Con la Consolata in Polonia per L’Ucraina /3


Kieplin, 19/03/2022. Con questo 3° aggiornamento provo a darvi a qualche informazione attuale salutandovi e ringraziandovi per le vostre preghiere e i vostri aiuti. Stiamo tutti bene sempre impegnati a organizzare vari aiuti.

Le ultimi informazioni ufficiali governative indicano che si è superato il numero di di 2.000.000 di profughi accolti in Polonia su una popolazione che sfiora i 40.000.000. La capitale Varsavia, che nel 2019 contava 1.800.000 abitanti, ha già accolto quasi 500.000 profughi. Si è fatto notare come questa, che riguarda la Polonia principalmente ma non solo, sia la piu grande ondata di profughi avvenuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. I numeri sono costantemente in crescita ed è ragionevole pensare che soltanto la fine del conflitto potrebbe mettere un freno a questa migrazione. La fine del conflitto tanto sospirata sembra essere ancora lontana.

Le stazioni dei treni di Varsavia sono allestite in modo da accolgliere le migliaia di persone che ogni giorno arrivano. Volontari di gruppi e associazioni umanitarie così come singoli cittadini, si impegnano giorno e notte fornendo informazionie e aiuti di prima necessità, come cibo, bevande calde e schede telefoniche prepagate. I mezzi di trasporto di tutto il paese sono gratuiti per i profughi. Ogni profugo ha diritto di ricevere il codice fiscale polacco che permette l’accesso al servizio di assistenza sanitario nazionale.

Come già scrivevo in precedenza sono pochissimi i palazzetti e le scuole che ospitano i grandi gruppi per dormire, perche la maggior viene ospitata nelle case di gente comune in tutto il paese.

Vorrei ringraziare due sacerdoti che abbiamo contattato telefonicamente a Lublino, non lontano dai confini con l’Ucraina, e che hanno organizzato in piena emergenza l’accoglienza per una notte di due gruppi di donne e di bambini. Ogni gruppo contava quasi cento persone. Il giorno successivo con dei pullman questi due gruppi sono partiti per Il Portogallo.

Qui a Łomianki continuiamo il lavoro in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita. Il numero dei profughi, circa 1500 nel solo comunenon è aumentato per una semplice ragione: non ci sono piu posti liberi nelle case. Il centro di distribuzione degli aiuti presso la parrocchia continua a lavorare ogni giorno grazie a un centinaio di volontari che fanno i turni. Gli aiuti che mandate sono distribuiti lì. E da lì sono messi a disposizione per le famiglie presenti ma anche spediti in Ucraina. Ricordo che i beneficiari sono prevalentemente mamme con bambini. I generi alimentari piu richiesti sono la farina, marmellate, olio non necessariamente di oliva, i semolini. Con parte delle vostre offerte questa settimana abbiamo acquistato una tonnellata e mezzo di farina, sufficiente per qualche giorno di distribuzione.

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki

Da pochi giorni si è unita alla nostra comunità una volontaria infermiera di Torino, Clara, che aiuta nello smistamento delle medicine che arrivano. Un lavoro umile e importante.

Stiamo riuscendo con l’aiuto di molti a organizzare l’accoglienza per i profughi in diversi luoghi in Italia.

Pochi giorni fa alcuni volontari di Sovere (Bg) sono venuti con le macchine per portare aiuti e al ritorno hanno viaggisto con ben 14 profughi che sono stati ospitati presso le famiglie del loro comune. Questa mattina l’associazione Eskenosen di Como similmente, dopo essere arrivati con ben 8 furgoni di aiuti sono ritornati con 11 madri e bambini di varie età.

Mi preme sottolineare che il desiderio di tutti i profughi è quello di tornare al più presto nelle loro case in Ucraina. Siccome non si sa ancora quando e in quale forma questo potrà avvenire (dipenderà molto dall’esito finale della guerra), alcuni sono disposti a intraprendere viaggi in paesi piu lontani per assicurarsi nell’immediato, un futuro piu sicuro e per i loro bambini continuare l’istruzione nelle scuole.

Nel caso di una eventuale disponibilità per l’accoglienza potete contattarci scrivendoci dove questa puo avvenire e le condizioni dell’alloggio. Queste sono informazioni basilari che possiamo dare ai profughi che devono fare, come immaginate, un grande atto di fiducia nel prendere queste decisioni.

Oggi e la festa di S. Giuseppe, festa dei papà. Affidiamo alla sua protezione tutti i papà del mondo specialmente quelle rimasti in Ucraina, e alla sua intercessione chiediamo la fine della guerra e una benedizione per tutte le famiglie.

Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

PadreLuca Bovio
Superiore dei missionari della Consolata in Polonia

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki


Post precedenti

Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia

In Polonia per Ucraina con la Consolata /2




Taita Agustín


Lo scorso novembre è mancato a Manizales, in Colombia, un missionario amante dei monti, della natura, della gente e soprattutto del Creatore e Signore di tutto. Un ricordo personale da un confratello che è vissuto tanto con lui.

Bogotá, gennaio 1992. Non erano passate ancora ventiquattr’ore dall’arrivo a Bogotá, che già i miei genitori si sentivano un po’ persi e disorientati. L’inevitabile «jet lag» li faceva appisolare anche se erano le undici del mattino, ma soprattutto c’era un altro continente sotto i loro piedi e, in più, mia mamma faceva fatica a respirare.

«È un tipico sintomo del mal di montagna, normale ai 2.500 metri di altezza di Bogotá», aveva sentenziato un missionario veterano del luogo. Il problema era stato rapidamente risolto con una tazza di tè di coca che mia mamma aveva bevuto senza nascondere una certa preoccupazione.

All’ora di pranzo al tavolo con loro si era seduto padre Agostino Baima. «Non si può venire in America e in Colombia senza conoscere Bogotá. Qui vedrete sintetizzate tutte le contraddizioni che incontrerete nelle prossime settimane quando andrete con vostro figlio in Amazzonia. Qui abbiamo persone provenienti da ogni zona del paese e vi renderete conto di come vivono nella città. Questo pomeriggio vi lascerò riposare un po’ e poi alle 15 partiamo. Vi porto io a fare un giro». Il piano era fatto, non c’era possibilità di discuterlo.

All’ora prevista ci siamo imbarcati tutti sulla sua Daihatsu, non particolarmente grande né comoda, e lui, prima ha preso la rotta verso il Sud, con le sue baraccopoli, la sua povertà, il suo disordine, fino a raggiungere i quartieri nel margine sudorientale della città abbarbicati a un’altezza superiore ai 3.000 metri, là dove la folle e disordinata urbanizzazione era in quel momento in piena effervescenza. E poi, con tutta la velocità che si poteva spremere dal povero veicolo, ci siamo diretti verso Nord per godere dei quartieri signorili, delle «gated communities» e dei primi centri commerciali che stavano sorgendo in quegli anni. Tutta una metropoli visitata a volo di uccello, o meglio, di Daihatsu.

Quando la sera ho potuto sedermi tranquillamente con mia mamma e ascoltare le prime impressioni del viaggio missionario che stava appena cominciando, le sue parole sono state: «Quant’è grande questa città, quant’è grande la sua povertà, quant’è ostentata la sua ricchezza, quanto sono grandi i centri commerciali; che incredibile anche la mia stanchezza, ma a tutto questo bisogna aggiungere: quant’è grande il padre Agostino».

E sì, la missione è grande, grazie Taita Agustín1.

17 settembre 1971, sulla cima del Margureis in Val Pesio, Cuneo

Bogotá ottobre 1999

I missionari che stavano partendo per l’Argentina per partecipare al Cam (Congresso missionario americano) erano indaffarati per mettere assieme le loro ultime cose. Il congresso era già arrivato alla sesta edizione e, a causa dei risultati significativi, non si sarebbe più chiamato Comla (Congresso missionario latinoamericano) ma Cam, appunto. Era ora di aprire uno spazio alle chiese del Nord del continente che avevano poco a che fare con le chiese variopinte del Sud. I primi due congressi si erano tenuti in Messico, ma il terzo era stato a Bogotá, e Agostino, forse anche giustamente, si sentiva un po’ come il padre di quell’evento, ormai abbastanza lontano nel tempo ma non nel cuore. «Non possono lasciare a casa i dipinti di Chucho Tobar, dove sono?».

«Ma, padre Agustín, quelli erano stati preparati per il Comla 3 di Bogotá del 1987, dodici anni fa».

«Non importa. Tu non sai quanto abbiamo lavorato per preparare quel Comla. Non eravamo in molti: la missione a quel tempo era ancora marginale, una questione per pochi fuori di testa. Anche se questo è il continente più cattolico del mondo, i cristiani qui pensano ancora di non avere alcuna responsabilità nella missione universale. La nostra animazione missionaria deve sradicare questa convinzione errata. Mai, in nessun Comla, si sono visti dipinti così significativi e missionari. Quello di Bogotá era il “nostro” Comla. Quanto sudore, quanta fatica, quante notti in bianco, quante lotte per convincere tutti di quanto fosse importante per questa ricca chiesa colombiana, con una tradizione missionaria così radicata, farsi carico dell’organizzazione di quell’evento».

Milena, la segretaria del Centro di animazione missionaria, era arrivata trafelata con i preziosi dipinti che aveva alla fine scovato. Quando sono stati aperti davanti a lui, i suoi occhi brillavano e li accarezzava con quelle sue mani forti e scavate da tanto lavoro e impegno.

E sì, la missione è fatta di sudore e passione. Grazie, Taita Agustín.

Licto, anni ’90

La produzione di foto e video per documentare la vita dei popoli che incontrava è un’attività difficile da datare, poiché faceva parte della vita quotidiana di padre Agostino negli anni che ha passato nelle parrocchie di Punín e Licto in Ecuador. Era un metodo semplice e, a suo modo, tecnologico, per dare importanza alle comunità indigene. Senza mai separarsi dalla sua macchina fotografica, che lo accompagnava da anni, Agostino si stava modernizzando ed entrava nel mondo dei video amatoriali. Le attività tradizionali importanti per la vita delle comunità indigene venivano diligentemente filmate, ma quella era la parte più semplice di tutto il progetto. Poi le registrazioni dovevano anche essere mostrate «affinché – diceva – la gente potesse vedersi, come in un film, e scoprire che che anch’essa è importante e che la sua vita merita gli onori della cronaca e della storia».

Creare le condizioni per proiettare i film era la parte più laboriosa, e in questo Agostino aveva investito tutto il suo sforzo e la sua creatività, sempre al passo con l’evoluzione della tecnologia. Quando sono arrivato a Licto per la prima volta, nel vano posteriore della Toyota che lui guidava, entrava su misura un televisore con uno schermo molto grande che non era né sottile né leggero come quelli di oggi. Per resistere agli inevitabili scossoni delle strade non asfaltate, il televisore era conservato in una speciale cassa di legno su misura che lui stesso aveva confezionato e che pesava forse anche di più del televisore che conteneva. Erano necessarie almeno due persone muscolose per trasportarlo grazie a delle apposite maniglie poste alla base della cassa: dopo aver abbassato i sedili posteriori, con precauzione si infilava tutto lì. A questo punto non era nemmeno necessario scaricarlo: si apriva il portellone, si sganciava un lato della cassa, si attaccava un videoregistratore e, grazie a una abbondante serie di prolunghe che permettevano di far arrivare l’energia elettrica dai posti più impensati, lo spettacolo della vita comunitaria era servito. La felicità dei bambini e degli adulti che si riconoscevano nei film di Taita Agustín compensava tutta la fatica.

Dopo la televisione sono arrivati i videoproiettori, pesanti e grandi i primi, più leggeri i successivi, fino ai primi anni del secondo millennio quando la malattia ha allontanato definitivamente padre Baima dall’Ecuador. Tuttavia, quei film, e quel patrimonio di registrazioni, sono stati portati da Agostino a Manizales, e la sua preoccupazione ora era quella di tradurre il tutto dal Vhs ai formati digitali necessari per i computer di oggi. Diceva: «Questo materiale è prezioso e non può andare perso, racchiude una testimonianza della vita della gente che lavora e si impegna».

E sì, la missione la fanno le persone quando osano diventare protagonisti. Grazie, Taita Agustín.

Davanti al Santuario di Manizales

I mille e un orto di tutta una vita

«Sono un contadino, lo sono sempre stato; sono nato in una famiglia povera e numerosa e non lo rinnegherò mai perché è lì che ho imparato a coltivare la terra e a lavorare».

Non ho conosciuto tutti gli orti di padre Agustín, ma ne ricordo almeno tre: all’inizio degli anni ‘90 quello dietro la casa provinciale di Bogotá; alla fine degli anni ‘90 quello di Licto che era di gran lunga il più grande di tutti; dopo il 2015 quello della scuola di Manizales. Questo è stato l’ultimo, e lo ha dovuto abbandonare dalla mattina alla sera, a causa della malattia che gli ha impedito di guidare la vecchia Chevrolet Corsa, la sua ultima macchina che coccolava. A bordo della sua autovettura si presentava nei più improbabili luoghi di Manizales, che negli ultimi anni era ridiventata la sua città, come lo era stata nei primi anni della sua parabola missionaria, quando baldanzoso andava su e giù lungo i crinali del Nevado Ruiz vantandosi delle sue origini alpine.

A Bogotá la sua energia era sufficiente non solo per l’orto ma anche per mantenere tutto il parco pubblico del quartiere di Modelia, che non è piccolo, rasato come il green di un campo da golf. «Lo faccio perché tutti imparino che il pubblico è responsabilità di tutti e altrettanto importante, se non addirittura di più, di ciò che è nostro». A Licto il campo era grandissimo e tutto coltivato a mais: «Non è possibile che tutti i nostri vicini piantino ogni centimetro quadrato di terra perché di quello vivono, e noi trascuriamo e teniamo improduttiva la terra che Dio ci ha dato. Certamente non viviamo di questo, ma dobbiamo lavorare perché siamo come loro, non di una classe diversa, anche se ci chiamano taitamito (papà mio).

L’orto della scuola di Manizales l’ha coltivato fino alla metà del 2019 e l’ha fatto con la stessa determinazione e precisione dei precedenti, anche se gli anni erano passati e la zappa cominciava a pesare. Con la complicità di tutti, a cominciare dalla mia che ero l’amministratore del collegio, i dipendenti incaricati della cura delle aree verdi dedicavano anche un po’ di tempo a raddrizzare le aiole e a rimuovere la terra dell’orto di Agostino.

Veramente, l’orto, che nel suo caso ha attraversato tutte le età della vita, era quasi il sacramento di un servizio comunitario che viveva come qualcosa di indiscutibile, necessario e irrinunciabile. Un servizio per il quale non si è mai considerato troppo vecchio o troppo stanco.

E sì, la missione è servizio per tutte le età. Per tutto questo, grazie, Taita Agustín.

L’ultima barella

Manizales, novembre 2021. Ho molte altre immagini come queste che ricordano momenti che abbiamo vissuto insieme, ma ora voglio ricordare l’ultima, forse la più dolorosa. E lo scrivo come se ti scrivessi una lettera, Agostino.

Ti stavano portando in ospedale legato a una barella e padre Rino Delaidotti mi ha chiamato per vedere se, parlando con me che non vedevi da mesi, potevi distogliere la mente dalle procedure un po’ brusche a cui ti stavano sottoponendo. A dire il vero non sapevo nemmeno cosa dirti. Mi sarebbe piaciuto rivederti e poi avevo promesso a tua sorella che quando fossi tornato in Colombia ti avrei portato quel salame che ti aveva promesso. Ma te ne sei andato prima che arrivasse il salame. Sono in debito con te, dovremo mangiarcelo nel Regno. Eppure, pensandoci bene, a quella barella era legata la missione quasi come alla croce era legata la vita. Così come la vita non fu sconfitta dalla croce, vedendo te, credo che nemmeno una barella abbia potuto sconfiggere la missione in te. Non so come sarà la tua vita d’ora in avanti, ma so che sarà certamente missione.

E sì, la missione è per sempre, quindi Kaya kama2, Taita Agustín.

Gianantonio Sozzi

  1. Taita: papà (espressione infantile tipica in molti paesi dell’America Latina).
  2. Kaya kama: in quechua, lett. «fino al mattino», «a domani» e anche «buona notte».

Agostino Baima nasce il 26 dicembre 1939 nella frazione di San Firmino a Ciriè, provincia di Torino, ultimo di quattro figli. Nel 1950, dopo l’incontro con un missionario proveniente dal Kenya, chiede di entrare nel seminario dei Missionari della Consolata ed è accolto a Benevagienna (Cn). Frequenta poi il liceo a Varallo Sesia (Vc), e nel 1959 entra in noviziato alla Certosa di Pesio (Cn) dove emette la professione temporanea il 2 ottobre 1960.

Compie gli studi filosofico teologici a Torino e si impegna per la missione con la professione perpetua il 2 ottobre 1963.

Il periodo 1964-1970 è un tempo di grave malattia e lento recupero; per questo passa alcuni anni nella quiete della Certosa di Pesio come aiuto all’economo.

Il 7 febbraio 1971 i novizi in festa partecipano al suo mandato missionario, e parte per la Colombia, dove conclude gli studi teologici. L’8 aprile 1973 è ordinato diacono a Bogotà dal card. Munoz Duque e il 18 novembre 1973, sempre a Bogotà, mons. Pablo Correa León lo ordina sacerdote. Passa il 1974-1975 come viceparroco nella parrocchia dove c’è il seminario teologico, di cui è il vicedirettore. Dal 1975 al 1980 si dedica all’animazione missionaria a Manizales. Trasferito a Bogotà, dal 1980 al 1985 svolge il servizio di direttore di animazione missionaria vocazionale in tutta la Colombia, e accetta l’incarico di presidente della commissione missionaria della Conferenza dei religiosi.

Dal 1984, per tre anni svolge anche il compito di consigliere regionale IMC e dal 1985 al 1987 è superiore del seminario filosofico. Poi dal 1988 al 1992 serve come direttore del Centro di animazione missionaria a Modelia, Bogotà.

Nel 1992 viene inviato in Ecuador, dove fino al 1995 è viceparroco a Punín e poi è trasferito a Licto dove rimane fino al 2003. Tra il 1996 e il 1999 è di nuovo consigliere regionale.

Nel 2003 vive un nuovo periodo di malattia e convalescenza tra Colombia e Italia. Rimessosi, nel 2004 viene mandato al santuario della Madonna di Fatima a Manizales, dove rimane fino all’ultima chiamata, il 24 novembre 2021. È sepolto a Manizales.


Slideshow  di alcune (pochissime) foto di padre Agostino Baima

Questo slideshow richiede JavaScript.

 




Congo RD: Perché abbiano la vita


Fratel Domenico, missionario della Consolata, da 37 anni spende la sua vita per le popolazioni che vivono in una delle zone più martoriate del mondo, nel Nord del Congo. Tra malati, bimbi malnutriti, persone con disabilità, poveri, carcerati, studenti.

Fratel Domenico Bugatti, da 37 anni, esattamente la metà della sua vita, opera in una delle zone più martoriate del mondo. Si spende tra le popolazioni dell’Alto Uélé, provincia a Nord Est della Repubblica democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan e il Centrafrica.

È stato prima a Neisu, poi a Doruma, infine, da 22 anni, a Isiro.

Tra le molte cose che racconta con tranquilla pacatezza, ci sono anche due fughe in foresta per sfuggire ai gruppi armati, e un assalto notturno di ribelli sudanesi, decisi a saccheggiare la missione e poi scacciati con le armi dalla gente del villaggio.

Incontriamo fratel Domenico a Torino, durante una sua «vacanza» obbligata per piccole questioni di salute. Scalpita per poter tornare nel suo Congo, dai «suoi» bambini del centro nutrizionale Gajen e delle scuole, dalle «sue» persone con disabilità per le quali costruisce speciali carrozzine inventate da lui, dai detenuti del carcere costretti a vivere in condizioni spaventose, dalle persone malate alle quali offre le sue competenze infermieristiche. Gli chiediamo di raccontarci di sé.

