucca per gli indios», con il sostegno del compianto cardinale Ersilio Tonini e poi di papa Giovanni Paolo II, oggi santo.

Dom Aldo cercò sempre di investire molto nella formazione dei leader indigeni. Tutte le comunità crebbero con una grande ricchezza di ministeri e servizi, i laici furono aiutati a scoprire la loro vocazione missionaria, le assemblee diocesane si susseguirono e la formazione dei laici decollò.

Dom Aldo era un uomo aperto oltre il suo tempo. Un uomo che accolse con favore l’esperienza di comunione che la Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani (Cnbb) aveva promosso a difesa della vita. Un uomo che segnò la regione amazzonica e la Chiesa in Brasile per la sua opzione in favore delle popolazioni indigene e l’impegno a prendersi cura dell’Amazzonia. Negli anni ‘90, lui e in gruppo di vescovi ad Assisi, terra di San Francesco, lanciarono la grande campagna: «Un grido per la vita in Amazzonia».

Precursore del Sinodo

Vorrei ricordare ciò che dom Aldo scrisse nella sua lettera pastorale quando divenne vescovo emerito: «Sono stato spiato, ho subito minacce, insulti, false testimonianze. Di fronte a queste accuse, ho quasi sempre risposto con silenzio e perdono […]. Per vent’anni politici, giornali e stazioni radio locali hanno attaccato la Chiesa di Roraima, lanciando contro di me e sui missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più infami […]. Quando partii per Roraima nel 1975, avevo solo il passaporto, il biglietto e il documento del papa, con cui ero stato nominato vescovo. Quando ho lasciato Roraima, non avevo più nemmeno quelli».

Con tutta tranquillità posso affermare che la sua lotta non fu vana: dom Aldo è stato un grande profeta, un fedele difensore delle popolazioni indigene e dei loro territori. Aveva già previsto ciò che il Sinodo per l’Amazzonia avrebbe affrontato nel 2019: difendere la terra significa difendere la vita. Posso affermare che il ministero episcopale di dom Aldo a capo della Chiesa di Roraima si è svolto in tempi difficili, di persecuzione aperta della Chiesa, di missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e coraggio evangelico.

Era un pastore, un profeta, un vero padre e fratello per i più deboli. Animatore delle comunità, protettore e difensore dei missionari che erano lì con loro.

Credo di poter sostenere, senza paura di sbagliare, che tutti i temi discussi dopo la convocazione, la preparazione e l’esecuzione del Sinodo dell’Amazzonia, dom Aldo li aveva già nel cuore e aveva sempre lavorato molto duramente per creare una Chiesa modellata sul volto dei popoli indigeni.

Egli aiutò a preservare i percorsi che Dio ha stabilito per l’umanità, sia a livello culturale che religioso; la sua pratica ci ha aiutato a salvare le strade che Dio ha stabilito per gli «ultimi». L’incontro con le popolazioni indigene ha aiutato la Chiesa di Roraima e del Brasile, a sentirsi più al servizio e samaritana.

Il percorso segnato da dom Aldo ha portato a percepire la bellezza di vivere in una pluralità culturale e a comprendere il modus vivendi degli altri, che è la grande ricchezza della Chiesa dell’Amazzonia. La sua azione ha aperto percorsi attraverso il dialogo, la riconciliazione, la cura dei più deboli, l’opzione per i fragili, il coraggio di denunciare i draghi della morte che divorano la vita, il rispetto e la comunione con le vite e i sogni degli ultimi.

Che dom Aldo ci aiuti a superare le tentazioni di discriminazione, xenofobia, omologazione e l’incapacità di avvicinarci alle popolazioni indigene!

Roque Paloschi

(1) Lo scorso 4 maggio il Cimi di dom Roque Paloschi è stato attaccato in maniera durissima (e vergognosa) in un comunicato ufficiale della Funai, l’organo indigenista oggi in mano a Bolsonaro e ai latifondisti, ovvero ai primi nemici dei popoli indigeni. La Funai ha anche restituito all’autore una serie di foto di Sebastião Salgado in risposta alla sua campagna internazionale in favore dei popoli indigeni e contro la dirigenza brasiliana. (P.M.)


Dal fiume Po al rio Branco

Dom Aldo, combattente «suo malgrado»

Lo ricordo così. Mite e pacato. La voce bassa, le parole quasi sussurrate. Il volto come scolpito nella pietra e lo sguardo austero, serioso, che all’improvviso si apriva in un sorriso appena accennato.

Dieci anni orsono ebbi il privilegio di raccogliere le sue memorie poi pubblicate nel libro «Roraima tra profezia e martirio: testimonianza di una Chiesa tra gli indios» (2010)1.

Una storia incredibile quella di Aldo Mongiano, nato nella seconda decade del Novecento in una valle piemontese da cui, per raggiungere la città della Fabbrica italiana automobili, il viaggiatore doveva utilizzare un calesse trainato da cavalli che lo conduceva alla stazione ferroviaria più vicina.

Nelle epoche precedenti, ricorda Mongiano nell’introduzione al libro, il viaggio era ancora più disagevole: «Era comune prendere un barcone e affidarsi a uomini robusti che spingessero il carico. Uno trascinava la barca facendo forza sul fondo sassoso del fiume con il remo, ed un altro, camminando sulla spiaggia, lo tirava con una corda legata alle spalle. Questa pratica, che avevo appreso da giovane osservando scene sul fiume che bagna il mio paese, sarebbe stata la metafora di tutta la mia vita». In Brasile, dom Aldo, come da lì in avanti sarebbe stato chiamato, arrivò dopo una lunga esperienza in Mozambico che aveva da poco conquistato l’indipendenza: «Non sapevo che, più tardi, mi sarei trovato coinvolto, mio malgrado, nel processo di emancipazione di un piccolo popolo oppresso dalle pratiche neocoloniali della società dominante». Mongiano confessa nelle sue memorie, di aver sempre agito – nelle particolari circostanze in cui si sarebbe trovato coinvolto – «suo malgrado». Malgrado la consapevolezza dei propri limiti e il senso di inadeguatezza che lo accompagnava.

Anche il ruolo di vescovo lo aveva accettato solo per non portarsi dietro per tutta la vita il peso «di non aver ascoltato la voce di Dio»: «Quando seppi che papa Paolo VI voleva affidarmi la guida della diocesi dell’allora Territorio federale di Roraima pensai alle mie limitate capacità, alla mia debole preparazione teologica». E all’America, così lontana culturalmente, così «moderna».

Sulla pista di atterraggio della capitale Boa Vista, lo accolse una bambina con in mano un mazzo di fiori e altre persone accorse a vedere il nuovo vescovo. La natura tropicale e l’indolenza della popolazione, la città vuota con l’unico semaforo sempre spento, gli diedero l’impressione di essere giunto in un luogo tranquillo.

