«Eat the rich» è la scritta posta su una scatoletta di cibo con il disegno di un ricco che viene «cotto» sopra un fuoco. È questa l’immagine provocatoria che fa da copertina alla 13ª edizione di «Top200», il report annuale (basato sui dati relativi al 2022) sulle principali multinazionali curato dal «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it), curato da Francesco Gesualdi. Il motto provocatorio richiama una celebre frase di Jean-Jacques Rousseau: «Quando il popolo non avrà più da mangiare, allora mangerà i ricchi». Così si capisce chiaramente da che parte stia chi ha predisposto il dossier.
Nel merito si tratta – come nelle precedenti edizioni – di uno studio puntuale, sia perché i dati riportati forniscono un quadro preciso della ricchezza delle imprese multinazionali, sia per l’attualità della problematica in un mondo che presenta enormi disuguaglianze.
Il sottotitolo – «la crescita del potere delle multinazionali» – sintetizza il risultato che emerge dal report. Anzitutto i profitti delle prime 200 imprese internazionali sono raddoppiati in dieci anni, passando da 1.089 a 2.054 miliardi di dollari. Nella classifica delle «top 200» società troviamo 62 multinazionali con sede principale negli Usa e 61 in Cina, che insieme rappresentano il 64,1% del fatturato: 17.770 miliardi su un totale di 27.722 miliardi di dollari. Al terzo posto si colloca il Giappone con 18 imprese e al dodicesimo l’Italia con tre società (Assicurazioni Generali, Eni e Enel).
Assai significativo per comprendere il potere delle imprese è il confronto tra le entrate degli stati e i fatturati delle multinazionali. Al primo posto ci sono gli Usa con 8.010 miliardi di dollari di introiti, al decimo troviamo l’India con 682 miliardi, seguita dalla prima delle multinazionali – la Walmart – con un fatturato di 611 miliardi. In questa classifica ibrida (stati e multinazionali insieme), ai primi 100 posti ci sono 72 multinazionali.
Il dossier, oltre a numerose classifiche sulle top 200 imprese mondiali, contiene quattro approfondimenti relativi ai finanziamenti pubblici alle imprese private, agli affari delle società che producono programmi di intrattenimento, alla crescita dei privati nel settore della sanità e alla presenza di mercenari nei teatri di guerra nel mondo. Proprio questi quattro focus rappresentano la parte più attuale e originale del report. Da non perdere.
Rocco Artifoni 17/09/2023
Meno Cpr più umanità
Complimenti per la rivista. A mio modesto parere per quanto riguarda gli immigrati che vengono in Italia via mare occorre trovare una soluzione in Africa, visto che il numero di affamati è enorme. Si può creare punti mensa nelle zone con maggiori problemi utilizzando i canali delle missioni e ong. Meno Cpr in Europa e più aiuti diretti in Africa. Cordiali saluti,
Giorgio Tagliavini 23/09/2023
Grazie signor Giorgio per le brevi parole che hai scritto alla vigilia della giornata mondiale dei migranti e rifugiati, a cui abbiamo dedicato il nostro editoriale del mese di agosto-settembre.
Su questo tema le parole di papa Francesco sono sempre di una profondità e chiarezza unica, che spesso però trovano resitenze incredibili e cuori duri come pietre. Più grave ancora è la strumentalizzazione dei drammi dei migranti a uso elettorale e la chiusura totale nel nome della propria identià culturale da difendere. È decisamente penosa l’impocrisia di chi grida contro certe parole denigranti, come «tribù», perché ritenute umilianti, ingiuste e discriminatorie, da sostituire quindi con altri lemmi più rispettosi della dignità di tutti, e poi di fatto ha idee, atteggiamenti e comportamenti decisamente tribalisti nella pseudo difesa della propria superiorità e soprattutto dei propri interessi.
Come già scritto e riscitto, non è con la chiusura delle frontiere e l’incolpare i trafficanti e scafisti che si risolvono i problemi, ma con una vera rivoluzione sociale ed economica nelle relazioni tra stati e popoli, soprattutto da parte dei paesi più ricchi.
Opinioni post Lisbona
Egregia Redazione,
leggo da tempo il vostro interessante giornale e sentendomi quasi in famiglia ho pensato di condividere con voi queste riflessioni, benché modeste.
La giornata della gioventù a Lisbona ha radunato molti giovani. Bello vederli attenti e in silenzio ad ascoltare le parole del Papa. Il messaggio di verità del Vangelo attira sempre ed è indispensabile per l’umanità. I media hanno sintetizzato il discorso del Papa con le parole «tutti inclusi nella Chiesa». Va benissimo tutti inclusi, ma ciò non vuol dire che si debbano accettare e avallare gli errori e i grandi peccati che si fanno. Bisogna distinguere la persona dall’errore. Va bene tutti inclusi nella Chiesa ma i pedofili per esempio sono stati fin troppo inclusi. Il Vangelo richiede verità; bisogna dire chiaramente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. I giovani devono sapere ciò che è sbagliato e chi compie tali errori deve essere invitato a correggersi. La pedofila è stata per molti la madre dell’omosessualità. A 14/15 anni i giovani sono ancora ragazzini e avrebbero bisogno di essere lasciati crescere serenamente in pace senza caricare sulle loro giovani spalle pesi così grandi come quelli dei dubbi sulla propria identità sessuale, come invece è di moda in questi tempi.
Personalmente ho visto il nascere di un atteggiamento gay in un ragazzo che aveva avuto esperienza di pedofilia. Nella scuola dove lavoravo c’era un quindicenne che si vantava con i compagni di sapere cose particolari sulla sessualità, gli altri rispondevano alle sue vanterie deridendolo. Alcuni invece lo ascoltavano perplessi e incuriositi. Lui voleva farsi vedere più emancipato e sperava così di attirarsi tanti amici, di essere più stimato ma a volte finiva col prendersi spintoni e insulti. Convocati i genitori, ignari di tutto, era emerso che, quando dovevano uscire di casa per il lavoro o per spese, mandavano il figlio da un loro vicino che sembrava affidabile ma che invece intratteneva questo ragazzino facendogli vedere video sulla omosessualità e rischiando così di creare nel giovane la «forte distorsione cerebrale e psichica che comporta l’omosessualità» (parole di un importante psicologo membro dell’Associazione internazionale di psicologia applicata). In seguito a queste esperienze subite questo ragazzo a 15/16 anni risultava quindi volersi indirizzare verso l’omosessualità. Un comportamento gay derivato da una pedofilia.
Purtroppo, la pedofilia risulta essere veramente all’origine di tanti casi di comportamenti gay. La chiesa ha il dovere di proteggere e salvaguardare ogni persona specie i giovani e per farlo deve dire ciò che è errore e danno e quindi peccato. La pedofilia e l’omosessualità che in genere ne è una derivazione sono un errore, un peccato, un danno più o meno cosciente per sé e per la società. Il normale bisogno di amicizia e affetto viene confuso con comportamenti sbagliati e contro natura.