Tra Italia e Canada

Nato nella frazione Sant’Apollonio di Lumezzane, Brescia, il 5 ottobre 1947, fratel Domenico è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata nel 1959.

«Cinquanta anni fa – racconta -, arrivavano nei nostri paesi i missionari. Facevano animazione, e chi voleva iscriversi, si iscriveva. Io mi sono legato a uno di loro, allora sono entrato nel seminario di Bevera. Lì ho fatto due anni».

Fratel Domenico porta sul viso due larghi occhiali con spesse lenti che mettono in risalto i suoi occhi timidi. Tra i bottoni chiusi della sua polo blu, sbuca una piccola croce di legno con un foro al centro a forma di cuore.

Sembra un po’ a disagio. Non sappiamo se per la mascherina alla quale forse non è molto abituato e che si aggiusta continuamente sul naso, o per il fatto stesso di dover parlare di sé, incalzato dalle nostre domande.

Appare un po’ schivo, benché di cose da raccontare ne abbia molte, e anche di avventurose.

«Quando avevo 14 anni, nel ’61, sono andato ad Alpignano (Torino) per fare la scuola di avviamento. Lì ho fatto i tre anni di formazione come falegname e calzolaio. Poi sono andato in noviziato alla Certosa di Pesio. Eravamo in tre. Uno era un laico che lavorava già da tempo in Kenya.

A 18 anni, nel 1965, sono andato a Milano per fare animazione missionaria. Sono rimasto lì fino al ‘70. Poi sono tornato ad Alpignano. Nel 1972, il superiore mi ha chiesto se ero disponibile ad andare in Canada, nel Québec. Io pensavo da sempre all’Africa, però ho detto di sì, e ci sono andato per lavorare nella procura (un ufficio che curava la raccolta e la spedizione di tutti gli aiuti alle missioni nei paesi più poveri, ndr). Allo stesso tempo seguivo gli studenti del seminario, che ai tempi erano 35-40.

Nel 1977 sono tornato in Italia, e ho fatto un corso di infermieristica. Ho dato una mano a padre Saverio Dalla Vecchia per iniziare la futura casa per anziani di Alpignano. In Casa Madre a Torino, infatti, c’erano già diversi missionari anziani e malati. Ci sono rimasto fino al 1984».

La scoperta del Congo

Quando finalmente i superiori hanno proposto a fratel Domenico di partire per l’Africa, aveva 37 anni. È stato inviato in Congo, allora Zaire, a Neisu, nella zona Nord orientale del paese, in una missione tra la popolazione di etnia mangbetu fondata nel 1981 nella foresta dai suoi confratelli padre Antonello Rossi a padre Oscar Goapper.

Quest’ultimo, morto prematuramente nel 1999, all’età di 47 anni, era un missionario della Consolata argentino con la passione per la medicina.

«A Neisu si trattava di aprire un ospedale – continua il suo racconto fratel Domenico -. Padre Oscar, infatti, si era trovato con tanti casi di malattia, e lui, con un medico, ha organizzato un ospedale. All’inizio era un insieme di case in fango.

Alla fine, Oscar è riuscito a fare dei corsi universitari a Milano, ed è diventato medico lui stesso.

Quando sono arrivato io, mi ha detto: “Qui infermieri ce ne sono già. Tu occupati della costruzione”. Allora ho iniziato a costruire, e ho fatto i padiglioni della parte centrale dell’ospedale. Chi è venuto dopo di me, ha aggiunto attorno altre costruzioni. Sono stato lì 8 anni».

Oggi, l’Ospedale Notre Dame de la Consolata, sviluppato partendo dal preesistente ambulatorio, è una struttura che dispone di 150 posti letto, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutta la zona, anche grazie alla sua rete di postazioni sanitarie distribuite in diversi villaggi nel folto della foresta (cfr. Amico nei n. 3 e 5 di MC 2021).

A Doruma nella guerra

Nel 1993, fratel Domenico si è spostato presso il popolo Zande, a Doruma, un grosso villaggio importante snodo per il commercio a tre chilometri dal confine con il Sudan, allora preso nella guerra civile che in seguito avrebbe portato alla nascita dell’attuale Sud Sudan.

«A Doruma c’erano molti profughi sudanesi assistiti dall’Unhcr. Noi eravamo in una missione costruita a inizio Novecento dai domenicani, dove noi della Consolata siamo arrivati nel 1973 – racconta il missionario -. Quando sono arrivato lì, mi occupavo dell’economia e della manutenzione. Ci sono stato cinque anni, prima che fossimo costretti a venire via. I primi tre sono stati abbastanza calmi. Poi, nel 1997, Mobutu (l’allora presidente dello Zaire, ndr.) è stato spodestato da Laurent Désiré Kabila, durante la cosiddetta prima guerra del Congo. Le frontiere non sono state più controllate, e i ribelli del Sudan hanno iniziato a entrare».

È uno dei molti risvolti della crisi dei Grandi Laghi che negli anni Novanta e seguenti avrebbe provocato milioni di morti in diversi paesi dell’area.

La missione di Doruma ha così vissuto momenti drammatici, venendo più volte saccheggiata, sia dall’esercito governativo che dalle forze ribelli del Sud Sudan (Spla).

«Un giorno sono arrivati: prima i militari congolesi che scappavano verso il Centrafrica. Poi i ruandesi e gli ugandesi che inseguivano i congolesi. Noi ci siamo rifugiati tre settimane nella foresta insieme alla gente. C’era con me padre Ferdinando Paladini, il padre congolese Honoré
Tsiditeta e le suore agostiniane.

Alla fine padre Stefano Camerlengo, che era il nostro superiore  in quegli anni, è riuscito a organizzare con altre congregazioni una piccola spedizione, e quindi siamo potuti a venire via. Siamo arrivati a Kinshasa passando da Isiro e Kisangani».

I fucili puntati addosso

«Era il 1998. Quando siamo arrivati a Kinshasa – continua fratel Domenico, sorridendo, come se stesse raccontando di una vacanza al mare -, la notte stessa siamo partiti per Madrid, perché le ambasciate avevano detto di evacuare. Sono tornato un po’ a casa e poi ad Alpignano».

Dopo tre mesi, le cose in Congo sembrava che stessero cambiando. Allora fratel Domenico e padre Rinaldo Do, che era superiore della missione di Doruma, sono rientrati in Congo. Ma la crisi era lontana dal finire: «Se prima c’erano i militari congolesi – continua il fratello missionario -, ora c’erano i ribelli sudanesi che arrivavano d’improvviso e prendevano quello che potevano.

Ci è toccato stare ancora un mese in foresta. Io e padre
Rinaldo abbiamo vissuto grazie ai cristiani che ci hanno dato una capanna e un po’ di cibo.

Dopo un mese, siamo rientrati alla missione. Era l’inizio del 1999. Poco tempo dopo, una sera, è arrivato da noi il nostro superiore provinciale che da mesi voleva venire. Ha parcheggiato la macchina piena di vettovaglie nella missione. Di notte sembrava tutto tranquillo, ma poi, alle 4 del mattino, ci siamo ritrovati circondati dai ribelli sudanesi.

Bussavano alle porte e ci facevano uscire puntandoci i fucili addosso. Ci hanno fatti sedere sui gradini della casa di fronte alla chiesa e hanno iniziato a portare via tutto quello che c’era.

Abbiamo passato più di un’ora così. A quel punto è arrivato qualcuno dal villaggio e ha incominciato a sparare. I ribelli hanno pensato che fossero i militari, allora hanno preso tutto quello che potevano e hanno iniziato a fuggire, tirando anche delle granate per proteggersi. Noi ci siamo nascosti dove potevamo, e siamo stati un’altra ora lì, senza sapere cosa fare. Poi siamo usciti dai nostri nascondigli e abbiamo visto che i ribelli non erano riusciti a prendere l’auto con cui era arrivato il superiore. Allora lui ci ha detto: “Qui bisogna partire, non c’è più sicurezza”. Ha lasciato la missione in mano alla catechista e a un prete diocesano che era arrivato lì per un po’ di vacanza, e noi siamo saliti sull’auto e siamo partiti, così come eravamo, cercando di non fare troppo rumore. Siamo arrivati a Isiro, a 300 km di strada sterrata, il giorno dopo».

Nuova vita a Isiro

Dopo quella fuga, fratel Domenico non è più tornato nella missione di Doruma, che adesso è gestita da sacerdoti locali, ed è stato assegnato alla comunità Imc di Isiro, cittadina che attualmente si stima conti più di 200mila abitanti, capitale del Distretto dell’Alto Uélé.

L’associazione Cuore Amico, che nel 2015 gli ha conferito il «premio Cuore Amico» come figura esemplare di missionario, descrive così il suo impegno nella nuova missione: «Da subito si occupa della realizzazione di un centro nutrizionale d’appoggio ai moltissimi bambini e giovani con gravi carenze alimentari che affollano le strade della cittadina, vittime degli effetti della guerra.

Partendo da un terreno con una costruzione non terminata, fratel Domenico realizza il Centro di alimentazione Gajen che oggi funziona a pieno ritmo: fornisce alimenti per bambini e malati, effettua visite mediche, attività di laboratorio e farmacia, dà gratuitamente medicine. Le attività del Centro non si fermano all’alimentazione e all’assistenza sanitaria: vi si organizzano corsi di igiene e formazione per le mamme, visite negli ospedali o centri di salute per aiutare piccoli e poveri, accoglienza e aiuto a bambini, ragazzi e giovani non scolarizzati, per i quali si paga la retta scolastica mensile; si realizzano attività sportive, vi si costruiscono biciclette per portatori di handicap, vi si organizzano corsi di alfabetizzazione e promozione della donna, vi si vendono pane e biscotti grazie alla costruzione di un piccolo forno.

Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo […].

A partire dal 2005 costruisce e ristruttura la Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle missioni della Consolata che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. Sorge accanto alla clinica universitaria ed ha al suo interno una biblioteca, aperta a tutti gli studenti della città, e un auditorium. La Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della popolazione, un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai congolesi».

Il centro Gajen

«Quando sono arrivato a Isiro – prosegue fratel Domenico -, c’era padre José Ariel Hoyos
Zuluaga, che sarebbe morto nel 2013. Con lui abbiamo cominciato ad accogliere i bambini malnutriti. A padre Ariel è succeduto padre Rinaldo Do. Abbiamo comprato dei terreni e, un po’ per volta, abbiamo organizzato il centro nutrizionale che abbiamo chiamato Gajen: Groupe d’appui aux jeunes et aux enfants nécessiteaux (Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi)».

Fratel Domenico ha costruito poi il dispensario, una sala per l’osservazione con dei letti, il laboratorio, la farmacia, la cucina.

«All’inizio avevamo quattro infermieri, oggi abbiamo due infermieri e un pediatra. Abbiamo salvato qualche centinaio di bambini… forse qualche migliaio. E continuiamo. I bambini vengono con le mamme al mattino, tutti i giorni, per due o tre mesi, alcuni anche per quattro o cinque mesi. Fanno colazione, e un controllo. Una volta che hanno preso le medicine, verso mezzogiorno diamo loro un pasto abbondante. Ne mangiano una parte, e l’altra parte la portano a casa. Stanno da noi fino all’una, poi tornano a casa con le mamme».

Quando ci sono casi di bambini con altre malattie, ad esempio l’Aids, fratel Domenico li manda all’ospedale generale di Isiro o all’ospedale di Neisu, a 30 km.

Scuole, carrozzine, carcere

In questi 22 anni a Isiro, fratel Domenico ha espresso tutte le potenzialità dei suoi talenti. Oltre al centro Gajen, si è occupato di persone con disabilità, costruendo quasi 200 carrozzine con pezzi di biciclette e tubi reperibili sul mercato locale; si è preoccupato di offrire un alloggio agli studenti che arrivano dalle missioni Imc della zona. «Poi ho iniziato ad andare nelle prigioni: visitiamo i carcerati e portiamo cibo e medicine. È un carcere fatto come al tempo dei belgi: uno di quei capannoni che, quando c’era la colonia, servivano per le piantagioni di caffè e cotone. I carcerati stanno nel capannone così, senza letti, senza stanze, sdraiati a terra… una cosa impossibile. Se uno non vede, non ci può credere.

Io e padre Rinaldo, qualche tempo fa, abbiamo fatto una settantina di letti per portarli al carcere. Ma sono spariti tutti dopo poco tempo. Venduti: materassi e letti. A quel punto abbiamo continuato a portare solo gli alimenti e le medicine».

Un’altra delle cose di cui si occupa fratel Domenico è la conduzione della scuola materna e della scuola primaria per i bambini del centro nutrizionale. «Le scuole devono essere autosufficienti, quindi chiediamo una retta per i bambini. Lo stato dice di voler dare qualcosa, ma alla fine non dà niente. Le scuole si reggono con le rette degli studenti e gli aiuti dall’Italia. Il centro nutrizionale invece è un servizio completamente gratuito».

Il problema del Congo

Chiediamo a fratel Domenico come ha visto cambiare in questi 37 anni il Congo. «Il paese ha sofferto molto. Il suo problema è la sua ricchezza. Tutte queste guerre che ci sono, sono per il sottosuolo. I paesi limitrofi cercano di prendersene una parte: come il coltan, ad esempio, poi i diamanti, l’oro. A Isiro, nel sottosuolo, c’è molto ferro. Adesso non ci sono cave, ma il giorno che ci sarà bisogno di ferro, le faranno. Ci sono dappertutto compagnie straniere che estraggono minerali. La guerra in Nord Kivu è dovuta a questo, alla sua ricchezza. Cercano di eliminare la gente facendola partire o uccidendola. Ammazzano senza pietà. E la gente scappa».

Infine, gli chiediamo quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà della sua missione: «La difficoltà, è quella di capire come andare avanti economicamente con la nostra opera. La soddisfazione, invece, è quella di poter vedere in giro i bambini che abbiamo salvato, che sono tanti, che magari erano arrivati al centro nutrizionale mezzi morti. Piano piano li abbiamo fatti riprendere. Alle volte sono figli di ragazze madri. La soddisfazione è questa: che lo scopo che ci siamo prefissi, cioè quello di aiutare, è realizzato».

Luca Lorusso




Giuseppe Frizzi. Il «minatore» umile e appassionato


La malattia ha portato via senza preavviso un altro missionario del Mozambico. Un bergamasco semplice, che ha amato il popolo a cui è stato mandato, i Macua Xirima (o Scirima), con tutto il suo cuore e, ancor più, con tutta la sua intelligenza.

Ho conosciuto padre Giuseppe Frizzi, missionario della Consolata, ventuno anni fa in Mozambico, a Maúa, nella provincia del Niassa. Maúa è stata la mia prima – e fino a oggi unica – esperienza di missione ad extra. Viverla al fianco di un missionario dello spessore umano, spirituale e apostolico di padre Frizzi ha costituito per me una vera benedizione e una straordinaria opportunità di trasformazione e crescita nella mia vocazione di missionaria della Consolata. Da allora, pur essendo stata chiamata ben presto ad altri servizi fuori dal Mozambico, ho sempre seguito da vicino, con viva partecipazione, profondo interesse e ammirazione, il suo percorso missionario e il suo instancabile impegno pastorale e di ricerca sul fronte etnografico, etnologico, linguistico ma soprattutto teologico e missionario.

Chiesa di San Luca a Maua

Maúa, più che un luogo

Vorrei spendere una parola sul contesto di Maúa, partendo da quanto ho vissuto durante la mia permanenza là e nei successivi contatti fino ad oggi, nell’intento anche di situare quanto cercherò di esprimere circa la mia esperienza con, e di, una persona eccezionale come «padre Frizzi» (come era da tutti chiamato).

Arrivata a Maúa nell’anno 2000, mi inserisco nell’équipe missionaria della parrocchia di san Luca. L’équipe è formata da padri, fratelli e suore, tutti missionari e missionarie della Consolata. Padre Frizzi è il parroco. L’équipe ha la sua sede in Maúa, ma serve decine e decine di comunità cristiane sparse nel distretto omonimo e in altri confinanti facenti capo alla parrocchia di san Luca, che in quegli anni attende pure ad altre tre parrocchie a loro volta suddivise in decine di comunità cristiane animate da ministri laici.

La popolazione del distretto di Maúa e di quelli limitrofi è per la stragrande maggioranza di etnia Macua Xirima. È una etnia bantu caratterizzata da una cosmovisione, un’antropologia e una teologia assolutamente originali e affascinanti, radicate nella percezione della femminilità e della maternità come assi portanti dell’universo, percezione che si traduce anche in una particolare struttura sociale matriarcale, matrilineare e matrilocale e in una spiritualità dalle chiare connotazioni femminili e materne.

Evangelizzazione inculturata

La linea pastorale scelta dall’équipe missionaria, in accordo con la diocesi, è caratterizzata da un’attenzione particolare all’evangelizzazione inculturata. Arrivare a Maúa significa venire a contatto con una sensibilità pastorale segnata in modo particolare dalla percezione del cammino che Dio ha già percorso col popolo Macua Xirima, dal rispetto di questo cammino e da una proposta evangelica chiara e dialogica. Tale proposta, mentre offre necessariamente un salto di qualità nella relazione con Dio e tra le persone, gode di valorizzare, approfondire e lasciarsi istruire dal tesoro dell’esperienza che il popolo ha vissuto con Dio nella storia, espressa dalla religione tradizionale e dalla cultura in generale.

In questo contesto pastorale si inserisce il Centro studi Macua Xirima (in portoghese: Centro investigações Macua Xirima – Cimx) iniziato da padre Giuseppe che ne è il direttore, unendo questa sua attività a quella di parroco fino alla fine dell’anno 2020.

Durante la mia permanenza a Maúa, ho avuto l’opportunità di collaborare con padre Frizzi al Cimx oltre che nella pastorale. Poiché il Cimx ha un ruolo fondamentale nello splendido percorso missionario che lo Spirito ha suscitato e guidato a Maúa e dintorni, è opportuno spendere qualche parola per illustrarne l’origine, la natura e le caratteristiche.

Il Centro Studi

Arrivato in Mozambico nel 1975, dopo il dottorato in teologia biblica e una breve permanenza in Portogallo e in Inghilterra, negli anni 1979-1986 padre Frizzi si trova nella missione di Cuamba, circa 150 km a Sud di Maúa. Sono gli anni difficili del governo di ispirazione marxista, della nazionalizzazione delle missioni, della guerra civile. Padre Frizzi, come gli altri missionari e missionarie, è sottoposto a limitazioni della libertà di movimento da parte delle istituzioni di governo. Utilizza questo periodo per lo studio della lingua macua e l’organizzazione di materiale etnografico e linguistico già raccolto da missionari e missionarie negli anni precedenti. Nel 1982, egli pubblica la prima edizione del messale festivo in lingua macua xirima, il Masu a Muluku.

Con il trasferimento a Maúa, presso la parrocchia di san Luca, nel 1987 padre Frizzi inizia la raccolta più sistematica del materiale etnografico, coadiuvato da un gruppo di collaboratori locali. Nasce così, senza fare rumore e quasi inosservato, il Centro investigações Macua Xirima (Cimx). In un certo senso, il Cimx è un po’ il cuore della parrocchia di san Luca e del percorso missionario in quel contesto.

In quel contesto si è creato un po’ per volta un clima umano fatto di calore, fiducia e reciprocità nel quale fluisce un autentico e fecondo dialogo. A quel clima contribuisconono tutti gli aspetti del lavoro impostato dal padre: la famigliarità con il materiale tradizionale, l’allenamento progressivo a verbalizzarne le tematiche, lo sforzo di tradurre la Parola di Dio in lingua xirima, attraverso discussioni appassionate e a volte infuocate sulla scelta dei vocaboli ma anche sul significato delle parole. Ma poi anche il confronto costante tra persone diverse nei gruppi di traduzione, elaborazione e revisione dei testi. Ultimo, ma non meno importante, anche il rapporto quotidiano tra padre Frizzi, gli altri missionari, le missionarie e i collaboratori del Centro, corroborato da una storia vissuta assieme per lunghi anni, anche nei momenti duri della guerra, dell’incertezza e della disperazione.