L’illusione di serenità durò poco. Durante la prima visita in area indigena, dom Aldo scoprì che gli indios, che pure costituivano la maggioranza della popolazione erano schiavi dei fazendeiros che avevano invaso le loro terre e dipendenti dall’alcol. Nel 1977, nel corso di un’assemblea cui partecipò anche dom Tomás Balduíno della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile, i tuxawa (capi indigeni), fecero un’esposizione toccante della loro situazione: costretti a lavorare senza essere retribuiti; accusati di reati che non avevano commesso; forzati a lasciare le loro terre dopo aver visto le case e le piantagioni bruciate, si stavano convincendo del fatto che non restava loro che cessare di essere indios e diventare «Bianchi» oppure rassegnarsi a una vita da emarginati. Le autorità si mostravano indifferenti se non apertamente ostili. L’incontro con Tomás Balduíno e poi con Bartolomè Melià, gesuita sostenitore del popolo guaraní, furono decisivi: il vescovo si convinse che la Chiesa di Roraima doveva levare la propria voce in favore degli ultimi, gli indigeni, «i più poveri tra i poveri». Una scelta che comportò la nascita di tensioni con i vertici della Fondazione nazionale per gli indigeni (Funai) e con le autorità. Queste proibirono ai missionari di entrare in area indigena, mentre alcuni deputati furono autori di proposte di legge che, incentivando lo sfruttamento minerario, erano di natura genocida.

Nella memoria di dom Aldo, gli anni ‘80 furono i più burrascosi, ma anche i più belli. Furono gli anni della liberazione dalla dittatura militare, dell’instancabile lavoro di coscientizzazione degli indios, della rivendicazione delle terre e dell’identità indigena anche grazie al progetto visionario Uma Vaca para o Indio. Negli anni ‘90, l’impegno dei missionari della Consolata guidati dal loro vescovo a fianco degli indios del lavrado (savana) e degli Yanomami, determinò la reazione di vari settori del potere locale, le cui accuse trovavano ampio spazio anche sui media nazionali. Il vescovo Mongiano era additato un nemico del popolo di Roraima.

Nel 1996, anno in cui la terra Raposa Serra Sol («della Volpe e della Montagna del sole») venne riconosciuta come area indigena, dom Aldo lasciò la guida della diocesi per raggiunti limiti di età2.

Il senso della sua missione lo traccia lui stesso nell’epilogo del libro, citando la storia di quel marinaio che salva un bambino caduto in mare durante una tempesta: «Il comandante, alla sera, organizza una festa in suo onore. Ma il marinaio, pur grato per il riconoscimento, ammette: “Non l’avrei salvato se qualcun altro non mi avesse spinto”».

Silvia Zaccaria
(antropologa)

(1) Il pdf del libro è scaricabile dal sito della rivista.

(2) Gli successe Apparecido José Dias (1996-2004). Dom Apparecido era a quel tempo anche presidente del Cimi. Fondò Radio Roraima e il movimento Nós existimos. Strenuo difensore dei popoli indigeni fu oggetto come dom Aldo di attacchi personali.




Monsignor Aldo Mongiano, una voce a difesa dei popoli indigeni amazzonici

Testo di Luis Miguel Modino del Repam – foto Gigi Anataloni / AfMC


La vita delle persone è spesso profondamente identificata con le cause che difendono. Nella storia della Chiesa del Brasile ci sono stati molti missionari che hanno dato la vita in difesa delle popolazioni indigene. Uno di loro è stato monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Roraima dal 1975 al 1996, morto il 15 aprile 2020 a Pontestura, Monferrato, Italia, dove è nato il 1° novembre 1919 e dove risiedeva con la sorella.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Con 80 anni di professione religiosa, 76 anni di vita sacerdotale e 44 anni come vescovo, monsignor Aldo viene ricordato nella diocesi di Roraima come qualcuno che ha seminato molto. Secondo l’attuale vescovo della diocesi, monsignor Mario Antonio da Silva, che afferma: “Io e tutti gli altri missionari, fratelli e sorelle, e le nostre comunità , con i nostri cristiani laici, abbiamo raccolto (da lui) frutti abbondanti”. L’attuale vescovo definisce i 21 anni dell’episcopato di monsignor Aldo come un tempo “di testimonianza del Vangelo, della vita missionaria profetica a favore dei popoli dell’Amazzonia, in particolare dei popoli indigeni”.

Monsignor Aldo Mongiano si distingueva nel suo lavoro profetico con le popolazioni indigene, ma, secondo Dom Mario Antonio, “ha anche combattuto per i giovani, per il ruolo dei laici, monsignor Aldo era un vescovo che, a Roraima, accoglieva vocazioni locali, e allo stesso tempo missionari provenienti da tanti luoghi del Brasile e del mondo per aiutare nella missione in questa particolare Chiesa di Romarai”. Ecco perché l’attuale vescovo di Roraima dice che “siamo grati a Dio per il dono della vita e la vocazione di monsignor Aldo, e che i frutti continuano ad essere abbondanti nel suo pastore dedicato nella vita della nostra Chiesa”.

Uno di questi missionari è stato padre Alex José Klopenburg della diocesi di Bagé – RS, che ha lavorato a Roraima dal 1988 al 1992. Arrivò nella diocesi al “momento della costituente e dell’invasione dell’area indigena Yanomani da parte dei cercatori d’oro”. Di fronte a questa situazione, il missionario ricorda che “monsignor Aldo era un grande profeta, convinto difensore dei popoli originari, con la campagna Una mucca per gli Indios, nella zona di Raposa Terra do Sol, alla ricerca di un sostentamento per il popolo Macuxi e Wapichana”. Egli definisce questo momento come “tempi difficili, di persecuzione aperti alla Chiesa, ai missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e di coraggio evangelico”.

In questo frangente, “Monsignor Aldo era un pastore, profeta, vero padre e fratello dei più piccoli. Animatore comunitario, protettore e sostenitore dei missionari che erano lì. Senza paura, con la certezza che stava facendo ciò che il Signore crocifisso gli ha chiesto di fare”, ricorda il sacerdote della diocesi di Bagé. Nella sua preghiera, chiede “ora con Dio in cielo, di continuare a intervenire per l’Amazzonia, per i popoli indigeni, che ha amato, difeso e aiutato”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho, ha iniziato la sua missione episcopale a Roraima nel 2005. Arrivò lì il 13 luglio e ricorda che il 15, prima di essere ordinato vescovo il 17 luglio, fece la sua professione di fede nella casa delle suore della Consolata, all’altare, alla presenza di monsignor Servilio Conti e monsignor Aldo, i due vescovi emeriti di Roraima. Monsignor Roque aveva già sentito parlare di monsignor Aldo, ma i tre mesi che ha vissuto con lui dopo la sua ordinazione episcopale, quando due o tre volte alla settimana si sono incontrati per parlare, è stato un tempo in cui “ho imparato a rispettarlo e ad amarlo per la sua storia e per la sua dedizione come missionario”.