Nella parabola sulla indissolubilità del matrimonio, a Pietro che di fronte all’impossibilità del divorzio dice che allora è meglio non sposarsi, Gesù risponde che non a tutti è dato di capire e che a volte occorre farsi eunuchi per il regno dei cieli. È però un linguaggio figurato. Non intende dire che occorre veramente farsi eunuchi ma che in certe situazioni bisogna comportarsi come se non sentissimo attrazione sessuale per l’altro sesso. Per rimanere fedeli a volte occorre veramente farsi eunuchi, cioè non ascoltare l’attrazione verso la donna che non è la propria moglie o viceversa verso l’uomo che non è il proprio marito.
Nella Chiesa invece sembra che alcuni abbiano preso alla lettera il farsi eunuchi traducendolo anzi in farsi omosessuali, per cui ci sono preti gay che continuano a svolgere il loro ministero pur comportandosi da omosessuali. Altri prelati sono sommessamente favorevoli ai rapporti gay causando così grande scandalo. Va bene accogliere tutti nella Chiesa ma non accogliere l’errore. Accogliere l’errante, ma dirgli chiaramente che deve impegnarsi a cambiare vita, non comportarsi più da gay ma vivere l’astinenza e non praticare rapporti sbagliati e contro natura.
[…] La chiesa anziché avallare i comportamenti omosessuali dovrebbe piuttosto rivedere l’ordine di celibato per i preti. Accettare anche preti sposati ma con una fede sincera, forte e disinteressata economicamente.
Certo, essere liberi da impegni familiari per poter andare ovunque ad annunciare il Vangelo è più generoso ed eroico ma si potrebbe accogliere anche chi desidera sposarsi. Meglio questo anziché accettare i comportamenti omosessuali. Non è assecondando le persone nei loro grandi errori che si guadagnano i fedeli. Cordiali saluti
Enrica B. 18/09/2023
Onestamente non credo che il messaggio centrale della Gmg di Lisbona fosse «Tutti inclusi», soprattutto nella sua interpretazione, come se papa Francesco avesse avvallato pedofilia e omosessualità. Lo slogan «Maria si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39), ha una portata molto più vasta e missionaria ed è un forte invito a non chiudersi, a non fare una vita da «seduti sul divano» e diventare concreti testimoni di amore in questo nostro mondo dilaniato da guerre, ingiustizie sociali, cambiamento climatico, povertà, disciriminazioni e intolleranza di molti tipi.
La sua lettera rivela comunque una sofferenza vissuta sulla sua pelle di fronte a fatti nei quali sono coinvolti anche dei sacerdoti dagli atteggiamenti certamente non evangelici. E questo mi richiama il dialogo che ho avuto pochi giorni fa con una catechista che mi raccontava della perplessità di una famiglia a mandare i suoi bambini al catechismo dopo aver sentito e letto di episodi di pedofilia da parte di sacerdoti.
Vorrei solo confermare che su omosessualità e pedofilia di persone religiose, la presa di posizione di papa Francesco e della Chiesa intera è senza equivoci. Occorre però tanta vigilanza e intelligenza per non cadere nella trappola della generalizazzione che conduce dalla colpa di un singolo sacerdote, o vescovo, o religioso o religiosa a mettere sotto accusa tutto e tutti.
Probabilmente nel futuro vedremo anche i preti sposati nella nostra Chiesa, ma non certo come soluzione alla pedofilia. Le statistiche dicono che gran parte degli abusi sessuali sui minori avviene tra le mura di casa.
Credo che per affrontare seriamente la situazione occorra smettere di cercare il capro espiatorio e di puntare il dito, ma impegnarsi a vivere con maggior coerenza, tutti e in fretta, l’insegnamento del Vangelo, consci che tutti siamo fragili e peccatori.
Per quanto riguarda il legame causa effetto tra pedofilia e omossesualità, non mi trova d’accordo. Non penso sia un caso particolare (da lei conosciuto), a dare la regola generale. Preferisco quindi separare le due situazioni.
Se la pedofilia è senza dubbio sempre un «errore, un peccato», come lei la definisce, più complesso è il discorso per l’omossessualtà, che può essere un «sentire» differente, un voler vivere i propri sentimenti sulla base di quello che si prova davvero, senza ipocrisia. In questo caso non è un «errore, un peccato». Papa Francesco ha detto infatti: «Essere omossessuali non è un crimine» e, inoltre, «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?».
Ricordando Don Delfino
Gent. Direttore,
vorrei ringraziarvi per quanto realizzate, in particolare sono stato molto sorpreso dall’articolo del 12 giugno 2023 «La grande avventura». Sono pronipote di don Delfino Bianciotto, da lui battezzato nel suo 49° anno di sacerdozio. Era lo zio e il padrino di battesimo di mio padre che portava il suo nome. Io fin da piccolo venivo premiato con dei favolosi soggiorni presso don Delfino. Il missionario Delfino era un mito di saggezza e di fede. Lo ammiravo passeggiare per ore nel giardino in preghiera leggendo il Vangelo. Quando si accorgeva di me, mi avvicinava facendomi ammirare Dio nel creato, in un fiore, un’ape, nel volo di un uccello. Mi diceva che la preghiera si svolge in ogni luogo e in ogni istante.
Avevo 11 anni quando don Delfino, il 2 aprile 1961, festeggiò i 60 anni di sacerdozio. Fu felice che in quell’occasione molti si ricordassero di Lui: (tra questi) padre Carlo Masera, suo coadiutore in Abissinia (così era chiamata allora l’Etiopia, ndr) nel Kaffa, il vice superiore generale dell’Istituto, padre Giuseppe Caffaratto, il provicario della diocesi (di Pinerolo) don Giovanni Barra. Gli arrivò anche il telegramma d’auguri di papa san Giovanni XXIII (io gli recitai una breve poesia).
La mia curiosità ed ammirazione di bambino per don Delfino era immensa. Chiedevo che mi raccontasse le sue straordinarie avventure e venivo accontentato.
Mi raccontava dei suoi viaggi favolosi e pericolosi, dei bambini felici come me, ma dal destino tragico che aveva conosciuto e soccorso, chi aveva perso i genitori per incidenti con animali della foresta, chi era stato rapito dai predoni ed era venduto schiavo dagli stessi. Si rammaricava di non aver potuto riscattare tutti quegli innocenti che aveva consolato avvicinandoli a Gesù. Salì al cielo il 27 luglio 1962. Il 16 agosto 2023 don Delfino sarà stato molto felice, per l’elezione a superiore generale dei Missionari della Consolata di padre James Bhola Lengarin del Kenya (un «pronipote» dei bambini che lui aveva incontrato e soccorso in Kenya). Cordiali saluti
Franco Bianciotto 02/09/2023
Padre Delfino Bianciotto nacque a Frossasco (To) il 27 marzo 1874. Ordinato sacerdote il 23 marzo 1901, dopo aver esercitato per alcuni anni il ministero nella diocesi di Pinerolo, il 4 agosto 1906 entrò nell’Istituto. Partì per il Kenya il 10 dicembre dello stesso anno e là lo troviamo quando il canonico Giacomo Camisassa compì la sua visita nel 1910/1911. Il 15 ottobre 1917 entrò avventurosamente in Etiopia come commerciante e si unì a monsignor Gaudenzio Barlassina aprendo una prima casa a Ghimbi, nel Kaffa. Nel 1922 tornò in Italia come rappresentante dei missionari d’Etiopia per il primo capitolo generale dell’Istituto. Nel 1932, scaduto il periodo per il quale si era legato all’Istituto, ritornò nella sua diocesi di Pinerolo.