Centro di umanità

In questo clima umano ho la grazia di essere accolta e di goderne le potenzialità e i frutti. Anche molti ricercatori, studenti, missionari e missionarie di varie nazionalità, esperienze e appartenenze religiose, possono abbeverarsi lungo gli anni al pozzo inesauribile e ricchissimo di Maúa. Qui apprezzano il patrimonio scientifico e spirituale depositato nel materiale raccolto e soprattutto nei cuori dei collaboratori locali del Centro, lasciandosi coinvolgere e trasfigurare dallo Spirito che fluisce, con soavità e abbondanza, in questa appassionante esperienza missionaria. Godono dell’accoglienza semplice, amabile, familiare dei missionari e delle missionarie della Consolata, scoprendo, con meraviglia e gratitudine, la grandezza umilissima e riservata, la sapienza profonda e disarmante, la fiamma ardente e dolce, la luce limpida e discreta che traspariva dalla persona di padre Frizzi, sempre pronto ad ascoltare, condividere, dialogare, accompagnare alla scoperta dei tesori che Dio semina e fa crescere nella persona e nel popolo.

I Frammenti

L’ultima pubblicazione di padre Frizzi e del Cimx ha visto la luce alla fine del 2020. Si tratta di un’opera originalissima, densa e sostanziosa: Fragmentos e segmentos da biosofia e biosfera xirima (Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima). Essa rappresenta un nuovo frutto maturo di oltre quarant’anni di esperienza missionaria tra il popolo Macua Xirima. Scrive l’autore nell’introduzione a questa sua opera: «La pubblicazione dei “Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima” presuppone la lettura attenta del volume Murima ni ewani exirima – Biosofia e biosfera xirima, pubblicato nel 2008, perché vuole esserne la continuazione e il complemento esemplificato. È un’altra, forse l’ultima, tappa importante del lungo cammino iniziato nell’anno 1937, con l’arrivo dei primi missionari e missionarie della Consolata nel Sud del Niassa. Capire e parlare la lingua xirima era condizione necessaria per comunicare e evangelizzare. Alcuni missionari non solo si sforzarono di parlare la lingua xirima, ma si dedicarono alla ricerca filologica attraverso l’elaborazione di grammatiche e dizionari, penetrando nella struttura della lingua e contribuendo alla conoscenza della stessa. Col tempo, comparvero i primi lavori di ricerca e di traduzione in campo liturgico, catechetico e biblico. […] Nutro la certezza che anche questi Frammenti e segmenti potranno favorire il consolidamento delle radici culturali xirima perché diventino in futuro capaci di innalzare antenne aperte alla pluralità linguistica e culturale a livello locale, nazionale e mondiale».

Minatore cronico

Padre Frizzi, come un appassionato ricercatore di pietre preziose, un «minatore cronico», come lui amava definirsi, ha sondato e scavato con amore e riverenza il terreno umano e spirituale dei Macua Xirima, accogliendo e raccogliendo i tesori che ne emergevano. Ha sperimentato con gioia che il primo atto missionario è il raccogliere più che il seminare, mietendo ciò che Dio ha seminato e fatto crescere nel cuore della persona e del popolo lungo il suo cammino storico e spirituale.

Ha vissuto la beatitudine del missionario evangelizzato da coloro che evangelizza, nella dinamica di un fecondo, intenso e coinvolgente scambio di doni.

Ha varcato la porta della Luce tornando a Colui che lo ha inviato e consegnando a Lui il raccolto straordinario, sovrabbondante, di una vita di appassionata ricerca e di profonda unione con Dio, vissuta nella gioia evangelica e nella gratitudine più genuina anche in mezzo a vicende molto dolorose e drammatiche. Nella semplicità, sobrietà ed essenzialità, ha imparato a distinguere ciò che è importante da ciò che è effimero, nell’impegno convinto e fervoroso a costruire sempre ponti di comunione, ad aprire strade di congiunzione, a tessere legami di vera fraternità.

La tomba di un Buono

I funerali di padre Frizzi si sono svolti il 3 novembre 2021 nella chiesa di Nzinje a Lichinga e poi è stato sepolto nel cimitero del santuario della Consolata di Massangulo. Il suo corpo è stato accolto nel grembo fertile della terra rossa del Niassa. La sua vita è ora pienamente trasfigurata dalla luce lieta e avvolgente dell’abbraccio di Dio Padre e Madre, ardentemente desiderato, cercato, trovato, amato, annunciato, celebrato lungo la sua intensissima vita.

Un proverbio macua recita: Pixa murima nlitti nawe khannìxa. La fossa in cui si seppellisce la persona buona/mite/trasparente/santa (=pixa murima) non è profonda.

Molti anni fa, chiedendo ai collaboratori del Cimx di Maúa qualche delucidazione circa questo proverbio, mi venne spiegato che nessuno ha piacere né fretta di separarsi dal pixa murima, ossia da chi è buono/mite/trasparente/santo. Per questo, quando egli muore, si fa fatica a scavargli la fossa e chi comincia a farlo perde in fretta l’energia in seguito al dispiacere. Perciò la fossa non riesce a essere profonda. Inoltre, non è necessario seppellirlo molto in profondità, anzi, meglio lasciargli la possibilità di uscire senza troppa difficoltà dalla tomba, se volesse, per tornare nel mondo dei vivi, ove sarebbe sempre più che benvenuto.

suor Simona Brambilla, Mc

Sepoltura e tomba nel cimitero della Consolata a Massangulo

 


Breve biografia

 

Padre Giuseppe Frizzi nasce a Suisio (Bg) il 14 maggio 1943. Entrato giovanissimo tra i Missionari della Consolata, emette la prima professione religiosa nel 1963 e nel 1969 viene ordinato sacerdote a Roma.
Dopo i primi studi di filosofia e teologia a Roma, nel 1973 consegue il dottorato in teologia biblica presso la Westfälische Wilhelms Universität di Münster (Germania) con una tesi su Mandare/inviare in Luca – Atti.
Padre Frizzi viene inviato in Mozambico nel 1975 e vi rimarrà fino alla morte. Per molti anni è parroco della parrocchia di san Luca a Maúa e direttore del Centro studi Macua Xirima della diocesi di Lichinga, situato nella stessa parrocchia. Lì coniuga in modo ammirevole e armonico un intenso e gioioso impegno pastorale, anche nel periodo drammatico della guerra civile, con un inesauribile dinamismo di preghiera, riflessione, studio, dialogo a vari livelli. Matura una lunga e profonda esperienza nel campo della evangelizzazione inculturata, della ricerca etnografica, linguistica, antropologica culturale e missiologica, che sfocia anche in molte pubblicazioni.

Nel 2009, padre Frizzi viene insignito della laurea Honoris causa in missiologia da parte della Pontificia Università Urbaniana in Roma. Dopo una brevissima malattia, padre Frizzi torna alla Casa del Padre il 30 ottobre 2021, proprio ai vespri della memoria liturgica della Beata Irene Stefani, missionaria della Consolata, alla quale era spiritualmente legatissimo e per la cui causa di beatificazione aveva dato il suo fondamentale contributo.

S.B.

IL CIMX:
un centro di ricerca e incontro interculturale

Il Centro investigações Macua Xirima, fin dagli inizi, ha perseguito diverse piste di ricerca:

  • catechesi, bibbia e liturgia (1);
  • lingua, educazione, cultura (2);
  • scultura, pittura, architettura (3).

Il Cimx, fino a questo momento, è stato un organismo flessibile e di tipo familiare con la sua sede principale in alcuni locali della parrocchia di Maúa, che conservano lo stile semplice e sobrio dell’ambiente in cui sono inseriti. In questi locali, alcuni computer costituivano gli strumenti di lavoro dei collaboratori addetti a ricevere e archiviare il materiale proveniente dai ricercatori sul campo.

Questi erano persone di Maúa e dintorni che, in accordo con padre Frizzi, si recavano nelle varie comunità locali partecipando a riti, conversando con gli anziani, i saggi e i terapeuti tradizionali, e raccogliendo così materiale orale che registravano su audiocassette oppure trascrivevano su quaderni. Il materiale veniva consegnato al padre che ne prendeva visione e operava una prima selezione eliminando le ripetizioni. Vieniva quindi archiviato in formato cartaceo e digitale con rispettiva traduzione in portoghese.

Il Cimx è stato pure la sede della commissione locale per la traduzione della Bibbia in lingua macua xirima: lavoro durato una decina d’anni, che ha visto coinvolti padre Frizzi e una decina di collaboratori locali, uomini e donne, animatori di comunità cristiane.

Ancora, il Cimx è stato sede delle commissioni per l’elaborazione e revisione di varie pubblicazioni xirima in campo linguistico, catechetico, liturgico ed educativo.

Al Cimx hanno fatto riferimento vari artisti, pittori e scultori della Scuola d’arte san Pietro Claver, che operano in diverse località del distretto di Maúa e limitrofi.

Siamo fiduciosi che possa continuare nella sua missione.

S.B.

1 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:

  • il Catechismo degli adulti e dei bambini (1986); il Messale festivo – Masu a Muluku, seconda e terza edizione (1986 e 1999);
  • l’edizione ampliata e illustrata del libro di canti e preghiere – Mavekelo ni Itxipo (1986 e riedi­zione nel 2003);
  • il Nuovo Testamento – Watana wa nanano e il Libro dei salmi – Masalimu (1998);
  • la vita di Gesù illustrata – Yesu Atata ni Namuku, nell’edizione italiano/macua (2000), portoghese/macua (2002) e inglese/macua (2007);
  • La Bibbia in lingua xirima – Bibliya Exirima (2002).

2 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:

  • Mwana Mutthu Owo! (2002), un’antologia illustrata bilingue di racconti e proverbi tradizionali, ora in uso nelle scuole;
  • il Dicionário Xirima-Português e Português-Xirima (2005);
  • Murima ni Ewani Exirima – Biosofia e Biosfera Xirima (2008), una presentazione monumentale della cosmologia xirima attraverso testi tradizionali di proverbi, rac­conti, miti e riti;
  • Fragmentos e Segmentos da Biosofia e Biosfera Xirima (2020), una compilazione di temi significativi della cultura xirima, esplorati dall’autore attraverso la raccolta di testi rilevanti per la cosmovisione del popolo (approccio etnografico), l’analisi degli stessi (approccio etnologico) e il confronto con temi biblici e cristiani (approccio teologico – dialogo interreli­gioso).

3 La Scuola d’arte san Pietro Claver è parte integrante del Cimx. Ad essa si ri­fanno artisti locali che nel campo della scultura e della pittura sanno dare un contributo originale, espressione della loro cultura. In particolare, i crocifissi lignei scolpiti da questi artisti sono apprezzati in Mozambico e all’estero. Le illustrazioni delle pubblicazioni del Cimx sono tutte opere di artisti locali. Anche l’architettura delle nuove chiese e i lavori di recupero ed abbellimento delle vecchie chiese dopo la restituzione alla diocesi da parte dello stato, nella zona di Maúa e dintorni, si sono avvalsi di vari elementi culturali e dell’uso creativo di materiale locale.

Disegni Makua Sirima a matita sull’argomento della Beata Irene.

Il disegno Macua Xirima a matita, di Afonso Murupala, sull’argomento della Beata Irene, presentato a Roma durante l’incontro IMC, MC e LMC nel 13° Capitolo generale IMC, è un esempio dell’arte sviluppata nel Cimx. Questo il significato:

  • Suor Irene è una missionaria conosciuta in tutto il mondo per il suo casco coloniale. L’artista trasforma il casco coloniale e ne fa un cappello parigino, tanto elegante da attirare l’ammirazione dei due soldatini.
  • L’elegante e simpatico cappello, insieme alle ali del grande Spirito, adombrano l’immenso cuore materno della Nyaatha (madre di mi­sericordia) keniana e della Pwiyamwene (madre del popolo) mozambicana.


Grazie padre Frizzi,  fratello nostro

La perdita così repentina di una persona come padre Frizzi lascia in chi lo ha conosciuto da vicino un grande vuoto e dolore assieme a una viva,  immensa, profondissima gratitudine per aver avuto il privilegio, la grazia e l’onore di averlo incontrato e di aver condiviso con lui un tratto di cammino. A nome mio personale e dell’istituto delle Missionarie della Consolata desidero esprimere il nostro sentito e commosso grazie al carissimo padre Giuseppe Frizzi, fratello nostro.

Sì, padre Frizzi, proprio questo termine ha caratterizzato e cadenzato la tua presenza tra noi Missionarie della Consolata: fratello. Quante sorelle, dopo averti incontrato, mi hanno espresso questo commento: «Padre Frizzi è proprio un fratello». Ti abbiamo sentito e ti sentiamo così. Profondamente, autenticamente, inconfondibilmente fratello. Ti abbiamo visto avvicinarti a noi in tanti modi e occasioni, sempre col tuo fare rispettosissimo e umile, col tuo sguardo attento e discreto, col tuo sorriso timido, genuino e disarmante, col tuo cuore sensibilissimo e disponibile, ardente e mite, con la tua mente vulcanica, lucida, acuta e penetrante, con la tua parola sobria, stimolante e soave, con il tuo spirito libero, trasparente, effervescente e delicatissimo, capace di elevarsi ad altezze impensabili e di inabissarsi nelle profondità più recondite del Mistero di Dio e delle creature.

Ti abbiamo visto varcare la soglia di tante nostre comunità, e dei nostri cuori, con somma discrezione e altrettanta premurosa vicinanza: in ogni incontro con le Sorelle nelle varie assemblee, momenti di formazione comunitaria, Esercizi spirituali e altre piccole e grandi occasioni che ti abbiamo chiesto di condividere con noi, in Mozambico, in Kenya, in Tanzania, in Guinea Bissau, in Italia, in Brasile, in Bolivia. Con gioiosa e pronta disponibilità sei venuto, in punta di piedi, sei entrato in sintonia col nostro cammino, lo hai respirato, lo hai fatto in qualche modo tuo, benedetto e illuminato con la tua presenza, sempre umile, semplice, calda, dolce e affidabile, salda e tenera.

Missionario spigolatore

Quante volte, durante questi nostri incontri, ci hai parlato della missione, aiutandoci a leggere, specialmente attraverso il Vangelo di Luca, le coordinate di un cammino missionario consolatino all’insegna del dialogo, del tessere ponti, del divenire, come amavi chiamare te stesso, «cronici minatori», cioè persone che scavano, che vanno in profondità in se stesse e nel contatto con l’altro, rintracciando tesori nascosti, intercettando il movimento dello Spirito che danza in ogni cuore e in ogni popolo, cogliendo con stupore, gioia e gratitudine, il cammino di Dio nel cuore della persona e della cultura, dove il Signore, come amavi dire «è di casa e a casa».

Ci hai segnato la via di una missione nel segno dell’umiltà di chi si china a spigolare nel campo, raccogliendo quanto Dio ha già operato, mentre getta il seme del kerigma che feconda il terreno umano.

Missionario con lo zaino

L’ultima volta che ci hai fatto dono della tua presenza è stata in agosto 2021, a Nairobi, per un’importante assemblea a livello di Africa. Lì ci dicevi, tra l’altro:

«La missione non è subito seminare, ma mietere, mietitura, messe. Il Seminatore è Dio, gli inviati i mietitori. Il seme della mietitura è di Dio oppure Dio stesso, i mietitori lo raccolgono nel loro zaino. La messe è immensa, i mietitori sono pochi. La vocazione dell’inviato è speciale, singolare, rarissima…».

Ti piaceva tanto la metafora dello zaino, e commentando il Vangelo di Luca sottolineavi che noi missionari e missionarie siamo chiamati a partire e arrivare presso il popolo a cui siamo inviati con lo zaino vuoto, per lasciarcelo riempire dai tesori che Dio vorrà donarci nel contatto con l’esperienza spirituale di quel popolo, entrando con rispetto e gratitudine nella sua casa vitale.

Anche in quest’ultima occasione, a Nairobi lo scorso agosto, come spesso facevi, sei tornato sulla dimensione del ritorno dalla missione, ricordandoci che l’inviato sempre ritorna al Mittente, e vi ritorna con lo zaino pieno. Commentavi così il brano evangelico del ritorno dei discepoli dalla missione (Lc 10,17-24):

«Mietendo dalla messe di Dio già arata e coltivata, gli inviati non possono ritornare se non con lo zaino pieno di meraviglie di Dio, conosciuto di casa e a casa là dove sono stati inviati. Insomma, inviati a mietere ritornano da mietitori con il cuore che trabocca di gioia […]. Gesù invita l’inviato a deporre lo zaino, a svuotarlo per riempirlo di contenuti definitivi e non più transitori legati alla dinamica della missione, ma ora legati all’estasi finale della missione, all’estasi trinitaria, nella quale l’inviato ritorna al Mittente e si immerge in Lui in simbiosi e osmosi estatica e instatica, in profonda conoscenza e adorazione del mistero trinitario, ‘beatificato’ e trasfigurato».

Il tronco – fonte battesimale della chiesa di Nipepe dove è avvenuto il miracolo della Beata Irene

Beata Irene

Carissimo Fratello nostro, è così che ora ti sentiamo e vediamo: per lunghi anni hai riempito lo zaino del tuo cuore e del cuore di molti e molte spigolando nel campo missionario che Dio ti ha donato, tra il popolo Macua.

Hai intercettato la danza dello Spirito nell’anima profonda di questo amatissimo popolo, mietendo e seminando Vangelo; hai gioito e ci hai fatto gioire delle meraviglie che Dio aveva seminato e fatto crescere nel suo campo che è lo spirito della persona e della cultura, hai restituito a noi che ti abbiamo conosciuto i frutti splendidi che hai raccolto.

E tutto questo non lo  hai fatto da solo. Lo hai fatto coltivando un’esperienza profonda di Dio, lo hai fatto in comunione con tanti fratelli e sorelle con cui hai tessuto relazioni di autentico scambio di doni, lo hai vissuto in compagnia di una Sorella straordinaria: la beata Irene, che ti ha stimolato, illuminato, ispirato in tutto il tuo cammino missionario, fino a raggiungerti nell’ora del ritorno e a volerti con sé per celebrare in Cielo la sua Festa, il 30 ottobre scorso. Lì, nel Cielo, accompagnato per mano da Irene, hai portato, Fratello, il tuo zaino pieno, per restituirlo tutto a Dio e in Lui immergerti, assaporando ora in pienezza l’abbraccio dell’Amore tenerissimo e forte della Trinità, in lei beatificato e trasfigurato.

Celebrazione del funerale di padre Giuseppe Frizzi nel Santuario della Consolata di Massangulo.

Grazie, Fratello nostro! Dal grembo di Dio Madre, dove ora dimori, continua a sorriderci, animarci, accompagnarci, benedirci, ispirarci. Amen, alleluia.

suor Simona Brambilla, Mc


Da archivio MC

 

 




Una vita per la Missione


Uno dei sogni di ogni missionario è quello di morire in terra di missione ed essere sepolto all’ombra del baobab, in mezzo al popolo che ha tanto amato. Non è stata la sorte di padre Franco Gioda. La sua gente in Mozambico non ha potuto accompagnare nel suo ultimo viaggio il corpo di colui che ha servito la missione con un ardore eccezionale.

Tutta la vita di padre Franco è stata intessuta di missione: da quando lasciò il seminario diocesano di Torino per diventare missionario della Consolata.

Intessuti di missione furono gli anni trascorsi in Italia, per la formazione, l’animazione, la direzione. Ma molto più intensi furono quelli vissuti in Mozambico.