Il presidente del Consiglio Missionario Indigenista – CIMI -, parla di monsignor Aldo come de “l’uomo che ha affrontato le accuse e le persecuzioni più assurde, ha dovuto passare molto tempo con la protezione della polizia contro gli attacchi, ma non ha mai perso la sua serenità, mai ripagato il male con il male, al contrario”. Anche monsignor Roque ricorda che monsignor Aldo, in una piccola città, come lo era Boa Vista all’epoca, quando “incontrò i più feroci oppositori e aggressori (lo fece) con la serenità di un uomo di Dio, salutò e chiese alla famiglia, perché come buon pastore conosceva praticamente tutte le famiglie, ed era sempre libero di dire, la pensiamo in modo diverso, ma io ti amo, ti rispetto.”

l’arcivescovo di Porto Velho vede monsignor Aldo come qualcuno che “ha sempre avuto questa gioia e disponibilità a costruire ponti di speranza, di riconciliazione, ma anche di molta chiarezza nella missione”, essendo qualcuno che, insieme ai missionari della Consolata e alla diocesi di Roraima, ha dato un grande contributo al cammino della Chiesa dal punto di vista delle popolazioni indigene, soprattutto per quanto riguarda la difesa dei territori e dei leader. Monsignor Roque ricorda che “l’investimento che ha fatto assumendo avvocati per liberare le gli indigeni che erano stati arrestati senza accuse specifiche, semplicemente per piacere”.

Questo atteggiamento è sempre stato riconosciuto dalle popolazioni indigene di Roraima. Come ricorda monsignor Roque Paloschi, nel 2011, quando monsignor Aldo visitò Roraima, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, un’anziana donna del popolo Macuxi, gli diede un piccolo vaso di argilla, dicendo: “Monsignor Aldo, non possiamo ringraziarlo per tutto quello che hai fatto, non solo per noi, ma per la gente di Roraima. Se oggi abbiamo la terra, questo è dovuto alla mano di Dio, ma anche alla sua mano, la mano della missione. Non può portare molte cose sull’aereo, ma vogliamo darle questo come segno di gratitudine, perché questa terra ha molto sangue, molte persone sono morte, ma ha anche la passione dei missionari della Consolata e di altri, e la sua passione per difendere la causa indigena”.

Un altro ricordo che mostra il carattere di monsignor Aldo, secondo monsignor Roque Paloschi, si è verificato il 17 settembre 2005, quando hanno dato fuoco alla prima missione che i monaci benedettini hanno costruito tra le popolazioni indigene, che era un luogo di accoglienza e un centro di formazione per le popolazioni indigene. Monsignor Aldo accompagnò il vescovo lì, e di fronte a questa situazione devastante, disse alle popolazioni indigene che soffrivano, lì umiliate, ferite: “da queste ceneri Dio eleverà nuovi semi per la speranza delle comunità indigene”. Come ha scritto lo stesso monsignor Aldo nel libro “Roraima, tra martirio e speranza”, appassionato della sua esperienza di vescovo, “la missione si fa così, con passione, ma anche con grande sacrificio, con le ginocchia, ma anche con la certezza che è Dio a guidare”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Aldo ha celebrato i 100 anni di vita il 1° novembre 2019, pochi giorni dopo la chiusura dell’Assemblea sinodale del Sinodo per l’Amazzonia, che ha ricordato molti dei sogni che aveva nella sua missione in Amazzonia, tra i popoli indigeni. Egli disse nell’omelia: “Ho ricevuto solo favori e ringraziamenti da Dio. Ho un sacco di regali. Mi rattrista il fatto di non essere stato più generoso nel rispondere al Signore. Avrei potuto essere più devoto, più disposto a sacrificarmi, più amorevole. Chiedo perdono per i miei limiti, i miei peccati, e vi ringrazio per tanta gentilezza”. Chi è stato missionario in molti luoghi ha sempre compreso la sua missione come un tempo “in cui devo proclamare il Signore, parlare di un Buon Dio, di un Dio misericordioso, che ha inviato suo Figlio a salvarci, che è venuto a insegnarci come guidare i nostri passi sulla via della vita. Non avrei mai pensato di ricevere tanti onori, tanto grazie, tanta misericordia, tanta gentilezza”.

In quella celebrazione, insieme ai missionari di Consolata, c’erano monsignor Mario Antonio da Silva, presente vescovo di Roraima, e monsignor José Albuquerque, vescovo ausiliario di Manaus. Secondo lui, “parlare di monsignor Aldo Mongiano, significa parlare della Chiesa che è nell’Amazzonia, della Chiesa che affonda le sue radici nel territorio di Roraima. Ricordiamo con grande gratitudine tutto ciò che monsignor Aldo ha rappresentato per la nostra regione, una parola gentile e dolce, con parole sempre incoraggianti, uno sguardo tenero e un sorriso”.

Il vescovo ausiliario di Manaus, afferma che “è impressionante come monsignor Aldo, allo stesso tempo, fosse una persona ferma e convinta, che difendeva i diritti di tutti, ma soprattutto dei popoli indigeni, di diversi gruppi etnici, non solo da Roraima, ma dal Brasile. Era anche un sostenitore della causa dei poveri e un convinto sostenitore dei capi laici e laiche. Con tutta questa fermezza, monsignor Aldo è sempre stata una persona molto fraterna, molto accogliente, la sua presenza è stata impressionante”. Qualcuno che ricorda la celebrazione dei 100 anni di vita di monsignor Aldo come un momento che sarà per sempre inciso nella sua memoria, vive questo momento della sua partenza, come “ringraziamento per quello che è stato monsignor Aldo e rimarrà per noi, un riferimento di una voce profetica che è stata accanto alla più sofferta”.

Luis Miguel Modino

Nostra traduzione da Repam – 16 aprile 2020
https://redamazonica.org/2020/04/fallece-monsenor-aldo-mongiano-una-voz-profetica/

Leggi anche:

Il testamento spirituale di Mons Mongiano su consolata.org

Scarica il pdf della sua autobiografia:

Aldo Mongiano, Roraima tra profezia e martirio, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2010




Guka, il nonno (un piccolo grande missionario)

testo a cura di Gigi Anataloni |


Padre Angelo è deceduto il 28 dicembre 2019 a Nairobi in Kenya. Aveva 95 anni, di cui 73 vissuti da missionario della Consolata e 69 da sacerdote. Ecco la sua testimonianza di missionario in Kenya dal 1962 in un’intervista del maggio 2019.

«La mia vocazione missionaria è nata nella città di Fiuggi dall’incontro con mons. Filippo Perlo, al quale facevo quotidianamente da chierichetto, in una chiesa vicina alla casa di mia zia dove mi trovavo per le vacanze».

I padri Jaime Patias e Antonio Rovelli, consiglieri generali dei missionari della Consolata, in visita in Kenya nel maggio scorso, hanno incontrato e intervistato il guka (nonno, in lingua kikuyu).

«È il Signore che fa i miracoli! Io non ho mai fatto miracoli, ma ho sempre cercato l’appoggio dei benefattori per fare dei piccoli miracoli con le opere di carità».  Ascoltando la videointervista di padre Angelo, spontaneamente si ricorda una frase di san Paolo che riassume molto bene la vita di questo «piccolo grande» missionario: «Tutto io faccio per il Vangelo» (1 Cor 9,23).

Le parole di padre Angelo

P. Fantacci con bambini di Archer’s Post

«Mi chiamo padre Angelo Fantacci. Sono arrivato alla bella età, vicino ormai alla fine, di 95 anni (nato il 14/10/1924 a Collepardo, in quel di Frosinone) e questo lo considero una grande benedizione del Signore perché non tutti arrivano a questa età.