Una storia americana
I Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946, in Canada l’anno seguente. La loro attività ha conosciuto anni d’oro, ma anche una fase di declino. Oggi i gruppi missionari dei due paesi del Nord America si sono uniti al Messico per affrontare assieme una nuova sfida, difficile ma entusiasmante.
Il Vangelo di Matteo – «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (28,9) – e il Vangelo di Marco – «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (16,16) – testimoniano che i primi discepoli di Gesù di Nazareth erano consapevoli di aver ricevuto dal Risorto il mandato di andare ad annunciare la sua parola in tutto il mondo.
Se questa evangelizzazione rimase confinata negli ambienti ebraici fin dai primi anni, san Paolo sentì il dovere di portare la buona notizia ai pagani: in Rm 1,1 si presenta come un «apostolo messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio». Gli Atti degli Apostoli raccontano i viaggi missionari di Paolo in Turchia, Grecia, Roma, e forse in Spagna. Nella sua lettera ai Galati, capitolo 2, Paolo spiega che Pietro fu mandato ai Giudei, mentre lui stesso fu mandato ai Gentili.
Questa epopea missionaria ebbe un tale successo che, all’inizio del IV secolo, l’intero impero romano sarebbe diventato cristiano e per secoli le comunità cristiane avrebbero creduto che il loro mandato missionario fosse completo e il Vangelo fosse stato annunciato a tutte le nazioni.
Il mondo è più grande
Fu nel XV e XVI secolo che ci si rese conto di quanto, oltre i limiti dell’Occidente, ci fosse ancora una moltitudine di esseri umani da raggiungere. In questa consapevolezza, ebbe un ruolo importante l’uomo che sarebbe diventato patrono delle missioni, San Francesco Saverio, il primo missionario gesuita e il primo missionario in Giappone.
I missionari iniziarono, quindi, a unirsi ai conquistadores portoghesi e spagnoli nella loro ricerca di nuove rotte verso l’Asia. Quando poi si comprese che la terra è rotonda e che la strada può prendere anche la direzione verso Ovest, i missionari accompagnarono i colonizzatori – soprattutto portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi – che si stabilirono nelle Americhe.
Ciò provocò una querelle che oggi è difficile da comprendere: la cosiddetta «disputa di Valladolid» tra Juan de Sepulveda (1490-1573) e Bartolomé de Las Casas (1484-1566).
Il primo riteneva che gli amerindi non fossero esseri umani e, di conseguenza, non ci si dovesse preoccupare delle loro anime e che potessero essere considerati come bestiame o schiavi; il secondo, al contrario, credeva che anch’essi fossero esseri umani con un’anima e, quindi, era necessario predicare loro il Vangelo perché potessero essere salvati.
In ogni caso, durante il primo secolo di colonizzazione delle Americhe, gli studiosi stimano che quasi il 90% degli indigeni scomparì, principalmente a causa di malattie contagiose portate dai coloni europei, ma anche a causa della violenza.
Evangelizzazione dal Sud al Nord America
Gradualmente, le Chiese cristiane costituirono comunità in tutta l’America con coloni provenienti dall’Europa.
In America Latina, nel XVI secolo, le comunità cristiane fondarono varie città: Buenos Aires nel 1536, Rio de Janeiro nel 1565, Cartagena (Colombia) nel 1533 e Quito nel 1534.
In Nord America, il cristianesimo prese piede con gli espolratori europei. Già nel 1524 l’italiano Giovanni da Verrazzano arrivò nei pressi di New York, che venne però fondata soltanto nel 1609 dagli olandesi che le diedero il nome di New Amsterdam.
L’evangelizzazione di questa parte delle Americhe fu opera dei missionari spagnoli in California, di quelli anglicani negli Stati Uniti e dei francesi in Canada. Tra i primi si ricorda Junipero Serra (1713-1784), un francescano che papa Francesco ha dichiarato santo il 23 settembre del 2015.
Nel 1534, l’esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) scoprì il fiume San Lorenzo. Fu però solo nel 1608 che ci fu il primo insediamento permanente – Québec (Ville de Québec) – per merito di un altro esploratore transalpino, Samuel de Champlain (1567-1635). Ciò che Champlain cercava era un pied-à-terre per acquistare le pellicce portate dagli indiani. Lo stesso obiettivo del commercio può essere visto come motivo della fondazione nel 1634 di una seconda città sulle rive del San Lorenzo, Trois-Rivières.
Québec fu la città dove operò la mistica francese Marie Guyart (Marie de l’Incarnation, 1599-1635, proclamata santa nel 2014). Santo è anche il suo primo vescovo, François de Montmorency-Laval (1623-1708). La sua diocesi copriva praticamente tutto il Nord America. Diversa è la storia della fondazione di Montréal, nata sotto il nome di Ville Marie (oggi quartiere della città canadese noto come Old Montréal, ndr), come missione presso gli aborigeni. Questo è il motivo per cui molti dei suoi fondatori sono stati riconosciuti beati o santi.
Popoli indigeni e martiri
I primi sacerdoti vennero per prendersi cura dei nuovi coloni. Tuttavia, molto presto i gesuiti e i recolletti (della famiglia francescana, ndr) iniziarono a voler evangelizzare gli aborigeni della Nuova Francia (nome di una vasta area del Nord America colonizzata dai francesi, ndr). Ebbero un certo successo con gli Uroni, ma penetrarono molto poco tra gli Irochesi, dove visse la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), la cui tomba si trova nella piccola chiesa all’interno della riserva di Kahnawake, appena a sud ovest di Montréal.
Il conflitto tra Irochesi e Uroni fece vittime anche tra i missionari. Tra il 1642 ed il 1649, otto missionari di origine francese subirono il martirio: sei sacerdoti gesuiti (Isaac Jogues, Antoine Daniel, Jean de Brébeuf, Gabriel Lallemant, Charles Garnier, Noël Chabanel) e due coadiutori laici (René Goupil e Jean de La Lande). Tutti furono dichiarati santi nel 1930.