Nel Niassa

La sua prima missione fu nel Niassa, durante la lunga e dolorosa guerra di indipendenza. Quando tutti vivevano in allerta, per timore di imboscate o assalti, padre Franco non tralasciava di visitare le comunità dei cristiani nei villaggi lontani. In bicicletta o a piedi, su sentieri impervi, con il sole o la pioggia, giornate e giornate di cammino per incontrare le piccole comunità, pregare, celebrare, dare coraggio e speranza: «Dio non vi abbandona, io sono qui nel suo nome».

Più di una volta fu sorpreso da attacchi di guerriglieri, sparatorie e saccheggi. E i cristiani lo nascondevano affinché non lo scoprissero. E quando l’assalto finiva, tutti, cristiani e no, lo salutavano e lo ringraziavano: «Dio ci ha protetti dalla morte, perché tu eri qui con noi! Ma, padre, perché sei venuto fin qua?». E lui: «Sono qui per Lui!», diceva alzando un crocifisso.

«Giovane» a Fingoé

«Lui» è stato la ragione della vita missionaria di padre Franco. In questi ultimi anni, superati i settanta, ma sentendosi ancora un giovanotto, ha fondato con altri due confratelli la missione di Fingoé, nella diocesi di Tete. Fingoé è il capoluogo di una regione vasta 30mila Km2, come Piemonte e Liguria insieme. Dal 1974 era rimasta senza nessuna presenza missionaria in assoluto. E padre Franco, quotidianamente, prima in macchina, poi in moto, e poi a piedi, secondo le possibilità che le cosiddette strade permettevano, visitava i villaggi. Incontrando qualcuno, chiedeva: «Amico, sai se qualcuno qui è cristiano?». «Mi sembra che nella famiglia che vive in quella casa là, qualcuno sia cristiano, ma non sono sicuro, perché qui non abbiamo missionari. Anch’io ho studiato con i padri, ma tanti anni fa». E padre Franco: «Non ti piacerebbe incontrarti con altri e insieme conoscere Dio e Gesù?», e così, iniziava con 4-5-10 persone. Passava poi in un altro villaggio, e un altro, e un altro. Decine di villaggi che oggi sono piccole e grandi comunità cristiane nel vasto territorio che forma la missione di Fingoé.

I capisaldi

Padre Franco credeva nell’importanza della «presenza» e, a costo di non avere un solo giorno di respiro, visitava continuamente tutte le comunità, anche le più piccole. I sentieri, le scarpate, le salite, la pioggia non spaventavano il «giovane» padre Franco. Lui – Gesù – doveva essere conosciuto e amato da tutti.

Con orgoglio padre Franco mostrava la mappa dei suoi villaggi. Non c’è ancora una carta geografica che li segnali, ma lui li aveva tutti identificati, con nome, abitanti, distanze, catecumeni, cristiani. La mappa del tesoro, le sue comunità.

L’altro caposaldo della sua missione era la formazione dei catechisti a cui dedicava tempo ed energie. Ecco allora il centro catechistico da lui fondato a Uncanha dove non bastava che i catechisti conoscessero la Bibbia, ma dovevano essere uomini e donne di Dio, capaci di testimoniare con la vita il Vangelo che predicavano e poi di ardere di vero spirito missionario per andare a evangelizzare le comunità.

A Fingoé, padre Franco ha vissuto la missione «che aveva sempre sognato», come lui stesso ha detto, dove si è sentito ringiovanito potendo dare tutto se stesso per i fratelli in nome del Vangelo.

A San Paolo di Tete

Quando è stato destinato alla città di Tete per dar vita alla nuova missione di San Paolo, ha accettato a malincuore, per obbedienza. La sua gente di Fingoé gli mancava. Quando però si è reso conto che San Paolo non era solo la periferia della città, ma anche una grande regione tra i fiumi Zambesi e Luenha, che pochi missionari negli anni avevano visitato, si è animato, e a 80 anni gli si sono aperti nuovi orizzonti. Con un gruppo di giovani e alcuni anziani e anziane, due volte alla settimana si è inoltrato in quella regione lasciando l’auto da qualche parte, e poi camminando fino ad arrivare a un villaggio, e là chiedere: «Amico, sai se…».

Ventidue nuove comunità sono sorte in questi ultimi due anni. Comunità che hanno già costruito le proprie cappelle, segno della presenza del Signore e della fede di un popolo umile e credente.

Il 17 ottobre scorso è morto un missionario che davvero ha annunciato un Nome, un Mistero, un Senso, una Vita: il Signore Gesù. Lui, Colui che nobilita, affratella, rende le persone migliori.

Lui, accolga il suo missionario tra le sue braccia, e gli faccia vedere la bellezza del Volto che a tutti ha annunciato.

Sandro Faedi

Il fuoco della Missione

Padre Franco ha servito con dedizione e amore molte comunità cristiane nel Niassa. Ha servito la Chiesa con passione. Durante la guerra civile ha percorso migliaia di chilometri in bicicletta per portare la Parola di Dio, l’Eucaristia e la consolazione alle comunità cristiane sparse nella regione. Ha subito imboscate, ha sofferto fame e sete, ha soccorso feriti, ha seppellito morti. Non aveva paura, ha sempre avuto fiducia nella protezione dall’Alto.

Nel 2012, all’età di 74 anni, ha accettato di accompagnare il vescovo Ignacio Saure a Tete. Il suo cuore missionario lo ha portato a visitare le comunità cristiane abbandonate di Marávia e Zumbo.

Nel 2014, all’età di 76 anni, ha iniziato la parrocchia di Fingoé. Si è dedicato con competenza pastorale e grande sacrificio all’animazione e alla creazione di comunità cristiane nelle missioni di Uncanha e Zumbo. Nel 2018 ha fondato il Centro catechistico di Uncanha per la formazione dei catechisti (vedi lettera di padre Carlo Biella).

Nel 2019 ha accettato la sfida di andare a lavorare nella città di Tete. Ha restaurato la parrocchia di San Paolo e l’ha trasformata in una parrocchia viva e missionaria. Ha fondato la parrocchia di Matambo. Ha visitato tutti i villaggi. Ha aperto nuove comunità, formato catechisti. Si è dato completamente fino alla fine, senza mezze misure. Ardeva nel suo cuore il fuoco della carità e la passione per la missione. Sempre disponibile a tutto e a tutti.

Accogliamo la sua scomparsa fisica e lasciamoci ispirare dalla sua vita, dal suo lavoro e, soprattutto, dalla sua viva testimonianza di fede, di simpatia e di bontà.

Ha amato e servito la Chiesa in tutto dando una testimonianza viva di fede e di missione. Viveva totalmente per Dio e per gli altri.

Il sacerdote è soprattutto l’uomo della carità; è padre più per gli altri che per se stesso. Durante la sua vita sacerdotale padre Franco si è ispirato a questa regola di vita e l’ha incarnata nella sua azione.

Avendo compiuto la sua missione accanto ai suoi fratelli, è stato chiamato a vivere nella gloria del Signore. Ora, gli sia dato di partecipare all’eternità riservata a coloro che sulla terra sono stati amici di Dio e hanno fatto la sua volontà.

Diamantino Antunes
Vescovo di Tete

Brevi note biografiche

Franco Gioda nasce a Poirino (To) il 17/07/1938.  Entra tra i Missionari della Consolata ed emette la prima professione dopo il noviziato in Certosa di Pesio il 02/10/1959.
È ordinato sacerdote a Torino dal cardinal Maurilio Fossati il 30/03/1963. Dopo aver servito prima nel seminario di Benevagienna (Cn) e poi di Biadene (Tv), passa per due anni nel seminario di Ermesinde in Portogallo. Nel 1970 parte per il Mozambico dove è viceparroco prima a Maica e poi a Nipepe, nel Niassa. Sono gli anni della guerra di indipendenza della Frelimo contro i portoghesi.

Richiamato in Italia a fine 1973, lavora per dieci anni come animatore missionario in varie case, e nel 1983 riesce a tornare nel suo amato Mozambico, dove, fino al 2000, alterna il servizio di parroco a quello di superiore (1990-1996) del gruppo dei missionari in quel paese. Sono i tempi duri della guerra civile tra Frelimo e Renamo (1981-1994).

Nel 2000 rientra in Italia. Dopo un periodo trascorso come animatore in Certosa di Pesio, serve per sei anni come superiore della regione, fino al 2008, quando va a Martina Franca (Ta). Nel 2011 torna nuovamente in Mozambico. Vive i suoi ultimi anni nella diocesi di Tete, prima con il vescovo Ignácio Saure e poi con monsignor Diamantino Antunes.

Rientrato in Italia per cure nel 2021, ha raggiunto la meta del suo camminare il 17 ottobre 2021, ad Alpignano (To). È sepolto nel Cimitero monumentale di Torino.

Questo slideshow richiede JavaScript.




L’estate del nostro scontento

Sì, l’estate di questo (non proprio felice) anno – parafrasando il noto romanzo di J. Steinbeck, l’inverno del nostro scontento – è stato dolorosamente percorso da una parola evocatrice di tristissimi scenari di guerra e violenza, Afghanistan. Con immagini, commenti, interviste, titoli di giornali che hanno lacerato il nostro cuore missionario: «Sull’Afghanistan regna il terrore»; «Dopo cento anni, l’Afghanistan resta senza i missionari cattolici»; «Cristo è presente ancora in Afghanistan»; «Kabul, quei bambini dati oltre il muro»; «L’inarrestabile guerra lampo dei talebani e il fallimento dell’Occidente»; «Il papa: No, per l’Afghanistan serve il dialogo».

Con il coordinatore italiano di Pax Christi, don Renato Sacco, che rincarava la dose: «In tanti anni non abbiamo capito come funziona questo paese e non abbiamo lavorato davvero per farlo crescere. Se avessimo “bombardato” non con le bombe, ma coi quaderni o col pane, non avremmo dato ai talebani la possibilità di farsi i paladini degli interessi del loro paese… Ci riuniremo per il nostro Congresso annuale e il titolo sarà: “Abbi cura delle relazioni. Preparerai la pace”, prendendo spunto dal messaggio del papa per la giornata della pace dello scorso primo gennaio. Credo che avremo bisogno, proprio parlando di Afghanistan, prima che di strategie, tattiche e calcoli politici, di riprendere il valore della cura intesa come avere attenzione dell’altro che ci deve disarmare nella politica, nella società, nella cultura e nell’ambiente».

Ho la fortuna di visitare due famiglie di profughi afghani (una con tre e l’altra con quattro bambini), ospitate dalle nostre Suore missionarie della Consolata, ascoltando racconti di paura e lacrime che fanno rabbrividire, mentre i ragazzini più piccoli scorrazzano sulle bici, regalate loro dagli abitanti della cittadina che li ospita, circondandoli di affetto sconfinato. Che ne sarà di loro? E dei parenti e amici rimasti nel paese, ritornato nelle mani dei talebani? Cosa fare per «aiutare davvero» questo infelice paese? E mi torna in mente un particolare curioso: l’Afghanistan è presente con un suo prezioso prodotto, il lapislazzuli, in moltissime delle nostre chiese; infatti, l’azzurro di tanti quadri e affreschi (compreso il cielo del Giudizio universale della Cappella Sistina), proviene proprio da quella che allora si chiamava «India Superior».

Possa, allora, la Vergine Santa, la nostra Consolata e Consolatrice, portare l’aurora, per un cielo più sereno, anche per il martoriato popolo afghano.

padre Giacomo Mazzotti


Prima santi, poi missionari

Tra le convinzioni del beato Giuseppe Allamano, come educatore di missionari, quella che forse più emerge può essere così riassunta: «Prima santi, poi missionari». Solo chi è santo può essere vero missionario. Il nostro fondatore era così convinto di questo principio, che univa i due termini
«santità» e «missione» quasi fossero un binomio.

Missionari santi

Nell’Allamano troviamo un principio molto chiaro: non basta impegnarsi nel lavoro, ma bisogna essere idonei per compierlo bene. Seguendo la dottrina dello zio materno, san Giuseppe Cafasso, amava ripetere: «Il bene deve essere fatto bene». Questo è diventato un criterio pedagogico per l’Allamano, fin dai primi anni. Ai missionari del Kenya, all’inizio del 1905, mentre comunicava il magnifico esito delle feste centenarie del santuario della Consolata, assicurava di aver chiesto alla Madonna non tanto «l’incremento materiale dell’Istituto, quanto la grazia che continuasse anzi crescesse in voi la volontà e l’impegno di santificare voi stessi, mentre zelate la conversione degli infedeli». E questo è diventato quasi un ritornello.

Ecco un’altra lettera del 1907: «Fra poco vi radunerete per i santi spirituali esercizi, ed io a voi presente in spirito, v’invito a studiare i mezzi più idonei alla vostra santificazione ed alla conversione di cotesto popolo». E ancora, dopo gli esercizi spirituali: «Ne sia ringraziato il Signore, e la sua grazia faccia sì che il frutto ricavatone sia duraturo a vostra santificazione ed a bene degli africani».

Parole simili l’Allamano scriveva anche al primo gruppo di missionarie partenti per il Kenya nel 1902: «Anzitutto tenete sempre in cima ai vostri pensieri il fine per cui vi siete fatte suore-missionarie, ch’è unicamente di farvi sante e di salvare con voi tante anime».

Prima l’essere, poi l’operare

L’Allamano ha esplicitato il criterio pedagogico di essere santi per poter essere veri missionari indicandolo come una priorità più logica che temporale: la santità precede per importanza l’azione missionaria. C’è un prima e un poi nelle intenzioni e nei valori: prima santi, poi missionari. Praticamente il fondatore manifestava un principio di vita, valido per tutti i cristiani, che il Concilio Vaticano II avrebbe poi sottolineato con enfasi: «Prima l’essere e poi l’operare».

Anche su questo particolare aspetto le sue espressioni sono chiare e abbondanti. Così scriveva confidenzialmente al padre Angelo Dal Canton, missionario in Kenya, nel 1913: «Tu ben sai quale spirito io desideri dai nostri missionari. Che siano ben fondati nello spirito di fede, sicché operino per Dio, e nella condotta rappresentino Dio stesso in faccia agli africani». E concludeva la lettera con queste significative parole: «Io prego ogni giorno il Signore perché tutti vivano costantemente quali degni missionari, e lavorino prima alla propria santificazione, e poi alla conversione di codesti cari neri».

Al padre Giovanni Chiomio, testimone ricchissimo delle parole del fondatore, in una lettera del 1920, scriveva: «Sempre coraggio in Domino, conservando e propagando il buon spirito fra i confratelli. Prima santi voi, poi fate del bene ai neri: in tutto N. S. Gesù Cristo!».

Nelle conferenze agli allievi e alle suore questo ritornello ritornava spesso, specialmente quando spiegava i fini per cui erano entrati nell’Istituto: «Primo: siamo per farci santi in questa casa: non solo per farci missionari, ma per farci santi e poi missionari». «È questo il fine primario del nostro Istituto. Non siete qui venuti solo per farvi missionari, ma per farvi santi; allora solamente adempirete bene il secondo fine di essere missionari».

È lo Spirito che converte

La santità, per l’Allamano, è una premessa necessaria all’apostolato, perché chi converte è lo Spirito, che si ottiene non con belle parole, ma con la fede e la preghiera. Più uno è unito a Dio e più accompagna i fratelli verso il bene. E, convinto, diceva: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre, battezzare: no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà». «Dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Se non si è santi… non si fa niente! Chi non arde non incendia. Si fa ridere il demonio». «Non come dicono: “Oh, tanto se salvo un’anima salvo la mia”. Sì, ma prima bisogna essere santi: se non saremo santi non saremo buoni né per noi, né per gli altri». «Teniamo a mente che il primo scopo è quello di farci santi noi. È inutile voler convertire gli altri, se non siamo santi noi». «Questa deve essere la cura principale vostra perché se non sarete santi, invece di convertire gli altri in missione vi pervertirete persino voi». «Fine primario dell’Istituto è la nostra santificazione, cui dobbiamo attendere anche pel fine secondario di salvare gli infedeli. Lo dicono i nostri missionari: “Certe conversioni non si ottengono se non si è santi”. Non aspettate di esserlo in Africa».

Così ragionano i santi

I missionari e le missionarie della Consolata hanno fatto tesoro di questo principio di vita trasmesso loro dal fondatore. La missione, oggi, richiede una nuova comprensione, una diversa strategia, dei metodi differenti dal passato. L’Allamano sarebbe d’accordo su tutto ciò, proprio lui che dovette soffrire certe critiche per la novità e la lungimiranza del metodo apostolico maturato con i suoi missionari. Una cosa, però, rimane immutata e ci ripeterebbe come ci ha detto mille volte in passato: «Prima santi, poi missionari»!

È risaputo quanto all’Allamano stesse a cuore la «qualità» dei suoi missionari e, confidando alle suore le continue richieste di personale che giungevano dall’Africa, un giorno disse: «Voi dovreste essere 500 almeno. Voi mi avete detto che non guardo il numero ma la santità; ma più grosso è il numero dei santi e meglio è…». Così ragionano i santi!

Padre  Francesco Pavese

 




IMC Venezuela 50: tra indigeni, afrodiscendenti e periferie

Alla fine del 1970, padre Giovanni Vespertini visita il Venezuela per valutarvi una nuova apertura dei Missionari della Consolata. Con il successivo arrivo di diversi confratelli, la presenza dell’Istituto nel paese si estende. A fine 2021, mentre si chiude l’anno di celebrazioni per i suoi 50 anni in Venezuela, l’Imc è presente a Barlovento (Panaquire, El Clavo, Tapipa e Caucagua), nell’arcidiocesi e città di Barquisimeto, a Tucupita (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

  1. Popoli indigeni, afro e periferie
  2. La scelta degli indigeni della Guajíra
  3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
  4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
  5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
  6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Popoli indigeni, afro e periferie

È il 13 dicembre 1970: attraversato il ponte internazionale Simón Bolívar di Cúcuta, frontiera tra Colombia e Venezuela, padre Giovanni Vespertini accelera puntando verso Nord. A Caracas lo attende un colloquio con il cardinale José Humberto Quintero Parra, arcivescovo della capitale.

È il primo missionario della Consolata a calpestare il suolo venezuelano. Dopo aver lavorato per 10 anni in Mozambico, è sbarcato in Colombia dove ha esercitato il suo apostolato missionario a Puerto Leguízamo, Armero e Bogotá.

In Colombia i Missionari della Consolata sono presenti dal 1947. Padre Vespertini, vedendo i buoni frutti di vita cristiana che stanno maturando nel paese, pensa che sia giunto il momento di misurarsi con nuove sfide.

I tempi sono favorevoli per la creazione di piccoli gruppi di missionari in paesi nei quali l’Istituto non è ancora presente. Il missionario trevigiano pensa che il Venezuela abbia le condizioni per crearne uno.

La Quebrada e le altre

Nel paese, l’80% del clero è straniero, e per l’85% è composto da religiosi. Padre Vespertini ottiene dalla direzione generale il mandato di esplorare la possibilità di espandere la presenza dei Missionari della Consolata in Venezuela prospettando un fruttuoso lavoro di promozione vocazionale. Visita, quindi, diverse diocesi, tra cui Valencia, Puerto Cabello, San Cristobal, Trujillo. I vescovi lo ricevono con entusiasmo e gli offrono parrocchie vecchie, nuove e future, ma, per il momento, si tratta più che altro di buone intenzioni che, spesso, non rispondono al progetto di animazione missionaria e vocazionale dell’Imc.

Così, in attesa di proposte valide, padre Vespertini accetta di prendersi cura della parrocchia La Quebrada, nella diocesi di Trujillo, in una zona delle Ande ritenuta propizia per le vocazioni.

Successivamente, l’offerta da parte dei vescovi di altre parrocchie favorisce l’arrivo in Venezuela di altri missionari finché il 28 settembre 1974, padre Mario Bianchi, superiore generale, istituisce ufficialmente il «gruppo Venezuela». Pochi giorni dopo arriva dalla Spagna padre Francesco Babbini con la nomina di capogruppo.