La mia vocazione è nata nel 1937 a Fiuggi dove d’estate andavo da una zia che aveva un albergo vicino alla chiesa parrocchiale. Tutte le mattine andavo a servire la messa lì e vedevo sempre un sacerdote con la barba che diceva la messa. Da quel bambino che ero, mi ero stupito, e parlando con mia zia le dicevo che il prete a cui avevo servito la messa portava le calze rosse. Barba e calze rosse: non era certo il modo di presentarsi del parroco del mio paese. E mia zia mi rassicurava che era normale perché quello era un missionario che era stato in Africa. Tranquillizzato, ho continuato ad andare a servire la messa.

Una mattina, mentre uscivo, lui mi ha chiamato. “Bambino, vieni qui”. Non sono cresciuto molto, ma allora ero davvero piccolo! “Come ti chiami?”, “Angelo”. “Dove stai?”, “Da mia zia che ha l’albergo Paradiso” (niente meno).

“Conosco tua zia, dille che ti mandi a trovarmi dove io abito”. Allora mia zia la mattina successiva mi ha detto: “Vai su a metà strada tra Fiuggi fonte e Fiuggi città e là trovi la casa di questo vescovo e così lui ti può parlare”.

Allora c’era il tram che portava fino lassù, così ho chiesto alla zia di darmi i soldi per il biglietto. Ma lei: “No no, tu vai a piedi”.

Ed è così che ho cominciato la mia missione! Sono andato e ho incontrato monsignor Filippo Perlo, monsignor Gabriele, suo fratello, padre Luigi, il terzo fratello, e la loro sorella Agnese, che d’estate venivano a stare in quella casa a Fiuggi.

Lì mons. Perlo ha cominciato a parlare delle missioni e mi ha fatto vedere tante fotografie. Poi mi ha dato due libri che lui aveva scritto e che ho portato a casa. Li ho mostrati alla zia e ho cominciato a leggerli. Da lì è nata un po’ la mia vocazione missionaria, tanto è vero che poi a ottobre di quell’anno ho deciso di andare nel seminario dei missionari della Consolata a Gambettola, e là ho cominciato i miei primi studi che ho poi completato in Piemonte dove sono stato ordinato nel 1950».

Arrivo in Kenya

«Sono arrivato in Kenya nell’agosto del 1961, adesso non ricordo bene la data. Era il 23 o il 25, ed è stato l’ultimo viaggio fatto in nave da Venezia fino a Mombasa, poi da Mombasa sono arrivato a Nairobi in treno. Da qui mi hanno mandato a Nanyuki, ai piedi del Monte Kenya, dove ho fatto il mio apprendistato, e poi un anno a Kaheti, parroco, tra i Kikuyu. Nel 1963 sono partito per Archer’s Post, sulla strada per andare a Marsabit, nel Nord del Kenya, dove non c’era assolutamente niente».

Antica cappella protestante Archer’s Post

Archer’s Post era in una località strategica dal punto di vista del lavoro dei missionari, perché relativamente vicina a Isiolo (dove finiva la strada asfaltata) e primo avamposto sulla strada verso Wamba (a Est) e Marsabit (Nord). Quest’ultima era la cittadina capitale dell’area omonima abitata da pastori nomadi che nel 1964 sarebbe diventa la sede della nuova diocesi affidata ai missionari della Consolata.

Padre Angelo è rimasto là fino al 1971. Nel 1972 è stato trasferito come parroco nella missione di Maralal, in posizione centrale per l’evangelizzazione della zona verso il lago Turkana, dove ha costruito quella che oggi è la cattedrale dell’omonima diocesi. Lo stesso anno è stato eletto consigliere del superiore dei missionari della Consolata in Kenya. Durante quel periodo, nel 1975, nel consiglio regionale hanno preso una decisione importante: aprire una missione sulla costa, nella città portuale di Mombasa, dove la maggior parte degli abitanti era musulmana.

«Dunque, avevano deciso di aprire anche a Mombasa però nessuno voleva andarci. Io ero del consiglio, uno di quelli che avevano approvato il nuovo progetto, così il superiore e gli altri padri mi hanno detto “accetta almeno tu che puoi andare e cominciare”. Allora sono andato a iniziare la missione sulla costa dell’Oceano Indiano».

1965 lavaggio dei piatti dopo pranzo, padri Rossi Berluti, Fantacci e Valli

Missione e opere

«Se ho realizzato delle opere è perché la missione vale se ci sono delle opere, soprattutto caritative o sociali. Il Signore faceva i miracoli, ma io non sono mai arrivato a fare un miracolo. Però ho sempre cercato di fare delle opere a cominciare dalle scuole per i bambini.

In alcuni posti lungo la costa di Mombasa non c’erano scuole, come anche al Nord tra i nomadi, perché gli inglesi avevano completamente dimenticato quella zona.

Quando ero ad Archer’s Post, la prima cosa da costruire non era la casa e la chiesa – l’unico cristiano ero io – ma il dispensario medico e io stesso davo le medicine più comuni, quelle che potevo dare senza rischi, naturalmente. Poi avevo iniziato con la scuola dei bambini, a partire dall’asilo. Dopo, pian pianino, erano venute tutte le altre opere e anche la chiesa dedicata alla nostra mamma Consolata. Così era cominciata la missione di Archer’s Post nel lontano 1963».

«L’ultima opera che ho fatto (prima di essere costretto dalla salute malferma a ritirarsi a Nairobi nel 2018) è una grande scuola a Ukunda, vicino a Diani, una rinomata località balneare molto frequentata dagli italiani. Prima ho comprato il terreno, che è costato parecchio, e poi ho detto al vescovo: “Qui c’è tutto questo terreno, vi voglio costruire una scuola tecnica per i bambini affinché possano imparare un mestiere”. Ora c’è una bella scuola gestita dai religiosi di una congregazione kenyana».

Missione a Mombasa

Nel 1976 è cominciata l’avventura di padre Angelo sulla costa, con la scelta della zona di Likoni, alla periferia Sud della città-isola di Mombasa. Per arrivarci occorreva (allora e oggi) prendere il traghetto. Gli abitanti erano un grande miscuglio di gruppi etnici provenienti dalle varie zone del paese attratti dalla possibilità di lavoro nel porto e nell’emergente industria turistica.

Nella missione di Likoni-Mtongwe, padre Angelo è rimasto fino al 1996, salvo un breve intervallo di tre anni (1979-1981) nella missione di Sagana nella diocesi di Murang’a.

A Mombasa la situazione non era facile. C’erano sono forti tensioni tra i nativi (islamici) e quelli che venivano da fuori (in maggioranza cristiani). Nel 1992 e nel 1997 gli scontri sono stati così violenti che la missione si è trovata invasa dai rifugiati. Ha scritto suor Corona Nicolussi (MC 12/2010): «La prima volta arrivarono 10mila rifugiati. Erano dovunque: in missione, in chiesa, nella scuola, asilo e cortile. Quando sentii che avevano cominciato a bruciare le case, andai con suor Ester a comperare un po’ di fagioli e granoturco da dare a chi era nel bisogno. Invece, dopo pranzo, la gente cominciò ad invadere la missione. Chiamai padre Angelo (Fantacci), il parroco. “Che facciamo?” Togliemmo i banchi della chiesa e la riempimmo di donne e bambini. Tutti i locali erano pieni, e il cortile era diventato un grande accampamento. Per fortuna non pioveva. Prova ad immaginare com’era! Chiudemmo il dispensario e tutte le cure andarono a chi avevamo in casa. Pensa che quando di notte mi chiamavano per un’emergenza, dovevo scavalcare i corpi dei dormienti».