Secondo Statistics Canada, dei quasi due milioni di aborigeni censiti in Canada, circa la metà afferma di non avere alcuna affiliazione religiosa, mentre poco più della metà sono cattolici. E qui si apre una questione delicata. Come ha dimostrato la «Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione» nel suo rapporto finale del 2015, i missionari, specialmente attraverso le «scuole residenziali» (scuole per indigeni; ne scriveremo in un futuro dossier, ndr) hanno collaborato a un «genocidio culturale», che avvelena ancora le relazioni tra le diverse comunità indigene e il resto del Canada, comprese le Chiese.
In The History of Québec Catholicism, lo storico Jean Hamelin parla di «colonialismo spirituale» e di «ambiguità dell’attività missionaria»: «Le missioni sono presentate come una questione di orgoglio nazionale».
Dopo la sconfitta francese nella battaglia delle pianure di Abramo nel 1759, i canadesi francesi sopravvissero raggruppandosi attorno alla Chiesa cattolica per sfuggire ai tentativi di assimilazione ed eliminazione culturale da parte dei nuovi governanti inglesi.
È questa Chiesa franco canadese che diventò una delle Chiese più missionarie del mondo: a metà del XX secolo, il Québec, con più di cinquemila missionari (1 missionario ogni 1.120 cattolici), seguiva soltanto l’Irlanda (un missionario ogni 457 cattolici), l’Olanda (uno ogni 556) e il Belgio (uno ogni 1.050 cattolici).
I Missionari della Consolata
Fu in questo contesto che i Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946 e in Canada nel 1947.
Non sorprende quindi che i padri Bartolomeo Durando (1901-1992) negli Stati Uniti e Luigi Amadio (1916-2010) in Canada ebbiano avuto difficoltà a trovare vescovi disposti ad accoglierli nelle loro diocesi.
Alla fine, i primi Imc si stabilirono in California e in una riserva indiana in Ontario. I primi accettarono di lavorare nelle parrocchie, ma ben presto la congregazione si rese conto che ciò non corrispondeva agli obiettivi ricercati, che erano l’animazione vocazionale e missionaria e la raccolta di donazioni per le missioni.
A tal fine, negli anni Novanta, l’istituto si trasferì negli Stati Uniti orientali e nella provincia canadese del Québec. Negli Stati Uniti furono importanti anche le attività di formazione e specializzazione, non solo per sacerdoti e fratelli, ma anche per i laici disponibili a dedicare qualche anno alla missione. Venti americani e una dozzina di canadesi diventarono missionari Imc.
Gli anni d’oro
L’età d’oro dell’attività missionaria Imc in Nord America furono gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985.
C’erano allora più di cinquanta Imc negli Stati Uniti e più di trenta in Canada. Negli Stati Uniti venivano pubblicati nove periodici, mentre in Canada erano almeno quattro.
Tra il 1976 e il 1986, Notre Dame Hall, il nostro Centro di animazione missionario di Montréal, inviò 1,86 milioni di dollari in assistenza finanziaria a più di dodici paesi di missione. Solo nel 1979, negli Stati Uniti, 257 parrocchie in 46 diocesi furono visitate per le giornate missionarie, che raccolsero circa 200mila dollari per le missioni. E il settore dell’assistenza missionaria inviava circa 150mila dollari all’anno per tutti i tipi di progetti missionari. Una trentina di studenti di origine africana vennero a studiare negli Stati Uniti.
La reazione al declino
Il declino è avvenuto molto rapidamente: la vocazione è scomparsa completamente negli anni Novanta e in questi due paesi nordamericani il numero delle comunità è passato da quindici a solo due negli Stati Uniti, e i membri da 60 a una decina ora in due comunità: una nel New Jersey e una in California.
Anche in Canada ci sono due comunità, una a Toronto e la seconda a Montréal con otto missionari Imc, sempre più spesso di origine straniera.
Per rivitalizzare la presenza in Nord America, la Direzione generale dell’istituto ha unito le circoscrizioni di Canada e Stati Uniti con quella del Messico (paese nel quale l’istituto è entrato nel 2008) formando, quindi, un’unica delegazione religiosa. Nelle nuove missioni messicane operano attualmente otto missionari, distribuiti su due comunità: una a Guadalajara (stato di Jalisco) e un’altra a Tuxtla Gutiérres (nello stato meridionale del Chiapas, vicino al confine guatemalteco).
Jean Paré*
* Missionario della Consolata canadese (Montréal, 1945), dopo gli studi a Montréal, Torino, Roma e Parigi, padre Jean Paré ha insegnato in Canada, Congo Rd e Italia (Università Urbaniana) e lavorato come giornalista in riviste ed emittenti radio (Radio Canada e Radio Ville Marie). Oggi vive e lavora a Montréal.
Le riviste Imc di Canada e Stati Uniti
Anima missionaria
Sono la responsabile delle tre riviste che l’Istituto Missioni Consolata pubblica nel Nord America: Réveil missionnaire (Rm, per il Canada francese), Consolata missionaries (Cmc, per il Canada inglese) e Consolata missionaries US (Cmus, per gli Stati Uniti, in inglese). Oltre alla sottoscritta, il nostro comitato di redazione comprende un redattore laico, Domenic Cusmano (italiano), e un redattore religioso, padre Jean Paré. Il primo è giornalista per le due riviste inglesi, mentre il secondo firma alcuni articoli e scrive di spiritualità, giustizia nel mondo e dialogo interreligioso. A turno, facciamo (in verità, più in passato che attualmente) i cosiddetti viaggi missionari sul campo sia per raccogliere materiale giornalistico sulle varie comunità Imc nel mondo sia per vedere i progetti per i quali raccogliamo fondi.
Il comitato di redazione pianifica le tre pubblicazioni che presentano un contenuto quasi identico. In Canada escono sei numeri all’anno, e precisamente cinque riviste di 16 pagine e un calendario di 32 pagine. Gli Stati Uniti, invece, producono quattro numeri all’anno, cioè tre di 16 pagine e un calendario. La tiratura di ogni numero è tra le 3.500 e le 5.000 copie.
Le riviste sono un essenziale strumento di comunicazione tra i Missionari della Consolata e tutti i nostri amici e benefattori. Ci permettono, infatti, d’informare i lettori sulle attività della missione, sulle storie di successo e, naturalmente, sulle molte sfide che i missionari devono affrontare ovunque essi operino. L’obiettivo è anche quello di rendere i lettori consapevoli della situazione dei più poveri e di toccare la loro anima missionaria.
Ghislaine Crête
I capitoli generali della famiglia Consolata, in un cambiamento d’epoca
Tra l’8 maggio e il 24 giugno si sono tenuti i due capitoli generali dei missionari e delle missionarie della Consolata. Le due assemblee hanno avuto anche una due giorni in comune, il 3 e 4 giugno, durante la quale hanno partecipato in collegamento online anche diversi laici missionari della Consolata, che completano la famiglia Allamaniana.
Il capitolo generale si tiene ogni sei anni. È un’assemblea della durata di circa un mese, durante il quale i delegati o le delegate degli istituti, provenienti da tutto il mondo, si riuniscono e condividono riflessioni, bilanci e programmi.