Cantiere in costruzione

Nel 1976 il gruppo prende diverse decisioni che avranno un certo peso nel futuro dell’Imc nel paese. Decide di aprire una casa a Caracas allo scopo di accogliere i padri destinati all’animazione missionaria in Venezuela e gli eventuali candidati venezuelani a entrare nella famiglia della Consolata. La casa, nel quartiere La Pastora, diventerà sede della delegazione. Oltre all’apertura a Caracas, i missionari decidono di aprire anche nel Vicariato di Machiques, zona della Guajíra. Inoltre, risponde positivamente alla richiesta di collaborazione da parte delle Pom (Pontificie opere missionarie) per l’organizzazione dell’ufficio e delle sue iniziative.

Mano a mano che i Missionari della Consolata aumentano di numero, assumono nuovi campi di lavoro. Nel 1977 l’Istituto è presente in quattro centri: Caracas, dove è iniziato il seminario maggiore con sei giovani venezuelani, Trujillo con le parrocchie di La Quebrada e La Puerta, San Cristobal con la parrocchia di Zorca, e nella Guajíra, tra gli indigeni.

Nel 1978 si pone come priorità la promozione vocazionale, l’animazione missionaria e la formazione dei seminaristi venezuelani, soprattutto in vista della missione tra gli indigeni della Guajíra. Viene assunta la parrocchia di Los Castores, offerta dal vescovo di Los Teques, sulle pendici delle Ande costiere, a 30 Km a Ovest di Caracas.

Qui viene spostato il seminario con padre Sandro Faedi come formatore, mentre i padri Francesco Babbini e Alberto Minora vengono destinati al lavoro apostolico tra gli indigeni della Guajíra.

Una missione che si apre

Alle scelte fatte nel primo decennio di presenza nel paese che hanno dato al gruppo la sua fisionomia specifica, ne seguiranno altre, anche particolarmente coraggiose. Nel 1986, ad esempio, i Missionari della Consolata decidono di dedicarsi alla popolazione degli afrodiscendenti di Barlovento. Nel 1999, poi, scelgono di stabilire una loro presenza nella baraccopoli di Carapita, periferia urbana della capitale Caracas. Nel 2007, alcuni anni dopo aver lasciato la Guajíra e il lavoro con gli indigeni di quelle terre, tornano a lavorare con i popoli originari, questa volta con i Warao a Nabasanuka e Tucupita, sulla foce del fiume Orinoco. Infine, con l’esodo degli indigeni Warao verso il Brasile, i Missionari della Consolata danno vita, nel 2018, a un’équipe itinerante, per accompagnare pastoralmente questo popolo emarginato e costretto all’emigrazione.

Sergio Frassetto


Quattro scelte

Stefano Camerlengo, superior generale dei missionari della Consolata, scrive ai confratelli in Venezuela.

«Nel formularvi gli auguri miei e dell’Istituto per questo vostro giubileo – scrive padre Stefano Camerlengo -, vi inviterei a fare memoria di quanto è stato realizzato dai confratelli che vi hanno preceduto […]».

Egli poi sintetizza il cammino fatto dalla delegazione in quattro scelte ancora oggi valide e urgenti: «Il servizio alle popolazioni indigene; la presenza tra gli afroamericani; l’inserimento nelle periferie urbane; l’animazione missionaria della chiesa locale e la cura delle vocazioni».

Ricordando la dedizione dei missionari che mossero i primi passi in Venezuela negli anni Settanta, infine, il superiore generale dell’Imc ringrazia i confratelli che ancora oggi lavorano nel paese, «per il generoso impegno missionario che continuate a offrire, in un momento tanto critico della vita del paese. In questo modo continuate a scrivere altre belle pagine di servizio missionario per le quali – sono sicuro – il nostro beato Fondatore e i missionari che vi hanno preceduto gioiranno dal Cielo».

S.F.


Il primo

Giovanni Vespertini, classe 1916, originario di Vedelago (Tv), diventò missionario nel 1942. Nel ’44 fu arruolato come cappellano militare. Alla fine della guerra fu dato per morto e si celebrarono messe in suffragio, ma un giorno riapparve vivo e vegeto. Alto, magro, pelle bruciata dal sole, intelligente e risoluto, dal 1948 al 1958 fu missionario in Mozambico e, successivamente, in Colombia. Alla fine del 1970 andò in Venezuela dove si insediò come parroco di La Quebrada, un paesotto sulle Ande della diocesi di Trujillo. Vi rimase per 14 anni.

Fu sempre esigente con i suoi cristiani perché li voleva tutti d’un pezzo e non ammetteva compromessi. Nello stesso tempo era spassoso nelle relazioni personali ottenendo una partecipazione «bulgara» alla vita della chiesa. Padre Giovanni non conosceva la paura e non esitò mai di fronte al lavoro che gli veniva richiesto per il bene della gente, e questa lo seguiva volentieri apprezzando la sua coerenza e il suo amore fatto di gesti concreti, soprattutto verso i poveri. Tornato in Italia per una breve vacanza, morì d’improvviso il 17 marzo 1984.
I missionari lo considerano l’iniziatore della loro presenza in Venezuela.
A La Quebrada aveva preparato la sua tomba che rimase vuota. A distanza di anni i suoi cristiani hanno richiesto il ritorno dei suoi resti mortali, segno che quel missionario è rimasto nel loro cuore.


Lo stratega

Francesco Babbini, nato nel 1932 a Montepetra di Sogliano Rubicone (Fc), divenne missionario della Consolata nel 1960. Lavorò sei anni in Italia e otto in Spagna nel settore dell’animazione missionaria e vocazionale. Nel 1974 venne destinato come capogruppo in Venezuela. Vulcanico nelle idee e realizzazioni, fu il vero artefice dello sviluppo dell’Imc nel paese.

In pochi anni organizzò il lavoro apostolico dei missionari estendendo la presenza dell’Istituto in tre diocesi. Diede inizio alla missione tra gli indigeni guajíros, aprì il seminario per giovani venezuelani, collaborò all’organizzazione delle Pom del Venezuela e viaggiò molto facendo conoscere la Consolata in numerose diocesi.

Nel 1980, concluso il suo mandato di capogruppo, andò a lavorare in Guajíra tra gli indigeni. Lì diede il meglio di sé come apostolo della carità verso tutti, specialmente i più poveri. Lo sostenevano la sua grande fede, l’amore alla Chiesa e la convinzione che servire il prossimo era amare Gesù in persona.

Nel 1982 venne richiamato in Italia per l’animazione missionaria, e fu molto attivo in Puglia. Il 19 marzo 1984, morì per infarto cardiaco. Aveva 52 anni. La missione di Guarero, in Guajíra, ha dedicato al suo nome l’oratorio parrocchiale e la strada che porta alla chiesa.

S.F.




IMC Venezuela 50: la scelta dei popoli indigeni

I Missionari della Consolata in Venezuela hanno tra le loro finalità principali l’animazione missionaria e vocazionale. Presto il loro carisma ad gentes li spinge anche sulle frontier dell’annuncio, tra i popoli indigeni. Nasce così la scelta della Guajíra che li vedrà impegnati sul suo vasto territorio per 22 anni, dal 1976 al 1998.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

La scelta degli indigeni

La Guajíra

Il fuoristrada solca veloce il deserto lungo piste invisibili ma ben conosciute dall’indigeno che guida. Il sole spacca le pietre e il vento sferza la faccia riempiendo gli occhi di sabbia.

Dopo tre ore di sobbalzi e sbandate, giungiamo alla meta: un piccolo cimitero cresciuto nel nulla di una landa sconfinata, popolato da morti e frequentato da una tribù di vivi. Qualcuno tra i vivi dorme appollaiato nella sua amaca, qualcuno mangia, qualcun altro beve e gioca a domino.

«Casáchiqui tawala you» («buongiorno amico»). Appena il mio saluto viene udito, un gruppo di donne vestite di mante nere si avvicina alla bara del defunto e inizia il pianto rituale.

Dopo la messa, vengono sacrificati alcuni animali e si consuma un banchetto in onore del defunto. Il tempo passa tra saluti, chiacchiere e racconti, fino all’ora di tornare in parrocchia.

Siamo alla fine degli anni Settanta. Ci troviamo nella Guajíra, la penisola al confine con la Colombia che si sporge nel Mare dei Caraibi all’estremità Nord occidentale del paese, creando il Golfo del Venezuela. È il mondo dei Wayú che, dopo aver saggiato l’amicizia dei missionari, li accolgono con simpatia e li rendono partecipi dei loro riti ancestrali sulla vita e la morte.

E pensare che a fine 1976, quando sono arrivati i Missionari della Consolata nel villaggio di Guarero, quasi al confine con la Colombia, al loro passaggio, la gente si nascondeva. I missionari vedevano solo le ombre muoversi furtive dietro i canneti. È stato grazie a suor Maria, una missionaria laurita, che è sorta l’amicizia tra i missionari nuovi arrivati e la gente.

Suor Maria, colombiana, da cinquant’anni calca il deserto della Guajíra, ed è difficile trovare qualcuno che non la conosca, che non abbia ricevuto una sua visita, un suo aiuto, una medicina, una preghiera. È la carità fatta carne, e i Guajíros, quando hanno bisogno di qualcosa, cercano sempre lei, sicuri di trovare aiuto.

Guarero

Padre Francesco Babbini, fin dal suo arrivo in Venezuela nel 1974, aveva svolto un’intensa opera di animazione missionaria in diverse diocesi del paese. Aveva visitato anche i vicariati apostolici del Caroní (nella zona Sud Est) e di Machiques (nella Guajíra, a Nord Ovest), affidati ai Cappuccini spagnoli, ottenendo di poter stabilire anche lì una missione Imc.

Nell’ottobre del 1976 padre Tullio Bosello, seguito da padre Miguel Sotelo, hanno iniziato a lavorare nella missione di Guarero, l’ultimo avamposto venezuelano prima della frontiera con la Colombia e della città di Maicao, da cui dista appena 20 chilometri, centro del commercio e del contrabbando di tutta la regione.

Guarero vive nel marasma tipico dei posti di frontiera, con la dogana, i venditori ambulanti di cibi, le bevande e migliaia di persone che transitano o attendono impazienti il disbrigo delle pratiche doganali.

Nella missione dedicata al Sacro Cuore di Gesù, le suore missionarie di Madre Laura (di fondazione colombiana) lavorano nel collegio per bambine povere che comprende l’asilo infantile, la scuola elementare, un atelier di arti e mestieri e il centro giovanile. Una volta alla settimana, i missionari visitano i villaggi più importanti dove celebrano la liturgia domenicale. Nei giorni feriali, il lavoro di catechesi nelle numerose scuole della regione è intenso.

Paraguaipoa

Nel 1981, i Missionari della Consolata estendono la loro presenza alla missione di Paraguaipoa, il centro più importante della Guajíra venezuelana. Qui convergono gli indigeni da tutta la penisola per comprare o vendere nel mercato di Los
Filuos, per iscrivere i neonati all’anagrafe o cercare, nell’archivio parrocchiale, il documento di battesimo con cui farsi fare la carta d’identità.

Nel febbraio del 1982, giungono a Paraguipoa, chiamate da padre Sandro Faedi, anche le missionarie della Consolata.

La visita quotidiana alle famiglie, facendosi carico di tanti casi difficili di povertà ed emarginazione, le attività di promozione della donna, dei bambini e della gioventù, e la capacità di dialogo e accoglienza dei missionari e missionarie sono le carte vincenti.

Lavorando in équipe, padri e suore si inoltrano nel deserto della Guajíra seminando, anche nei villaggi più lontani, il Vangelo fatto di amicizia e interesse per i problemi della gente.

Sulla scia di queste visite, nascono scuole e asili, ambulatori, centri comunitari, pozzi per l’acqua e centri di culto.

Sinamaica

Sinamaica, che l’Imc prende in carico nel 1983, è la più antica delle tre missioni, e la più meridionale. Sorge su alcune dune della costa atlantica. È circondata a Est da grandi saline naturali, a Ovest dalla laguna omonima, disseminata di misere palafitte abitate dagli indigeni paraujanos.

Il lavoro di evangelizzazione è rivolto innanzitutto alla scuola della missione, frequentata da oltre 700 alunni, e poi ai villaggi circostanti, dove sorgono piccole comunità del Vangelo, impegnate a vivere la fede e a cercare soluzioni alla povertà e all’emarginazione.

Le feste patronali di san Bartolomeo apostolo, le celebrazioni in onore di san Benito da Palermo, i riti del Natale e della Settimana Santa sono molto sentiti e vengono celebrati nelle forme tipiche della religiosità popolare, ricca di spunti folcloristici e suscettibile di un ampio lavoro di evangelizzazione.

Sergio Frassetto

I Guajíros

Diviso in due dal confine tra Venezuela e Colombia, il popolo indigeno della Guajíra lotta da secoli per preservare identità, tradizioni e lingua. Molti si stanno urbanizzando. Molti altri resistono.

I Guajíros sono una vasta etnia che abita le terre desertiche della Guajíra, la penisola che si protende verso il mare dei Caraibi, a cavallo tra Colombia e Venezuela. Si conoscono tra loro come wayú (persona) e chiamano alijunas (stranieri) i bianchi e i meticci.

Dal 1833 vivono divisi da una frontiera arbitraria che assegna un quinto del loro territorio al Venezuela, e tutto il resto alla Colombia.

Le alte temperature unite agli scarsi rilievi montagnosi, la mancanza di corsi d’acqua e i forti venti dell’Est, fanno della Guajíra un deserto semi arido e inospitale, dove possono trascorrere mesi, e a volte anni, senza che si registrino precipitazioni importanti.

Secondo l’ultimo censimento del 2011, la popolazione wayú residente oggi nella parte venezuelana della penisola, conta 415mila persone (380mila nella Guajíra colombiana). Una forte migrazione verso la vicina città di Maracaibo, importante centro petrolifero del paese, ha formato interi quartieri nei quali vivono, pare, più di 60mila Guajíros.

Nel contesto urbano di Maracaibo si è determinato un veloce processo di perdita dell’identità culturale da parte degli indigeni che hanno subito l’imposizione dei modelli della società dei «bianchi». Molti abbandonano le tradizioni, perdono il senso dell’importanza dei clan, e persino la loro lingua madre.

Per quanto riguarda la condizione economica, in Guajíra non esistono fonti di lavoro o di guadagno: alcuni, pochi, si dedicano alla pastorizia, all’agricoltura o alla pesca. La maggioranza sopravvive nella marginalità con attività informali, tra le quali il narcotraffico e il contrabbando dalla Colombia.

Quest’ultimo contribuisce a indebolire la famiglia, i cui componenti passano gran parte della vita viaggiando. Nelle case rimangono anziani e bambini abbandonati a se stessi.

La Guajíra autentica

Nonostante questo processo, però, la Guajíra autentica esiste ancora. La si trova, ad esempio, nel mercato di Los Filuos, alle porte di Paraguaipoa, dove confluiscono gli indigeni da tutta la penisola per vendere e comprare capre, pecore, pelli e prodotti del loro artigianato, per rifornirsi di filuos (banane da cuocere), riso, carburante, utensili, qualche machete, e anche pallottole.

La Guajíra si scopre nei cimiteri dispersi nella penisola, durante i velorii (veglie funebri) per i morti: là gli uomini, a volte ancora in guayuco (perizoma), e le donne, avvolte nella manta (vestito dai colori vivaci, lungo fino ai piedi), celebrano i riti della vita e della morte, seguendo una tradizione antica.

La Guajíra si scopre ancora nelle carovane di donne e bambini che attraversano la savana polverosa, abbarbicati sui loro asini sotto il sole inclemente, per cercare l’acqua lontana. E si ritrova ancora di più inoltrandosi tra i palmeti dove sorgono piccoli abitati di poche case nascoste tra le dune: minuscole monadi, tagliate fuori dal mondo, fatte di silenzio, lavori di tessitura, orticelli coltivati a mais e yuca (manioca), recinti di capre e pecore. Ambienti familiari semplici: capanne nelle quali di notte si appendono le amache per dormire, con un recinto di pali riservato alla cucina e la enramada (tettoia) di rami di palma, alla cui ombra si svolgono le attività diurne, si ricevono i visitatori e si legano le amache per fare la siesta nei momenti più caldi della giornata.

Questi piccoli villaggi si chiamano rancherie e sono distanti qualche chilometro l’uno dall’altro per facilitare il maneggio delle greggi. (S.F.)


Nascita di una Chiesa  L’alta Guajíra

Cojoro, la selvaggia

La vita cresce dispersa a Cojoro, uno dei villaggi della missione di Paraguaipoa. L’intenso lavoro di promozione umana dei missionari la fa rifiorire. E la costruzione della chiesa dà un cuore e un’identità a questo «non popolo» del deserto.

La savana attorno a noi sembra non avere confini, la vastità del deserto si confonde con l’arco del cielo. Il nostro andare per l’alta Guajíra ha quasi il sapore della profanazione di una cattedrale fatta di silenzio e solitudine. Ci accompagna un sole abbacinante e un sibilo di vento sulla sterpaglia. Qua e là, un albero spinoso resiste all’accanimento del vento. I cactus alzano le loro braccia al cielo, indifferenti.
Un jaguey (stagno) pantanoso, un gregge di capre sonnolente, una capanna di stecche di cactus, dicono che, anche nel deserto, fiorisce la vita. È il 1981. Arriviamo a Cojoro, piccolo villaggio nel territorio della missione di Paraguaipoa nell’alta Guajíra. Ci sono poche capanne avvolte nel silenzio e poi cimiteri che sanno di altre epoche dalle quali dipanano i fili dei numerosi clan dispersi nella penisola.

In lontananza emerge l’ombra rassicurante dei rilievi montuosi di Macuira e la cima del Litujulu, l’Olimpo del popolo wayú. Proprio lassù si consumò il duello tra Maleiwa e il Mare che pretendeva di inondare la terra. Con potenti sassate e frecce di fuoco, Maleiwa mise in fuga il Mare e salvò la terra. I reperti archeologici marini che, ancora oggi, si trovano su quella montagna, costituiscono, per i Guajíros, la testimonianza perenne di quella lotta primigenia.

Dopo la lotta contro il Mare, Maleiwa scese verso la spiaggia bianchissima di Cojoro dove modellò, col fango, uomini e animali: i Wayú innanzitutto, e poi tutti gli altri.

È qui, dunque, nella selvaggia Guajíra, che i missionari, meravigliati, incontrano storie che assomigliano a quelle bibliche, e semi di quella verità con cui Dio arricchisce ogni popolo. Egli non «manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali» (Redemptoris missio 55). Questi miti servono come supporto per innestare la buona notizia del Vangelo.

Dalla dispersione all’unità

La vita cresce dispersa a Cojoro. Visitando le capanne si palpa un senso di abbandono e desolazione. La lontananza, la durezza della vita, la diffidenza reciproca, hanno fatto dimenticare ai suoi abitanti la bellezza dell’incontro, il senso della festa, lo spirito del clan.

La presenza del missionario e delle suore serve a smuovere quelle acque stagnanti.

Si comincia con il catechismo nella scuola, e si cercano testi scolastici con i quali i bambini possano studiare. La ristrutturazione del dispensario medico, in completo abbandono, motiva il rincontrarsi della comunità. Si organizza il processo di iscrizione della gente all’anagrafe. Si forma una commissione che vada dal governatore a chiedere acqua per la regione.

Giorno dopo giorno, gli abitanti di Cojoro cominciano a interessarsi dei problemi della comunità per risolverli.

Dato che manca un luogo di coesione che vinca la dispersione geografica, ma soprattutto interiore, sorge la chiesetta, e in essa viene ad abitare la Madonna Consolata. Attorno a questa madre di popoli, un popolo disperso trova motivi per incontrarsi, celebrare e fare festa.

Cojoro, la selvaggia, non è più completamente sola: nel deserto ora fiorisce la vita e nei cuori rinasce la speranza.