A causa degli scontri, del 22 agosto 1997, il numero dei rifugiati presso imissionari della Consolata di Likoni ha raggiunto 2.200 unità

Una rete di benefattori

Chissà quanta gente ti ha aiutato a fare tutte quelle opere, gli domandano gli intervistatori.

«Ho sempre cercato di stare in contatto con i benefattori. Scrivevo lettere (proprio lettere) che spedivo e mandavo a tutti personalmente. Devo dire con sincerità che questi benefattori mi hanno sempre aiutato e qualcheduno continua ad aiutarmi anche adesso. Quindi devo ringraziare veramente questi benefattori perché hanno dimostrato il loro affetto non per me, ma per la missione sentendosi anche loro missionari. Scrivendo e ringraziando dicevo loro “ecco, bravi, perché non facciamo questo per noi stessi, ma per il Signore. Queste opere sono realizzate grazie alla vostra generosità”.

La fede ha valore quando ci sono delle opere. Possiamo predicare bene il Vangelo ma deve essere seguito dalle opere. Gesù è la fonte dei miracoli, ma i nostri miracoli dipendono dai benefattori e dalla loro generosità. Quindi le opere caritative e sociali che noi missionari abbiamo cercato sempre di realizzare esistono grazie alla loro generosità. E io vecchio missionario di 95 anni ringrazio anche a nome di tutti i missionari. Sono sicuro che il Signore saprà ricompensare tutti come giustamente meritano».

Gli intervistatori chiedono a padre Angelo due parole di incoraggiamento alle nuove generazioni di missionari della Consolata.

«Cari giovani missionari cercate prima di tutto di non pensare a voi ma alla gente con cui venite a contatto. E che cosa predicare? Non ciò che volete voi, ma seguire il Vangelo perché seguendo il Vangelo vi ascoltano di più e diventeranno senza dubbio dei bravi cristiani, e poi da questi possono nascere anche delle buone vocazioni».

Rifugiati presso la missione della Consolata di Mombasa dopo i disordini del 13 agosto

Il lavoro non è nostro, ma di Dio

«Ho sempre notato che la gente, pur vedendo il nostro colore bianco, ci ha sempre accettato con cordialità. Io contrasti duri non li ho mai avuti. Con qualche autorità sì, ma con la gente mai. Sempre in buoni rapporti. E hanno sempre ascoltato e sempre stimato ciò che si faceva per loro e questo ci incoraggiava a continuare a predicare il Vangelo, perché il Vangelo, come dice il Signore, è la parola della vita, la parola della salvezza e anche la parola di tanta gioia. Perché più si ascolta il Vangelo e più si segue Gesù e più uno si avvicina a lui e si avvicina anche all’eternità».

Sull’avviso per il funerale di padre Angelo, avvenuto il 3 gennaio 2020 al cimitero dei missionari della Consolata al Mathari, Nyeri vicino alla chiesa Memoriale degli Italiani, c’era scritto: «Caro padre Angelo, hai dato tutta la tua vita alla missione del Padre, come una matita nelle mani dell’artista: ti sei lasciato affinare e usare liberamente fino alla fine…».

La messa funebre è stata celebrata da mons. Virgilio Pante, vescovo della Diocesi di Maralal, con la presenza di molti confratelli e gente.

Un giovane missionario kenyano presente al funerale ha scritto: «Sulla sua tomba è stata posta una corona floreale. L’hanno deposta dei bambini che erano presenti alla sepoltura, per due motivi. Uno, padre Angelo è morto il 28 dicembre 2019, nella festa dei Santi Innocenti. Due, era un segno che in effetti era il nostro guka, nonno!

Sarà ricordato con affetto per il suo famoso detto: “Mzee, kazi sio yako, ni ya Mungu” (anziano, il lavoro – quello che hai fatto – non è tuo, ma di Dio)».

Gigi Anataloni

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Ho compilato questo testo, senza pretese di completezza, utilizzando l’intervista del maggio 2019 e le notizie pubblicate su consolata.org in occasione del funerale, aiutato da memorie (e foto) personali. (G.A.)

 


Un pioniere della missione in Kenya

Mons. Filippo Perlo

Mons. Filippo Perlo (1873-1948), nipote di don Giacomo Camisassa, braccio destro del beato Giuseppe Allamano, è uno dei primi missionari della Consolata. Partito con il primo gruppo per il Kenya nel 1902, nel 1903 diventa superiore del piccolo gruppo di missionari che iniziano la loro avventura evangelica nella terra dei Kikuyu (Agekoyo allora). Nel 1905 quella regione diventa «Missione indipendente» separata dal Vicariato di Zanguebar (Zanzibar, vicariato che fino allora ha responsabilità su gran parte dell’Est Africa) e nel 1909 Vicariato apostolico del Kenya. Perlo ne diventa il primo vescovo fino al 1924, quando rientra definitivamente in Italia ed è nominato superiore generale dell’Istituto dopo la morte del fondatore, il beato Allamano. Nel 1930 si ritira a Roma con i fratelli e la sorella. Muore il 4 novembre 1948, pochi mesi dopo suo fratello mons. Gabriele.

Uomo di grande intelligenza, eccellente fotografo, grande stratega della missione, duro con se stesso ed esigente con i suoi confratelli, ha dato un impulso determinante allo sviluppo della missione in Kenya. Amato da tanti, contestato da altri, nel 1930 è stato estromesso dall’istituto, nel quale è rientrato in occasione del suo 50° di messa nel 1945. È stato una figura controversa, ma la sua passione per il Vangelo e la missione, il suo amore per il Kenya (dove ha anche fondato un istituto di suore locali a Nyeri) e per l’istituto sono fuori discussione. (G.A.)

Padre Barlassina (o Gabriele Perlo?) nella missione di Vambogo mentre ascolta il rapporto giornaliero dei catechisti. La foto porta scritta autografa di Filippo Perlo (già vescovo) a matita sul retro con due parole cancellate da uno strappo sulla carta: “P…….. della scena” + Filippo

 




Per attrazione

testo di Luca Lorusso |


Ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania. Si possono riassumere i 45 anni di missione di fratel Sandro in cinque pagine? Ci proviamo, attraverso aneddoti, date e nomi di luoghi pieni d’incontri.

Settant’anni compiuti poco meno di un anno fa. Un’energia invidiabile. Una parlantina che parte lentamente, ma che, una volta avviata, va decisa. Una lunga esperienza missionaria: ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania.

Fratel Alessandro Bonfanti, nato a Robbiate, Como, il 9 maggio 1949, chiamato da tutti Sandro, si siede di fronte a noi e ci guarda con occhi schietti che sembrano scrutarci.