Infine, l’assemblea dei capitolari elegge i nuovi consiglieri, il (o la) generale e il (o la) vice generale, che saranno le guide dei rispettivi istituti fino al 2029.
In questo periodo storico di cambiamenti rapidi e profondi, pensiamo che i prossimi sei anni saranno fondamentali per i due istituti fondati da Giuseppe Allamano. Abbiamo dunque ritenuto importante raccontare in un dossier, senza pretese di essere esaustivi, le linee principali emerse dai lavori.
Ma.Bel.
Essere fuoco che accende
Il nuovo superiore generale dei Missionari della Consolata.
Padre James Lengarin è nato a Maralal, in Kenya. È il nono successore di Giuseppe Allamano. Forte di un’esperienza come formatore in Italia e nel suo paese, negli ultimi sei anni è stato vice di padre Stefano Camerlengo, generale per due mandati. Abbiamo raccolto le sue prime impressioni.
Decimo superiore generale dei Missionari della Consolata, eletto il 14 giugno scorso, padre James Bhola Lengarin è nato nel 1971 a Maralal (Kenya). È il primo generale di origine africana.
Padre James, lei è stato per sei anni vice superiore generale. Che cosa si porta dietro da questa esperienza?
«Quando entriamo nell’istituto pensiamo di conoscerlo, però in questi sei anni ho visto davvero la realtà dell’Imc, visitando tantissime missioni, in diversi paesi. Ho constatato che in ogni paese la missione ha il suo approccio. Ho incontrato tanti missionari che non conoscevo. Ci si incontra con le persone, si scambiano le impressioni e le esperienze, e questo ci fa innamorare ancora di più del carisma. Come diceva Giuseppe Allamano, lo spirito di famiglia è una cosa reale e concreta. Si condivide, si pensa, si sogna insieme.
Anche l’incontro con i popoli che accolgono i miei confratelli è stato importante. Lavorano e pregano con loro, iniziano a prendersi delle responsabilità nella chiesa, e sono stimolati a conoscere la nostra famiglia missionaria. E questo ti fa innamorare del genere umano».
Viviamo in un cambiamento di epoca. Quali sono le novità principali decise nel capitolo per affrontare i prossimi anni?
«Ci sono cambiamenti a tutti i livelli. Abbiamo fatto un’analisi delle sfide del mondo di oggi, sia quello esterno che quello interno all’istituto. Abbiamo deciso che è importante accettare di rinnovarci, e per farlo occorre una formazione continua. È una dimensione che ognuno di noi deve avere e che tocca tutto l’arco della vita. La formazione ci serve per non vivere di rendita. È come una rinascita che possiamo vivere anche andando a cercare nel nostro carisma delle novità. Il carisma è sempre lo stesso, ma il modo di applicarlo e viverlo deve essere diverso a seconda dei tempi e delle generazioni.
Un altro aspetto che ci fa riflettere è quello dei cambiamenti di vocazione: ci sono alcuni missionari che escono dall’istituto: possiamo imparare dalle loro motivazioni, e capire cosa non sta funzionando. Le nostre costituzioni sono attuali per questi tempi o c’è qualcosa da cambiare?
Nel 2026 saranno cento anni dalla morte del nostro fondatore. Al capitolo ci siamo detti che oltre a celebrare, dobbiamo riflettere e rispondere a delle domande: chi era questo papà? Cosa ci dice oggi? Cosa ci ha lasciato? Cosa abbiamo fatto bene, cosa resta da fare?
Quale può essere il ruolo dei laici nel futuro dell’istituto?
«Abbiamo riflettuto sul coinvolgimento dei laici nella nostra vita quotidiana. Ne parliamo solo come appendice o sono parte integrante del nostro istituto? Sono la terza pietra (missionari, missionarie e laici), facendo riferimento al focolare tradizionale africano? Abbiamo analizzato quali sono le problematiche che emergono a vivere con loro.
Abbiamo previsto di fare un incontro internazionale dei laici, nel quale si parlerà delle esperienze che abbiamo avuto e di come valorizzarle e, in condivisione con loro, si rifletterà su come dare un’identità chiara e ufficiale ai laici della Consolata. Porteremo avanti questo processo nei prossimi sei anni.
Penso anche alla componente Imc rappresentata dai fratelli missionari della Consolata. La loro importanza e il fatto che oggi sono solo trentuno è un richiamo per noi a essere più attenti a promuovere la loro vocazione».
E quale collaborazione con le missionarie?
«Attualmente ci sono due incontri all’anno tra le direzioni generali per organizzare alcune attività da svolgere insieme. Ad esempio, alcuni momenti di condivisione sul nostro comune carisma. Poi è un fatto che la loro presenza è diminuita dove siamo attivi noi e viceversa.
Al di là di questo, si è parlato anche della necessaria collaborazione con altre congregazioni religiose. Importante in questo mondo che cambia».
Come vede la missione in Europa?
«In Europa è cambiata la nostra missione. Il continente è stato la terra di animazione missionaria e vocazionale, fin dall’inizio. Si presentava la missione al popolo, anche per ottenere aiuti spirituali e materiali. Adesso l’Europa è diventata terra di missione ad gentes. Anche la rivista è cambiata: parlava del mondo della missione alle persone in Italia. Ora di cosa parlate? Anche della missione qui. Inoltre il mondo è cambiato e ha bisogno di altri modi di comunicare, messaggi veloci e corti.
Un altro grande cambiamento è l’attenzione a non avere più strutture pesanti, perché non abbiamo più persone che le riempiono».
Ci dica, secondo lei, qual è un punto di forza e uno di debolezza dei Missionari della Consolata oggi.
«Come punto di forza direi che abbiamo un istituto stabile, che rispecchia quello che il fondatore voleva che fosse.
Dal 1960 siamo rimasti in modo costante a circa 900 missionari.
È forte perché, oltre agli anziani, abbiamo più del 50% che sono giovani. Infatti, i confratelli di origine africana sono 520, e sono in maggioranza giovani. È dal 1970 che si sono iniziate a cercare vocazioni in Africa, e c’è stato un boom. Abbiamo, inoltre, una grande diversità culturale. Dall’età di 22 anni, i nostri giovani nelle comunità formative stanno insieme ad altri giovani provenienti da tutto il mondo. L’interculturalità è un valore importante nella nostra società.
Come punto di debolezza, invece, direi l’accompagnamento dei missionari. Negli anni passati essi erano formati in Italia e conoscevano bene carisma e gli insegnamenti del fondatore, e dunque li trasmettevano bene a noi studenti africani. In seguito, la formazione è stata presa in mano da confratelli di altre culture, ed è mancato qualcosa nel passaggio delle conoscenze. Dal 2011 anche la leadership è cambiata, i primi africani hanno cominciato ad essere superiori regionali o delegati, e anche in questo forse è venuto a mancare qualcosa dello stile originario.