Comunità del Vangelo

Animati da questo spirito che ci spinge a cercare la gente del deserto di Cojoro, raggiungiamo i luoghi più isolati della penisola. Fuori dei villaggi costituiti in epoca coloniale, l’indigeno guajíro tende a sistemarsi lontano dagli altri. Il movimento delle greggi esige grandi spazi. La necessità di autodifesa vuole una zona di sicurezza attorno alla casa per avvistare i nemici e non esserne sorpresi.

A questo si aggiunge la realtà del contrabbando, per cui componenti della famiglia passano la maggior parte del tempo lontano da casa, viaggiando da una città all’altra. Per queste ragioni non è pensabile poter formare grandi comunità cristiane. In Guajíra difficilmente sorgerà un cristianesimo di massa.

Coscienti di questa realtà, i missionari passano di casa in casa offrendo parole di amicizia e cercando di stimolare la nascita di interessi comuni tra vicini, non basati semplicemente sulla parentela o lo scambio di favori, ma sulla Parola annunciata da Gesù che riguarda l’unico Padre che ci rende fratelli. Questa verità si esprime concretamente nel gesto di ritrovarci periodicamente per leggere la Parola, celebrarla nell’eucaristia e attuarla in un «darsi da fare» a favore di tutti.

In questo modo nasce la chiesa della Guajíra: una realtà costituita da tante piccole «comunità del Vangelo», dove i gesti della condivisione e della testimonianza sono segno della presenza di Gesù che consola, infonde speranza, e offre salvezza.

Sergio Frassetto


Un’evangelizzazione inculturata

L’opera missionaria nella Guajíra è una sorta di pellegrinaggio nel quale i missionari «camminano assieme» alla gente, accompagnando il popolo in atteggiamento di ascolto, accoglienza e dialogo. Nel rispetto della coscienza dei Guajíros e delle loro tradizioni culturali.

L’anima religiosa dei Guajíros si esprime innanzitutto in relazione ai defunti che costituiscono una presenza importante e, a volte, dominante nella vita delle famiglie. Far celebrare messe per i defunti, rispettare i voti fatti a san Benito da Palermo (un santo nero la cui devozione è stata diffusa dai Cappuccini), battezzare i bambini, guardare la processione che passa, sono alcuni dei modi tramite i quali molta gente esprime la propria fede in Dio.

In questo contesto, dal 1976 al 1998, l’opera di evangelizzazione dei missionari della Consolata si è concretizzata, innanzitutto, nell’amicizia e nella vicinanza alla quotidianità delle persone.

La testimonianza è diventata annuncio, e l’annuncio ha favorito l’acquisizione di valori fondamentali come la famiglia, il perdono, il senso della comunità, e la coscienza che Dio è «padre dei viventi». Questo lavoro è avvenuto innanzitutto mediante la catechesi nelle decine di scuole del territorio visitate ogni settimana.

Nella Guajíra non si può immaginare una catechesi «preconfezionata», estranea alla cultura e alle modalità della narrazione, del racconto, dell’immagine, del gesto.

Così i missionari, rimettendo i panni degli studenti, hanno imparato che, invece di parlare di Dio, è più comprensibile per gli indigeni il nome di Maleiwa, il demiurgo mitico che salvò la terra dall’invasione delle acque e modellò gli uomini con il fango. Il demonio è meglio conosciuto come Wanülü, lo spirito del male, che provoca malattie e morte in chi lo incontra, o Yolujá, lo spirito dei morti, altrettanto pericoloso.

E per spiegare agli alunni la somiglianza dell’uomo con Dio, anziché ricorrere alla filosofia, è più efficace usare uno specchio: la faccia che vedono riflessa assomiglia a quella di Dio.

Tra il sabato e la domenica, i Missionari della Consolata raggiungevano quasi tutte le cappelle e offrivano alle comunità la celebrazione eucaristica in un tour de force che, alla fine, lasciava esausti.

A volte si celebrava la messa, spesso soltanto la liturgia della Parola. L’importante era valorizzare il momento comunitario in modo che diventasse tempo di salvezza per i partecipanti.

I missionari, per comunicare la vicinanza di Dio alla vita quotidiana delle persone, rinunciavano al ruolo di maestri. Questo permetteva agli indigeni di essere soggetti della loro scoperta di Dio e della loro fede, con la loro identità e secondo i paradigmi della loro cultura.

Nell’accompagnare il cammino storico dei Wayú, illuminandoli con l’annuncio della buona notizia, la missione diventava pellegrinaggio spirituale verso il Regno. Si trattava di «camminare assieme» accompagnando un popolo in atteggiamento di ascolto, di accoglienza e dialogo.

Molti segni, negli anni, hanno indicato che i Guajiros camminano verso la propria realizzazione storica. L’impegno e la testimonianza di un piccolo gruppo di cristiani, uniti alla diffusione di tante comunità ecclesiali, nate dal lavoro dei missionari, sono realtà tangibili. Si tratta di «comunità del Vangelo» nelle quali crescono rapporti umani di solidarietà e impegno per la trasformazione della realtà alla luce della parola di Dio. (S.F.)

Nascita di una Chiesa – Sinamaica

Tra le palafitte della laguna

A Sinamaica, il popolo añú (del gruppo Aruache, che nell’ultimo censimento del 2011 contava circa 21mila unità) vive in una condizione di marginalità e indigenza, anche a causa dello sfruttamento ambientale che degrada il territorio. Al loro arrivo, i missionari cercano di promuovere la vita a tutti i livelli: da quello materiale a quello spirituale.

Nel 1983 la missione ci spinge a navigare anche per la laguna di Sinamaica alla ricerca del popolo añú. Sembra di sognare quando ci addentriamo, per la prima volta, in questo angolo di paradiso. Di fronte a noi si presenta la visione di una placida distesa di acquitrini, solcata da canali, disseminata di palafitte e abbellita da una vegetazione lussureggiante. L’insieme dà l’impressione di un mondo incantato. Eppure capiamo presto che si tratta di una quiete agonica. La laguna, che con le sue palafitte e canali può evocare una lontana piccola Venezia o «Venezuela», sta morendo.

Una laguna che muore

La canalizzazione del lago di Maracaibo, per consentire alle navi petroliere di accedere ai ricchi giacimenti dello stato di Zulia, ha compromesso il delicato equilibrio ecologico di quest’ambiente, provocando la salinizzazione delle acque, la distruzione delle risaie e la scomparsa di molte specie vegetali e marine.

Di lì è iniziato pure il calvario di questi indigeni (chiamati anche «Paraujanos», o abitanti della costa del mare), causato dall’abbassamento e inquinamento delle acque, dalla loro sedimentazione e dall’impaludamento della laguna. Le eliche dei motori delle barche si rompono sui fondali a causa dell’acqua troppo bassa, ed è difficile raggiungere le palafitte che rimangono piantate nel fango.

Bisogna entrare in esse per conoscere la deplorevole condizione di miseria e abbandono in cui vive la gente. Colpisce il sovraffollamento di questi tuguri, stanzette dove vivono anche venti persone con gli occhi fissi sull’acqua torbida.

È la conseguenza delle disuguaglianze economiche e sociali, dell’abbandono e dell’ingiustizia.

Oltre alle persone, nelle palafitte ci sono poi altri inquilini: galline, cani, gatti e addirittura maiali.

La quantità di persone con disabilità ci fa sorgere numerosi interrogativi.

Di fuori, sul pontile, c’è un eterno fuoco sul quale si abbrustolisce il pesce, e grandi fasci di enea, il giunco che cresce nei pantani, ai margini della laguna, e che serve per fare stuoie, l’unica povera ricchezza di queste famiglie.

Privati della loro lingua, l’añú, che ormai più nessuno parla, e della loro cultura, gli stessi indigeni stanno morendo di stenti e malattie. Vivono nell’acqua, eppure ne sono privi, perché salmastra, inquinata, putrida. Alto è anche il tasso di mortalità infantile dovuto ai parassiti che aggrediscono l’intestino dei bambini. Gli uomini sono costretti a emigrare a Sud di Maracaibo, verso i porti di Altagracia, dove si dedicano alla pesca al servizio di grandi compagnie. Le donne, come la maggioranza dei Guajíros, praticano il contrabbando. Chi rimane nella laguna, si dedica alla pesca o alla raccolta di enea.

 

Una realtà da promuovere

In quest’ambiente, la Chiesa è chiamata a costruire il Regno di Dio tramite gesti di solidarietà concreta, specialmente verso i più poveri. È così che le suore missionarie Laurite decidono di andare a vivere nella laguna per incarnarsi nella sua realtà e condividere la vita dei suoi abitanti.

La scelta dell’inserzione, del radicamento, permette ai missionari di accompagnare gli Añú nella vita quotidiana aiutandoli a scoprire i loro carismi e possibilità.

I frutti non tardano: sorge l’asilo per i bambini, la scuola di tessitura dell’enea e della lavorazione del legno per i giovani. In un edificio costruito appositamente, si realizza l’esposizione e la vendita permanente dell’artigianato locale. Si crea un mercatino dove si commerciano al prezzo di costo i prodotti più comuni della dieta.

L’attenzione si rivolge anche alle tagliatrici di enea: quasi tutte donne anziane, costrette a stare l’intera giornata nell’acqua con il pericolo dei serpenti e delle razze marine.

Si tratta di un lavoro duro che, alla lunga, rompe le ossa, e che i commercianti di stuoie pagano una miseria. Bisogna promuovere una forma di lavoro solidale che sostenga la produzione e assicuri una più giusta retribuzione. Con difficoltà si riesce a vincere la loro riluttanza a riunirsi e si forma la «Cooperativa delle tagliatrici di enea»: una specie di sindacato che decide il prezzo unico e giusto del loro lavoro. Queste iniziative smuovono le acque, la gente si anima e crea la «Fondazione pro Laguna», costituita da rappresentanti del popolo añú. La fondazione si propone di migliorare le condizioni di vita della popolazione. I risultati positivi sfociano nella visita del presidente della repubblica Luis Herrera, e in quelle successive di sua moglie. L’acqua potabile arriva fino al porto, è installata l’elettricità in un settore della laguna e cominciano i lavori per dragare i canali tappati dalla sedimentazione delle acque.

Una chiesa su palafitta

La Madonna del Carmine rappresenta una lunga tradizione di fede per il popolo añú. Una piccola statua scrostata langue in una palafitta che, secondo il dire di alcuni, un tempo fungeva da cappellina.

In una notte di burrasca il fiume si porta via la chiesetta, vecchia e malandata, ma con l’aiuto di alcuni benefattori e il lavoro degli Añú, i missionari ne fanno sorgere una nuova, più grande ed elegante: si tratta, naturalmente, di una robusta palafitta dallo stile in perfetta armonia con le abitazioni dei Paraujanos. Le colonne possenti in legno, le travature a vista, le pareti a forma di palizzata e il tetto di giunco ne fanno un luogo di pace particolarmente adatto alla preghiera.

Qualcuno regala una nuova immagine della Madonna e qualcun altro una campanella, delizia dei bambini che non smettono di suonarla. Le feste patronali si fanno più sentite e partecipate. La regata della Madonna, lungo i canali, diventa una tradizione di incomparabile bellezza. Sboccia un germoglio di vita liturgica con le prime comunioni, qualche messa per i defunti e il primo matrimonio religioso.

Nella Laguna di Sinamaica si cerca di concretizzare il Vangelo attraverso uno sforzo di promozione umana non indifferente. Da qui nasce la Chiesa: una piccola comunità di cristiani, uniti da vincoli di carità, impegnati in prima persona nella crescita della loro gente.

Sergio Frassetto


Identificazione piena

I Missionari della Consolata nei 22 anni della loro presenza nella Guajíra, hanno cercato di identificarsi con il popolo, senza paura di perdere la loro dignità. Tra gli avventizi di Campamento, sotto una capanna, o tra i baraccati della Rancheria, sotto una tettoia di palme e, ancora, nell’emarginata Laguna del passero, sotto un albero. Si sono fatti transumanti come il popolo wayú, e l’hanno accompagnato, nomadi, attraverso il deserto, dietro le sue greggi, nei cimiteri con i suoi antenati, nei luoghi di festa condividendo le sue tradizioni, sulle strade del contrabbando mentre cercava la propria sopravvivenza.

È stato un cammino difficile, così come lo fu quello di Israele durante i 40 anni trascorsi nel deserto: quel gruppo di israeliti ex schiavi ebbe modo di sperimentare la presenza di Dio come di colui che si china sul povero per liberarlo dalla miseria e dall’oppressione. Per questo divenne l’«opzione» dei poveri d’Israele.

Allo stesso modo, i missionari e le missionarie della Consolata, nella Guajíra, hanno cercato di dare voce, attraverso la loro voce, alla parola di Gesù, di attualizzare negli eventi sacramentali i suoi gesti, di essere testimonianza del suo amore mediante uno sforzo di conoscenza e assunzione della realtà umana in cui erano chiamati a operare a favore dei poveri. In questo modo sono diventati il sacramento della compassione di Gesù che si china su coloro che hanno fame e sete, che piangono e soffrono, che muoiono. È così che la Chiesa ha conquitato il cuore della Guajíra e che Gesù è diventato l’opzione dei suoi poveri. (S.F.)

1976-1998: Guajíra, missione compiuta

La Guajíra che faceva parte del vicariato apostolico di Machiques, nel 1998 è diventata parte dell’arcidiocesi di Maracaibo, e i Missionari della Consolata, dopo 22 anni di presenza, si sono ritirati per aprirsi a un nuovo campo di lavoro.

Padre Giano Benedetti, ai tempi superiore della delegazione, ha descritto l’addio così: «Il 4 luglio 1998, durante una concelebrazione eucaristica presieduta da mons. Ovidio Pérez, arcivescovo di Maracaibo, abbiamo consegnato la parrocchia di san José di Paraguaipoa al clero diocesano. Sinamaica e Guarero erano già state consegnate, rispettivamente a marzo del ’97 e del ’98. I Missionari della Consolata sono stati ringraziati, all’inizio e alla fine della messa, per il lavoro che hanno svolto fin dal 1976, quando era stata affidata loro la parrocchia di Guarero.

Sono stati ricordati per nome e cognome tutti i Missionari della Consolata che hanno annunciato il Vangelo nella Guajíra venezuelana. Anche mons. Ovidio ha ringraziato per la nostra opera e ci ha ricordato che le porte della sua arcidiocesi rimanevano aperte per noi.

I Missionari della Consolata hanno lasciato la Guajíra, ma la Consolata e il nostro carisma rimangono nella terra dei Wayú. Le Missionarie della Consolata continueranno [per qualche anno] la loro presenza a Paraguaipoa, e la
Madonna continuerà come patrona dei caseríos di Cojoro e san Rafael de Paraguachón.

Lasciando questa terra abbiamo ringraziato Dio per il dono della vocazione missionaria, coscienti d’averla vissuta con il nostro servizio, affinché anche i Wayú fossero un’offerta gradita a Dio e perché abbiamo cercato l’unica ricompensa di tutti gli apostoli: annunciare gratuitamente il Vangelo». (S.F.)

Le missionarie della Consolata

In Venezuela dal 1982, hanno collaborato con i loro fratelli missionari a Paraguaipoa, in Guajíra, e poi, dal 2006 al 2015, a Nabasanuka, tra i Warao. Si sono spinte fino al vicariato apostolico di Puerto Ayacucho, dove svolgono apostolato urbano in città; nella missione di Tencua, in piena selva amazzonica, tra gli indigeni Yecuana. La collaborazione con i missionari prosegue nel campo dell’animazione missionaria a Caracas.

 




IMC Venezuela 50: con gli afro discendenti

La regione di Barlovento, caratterizzata da un clima tropicale caldo umido, è particolarmente adatta alla coltivazione del cacao. Questo ha determinato la maggiore concentrazione di afrodiscendenti di tutto il Venezuela. I padroni delle piantagioni sono i bianchi, gli stessi di un tempo, mentre i discendenti degli schiavi deportati dall’Africa continuano a raccogliere il cacao come i loro antenati.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana


Nella terra del cacao

Tra gli afro di Barlovento

«Barlovento, Barlovento, tierra ardiente y del tambor», canta l’afro quella terra «calda e del tamburo» che lo vide schiavo, costretto a lavorare nelle piantagioni di cacao dei padroni europei, ma libero di danzare al ritmo del tamburo che ricorda quelli lontani dell’Africa, sua terra di origine.

«Barlovento» è il nome di una regione prospicente al Mare dei Caraibi, a un centinaio di chilometri a Est della capitale Caracas, abitata in prevalenza da afrodiscendenti1.

Il clima tropicale, caldo umido, insieme a particolari correnti ventose marine, provoca precipitazioni quasi quotidiane che fanno arrivare l’umidità fino al 70%. La produzione del cacao è in mano a pochi latifondisti originari delle isole Canarie, e la popolazione continua a raccoglierlo come al tempo della colonia.

I popoli afrodiscendenti costituiscono nel 2020 un terzo degli abitanti dell’America Latina. Insieme ai popoli indigeni, sono la fetta di popolazione più svantaggiata, soprattutto per quel che riguarda l’istruzione, il lavoro, la salute, le infrastrutture, l’accesso ai servizi pubblici in generale e la povertà.

Tutto ciò è il prodotto di una situazione di esclusione e discriminazione strutturale, legata a secoli di razzismo.

Eppure, anche se vivono ai margini, loro sono lì, cantano e ballano al ritmo dei tamburi, offrendo i loro valori originari e originali. Chiedono rispetto, dignità e opportunità. La famiglia missionaria della Consolata cammina con loro dal 1986.

Un po’ di storia

A Barlovento, i Missionari della Consolata oggi lavorano nelle parrocchie di Tapipa, Panaquire, Il Clavo e Caucagua, paesi a un centinaio di chilometri a Est da Caracas. Vi sono arrivati nel 1986.

L’antefatto della presenza dell’Imc nella zona sta nell’arrivo dei nostri missionari, nel 1978, alla parrocchia della Sacra Famiglia di Los Castores (piccolo centro urbano a pochi chilometri a Sud di Caracas, lontana 100 km da Tapipa, Panaquire e Il Clavo, ma ai tempi nella stessa diocesi).

Lì, a Los Castores, erano stati chiamati da mons. José Bernal, vescovo di Los Teques. Era una realtà pastorale relativamente giovane che si innestava sul fenomemo dell’urbanizzazione residenziale della media borghesia che lavorava nella capitale. Era una bella parrocchia, con una buona partecipazione della gente alla messa domenicale e alle altre attività, e un elevato spirito missionario che si esprimeva in aiuti concreti e sostanziosi alle missioni della Guajíra. La parrocchia costituiva anche un aiuto finanziario per il gruppo della Consolata in Venezuela che non aveva molte altre entrate.

Dopo qualche anno, il vescovo mons. Pio Bello, successore di mons. Bernal, ha chiesto all’Istituto di assumere la responsabilità pastorale anche delle tre parrocchie di Barlovento (oggi nella diocesi di Guarenas-Guatire). «Avete una parrocchia buona – ha detto – ed è giusto che ne prendiate altre più bisognose, perché povere e senza prete».

Fin dall’inizio dell’Istituto, i missionari della Consolata si erano dedicati all’Africa e, stando in America, il campo più appropriato cui dedicarsi sembrava quello degli indigeni. Inoltre il numero di missionari, piuttosto ridotto, non sembrava poter assicurare una presenza duratura in queste nuove aperture. Ciò nonostante in Venezuela hanno deciso di rispondere positivamente alla proposta del vescovo, anche grazie alle esortazioni del superiore generale di allora, padre Giuseppe Inverardi: «Los Castores e La Puerta sono due parrocchie che hanno permesso il nostro consolidamento e sviluppo in Venezuela, anche attraverso l’aiuto finanziario. Tuttavia, per fedeltà a noi stessi e alle nostre finalità, credo che non possiamo perpetuare la nostra presenza in queste parrocchie. […] Da anni si parla di questa apertura tra gli afroamericani della zona di Barlovento. Non può rimanere, tuttavia, una semplice prospettiva. È un discorso da concludere il prossimo anno […]».