Quando iniziamo a registrare la sua voce, sembra imbarazzato, ma l’imbarazzo, se c’è, è solo temporaneo, e inizia a raccontare la sua vita partendo da Neema, una ragazza che oggi ha tredici anni e che lui ha conosciuto poco dopo il suo arrivo nel 2009 in Tanzania.

Neema (cioè Grazia)

«Quando sono arrivato in Tanzania, sono stato mandato alla procura di Dar es Salaam dove passano molti missionari e missionarie, sia della Consolata che di altre congregazioni o fidei donum.

Un giorno, una suora italiana di Vingunguti, slum alla periferia della città, mi ha chiesto se conoscessi un posto che potesse accogliere una bimba con un handicap grave. Io ero appena arrivato, e non sapevo.

Poco tempo dopo sono passato dalla suora per avere notizie, e lei mi ha portato in una baracca. Dentro c’era una mamma con un neonato al petto. In un angolo scuro c’era una bimba di due anni che non parlava, non stava in piedi e nemmeno seduta. La mamma era stata abbandonata dal marito perché considerata incapace di fargli una creatura normale. Ora aveva una relazione con un altro uomo da cui era nato il piccolo che stava allattando, ma quell’uomo non voleva tenere la bambina».

Fratel Sandro si è preso a cuore la situazione, e ha iniziato a cercare: «Nessuna istituzione era in grado di occuparsi di una bimba che avrebbe trascorso tutta la vita in modo non autonomo».

Negli anni trascorsi alla procura, fratel Sandro ha incontrato molte persone: «Un giorno è venuto padre Filippo Mammano, un fidei donum siciliano, per delle spese, e mi ha raccontato che nella sua missione di Ilula aveva un orfanotrofio. Allora io gli ho parlato della bambina e, dato che lui sarebbe rimasto da noi fino all’indomani e aveva il pomeriggio libero, mi ha detto: “Andiamo”.

Quando siamo arrivati lì non ci siamo detti niente, ma ho visto che anche lui è rimasto colpito. Siamo tornati in procura, abbiamo cenato assieme, e dopo cena ci siamo seduti fuori. Mi ha detto: “Portamela a Ilula. Ho già del personale che segue gli orfani. Una in più una in meno…”».

Ilula, dove padre Filippo è parroco da 30 anni, si trova a 450 km da Dar es Salaam. Fratel Sandro si è accordato con lui e gliel’ha portata, «naturalmente insieme alla mamma che è rimasta lì due giorni, e poi è tornata».

Fausta la biologa

Fratel Sandro è felice di parlare di Neema e di padre Filippo: muove le sue grandi mani in gesti ampi e accompagna la narrazione con tutto il corpo, sottolineando i passaggi importanti con piccole pause e puntando i suoi occhi nei nostri.

Prosegue: «Una delle prime bambine che padre Filippo ha aiutato è stata una certa Fausta, cresciuta in missione. Dato che era brava a scuola, l’ha mandata a studiare biologia a Catania. Quando si è laureata ed è rientrata in Tanzania, ha detto a padre Filippo: “Tu mi hai aiutata, e io per un anno lavoro gratis per l’orfanotrofio”. Fausta aveva già ricevuto due richieste di lavoro da due università, tra cui quella di Iringa, a 45 km da Ilula.

Nel frattempo, è arrivata Neema, e Fausta le si è affezionata. In più, poco tempo dopo, Fausta ha saputo che lì a Ilula era morta una mamma durante il parto. Aveva partorito una bambina e il papà non si era fatto vivo. Nessun parente. Allora Fausta l’ha presa con sé e l’ha adottata.

Oggi Fausta è l’incaricata dell’orfanotrofio. Intanto, avendo già Neema, hanno iniziato a prendere altri bambini con handicap vari, e ora, su 120 ospiti, la metà ha bisogni speciali, alcuni anche con problemi mentali».

Neema, nel tempo ha iniziato a mangiare da sola e a parlare. Stando con gli altri, impara molte cose. «Poi ha la sua carrozzina – prosegue fratel Sandro -. Adesso sta dritta e non cade più. E comincia anche a scrivere.

Padre Filippo prende gli scarti degli altri. Quando c’è qualcuno che non trova posto da nessuna parte, come Neema, da padre Filippo trova accoglienza».

«Vieni e vedi»

Fratel Sandro è arrivato in Africa nel 1973, a 23 anni. La professione perpetua l’ha fatta a fine ‘74, ma la prima professione temporanea l’aveva fatta nel ‘68, appena diciannovenne.

Gli chiediamo quando ha sentito la chiamata a diventare fratello missionario.

«Io non ho sentito nessuna chiamata – ci dice lui, forse un po’ divertito dall’idea di darci una risposta poco convenzionale -. Quando ero piccolo, il parroco mi ha chiesto più di una volta di fare il chierichetto, e io mi sono sempre rifiutato. I miei erano molto religiosi, mio papà era presidente dell’Azione cattolica del mio paese e durante l’estate mi mandava all’oratorio feriale. Il prete addetto all’oratorio chiamava tutti gli anni un missionario della Consolata dalla casa di Bevera (Lecco). L’estate prima di iniziare le medie è venuto padre Ugo Benozzo, che ci raccontava storie di missione e ci faceva vedere film. Un giorno mi ha chiesto: “Ti piacerebbe essere missionario?”. Io non ci avevo mai pensato, ma in quel momento dovevo dire sì o no. Mi sembrava che se gli avessi detto di no l’avrei offeso, allora ho detto di sì. Ho pensato: “Tanto questo non lo vedo più…”. Solo che dopo un mese è tornato in paese e mi ha cercato. Allora io ho cominciato a oppormi: “Ma no, io missionario!”. Lui mi ha detto: “Guarda, vieni e vedi…”, io alla fine sono andato, e sono ancora qui».

Agosto 1965, Olimpiadi estive. La squadra della IV ginnasio nel seminario di Bevera di Castello Brianza. Fratel Sandro è il portiere.

In Kenya

Entrato in seminario minore a 11 anni, dopo tre anni Sandro aveva già le idee chiare: voleva diventare fratello. «Dalla quarta ginnasio mi sono detto: “Io non voglio annoiare la gente con le prediche”. Sono stato sempre restio a presentarmi in prima persona».

Allora si è dedicato allo studio della meccanica e, finite le superiori, nell’ottobre 1968, ha fatto la prima professione temporanea. Destinato alla procura di Alpignano (To), vi è rimasto per quattro anni facendo anche un corso di edilizia per corrispondenza.

«Nel 1972 ero ad Alpignano quando padre Guido Motter, vice superiore generale, è arrivato e mi ha chiesto di partire per il Kenya. Quindi sono stato nove mesi in Inghilterra per imparare l’inglese, e in Kenya sono arrivato nel ‘73, destinato a Kaheti, a 140 km a Nord di Nairobi, in una scuola di edilizia e falegnameria. Lì c’era fratel Vincenzo Quaglia. Per tre anni ho gestito la scuola».