Un altro aspetto che vedo è questo: siamo in tante missioni che non sono più di ad gentes. Abbiamo presenze belle, di accompagnamento delle persone nella vita quotidiana, ma nel nostro carisma parliamo di andare verso i non cristiani. Dobbiamo allora definire bene cos’è l’ad gentes per noi. Prima si sapeva bene dove erano i non cristiani.
Le sfide che il mondo ci propone possono diventare opportunità per dei missionari che sognano e che offrono la loro vita per dare una risposta giusta».
Si aspettava di essere eletto superiore generale?
«Non ero pronto a questo. La prima cosa che ho fatto è stata cinque minuti di silenzio ma anche di pianto. Mi sono trovato in difficoltà quando mi hanno chiesto se avrei accettato.
Mi sono detto, faccio la mia parte, non sono da solo, ci sono i confratelli. Niente è impossibile, ci vuole il tempo affinché l’impossibile diventi possibile.
Io vengo da una etnia che non ha un re, ma ha capifamiglia che formano un consiglio degli anziani.
Secondo me per tutte le cose è necessario coinvolgere gli altri missionari nelle loro responsabilità, così tutti i membri dell’istituto partecipano con la loro vita e diventiamo un fuoco che accende gli altri fuochi (Lc 2,49)».
Marco Bello
Un’esperienza che ti cambia
Il XIV capitolo generale dei missionari della consolata
Innanzitutto, un richiamo alla memoria della storia, poi l’ascolto della presenza nei quattro continenti, una riflessione sul futuro, infine l’elezione della nuova direzione generale. Il tutto passando attraverso due giorni di riunione di «famiglia» con le sorelle e i laici. Il racconto di un giovane padre capitolare.
Dal 22 maggio al 24 giugno scorsi, come Missionari della Consolata ci siamo riuniti a Roma per il nostro quattordicesimo capitolo generale.
Già prima di arrivare in casa generalizia sentivamo di avere ricevuto una grazia a partecipare a un evento speciale, che, in qualche modo, avrebbe dato un orientamento al futuro del nostro istituto. Grati per la fiducia riposta in noi da coloro che ci avevano indicati come delegati per quest’importante assemblea, percepivamo anche la responsabilità del lavoro che ci accingevamo a compiere.
Uno dei primi atti del capitolo è stato la firma, da parte di ogni missionario, della dichiarazione con la quale ci si impegnava a far sì che ogni intervento, decisione e azione fossero orientati unicamente al bene dell’istituto.
Il pensiero andava ai capitoli precedenti, a partire da quello del 1922 nel quale, per la prima volta, dodici missionari si erano riuniti per eleggere il superiore generale. Undici voti erano per per Giuseppe Allamano e uno per Filippo Perlo. Il Fondatore aveva replicato: «Non è possibile, bisogna rifare, io sono ormai anziano e ci vuole un giovane per guidare l’istituto», ma padre Tommaso Gays era intervenuto: «Padre, possiamo ripetere quante volte vogliamo la votazione, il risultato non cambierà». Tali e tanti erano l’affetto, la stima, la riconoscenza dei missionari nei confronti del Fondatore che rieleggerlo come superiore generale era qualcosa di naturale e prorompente.
Il capitolo del 1969 fu uno dei più significativi di tutta la nostra storia, perché aveva il non facile compito di ripensare la missione a partire dai documenti e dallo spirito del Concilio Vaticano II. La realtà e la responsabilità del «popolo di Dio» diventavano sempre più importanti e suggerivano nuovi cammini di inculturazione e di vicinanza ai percorsi di lotta per l’indipendenza, sia civile che religiosa, che molti Paesi avevano appena compiuto o si trovavano ad affrontare.
A confronto con la storia
Di fronte alla grandezza dei missionari che ci hanno preceduto, a confronto con le loro iniziative e realizzazioni, veniva da pensare: «Chi siamo noi?». Ci siamo fatti coraggio sentendo che, da un lato, provenivamo da una storia di dedizione e di amore ai popoli e alla missione e che, dall’altro, il tratto di cammino che ci trovavamo a percorrere era affidato proprio a noi, con i nostri limiti e talenti.
Il momento attuale è infatti di grande delicatezza e importanza, dato che, come ricorda papa Francesco, non ci troviamo tanto di fronte a un’epoca di cambiamento, quanto a un cambiamento d’epoca. Le sfide sono numerose e impegnative, ma dalla capacità di affrontarle e di trovare una qualche soluzione dipende niente meno che la sopravvivenza della nostra specie sulla faccia della Terra. Noi capitolari sentivamo quindi più che mai necessario dare il meglio di noi, nella fraternità e semplicità.
La straordinarietà del momento era percepibile anche dai tanti messaggi di vicinanza, affetto e preghiera che provenivano dai missionari e dalle missionarie, dai laici, dagli amici, persino dal papa. Il clima tra di noi è stato subito d’intesa e di gioiosa collaborazione, per cui le paure di contrasti, difficoltà, momenti di stallo, sono presto svanite. I capitolari rappresentano in qualche modo l’intero istituto ed era dunque naturale che la maggioranza avesse origine africana. Nei momenti di preghiera, durante il canto, si sentiva la forza delle tradizioni che hanno sempre dato importanza alla musica e al canto corale, fatto di varie voci che, con potenza, si fondono in armonia.
In ascolto
I primi giorni del capitolo sono stati dedicati all’ascolto delle sfide del mondo, tramite l’intervento di alcuni esperti, e della nostra realtà d’istituto, attraverso le relazioni dei superiori e degli amministratori. Un capitolo dovrebbe aiutare a capire come rispondere alle esigenze che emergono dalla realtà sociale contemporanea e provare a dare alcune risposte ai problemi e alle difficoltà che l’istituto si trova ad affrontare.
Ci siamo resi conto che era necessario provare a riflettere su cosa sia l’ad gentes oggi, cioè come portare la «Buona notizia» a quelle persone e realtà che ne sono distanti. La salvaguardia del creato, la promozione di mentalità e atteggiamenti di pace, l’accoglienza della sensibilità delle donne, la vicinanza alla strada dei tanti migranti, l’ascolto dei giovani, la collaborazione con le chiese locali sono realtà in cui siamo chiamati a essere presenti e a portare una parola e un’azione capaci di costruire relazioni e condivisione.
Abbiamo trovato un istituto vivo e appassionato, che ha ancora voglia di camminare insieme ai popoli, ma qualche volta stanco, un po’ disilluso e incapace di continuare a immergersi in quegli ambienti sfidanti che costituiscono le frontiere della missione.
Accanto al desiderio di trovare nuovi stili di missione adatti all’oggi, abbiamo trovato anche nostalgia per il passato e resistenza al cambiamento, in contrasto con l’apertura alla novità caratteristica del nostro Fondatore. Lo studio della nostra storia, il ritorno al carisma, il contagio da parte della passione missionaria di tanti uomini e donne che ci hanno preceduto deve aiutarci a riprendere con rinnovato slancio la voglia di consumare la vita per costruire comunità e per aiutare altri a condurre con dignità il loro percorso esistenziale.