Presa la decisione, è stato necessario valutare quale delle parrocchie nelle quali eravamo presenti avremmo lasciato. La scelta, alla fine, non è caduta su Los Castores o La Puerta, bensì su Zorca, una parrocchia nella regione del Táchira, a 800 km a Sud Ovest, ai confini con la Colombia.

 

Il superiore della delegazione, padre Nelson Lachance, ha scritto ai suoi confratelli per l’occasione: «Il 2 settembre 1985, dopo 10 anni di infaticabile attività pastorale, i padri lasciano Zorca, dopo aver ricevuto da tutta la parrocchia una grande manifestazione di affetto e di gratitudine. Per la gente di Zorca il saluto commovente e grandioso vuole essere non un “addio”, ma solo un “arrivederci a presto”. Così la Delegazione del Venezuela conserva l’incarico di due sole parrocchie: quella di La Puerta (Diocesi di Trujillo) e quella di Los Castores (Diocesi di Los Teques) e si assume il compito di aprire un seminario in Caracas per il corso di filosofia e di iniziare una missione nel territorio di Barlovento tra gli afroamericani».

Nel 1986, tre missionari sono stati destinati a lavorare tra gli afrodiscendenti di Barlovento. Facendo vita comune a Tapipa, la prima delle tre parrocchie, hanno iniziato a servire anche le altre due: Panaquire a 10 km e Il Clavo a 30 km.

A novembre del 2018, dopo 32 anni, la responsabilità pastorale dei missionari della Consolata che lavorano a Barlovento, si è estesa alla vicina parrocchia di Caucagua, il capoluogo della regione, dove si sono trasferiti e da dove continuano a servire le parrocchie precedenti e le altre comunità cristiane (circa una quarantina), sparse sul territorio.

Sergio Frassetto

Nota:

1 – Con il termine afrodiscendenti si intende tutti i popoli e le persone di discendenza africana nel mondo. In America Latina, il concetto si riferisce alle diverse culture «nere» o «afroamericane» emerse dai discendenti degli africani, quelle sopravvissute alla tratta degli schiavi avvenuta nell’Atlantico dal XVI al XIX secolo.


Fino al 1854: la schiavitù

La tratta degli schiavi in Venezuela fu un fenomeno relativamente contenuto rispetto a altre nazioni come Cuba, Brasile, Colombia e Perù. La colonia spagnola del Venezuela era una delle poche che non possedeva metalli preziosi o altri prodotti che avrebbero permesso una prosperità economica immediata, così gli appetiti degli schiavisti furono attirati da altre regioni. I documenti dell’epoca indicano che, alla fine del XVIII secolo, il Venezuela aveva «a malapena» 60mila schiavi, una piccola cifra rispetto ai 450mila neri e mulatti liberi residenti allora nel paese.

Sfumato il mito dell’«El Dorado», i coloni si dedicarono all’agricoltura, e lo fecero sfruttando dapprima la manodopera indigena, e poi quella africana. Quest’ultima fu utilizzata nelle piantagioni costiere di zucchero, cacao, tabacco e caffè.

Il cacao, soprattutto, coltivato nella regione di Barlovento, fu all’origine di un processo relativamente rapido di accumulo di capitale e di ricchezza da parte dei coloni.

Lo schiavo era un investimento economico utile alla produzione di una determinata merce da collocare sul mercato internazionale. I diritti del padrone, codificati, recitavano: «I padroni hanno diritto di frustare i loro schiavi, di incatenarli o metterli ai ceppi, ma non di ferirli o di ucciderli. Se la punizione è stata eccessiva al punto di diventare scandalosa, il padrone può essere obbligato a vendere lo schiavo maltrattato a una persona meno crudele. E deve venderlo al prezzo di acquisto».

Il lavoro forzato e le sofferenze indicibili della schiavitù portarono molti uomini e donne alla ribellione e alla fuga. Nel 1721 le autorità calcolavano che fossero circa 20mila i fuggitivi chiamati «Cimarrones», nella zona di Caracas. I nomi Cumbo, Cumbito, Maroma, Quilombo, Rochelas, Palenque, ricordano ancora oggi quelle ribellioni e i luoghi nei quali avvennero.

Durante tutto il tempo della colonia, la Chiesa battezzò e catechizzò gli schiavi. Secondo molti, questo atteggiamento favorì l’istituzione della schiavitù. Secondo altri fu un’opera di misericordia per alleviare le loro sofferenze e aiutarli attraverso la famigliarità e la solidarietà che nascevano dal professare la stessa fede nell’unico Dio.

Rovesciato il regime coloniale spagnolo, nel 1811 la Giunta suprema di Caracas abolì la tratta degli schiavi, ma non la schiavitù che fu abolita del tutto solo nel 1854. (S.F.)

Religiosità afro

Le celebrazioni comunitarie, il gusto di fare processioni insieme, di rullare i tamburi per dare ritmo al canto, alla danza e alla musica, sono elementi caratteristici della cultura degli afrodiscendenti dell’America Latina.

L’aspetto religioso occupa un posto rilevante nella vita degli afroamericani ed emerge, soprattutto, nei periodi di crisi, negli eventi più importanti della vita, come la nascita e la morte, e nei tempi significativi della comunità, come le feste patronali, la Settimana Santa, il Natale.

Le espressioni della loro religiosità affondano le radici nell’incontro tra i culti e le tradizioni che i neri portarono dall’Africa e la prima evangelizzazione. Ne sono scaturite peculiari espressioni della fede che chiamiamo «religiosità popolare».

La suggestione simbolica delle immagini di Cristo e dei santi, proposte dai primi missionari, è calata nell’anima delle popolazioni afro, ma è vissuta quasi sempre in maniera slegata dalla storia evangelica.

Oltre alle radici religiose degli afrodiscendenti, e ai nuovi modelli sociali nei quali si sono venuti a trovare, ha contribuito a reinterpretare il significato di tali immagini l’esigenza degli schiavi di ritrovarsi, in terra d’esilio, per celebrare i riti dell’Africa e capirsi tramite il linguaggio dei tamburi.

Attraverso il culto dei santi, hanno cercato scampo alla dura condizione imposta loro dagli europei e hanno mantenuto vivo il dialogo con le divinità delle loro origini. (S.F.)


La Settimana Santa e la croce fiorita di maggio

Tra folklore e fede

Tra il venerdì che precede la Settimana Santa, chiamato «Venerdì del concilio», e il Sabato Santo, si susseguono a Barlovento otto processioni, chiamate «Passi», nelle quali si evocano i vari aspetti della passione del Signore. Ogni passo viene «illustrato» da immagini sacre collegate ciascuna a una confraternita che gestisce la processione con tutti i suoi corollari: candele, fiori, banda musicale e mortaretti.

Il sentimento religioso degli afroamericani di Barlovento si manifesta in modo speciale nelle celebrazioni della settimana santa che cominciano il venerdì che precede la domenica delle palme. Viene chiamato «venerdì del concilio», con riferimento al conciliabolo tra il Sinedrio e Giuda che, per 30 denari, vende Gesù.

Il venerdì del concilio è una giornata a carattere penitenziale. Viene esposta alla venerazione dei fedeli l’immagine della Madonna «dolorosa», una statua rivestita di un manto nero, con parrucca e merletti di foggia spagnola cinquecentesca, e con il cuore trafitto da spade.

La domenica delle Palme moltissima gente si accalca per ricevere il ramo d’ulivo benedetto; quindi, si inaugura la prima di una serie impressionante di processioni, che si susseguiranno per tutta la settimana. Le processioni costituiscono un elemento fondamentale della religiosità popolare afroamericana. Esse esprimono la dinamica delle peregrinazioni e simboleggiano il tema della vita: chi è vivo cammina e si accompagna agli altri.

Ogni giorno della settimana santa ha luogo un «passo», cioè la rievocazione di un episodio della passione del Signore per accompagnare Cristo sofferente, con il quale ci si identifica.

La domenica delle palme, alla sera, ha inizio il primo «passo», che ricorda Gesù che suda sangue nel Getsemani: viene portata in processione un’enorme statua di Cristo in ginocchio, sovrastato dall’angelo che gli porge il calice della passione.

Nei giorni seguenti si va in processione con altre statue: il lunedì con quella di «Gesù flagellato alla colonna», il martedì con quella di Cristo «umiltà e pazienza» e il mercoledì santo con quella del Nazareno che si apre la strada verso il Calvario.

Il Nazareno

Il Nazareno rappresenta Gesù, vestito di una tunica viola, che sale la collina del Calvario con la croce sulle spalle. È l’«uomo dei dolori», cantato dal profeta Isaia, che personifica tutto ciò che la gente vive e soffre. Nello stesso tempo riflette il volto di un Dio solidale, che si mette nel cammino della vita condividendone con noi i rischi e le conseguenze.

In questo giorno si «pagano» le promesse e i voti fatti a Dio durante l’anno: alcuni si vestono da «nazareni», altri fanno il «velorio», ossia vegliano accanto alla statua durante tutto il giorno, con una candela accesa in mano. La gente compie sacrifici che non farebbe in nessun’altra occasione.

Alla sera la gente partecipa alla processione: centinaia di mani sorreggono la portantina per tutte le strade del paese mentre si canta e si prega, rivivendo le stazioni della via crucis. Ogni cento metri la banda intona una marcia funebre. La processione si blocca e la statua viene fatta «ballare» avanti e indietro per tutta la durata della musica.

La processione dell’incontro

Il giovedì santo, dopo la messa vespertina, «si fa morire» Cristo prima del tempo, portando in processione il crocifisso.

Il venerdì, le processioni sono due. Al mattino, i fedeli accompagnano il crocifisso, seguito dalla bara di cristallo, alla cappella del Calvario, situata in cima al paese dove viene rievocata la deposizione dalla croce e la sepoltura.

Nel pomeriggio, la gente si riunisce di nuovo in chiesa per la tradizionale «adorazione della croce» e il «sermone» sulle «sette parole» pronunciate da Gesù in croce.

Alla sera, la popolazione si divide in due gruppi: il primo parte dalla chiesa parrocchiale portandosi dietro le statue della Madonna dolorosa, di san Giovanni e Maria Maddalena, ognuna montata sul proprio carroccio. Il secondo gruppo si raccoglie all’altro estremo del paese, nella cappella del Calvario. Da qui discende lentamente verso la chiesa, accompagnando il «santo corpo». È la «processione dell’incontro». A metà strada, infatti, la Dolorosa e le altre due immagini s’incontrano con Cristo morto, e gli fanno «la riverenza».

È il momento culminante della tradizione religiosa degli afroamericani, nessuno è disposto a perderselo. La gente si accalca, la banda fa ricorso alle note più ispirate e commoventi. Il carroccio della Madonna viene sollevato di peso e piegato in avanti: è la madre che fa la riverenza al figlio. Il rito si ripete per tre volte. Seguono le riverenze di san Giovanni e della Maddalena. Il popolo accompagna con esclamazioni di approvazione e applausi.

La Pasqua di Giuda

Per la maggioranza della gente la settimana santa termina il venerdì. Il sabato, dopo una veloce processione mattutina, chiamata «della solitudine», in cui la Madonna va in cerca del figlio morto, la gente dedica il resto della giornata all’allestimento del pupazzo di Giuda, in collaborazione con amici e vicini. Una volta pronto, il pupazzo viene esposto nei crocicchi delle strade.

La domenica di Pasqua, la gente diserta la chiesa e nel pomeriggio si lancia nell’ultima processione. Il «santo di turno» è proprio lui, Giuda Iscariota. I tamburi rullano, i balli sono sfrenati, i lazzi e le battute si sprecano senza pietà. Giunti sul luogo prestabilito, viene letto il «testamento di Giuda», nel quale sono nominate le persone a cui lascia i suoi averi. È l’occasione per prendere in giro le persone del paese che durante l’anno, per diversi motivi, sono state protagoniste della cronaca locale. Alla fine, il povero Giuda, impiccato al ramo di un albero, viene bruciato.

La croce fiorita di maggio

La Pasqua, tuttavia, non è dimenticata, ma viene «rimandata» al 3 di maggio, alla festa della Santa Croce. In questa ricorrenza legata alla fertilità e alla vita che rinasce, viene ricuperato il senso completo del mistero pasquale.

Popolarmente è chiamata «velorio», o veglia della croce. Comincia la sera della vigilia e si protrae fino al giorno seguente, intercalando preghiere e balli culminanti in una grande festa popolare.

Le radici della festa vanno cercate nelle tradizioni cristiane giunte dalla Spagna. Nei tempi più antichi, in Spagna si eleggeva una regina col nome di Maya, la quale evocava l’omonima dea romana e presiedeva le feste contadine di maggio e giugno; il suo trono veniva posto vicino a un albero.

A poco a poco si riempì questa ritualità con un contenuto cristiano: invece dell’albero si iniziò a piantare una croce e, dal primo giorno di maggio, la gente cominciò a collocare, all’entrata delle case, su piccoli altari, croci adornate di fiori. Si facevano offerte, non più a Maya, ma alla croce, che diventò quindi oggetto della festa popolare.

Questa tradizione, combinata con elementi religiosi autoctoni, ha dato origine all’attuale festa della «Croce fiorita di maggio». Oggi si celebra in tutto il paese, ma è soprattutto nella regione di Barlovento, tra gli afroamericani, che assume il carattere di manifestazione tipica della religiosità popolare.

Nel luogo prescelto, l’altare viene abbellito con fiori e teli colorati, quindi viene sistemata la croce vestita a festa: è bianca, sormontata da una ghirlanda di fiori, con ornamenti colorati sulle braccia. Sulla croce non c’è l’immagine di Cristo crocifisso. Egli, infatti, ha vinto la morte ed è risorto. Si tratta dunque di una croce pasquale.

La veglia dura tutta la notte ed è caratterizzata da rosari intervallati da litanie e balli cadenzati dai tamburi.

Il giorno dopo si celebra la messa solenne, alla quale i membri della confraternita partecipano con la loro uniforme rosso sangue. Segue la processione al monte della croce dove il presidente della confraternita offre al bacio della gente un ostensorio con una improbabile reliquia della croce.

Data la stretta relazione con la natura e la fertilità, la celebrazione della croce fiorita di maggio parla di creazione, vita, vittoria sulle forze del male, in altre parole, esprime la dimensione pasquale del mistero di Cristo.

Si stabilisce così una connessione ideale con il venerdì santo, quando le celebrazioni della Pasqua terminavano con la venerazione di Cristo nel sepolcro. Quello che apparentemente era un finale senza relazione con la risurrezione, trova la sua proiezione in questa festa: Cristo viene celebrato come vincitore della croce e della morte.

Sergio Frassetto


Il riscatto dell’identità afroamericana

L’attività pastorale dei Missionari della Consolata a Barlovento è tesa afar emergere i «semi del Verbo» presenti nella cultura degli afrodiscendenti. Essa è motivo di fiducia e speranza nell’attuale difficile situazione socio-economica.

Durante il periodo coloniale, agli schiavi, deportati per lavorare nelle fattorie di cacao della costa venezuelana, fu proibito manifestare la loro cultura e religione. Fu loro imposto il cattolicesimo, dando luogo a un sincretismo nel quale le immagini del culto cristiano vennero assimilate alle divinità delle loro religioni tradizionali.

I Missionari della Consolata, provenienti da altri contesti socioculturali e religiosi, sono andati incontro al popolo afro solidarizzando con la sua cultura e cercando di valorizzarla nelle sue multiformi espressioni.

L’obiettivo era, ed è, quello di riscattarne l’identità e i valori negati lungo i secoli, facendo crescere nel popolo la coscienza che «essere afro» è un valore che può integrarsi nella pratica di una vita cristiana autentica e che può incidere nella società.

Incontrare il popolo nella sua identità

Come dichiara il Documento di Aparecida (il documento conclusivo della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi – Celam -, tenutosi nella città brasiliana di Aparecida dall’11 al 31 maggio 2007): «Conoscere i valori culturali, la storia e le tradizioni degli afroamericani, entrare in un dialogo fraterno e rispettoso con loro, è un passo importante nella missione evangelizzatrice della Chiesa […]. La Chiesa con la sua vita di predicazione, sacramentale e pastorale aiuterà affinché le ferite culturali ingiustamente subite nella storia degli afroamericani non assorbano, né paralizzino dall’interno, il dinamismo della loro personalità umana, della loro identità etnica, della loro memoria culturale, del loro sviluppo sociale nei nuovi scenari che si presentano» (Aparecida n. 532).

Per lungo tempo la Chiesa non ha riconosciuto l’identità del popolo afro ed è necessario lavorare ancora molto per superare tante resistenze. Basti ricordare un piccolo esempio, ma dal forte valore simbolico: il rintocco delle campane, nel passato, serviva ad avvisare della fuga di uno schiavo. La chiesa non può usarlo per invitare il popolo nero a partecipare alle celebrazioni liturgiche. Succede infatti oggi che la campana sia lassù, nella torre campanaria, ma che l’invito alle celebrazioni venga fatto con la musica.

È un processo lento, quello dell’incontro della Chiesa con il popolo nero, portato avanti insieme alla gente, per individuare nelle espressioni proprie della sua religiosità «i semi del Verbo» e portarli a maturazione dando origine a una Chiesa dal volto afroamericano.

I missionari della Consolata di nuova generazione, provenienti dall’Africa e da altri paesi del continente americano, accompagnano gli afrodiscendenti di Barlovento nel percorrere questo cammino.

La violenza non ferma i missionari

Essi portano avanti la loro azione pastorale, fatta di incontro e di rispetto, a volte scontrandosi con grandi difficoltà, non ultima quella della sicurezza personale.

L’intero territorio di Barlovento, infatti, è controllato da gruppi criminali che attaccano, rapinano o rapiscono chi viaggia per le strade, come fanno, appunto, i missionari. Questi gruppi di «malandros» sono costituiti da ragazzi molto giovani. In diverse occasioni, i missionari e persino il vescovo locale, si sono ritrovati con le armi puntate alla tempia.

Non è un problema della sola zona di Barlovento. In Venezuela la violenza aumenta un po’ ovunque: secondo le statistiche, il paese ha 30 milioni di abitanti e circa 15 milioni di armi nelle mani dei civili. Nel 2020 sono state uccise circa 25mila persone. In assenza dello stato, le bande armate si organizzano nei loro feudi, come ad esempio nelle miniere d’oro clandestine, dove prevale la legge del più forte.

Nonostante tutto, i missionari continuano il loro servizio al fianco della gente. Non smettono di visitare le comunità per celebrare i sacramenti, organizzare catechesi, formare animatori, fare attività con i giovani e accompagnare le famiglie più bisognose.

A Barlovento la presenza dei Missionari della Consolata è motivo di fiducia per la gente che ha fede in un Dio che dà sempre a chi chiede ciò di cui ha bisogno, che si rende presente per chi lo cerca e che apre la porta a chi bussa.

Essi, oltre a venire incontro ai bisogni materiali delle persone, si preoccupano di mantenere viva la speranza divenendo presenza di consolazione spirituale.

Nella loro azione pastorale non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo messe o semplicemente visitiamo – dice uno di loro – basta passare per strada ed essere visti perché la gente dica che non è sola».

Di fronte alla drammatica situazione socio-economica vissuta dal Venezuela, molte persone vorrebbero andarsene dal paese, come quei cinque milioni e mezzo che sono emigrati in altre nazioni del continente. Ma vedendo che i missionari rimangono, cambiano di idea e restano a lottare.

Jaime Carlos Patias




IMC Venezuela 50: nelle periferie urbane

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale. La città di Caracas sorge al fondo di una valle, ed è circondata da baraccopoli, chiamate «barrios» o «barriadas»: terreno favorevole per i politici di turno che soffiano sul fuoco dell’emarginazione e della povertà.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Nei «barrios» di Caracas

Periferia esistenziale

Santiago de León de los Carácas (San Giacomo di León dei Carácas), così era stata battezzata dagli spagnoli questa terra abitata dagli indigeni carácas. La città, che oggi conta circa due milioni di abitanti, si distende al fondo di una valle a forma di Y, circondata da cerros (montagne) scoscese e franose. A chi viene da fuori, scendendo dalle pendici delle Ande della costa, e guardando dall’alto, la città appare trapuntata di palazzi e grattacieli, strade, piazze e giardini. Una moderna metropoli sudamericana.