Nel frattempo, nella scuola tecnica di Sagana, 30 km più a Sud, volevano aprire la sezione di edilizia. «Il preside padre Giuseppe Bertaina, un giorno mi ha parlato del progetto. Io pensavo che volesse solo una consulenza, invece dopo quindici giorni è arrivato il superiore dicendomi: “Ti sei già messo d’accordo per andare a Sagana? Mi hanno detto che saresti disposto ad aprire la sezione di edilizia”, insomma – ride fratel Sandro -: mi sono trovato incastrato».

A Sagana fratel Sandro è rimasto quattro anni, fino a quando, nel 1980, è stato mandato a Nanyuki per dare una mano nella procura della diocesi di Marsabit. «Lì ho fatto due anni: raccoglievamo e spedivamo materiali di tutti i tipi.

Poi mi hanno chiesto di aiutare padre Ottavio Santoro, amministratore regionale del Kenya, e mi sono trasferito nella capitale».

Qualche gara di rally

Quando fratel Sandro è andato a Nairobi, ha incontrato un suo ex studente che nel frattempo si era sposato, trasferito nella capitale e aveva iniziato a fare i rally.

«A Sagana insegnavo disegno per le costruzioni e disegno meccanico. Quando sono finito a Nairobi e ho incontrato questo mio studente, lui mi ha chiesto se volevo andare nel suo team. Io gli ho detto: “Guarda che non sono un meccanico”. E lui: “Ma come? A scuola mi hai insegnato disegno!”. Comunque, per curiosità, sono andato, e, alla fine, una corsa tira l’altra, mi ha coinvolto nell’organizzare il lavoro dei meccanici, e così sono stato nel mondo dei rally per cinque anni. Ero giovane. Avevo molta voglia di girare. In Kenya ci sono deserti, montagne, pianure, e con i rally ho avuto occasione di girarlo in lungo e in largo. In ogni caso – conclude -, andavo solo qualche domenica all’anno».

A Sagana con Fr Marino De Cesari e fratel Achille Gasparini.

A Morijo tra i Samburu

A Nairobi nell’amministrazione, fratel Sandro è rimasto dal 1982 al 1986. «Un giorno il superiore mi ha detto: “Vai in seminario”. Allora ho fatto l’amministratore in seminario per quattro anni. Poi ho detto al superiore che sentivo di non essere mai stato in missione, nonostante fossi in Africa dal ‘73. Un giorno mi ha chiamato e mi ha chiesto se volevo andare nel Samburu, a Morijo, con padre Aldo Vettori. Sono stati quattro anni magnifici. Lì mi sono sentito missionario.

Morijo si trova in cima a un cucuzzolo. Per fare una casa, e la chiesa, prendevamo dei pali di legno, poi mandavo gente a raccogliere sassi piatti e li inchiodavo con chiodi di sei pollici. Da fuori sembrava una casa di sassi. Dentro invece mettevo una rete e intonacavo creando una camera d’aria per tenere il fresco.

Poi c’era il problema dell’acqua. In cima al cucuzzolo ho fatto un muretto. Quando pioveva, l’acqua veniva raccolta in due cisterne, e da lì veniva giù e si usava per lavarsi. Per bere veniva bollita e filtrata. Quando pioveva, si formava una specie di torrente. L’acqua veniva fuori da una pietra. Allora ho iniziato a scavare e quando siamo arrivati alla profondità di un metro abbiamo trovato l’acqua. In seguito, abbiamo fatto fare un pozzo».

La ragazza posseduta

«Nel territorio della missione di Morijo c’erano i Samburu e i Turkana. Un giorno mi hanno chiamato per una donna Turkana che dicevano indemoniata. Lì c’era anche l’infermiere che mi ha detto: “No, è epilettica”. Allora abbiamo preso la ragazza, che avrà avuto 18 anni, e l’abbiamo portata all’ospedale di Wamba dove una suora mi ha detto: “Queste sono le medicine da darle, se le prenderà, starà bene”. Allora l’ho riportata al suo villaggio e ho chiesto al catechista di dare tutti i giorni la pastiglia alla ragazza. Dopo un anno, non aveva più crisi epilettiche. La gente del suo villaggio però mi ha detto: “Questa ragazza che hai portato via e guarito, non troverà un marito. Nessuno ha il coraggio di avere una relazione con lei, chissà che non ci sia un rimasuglio del demonio”. E mi hanno detto: “Fai come se fosse tua”. Per gli anziani era diventata mia responsabilità. Allora io l’ho mandata al catechismo nel villaggio, e dopo un po’ è stata battezzata».

L’italia

Dopo l’esperienza nel Samburu, fratel Sandro, nel 1994 è tornato a Nairobi nell’amministrazione. Dopo sei anni, nel 2000, ha ricevuto la notizia che sua mamma stava male, ed era grave: «Nel 1989 era morto mio papà. Lui era paralizzato, e i miei fratelli avevano fatto a turno per assisterlo. Quando si è ammalata mia mamma, una mia sorella mi ha detto. “Ci sono missionari che vengono a casa per assistere i genitori ammalati. Vieni anche tu. Mamma è grave”. Allora ho chiesto di venire in Italia, ma quando sono arrivato, mia mamma è morta dopo due settimane. Era il 2001. Quindi sono andato a Roma per chiedere di tornare in Kenya, ma il vice superiore mi ha detto: “Ti abbiamo destinato in Italia, e adesso rimani in Italia”. Ha chiamato padre Franco Gioda, superiore in Italia in quel momento, e mi hanno mandato ad Alpignano a servizio dei missionari anziani.

Gioda mi ha detto: “Se accetti, io in un anno ti rimando in Africa”.

Passato l’anno mi sono fatto avanti per chiedere di ripartire, ma Gioda mi ha chiesto: “Perché? Non ti trovi bene?”. Poi ha tirato fuori gli Atti degli apostoli… sai com’è Gioda… Alla fine sono stato cinque anni. Fino al 2006».

Liberia

Quando finalmente fratel Sandro è tornato in Africa, non è tornato in Kenya, ma è andato in Liberia, paese appena uscito da 14 anni di guerra civile. «Padre Stefano Camerlengo mi ha proposto di andare nel lebbrosario di Ganta, sul confine con la Guinea Conakry, per aiutare le suore della Consolata.

Se dovessi dire dove mi sono trovato meglio in missione, risponderei a Morijo tra i Samburu e a Ganta tra i lebbrosi. Tra i due, comunque, sceglierei la Liberia. Mi occupavo della manutenzione del lebbrosario, ma tutti i giorni facevo il giro dei malati. Con loro mi sono trovato bene. Subito dopo la guerra erano una quarantina, dopo un po’ sono arrivati a 250. In Liberia quell’ospedale era un punto di riferimento. Venivano anche dalla capitale.

Tra i lebbrosi mi sentivo voluto bene. Quando ho detto che sarei andato via, volevano costruirmi una casetta per quando sarei tornato a trovarli».

In Tanzania

In Liberia, fratel Sandro si era abituato a stare da solo. «Quando sono venuti a dirmi che dovevo tornare in comunità, ho detto: “Guardate che ho 60 anni, mio fratello, che è più giovane di me, è andato in pensione quest’anno, non pensate che possa fare chissà che cosa”. Mi hanno risposto: “Va bene, per la tua pensione vai in Tanzania”».