La multiculturalità che caratterizza l’istituto è sicuramente una ricchezza, ma necessita di cammini che trasformino «l’essere insieme» in un desiderio di collaborazione, di accettazione e valorizzazione delle diversità, di un impegno a vivere e lavorare in cordata. Siamo, infatti, chiamati a costruire un istituto che sia un vero riflesso del Regno di Dio, dove genti di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (Ap 7,9) possano vivere e lavorare in armonia e fratellanza.
La Parola
Il testo biblico che ci ha ispirati durante i lavori capitolari è stato l’incontro di Filippo con l’Etiope funzionario della regina Candace (At 8,26-40). «Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: “Capisci quello che stai leggendo?”. Egli rispose: “E come potrei capire, se nessuno mi guida?”. E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: “Come una pecora egli fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, la sua discendenza chi potrà descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. Rivolgendosi a Filippo, l’eunuco disse: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?”».
Filippo non inizia a predicare, prima di tutto si fa compagno di viaggio e si mette in ascolto, poi fa una domanda e di conseguenza è invitato a salire sul carro e a spiegare il passo.
Ogni testo della Scrittura diventa significativo quando incontra la nostra realtà, quando lo sentiamo valido e vitale per la nostra condizione attuale. La domanda dell’Etiope mira proprio a questo: il testo biblico parla di un servo sofferente che è stato umiliato, ma al quale è promessa una grande discendenza, e anche l’Etiope, reso eunuco da chi l’ha voluto al servizio della regina Candace, vorrebbe con tutto se stesso essere fecondo, poter avere in qualche modo una discendenza. Filippo, parlandogli di Gesù, gli annuncia una speranza.
E noi? Riusciamo come singoli e come comunità a lasciarci plasmare dalla Scrittura e a «raccontarla» in modo che sia significativa per chi l’ascolta? «L’episodio dell’annuncio di Filippo all’eunuco ci incoraggia ad un cambiamento di direzione: dall’attesa all’uscita che porta ad ascoltare, a correre, a servire, a stare lungo la strada sporcandosi le mani e camminando con le persone. Anche noi siamo chiamati a essere Chiesa in uscita, a “sederci accanto”, ad accompagnare e poi a lasciar andare perché il Vangelo genera libertà».
Family workshop
Uno dei momenti più intensi di tutto il percorso capitolare è stato senza dubbio il fine settimana insieme alle suore e agli altri missionari, missionarie e laici collegati online. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, entrambi professori alla Cattolica di Milano, ci hanno presentato alcune riflessioni sugli atteggiamenti missionari più importanti per raggiungere i giovani che desiderano una Chiesa più aperta, autentica e accogliente; il cardinale Luis Antonio Tagle ci ha offerto un intervento appassionato e ricco di esperienze personali suggerendoci di lasciar perdere le «strategie» per preferire «l’alleanza» con la Parola, ma anche con le persone, che quando si sentono capite, accolte e valorizzate, danno il meglio di sé. I laici hanno fatto sentire con forza la loro voce e il loro desiderio di pensare, sognare e realizzare la missione insieme a noi.
Vicinanza nella distanza dunque, ma anche incontri, sorrisi, parole scambiate con un sentimento di reale fratellanza e sorellanza e con la voglia di pensare a un cammino congiunto da portare avanti insieme ai giovani, a un coinvolgimento più profondo nel mondo del digitale, insieme al desiderio di mettersi in ascolto del grido che i popoli e il pianeta fanno sentire, per tentare di abbozzare qualche riposta.
Da qualche tempo a questa parte si è inaugurato un modo nuovo di collaborazione tra missionari, missionarie e laici, in cui ci si interroga, alla pari, su come affrontare le sfide che la realtà pone e si prova a individuare, con l’apporto delle diverse sensibilità e competenze, alcune strade percorribili.
Molto è ancora il cammino da fare, perché non sempre si è preparati a questo tipo di collaborazioni, eppure è più che mai necessario procedere insieme se si desidera ancora essere significativi nella realtà contemporanea.
Votazioni
Uno dei tempi più attesi e preparati di tutto il capitolo è stato senza dubbio l’elezione del superiore generale e del suo consiglio. Fin dall’inizio e ancor prima, ci si interrogava su chi sarebbe potuta essere la persona più adatta per questa importante responsabilità. I lavori di gruppo, il pellegrinaggio ad Assisi, i momenti informali, oltre alle sessioni in plenaria, sono stati occasione per conoscersi nel modo di pensare, di lavorare, di affrontare i problemi e per confrontarsi sulla scelta da fare.
Il giorno antecedente alle elezioni è stato interamente dedicato alla preghiera e al discernimento, guidati dal preposito (superiore, ndr) generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal. Al termine del ritiro ci sono state le cosiddette mormorationes, momenti di dialogo a due in cui, con rispetto e realismo, ci siamo confrontati sull’opportunità di eleggere un dato missionario.
Questo capitolo ci ha riservato una sorpresa che tra l’altro era la cosa più naturale per la realtà di oggi: il primo superiore africano dell’istituto. Chissà se il Fondatore si era mai immaginato che qualcuno di coloro che avrebbero ricevuto l’annuncio, magari un pastore samburu sensibile, attento, intelligente, un giorno sarebbe diventato non solo cristiano e poi missionario e formatore, ma anche, dopo un lungo cammino, il superiore generale del suo istituto?
Alle radici
È stato significativo il viaggio a Torino che ci ha portati a contatto con la Casa Madre, con i nostri confratelli di Alpignano che, pur nell’anzianità e a volte nella sofferenza, portano nel cuore le persone, i popoli, i paesaggi in cui hanno speso i loro anni di missione e continuano ad accompagnarli con il pensiero e la preghiera. Incontrare missionari con cui si è lavorato o che sono stati di esempio per noi e stimolo nella missione è sempre un momento di grande intensità. Vederli così fragili e a volte sofferenti tocca nel profondo.
Spontanea scaturisce la riconoscenza per la loro vita spesa a servizio della missione e anche il proposito di recarsi qualche volta in più a trovarli, per farli sentire meno soli, ma anche per essere contagiati dalla passione per la missione che li ha portati fino a lì.
Il capitolo ha deciso che le famiglie dei missionari devono essere accompagnate di più, in modo particolare nei momenti di maggiore difficoltà.
Immancabile la celebrazione dell’eucarestia al Santuario della Consolata che è la culla in cui il nostro istituto è stato pensato, sognato e diretto per tanti anni da Giuseppe Allamano e dal suo fedele collaboratore Giacomo Camisassa.