Attraversandola, invece, percorrendo l’Autopista dell’Est che scorre al fondo della valle lungo tutto l’asse longitudinale della città, la visione ravvicinata è radicalmente diversa: ciò che colpisce l’occhio non sono i palazzi, ma le barriadas o rencherias, come vengono chiamate qui, ossia le baraccopoli cresciute lungo le dorsali dei cerros, inerpicandosi fino a raggiungerne la cima.

Sono le grandi periferie della capitale, i «quartieri popolari» come eufemisticamente vengono chiamati nei documenti ufficiali, veri e propri alveari umani formatisi nei decenni, al tempo delle vacche grasse in Venezuela.

Promesse (non mantenute) di Caracas

Dopo la caduta della dittatura militare nel 1958 e l’inizio della democrazia, le grandi città venezuelane hanno sperimentato una crescita demografica senza precedenti. Le speranze generate soprattutto dalle royalties del petrolio gestito dagli americani, hanno spinto la gente ad abbandonare le campagne aride e povere e a stabilirsi negli spazi liberi sui cerros, attratti dall’illusione di un lavoro redditizio e di un benessere immediato. È stato un fenomeno socioculturale importante che ha portato alla nascita dei barrios.

Molti, cercando fortuna, sono giunti anche da altri paesi come Colombia, Ecuador e Perù. Altri sono venuti da Cuba e dalle numerose isole dei Caraibi. Lo stesso dicasi di tanti italiani emigrati in Venezuela cercando un riscatto dalla povertà del loro paese d’origine.

La capitale, tuttavia, non ha risposto alle speranze della gente. La maggioranza delle persone migrate non ha incontrato quella «fortuna» che inseguiva. Poco a poco si è andato formando un esercito di gente disoccupata, sfruttata, delusa, frustrata e arrabbiata.

Il populismo di Chávez e Maduro

Proprio da queste periferie, il 27 febbraio 1989 sono scese le folle degli arrabbiati che hanno inscenato il famoso «Caracazo», una vasta manifestazione di protesta con saccheggi e devastazioni, che si è estesa anche ad altre città e che il presidente Carlos Andrés Pérez ha soffocato nel sangue con l’esercito lasciando sul terreno migliaia di morti. Ed è soffiando sul malcontento che ribolliva nelle barriadas che Hugo Chávez, il 4 febbraio 1992, ha tentato il colpo di stato contro Carlos Andés Pérez fallendo e finendo in prigione. Due anni dopo, il nuovo presidente, Rafael Caldera, lo ha liberato e, nella seguente tornata elettorale, il 6 dicembre 1998, Chávez è diventato presidente del Venezuela per la prima volta.

Qui, nelle barriadas, Chávez prima e, dopo la sua morte per cancro, Maduro poi hanno costruito lo zoccolo duro del loro potere alimentandolo con la borsa di viveri quindicinale, i medici cubani che, non avendo altro, distribuiscono la stessa pillola per ogni malattia, i concerti di salsa e merengue ad ogni angolo di quartiere, le magliette colorate con la faccia del «comandante». E molte altre trovate degne del populismo più bieco.

I missionari nel barrio

I Missionari della Consolata che negli anni Settanta muovevano i primi passi in Venezuela, attraversando la città, non potevano non osservare con curiosità mista a timore quegli alveari di mattoni, lamiere e cartone che dal bordo delle strade si innalzavano fin quasi a nascondere il cielo.

Quando hanno deciso di stabilire una loro presenza anche lì, tra i poveri e gli emarginati urbani, era il 2000. E da allora continuano a lavorarvi per portare consolazione.

Sergio Frassetto


Carapita

Salita al barrio

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale.

Percorrendo l’autostrada dell’Est, ai piedi delle baraccopoli di Caracas, un pensiero si affaccia nella mente dei missionari: ci sarà una chiesa in mezzo a quel formicaio umano? Chi può essere quel prete che ha il coraggio di spingersi in una simile realtà? Magari, noi. Ma il pensiero viene subito scacciato come una tentazione.

Con il passare degli anni, tuttavia, ci si abitua a tutto, e anche le barriadas diventano famigliari nello scenario urbano.

Ad azzardare i primi passi nel barrio di Carapita è padre Sandro Faedi, negli anni Novanta, accompagnando i seminaristi diocesani, dei quali è insegnante di liturgia e morale, a fare apostolato.

Successivamente, vi si spinge anche padre Andrea Bignotti, superiore delegato.

Lo invita suor Juanena che, durante la settimana, lavora presso un anzianato frequentato da padre Andrea e, nel weekend, fa apostolato in una delle cappelle del barrio.

Primi passi a Carapita

Parroco di Carapita è padre Andrés, sacerdote fidei donum belga. Sono alcuni giovani della sua parrocchia, membri del gruppo Joven misión delle Pom (Pontificie opere missionarie), a invitare i seminaristi nel loro barrio e nella loro chiesa. Ne nasce un’amicizia che sfocia in una collaborazione stabile di padre Andrea Bignotti e dei seminaristi con la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna di Carapita.

È proprio da questa collaborazione che, a poco a poco, matura l’idea di assumere la responsabilità pastorale della parrocchia.

Un discernimento fatto con attenzione

Il progetto emerge durante la visita canonica in Venezuela del superiore generale dei Missionari della Consolata padre Pietro Trabucco nel 1998. «Pensando ad un ulteriore incremento di missionari – scriverà -, si sta ipotizzando la possibilità di assumere una parrocchia nella zona periferica di Caracas, dove maggiore è la povertà della gente e il bisogno di un servizio missionario».

Quella di stabilire una nuova presenza in questa difficile periferia non è una scelta facile, e la comunità Imc nel paese ne è consapevole: «La nostra capacità di consolazione e liberazione è messa alla prova dalla situazione generale di povertà, marginalità, disoccupazione, disintegrazione famigliare, mancanza di sicurezza sociale, violenza, droga e prostituzione che condiziona un po’ tutte le nostre comunità, […] a questo bisogna aggiungere la situazione complessa di Patarata [una delle cappelle della parrocchia di El Ujano, nella città di Barquisimeto, nella quale i Missionari della Consolata lavoravano già dagli anni Ottanta] e di Carapita, comunità molto eterogenee e con gruppi umani di immigrati che hanno perso le loro radici culturali e che devono lottare per sopravvivere in una realtà a loro ostile», scriveranno i missionari negli atti della Conferenza della Delegazione Venezuela Imc celebrata a settembre del 2000.

Lo stesso arcivescovo di Caracas Antonio Ignacio Velasco García rimane sorpreso della disponibilità espressa dai missionari. «Ricordo che quando sono andato a parlare con l’arcivescovo di Caracas circa la possibilità di assumerci un impegno pastorale nella capitale, egli ci proponeva altre opzioni – scrive padre Agustin Barboza, superiore delegato nel 2000 -, ma noi abbiamo insistito per Carapita perché sentivamo che questa rispondeva meglio al nostro carisma; ed egli, ridendo, disse: “Questa vostra opzione vi fa onore perché Carapita è la parrocchia più difficile e chi va a Carapita certamente non sta cercando di fare carriera ecclesiastica”».

I missionari si sentono motivati dalle opzioni della Chiesa latinoamericana che a Puebla (1979) ha chiesto alle chiese locali di dare priorità nell’evangelizzazione, tra le altre, alle grandi periferie urbane che «vivono in una situazione di fede precaria, esposti all’influsso delle sette e di ideologie che non rispettano la loro identità, confondendo e provocando divisioni» (Puebla 366).

La priorità, del resto, è ribadita anche dal X Capitolo Generale dell’Istituto Imc tenutosi nel 1999, il quale, nel contesto del mondo attuale, vede realizzato l’essere missionari ad gentes anche nell’opzione per «le povertà urbane» nelle quali si trovano «i nuovi poveri, emarginati in tutto» (X CG 47).

Missionari delle periferie

Il 5 settembre 2000 i Missionari della Consolata assumono la responsabilità pastorale della parrocchia di Carapita durante una celebrazione eucaristica presieduta da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas. Lo accompagnano padre Manolo Collado, superiore delegato, padre Carlos José Osorio, nominato amministratore parrocchiale, i seminaristi Imc di filosofia e i fedeli della parrocchia.

È un passo fondamentale che, dopo l’apertura agli indigeni e agli afrodiscendenti, caratterizza l’opera dei missionari in Venezuela come rivolta anche alle «grandi periferie esistenziali del mondo», espressione che si udirà in tutta la Chiesa, solo nel 2013, quando il cardinale
di Buenos Aires, Mario Bergoglio, diverrà papa Francesco.

Sergio Frassetto


Vita nelle barriadas

Missione nei vicoli dell’alveare

Il lavoro di evangelizzazione e di cura pastorale nella parrocchia di Carapita è immenso. La popolazione del territorio conta 100mila abitanti, dei quali molti in condizioni di vita critiche. I Missionari della Consolata, ispirandosi alle indicazioni della chiesa latinoamericana, danno vita a una pastorale fatta di corresponsabilità dei laici e vicinanza ai poveri.

«Carapita è un alveare umano abbarbicato su una montagna franosa che fa da corona alla zona occidentale della città. Qui, più di 100mila persone vivono addossate le une alle altre in casupole di mattoni, lamiere e cartone», scrivono nel 2000 i missionari stabilitisi da poco nella realtà della baraccopoli. «È una situazione di totale emarginazione dove, non senza difficoltà, stiamo cercando di ambientarci. Qui vivono gli esclusi della società; qui si rifugia la criminalità rendendo pericolosa la convivenza umana. La maggioranza della popolazione è composta da lavoratori e da famiglie più o meno costituite; molte le persone dedite al commercio informale e ai lavori saltuari, ma per tutti, soprattutto per i giovani, la disoccupazione rimane il dramma principale e il terreno più propizio alla delinquenza finalizzata al guadagno facile.

Carapita è un mondo brulicante di umanità che si muove, lavora, canta, balla, litiga, minaccia, urla, batte, rompe, si lamenta, soffre… dal mattino alla sera e anche di notte, senza sosta. E, nonostante tanta precarietà, qui c’è gente generosa, buona, collaboratrice, che desidera essere aiutata a vivere ed esprimere la sua fede».

Ecclesiasticamente, il territorio è stato eretto a parrocchia dell’arcidiocesi di Caracas nel 1990. Il terreno su cui sorge il salone che fa da chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Gioacchino e Anna, era stato occupato nelle «invasioni» del 1984.

«La nostra comunità – proseguono i missionari – è costituita da tre confratelli. Ci aiutano un diacono permanente che vive e lavora in una delle cappelle della parrocchia, e tre comunità religiose femminili: las Misioneras de Cristo Jesús, las Hermanitas de los Pobres de Maiquetía e le Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta».

Oltre alla chiesa parrocchiale, esistono altre tre costruzioni che fungono da cappelle: La Gruta, Bicentenario e Santa Eduvige. Attorno a queste strutture si sono organizzate piccole comunità cristiane.

«Inoltre i nostri seminaristi – concludono -, con il loro formatore e alcuni laici del barrio, stanno iniziando un lavoro di incontro e amicizia con la gente. Sembriamo in tanti, ma in realtà siamo molto pochi dato che la popolazione che dobbiamo attendere si aggira attorno ai 100mila abitanti. Di tutta questa marea umana possiamo curare solo una piccola minoranza che non va oltre il 3%. Il lavoro da fare è enorme».

Tra pendenze e spazi risicati

Tra i problemi che i missionari devono affrontare fin dall’inizio c’è la mancanza di mezzi di trasporto: solo i veicoli a doppia trazione possono superare la pendenza vertiginosa dei vicoli del barrio. In più, il fatto di avere un veicolo proprio, vuol dire esporsi al pericolo delle bande che derubano e uccidono per molto meno. Così bisogna adattarsi ai «carritos por puesto», le jeep private che trasportano la gente su e giù per la montagna, che partono quando sono piene e arrivano quando possono.

Un altro problema è la mancanza di spazi adeguati a realizzare le attività parrocchiali. I missionari, quindi, lottano per accaparrarsi centimetro dopo centimetro lo spazio sufficiente per costruire, con l’aiuto dei tanti benefattori, un centro parrocchiale. Quando verrà ultimato nel corso del 2021, esso servirà da abitazione per i missionari e da struttura nella quale si svolgeranno la maggior parte delle attività formative, sociali e culturali della parrocchia.

Parrocchia missionaria

Il lavoro di evangelizzazione in questo contesto così vasto ed eterogeneo è molto complesso: è una vera sfida, sotto tutti i punti di vista.

I missionari, dopo aver analizzato la realtà, scelgono alcune priorità sulle quali concentrare le loro forze: la formazione delle Cebs (le comunità ecclesiali di base), per cercare di raggiungere le persone totalmente slegate dalla Chiesa; la pastorale della gioventù, dato che sono molti i giovani che vivono immersi nel mondo della droga e della violenza; la formazione di ministri laici, date le molteplici necessità; la pastorale più specificamente missionaria che include un lavoro sulla giustizia e la pace; la formazione sulla liturgia e la sua organizzazione.

Sono scelte perfettamente in linea con le opzioni della chiesa latinoamericana emerse a Puebla, Santo Domingo e, in seguito, ad Aparecida: «Sentiamo la necessità di creare una nuova forma di “fare” pastorale e di organizzare la parrocchia partendo da una pastorale più aperta, flessibile e missionaria» (Puebla 649; Santo Domingo 257), «promovendo le comunità ecclesiali di base e la formazione ministeriale dei laici» (Puebla 804-805; Santo Domingo 94-103).

Di qui lo sforzo di coinvolgere tutte le forze vive della parrocchia nell’elaborazione ed esecuzione del programma pastorale. Come aggiunge il Documento di Aparecida: «La conversione pastorale delle nostre comunità esige che si passi da una pastorale di mera conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (DA 370), concludendo che «i laici devono partecipare al discernimento, alle decisioni, alla pianificazione e all’esecuzione» (DA 371). Bisogna, dunque, avere «un atteggiamento di apertura, dialogo e disponibilità per promuovere la corresponsabilità e la partecipazione effettiva di tutti i fedeli nella vita delle comunità cristiane» (DA 368).

Organizzare una parrocchia immensa

I settori della parrocchia di Carapita, inizialmente cinque, con il tempo diventano sette, incluso quello della chiesa parrocchiale. Ogni settore rappresenta una comunità di base molto attiva, ciascuno ha la propria cappella (tra cui una dedicata anche alla Consolata), ogni cappella ha un responsabile e un consiglio pastorale con una propria giunta direttiva.

I coordinatori delle comunità e delle diverse pastorali formano il consiglio pastorale parrocchiale che, a sua volta, ha una giunta direttiva, guidata dal piano pastorale generale che contempla tutte le dimensioni della vita della parrocchia.

In ogni settore vengono portati avanti i vari aspetti della pastorale, suddivisa in 10 ambiti, tra cui catechesi, giovani, famiglia, donne, pastorale sociale, missione.

Sono presenti anche vari movimenti ecclesiali: «La Legione di Maria», «Luis Variara», «Ho sete» e «Lacci di amore mariano».

Come indica il Documento di Aparecida: «I maggiori sforzi delle parrocchie, in questo inizio del terzo millennio, devono tendere nella convocazione e formazione di laici missionari. Solo attraverso la loro moltiplicazione potremo rispondere alle esigenze missionarie del momento attuale» (DA 174). «A questo scopo – aggiungono i missionari in un altro documento-, a Carapita si cerca di diffondere la coscienza missionaria tra i fedeli. Un primo frutto è stato la nascita del gruppo missionario che […] va di casa in casa, nei settori più appartati del barrio, per evangelizzare le famiglie. Questo lavoro ha permesso la nascita di una nuova cappella, in un settore lontano, finora dimenticato dal lavoro pastorale. La cappella, intitolata alla Consolata, è stata benedetta il 15 giugno 2002, da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas, che si è complimentato con i Missionari della Consolata per il lavoro che stanno portando avanti».

Il grande impegno è quello di fare della parrocchia una «Comunità di comunità, evangelizzata ed evangelizzatrice, discepola e missionaria».

La «olla solidaria»

Fedeli al loro carisma, i missionari cercano di integrare l’evangelizzazione con la promozione umana. Il beato Giuseppe Allamano diceva: «Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra». Il Documento di Aparecida aggiunge: «Il ricco magistero sociale della Chiesa ci indica che non possiamo concepire un’offerta di vita in Cristo senza un dinamismo di liberazione integrale, di umanizzazione, di riconciliazione e di inserzione sociale» (DA 359).

L’instabilità politica e sociale del Venezuela del 2021 crea squilibri nella popolazione a tutti i livelli e costituisce una sfida alla missione della Chiesa. La crisi è più evidente nei servizi e nella mancanza di mezzi economici per acquistare i generi di prima necessità.

L’87% della popolazione vive in povertà  e, di questi, il 25% in povertà estrema. La maggior parte delle famiglie non riesce a sopravvivere con un solo salario minimo e molti si vedono costretti a frugare nella spazzatura per racimolare qualcosa da mangiare.

Come mezzo per alleggerire le difficoltà della popolazione più bisognosa, ogni domenica, dopo la messa, un gruppo di volontari della parrocchia prepara «la olla solidaria» (la pentola solidale): una grande pentola di zuppa che viene servita a circa 300 persone. Gli ingredienti sono provvisti dalla Caritas, da La Confraternidad e dall’Università Cattolica Andrés Bello (Ucab). Non mancano le donazioni private e la solidarietà di molta gente che condivide quel poco che ha. Così, in questo tempo di crisi, i cristiani di Carapita vivono con più fervore il comandamento dell’amore.

Nello stesso tempo, dal lunedì al venerdì, più di 300 bambini ricevono cibo nell’ambito del progetto «Fundación techo», nei locali della parrocchia, dove, tra l’altro, si svolgono la catechesi, i corsi di taglio e cucito per le donne, il doposcuola per i ragazzi, i corsi di musica, e si organizzano «giornate mediche» per tutti, in particolare per bambini e anziani.

Nella grande periferia esistenziale di Carapita, la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna si caratterizza per il servizio gratuito e totale a favore dei più deboli e diventa centro di incontri, di collaborazione e di comunione tra persone, gruppi e istituzioni. Il famoso «ospedale da campo» tanto caro a papa Francesco.

Un parroco psicoteraperuta

D’altra parte padre Rodrick Tumaini Minja, parroco di Carapita, laureato nel 2018 in psicoterapia, presta la sua collaborazione come parte del team interdisciplinare che si occupa del recupero e riabilitazione dei tossicodipendenti che vivono in strada e che chiedono assistenza alla Casa di accoglienza situata nel barrio di San Andrés; un progetto in cui lavorano tre congregazioni di religiose: Compacionistas, Missionarie di Cristo Gesù e Piccole Suore dei Poveri di Maiquetía.

«La nostra – dice il missionario – vuole essere, quella che il card. Baltazar Porras, amministratore apostolico della diocesi di Caracas, chiama “pastorale di speranza” e che l’Allamano chiamava “consolazione”: consolare la gente nella sua afflizione per i tempi difficili che sta vivendo».

Padre Jaime Patias, consigliere generale Imc, in occasione di una sua visita alla parrocchia, effettuata nell’estate del 2019 con il Consiglio Continentale dei Missionari della Consolata in America, scrive: «Ho potuto palpare da vicino lo sforzo grandioso e la dedizione dei missionari che lavorano in Venezuela, così come la vicinanza e l’affetto della gente. La situazione di crisi continua a colpire i più poveri e bisognosi. In comunione con loro, ringrazio Dio per la dedizione dei nostri missionari e missionarie e per la solidarietà di tutti con il popolo venezuelano, in particolare verso i migranti».

Sergio Frassetto