Arrivato nel 2009, fratel Sandro ha fatto due anni e mezzo in procura a Dar es Salaam, dove ha conosciuto Neema e padre Filippo, e poi quattro anni nella casa regionale di Iringa, come segretario del consiglio regionale.

«Durante la conferenza regionale del 2015, padre Sandro Nava ha parlato di una farmacia a Iringa iniziata da padre Salvador Del Molino, e ha chiesto a me di occuparmene. L’idea era questa: fare una farmacia per vendere i medicinali alle missioni, ai dispensari e alla gente a prezzi accessibili. Si trattava di fare un magazzino per vendere all’ingrosso. Ho iniziato, e ora vendo medicine per un raggio di 200 km».

Fratel Sandro Bonfanti e papa Francesco

Quando diventi prete?

Se c’è una cosa su cui fratel Sandro torna volentieri nelle due ore che stiamo insieme, è la specificità della sua vocazione.

«Io non sono un sacerdote. Sono missionario della Consolata, ma sono un fratello.

Da quando sono diventato fratello, tutti mi chiedono: “Quando diventi prete? Perché non diventi prete?”. Io però non mi sono mai visto come un sacerdote. Desideravo andare in missione e aiutare le missioni e la gente.

Anche quando sono diventato fratello mi facevano domande: “Sai quello che fai? Sei sicuro?”.

Ecco, sulla parola sicuro, direi che uno non è mai sicuro, uno ci prova. Avevo 23 anni quando sono partito per il Kenya. Ho detto: “Io ci provo”, e ci sto ancora provando.

Io vedo la vocazione del fratello nella vita di Gesù. Lui infatti ha vissuto come una persona normale, come un laico. Non si è presentato come sacerdote, non era un levita, non era un fariseo. Quando la gente lo vedeva, diceva: “È figlio del falegname”.

Poi guariva, insegnava, s’interessava della gente.

Il fratello trova un esempio per sé nella vita di Gesù. Il fratello è quello che si mette al servizio degli altri. L’evangelizzazione non si realizza con il proselitismo, ma avviene per attrazione: vedono che tu ti comporti in un certo modo e si sentono di fare altrettanto.

Anche noi fratelli, pur non predicando, con il nostro esempio siamo evangelizzatori.

Noi padri e fratelli della Consolata abbiamo gli stessi voti, lo stesso nome, viviamo in comunità, però per gli uni la professione è quella del sacerdote, noi fratelli invece possiamo fare qualsiasi mestiere e ci esprimiamo con quello. Oggi il fratello può essere un avvocato, uno che tiene i conti, un medico, un infermiere, un tecnico.

Questo per dire che la missione non è fatta solo da sacerdoti annunciatori, ma anche da tanti professionisti di qualsiasi campo.

E se ci sono dei laici che desiderano avere il nostro spirito, ben vengano. Perché non è necessario essere dei fratelli, come lo sono io. La missione è aperta a tutti. La missione è aprire il cuore della gente. Tu devi avere un cuore aperto al mondo».

Luca Lorusso




Apprendista «coreano»

testo di Stephano Nabgaa Babangenge |


Ho imparato a essere missionario inserendomi come assistente parroco nella vita pastorale della comunità cristiana di Eunhaeng-dong.

Mi chiamo Stephano Nabgaa Babangenge, nativo di Wamba nel Nord della Repubblica democratica del Congo. Sono diventato sacerdote dei missionari della Consolata nel 2014 e subito dopo inviato alle nostre missioni in Corea del Sud.

Dopo aver concluso, almeno a livello scolastico, i tre anni di studio della lingua, avevo bisogno di entrare in profondità sia nella cultura coreana che nella Chiesa locale che ammiravo anche se un po’ da lontano. Presto fatto. Il mio superiore ne ha parlato con il vescovo John Baptist della diocesi di Incheon, nella quale abbiamo la nostra casa di Yeogkok-dong, e mi ha mandato come viceparroco alla parrocchia di Eunhaeng-dong, una cittadina a Est di Incheon. Qui, per due anni ho goduto la bellezza del vivere in una Chiesa cattolica molto diversa da quella a cui ero abituato in Congo e la gioia dell’incontro con il popolo coreano per quel che riguarda il cibo, la cultura, la lingua e tanto altro.

Il numero di cose che ho imparato è semplicemente sorprendente. Pur con le mie difficoltà di comunicazione, ho apprezzato quanto le persone siano state pazienti e pronte ad ascoltare. Questo mi ha incoraggiato a continuare a imparare sempre di più e meglio. Oggi ho maggior confidenza nel parlare, mi sento più a mio agio nel capire e più sicuro anche nel celebrare la messa e predicare.

Viceparroco

Vivendo nella parrocchia, sono stato coinvolto in tutte le attività: messe quotidiane (con l’omelia), confessioni, visite ai malati e unzione degli infermi, benedizioni varie (macchine, uffici, acqua, case…), adorazioni mensili, incontri della Legio Mariae, degli studenti e insegnanti della scuola secondaria, dei seminaristi e visite alle famiglie.

Inoltre, essendo incaricato di curare i chierichetti, i bambini della Sunday school e la gioventù, ho preso parte in tutte le loro attività come le messe settimanali, incontri di formazione, campeggi, gite, ritiri, giochi. Tutto ciò mi ha aiutato a conoscere la struttura, l’organizzazione e i vari modi di essere della Chiesa coreana. Allo stesso tempo ha contribuito ad allargare la mia conoscenza, comprensione e rispetto della cultura e del popolo. È una bellissima esperienza che ogni missionario in Corea dovrebbe fare.

Molto positiva anche la condivisione di vita con il parroco e altri preti diocesani della nostra unità pastorale, una decina, durante gli incontri mensili nei quali si discutevano delle nostre attività pastorali e della vita di tutta la Chiesa nella circoscrizione.

È stato un tempo per imparare, osservare e inserirmi nel contesto. Anche qui mi sono sentito amato e considerato, non dicendo nulla, ma semplicemente essendo presente.

Coinvolgimento dei Miei confratelli

La mia presenza nella parrocchia è diventata anche motivo di una bella collaborazione tra la stessa e i missionari della Consolata, che sono stati coinvolti in svariate attività di animazione missionaria e pastorale della comunità. Questo ha fatto sì che molte persone siano venute a conoscerci meglio e ora partecipino alle nostre attività di animazione missionaria, al nostro programma di ritiri annuali, di esperienze nelle nostre missioni in Africa o America Latina e, ovviamente, le sostengano.

Prospettive future?

Quest’anno celebriamo il trentesimo anniversario della venuta dei missionari della Consolata nella Corea del Sud. Sono orgoglioso di essere parte di questa storia. Sogno un’attività missionaria centrata nella collaborazione con la Chiesa locale.

In questi due anni vissuti in una comunità locale ho potuto capire quanto sia importante coinvolgersi direttamente e collaborare dal di dentro. Collaborazione con la Chiesa e il clero locale, imparando come le cose si fanno e come la società si sta muovendo, è una delle cose cruciali raccomandate dal beato Giuseppe Allamano a tutti i suoi missionari. Questo ci aiuta anche a comprendere il cuore della gente e della società coreana, vecchi, giovani e anche bambini.

Stephano Nabgaa Babangenge