Dopo un mese di lavori intensi, il capitolo è terminato. Quale sintesi? Innanzitutto è stato un tempo speciale che ci ha posti a contatto gli uni con gli altri e con le realtà più stimolanti e più problematiche della nostra famiglia consolatina e del mondo. Il documento conclusivo non propone nuove ricette missionarie, ma vuole aprire alcuni cammini che coinvolgano missionari, missionarie e laici e che ci portino ad approfondire il nostro ad gentes oggi e a pensare una formazione che prepari i giovani e poi accompagni i missionari a sentirsi in sintonia con le persone e le realtà all’interno delle quali siamo chiamati a offrire il nostro umile, ma significativo contributo.
Il sogno, che deve tramutarsi in realtà, è quello di un istituto che provi a fare di tutto per essere una comunità interculturale dove le differenze di pensiero e di stile non costituiscano occasione di divisione, ma di ricchezza, e che rinnovi la passione e l’impegno per offrire qualche proposta significativa a una realtà che, in mezzo a tante difficoltà, non smette di sentire il fascino della bellezza, anche spirituale.
Un primo frutto delle fatiche capitolari è senza dubbio l’amicizia che si è creata tra di noi e il cambiamento che la conoscenza delle realtà del nostro tempo e della nostra famiglia missionaria ci spinge a realizzare nelle nostre vite e nella
missione.
Piero Demaria
Vivere la missione in comunione
La nuova Madre generale delle Missionarie della Consolata
Suor Lucia Bortolomasi è nata a Susa (To). Ha fatto parte del primo gruppo che ha aperto in Mongolia nel 2003, mentre negli ultimi sei anni è stata nella direzione generale. È consapevole dei limiti del suo istituto, ma anche dei suoi punti di forza. Ci parla di carisma, di giovani e dell’importanza della «famiglia» della Consolata.
Suor Lucia Bortolomasi è nata nel 1965 a Susa, in provincia di Torino. È entrata nelle Missionarie della Consolata nel 1987 ed è partita per la missione in Mongolia nel 2003, nel primo gruppo, e vi è rimasta 14 anni. Negli ultimi sei anni è stata consigliera generale. Il 28 maggio scorso, durante il XII capitolo generale, è stata eletta superiora del suo istituto.
Suor Lucia, in un cambiamento di epoca, quale sono le nuove sfide per le Missionarie della Consolata e come affrontarle?
«Per noi il Capitolo è stato una benedizione e una grazia. Ci siamo trovate come famiglia, anche se stiamo diminuendo di numero, ma questo non ci ferma, perché abbiamo nel cuore la passione per la missione.
È stato un momento in cui abbiamo ripreso tutto il nostro cammino, abbiamo visto la presenza dell’oggi, dove siamo, come viviamo, con che stile, per proiettarci verso il futuro. C’è stata una riflessione sui tre temi: la missione, il carisma e le presenze.
Durante gli ultimi sei anni è stato elaborato il documento della Ratio missionis, approvato al capitolo. È un documento che ci ha dato una prospettiva ed è frutto di un lavoro collettivo. A partire da una bozza iniziale tutte le sorelle hanno potuto dare il loro apporto.
Il secondo tema trattava del tesoro del nostro carisma. Abbiamo discusso e approfondito su come ravvivare il carisma, datoci da Giuseppe Allamano.
Il terzo tema prevedeva il ridisegnare le presenze. In sintesi vuol dire chiudere dove c’è già la chiesa locale che può camminare, e non c’è più bisogno di una nostra presenza, e proiettarci invece su luoghi e in ambiti dove non c’è presenza di chiesa.
Durante il Capitolo abbiamo sentito un richiamo forte a vivere la grazia della piccolezza, una chimata che lo Spirito dirige a noi come istituto, oggi: un cammino che ci aiuta a non porre l’attenzione sulle nostre capacità, ma sulla fiducia in Dio. Non siamo nate per le grandi strutture o le grandi opere, non siamo state fondate per realizzare grandi progetti, siamo chiamate da Dio a prenderci cura della persona ad ascoltarla e annunciare l’amore di Dio.
Oltre a tutto questo, in maniera trasversale, abbiamo parlato molto di comunicazione. Ormai vediamo che è un aspetto importante, è come una missione. L’ambito della comunicazione è diventato una missione ad gentes, nel quale puoi raggiungere tante persone.
Abbiamo dunque deciso di realizzare un ufficio centrale della comunicazione. Esso raccoglierà tutti i nostri sforzi in questo ambito, e sarà come una presenza nel continente del mondo digitale».
Quante siete attualmente e che prospettive avete?
«Siamo circa 500, presenti in diciotto paesi. Le giovani in formazione provengono in maggioranza dall’Africa, qualcuna dall’America Latina, in questo momento ci sono 19 novizie.
Una delle priorità dell’istituto è la cura delle sorelle anziane e malate, che dopo anni dedicati alla missione, quando le forze vengono a mancare per età o salute, continuano a servirla nella preghiera, nell’adorazione eucaristica, nell’offerta della sofferenza, unendosi più intimamente all’opera redentrice di Cristo. Un’altra priorità è quella delle giovani generazioni, due realtà che in questo momento hanno bisogno di attenzione particolare per la vitalità della nostra famiglia. Sono le radici e i germogli. Siamo un’istituto in diminuzione numerica, un piccolo gruppo di sorelle, con una grande passione per Dio e per la missione nel cuore».
Come interessare il mondo dei giovani alla missione?
«Non lo so, però credo fortemente che se siamo fedeli al nostro carisma e viviamo con radicalità il Vangelo e lo testimoniamo con la nostra vita, sicuramente i giovani si porranno delle domande.
Anche durante il capitolo si è parlato del bisogno dei giovani, della loro sete di cose vere. Ci sono tante situazioni di fragilità, dove noi dobbiamo essere presenti per donare speranza».
Come vede la collaborazione tra uomini e donne della famiglia Consolata? E il ruolo dei laici?
«È un segno dei tempi, sorelle e fratelli che insieme testimoniano che è bello credere in un Dio che ama. Questo richiede rispetto e un grande desiderio di vivere la missione come famiglia unite ai nostri missionari e ai laici. Penso che ci sia la volontà di condividere e vivere la missione assieme. Un esempio è la Mongolia, un’apertura missionaria pensata e voluta dai due istituti generali, e poi vissuta insieme. La missione in Mongolia non sarebbe quello che è adesso se non fossimo stati insieme, se non avessimo, pensato, riflettuto, pregato e vissuto l’apostolato. È bello pensare a una missione vissuta in comunione e arricchita dalla presenza dei laici, di famiglie, che condividono lo stesso carisma. Il fondatore è unico, il carisma è unico, che cosa ci impedisce di sederci e riflettere per vivere la missione? La comunione sempre arricchisce.
Un’animazione missionaria fatta con femminile e maschile sarebbe una ricchezza. Più efficace. Spero che si possa andare avanti su questa strada, perché le possibilità ci sono e anche il desiderio».
La missione in Europa è diventata ad gentes?
«Per il nostro Istituto, l’Italia è la culla dove siamo nate: in Europa ci sono i luoghi della nostra spiritualità, il cuore del carisma, le radici dell’istituto. Sono luoghi sacri, un dono per tutti. Siamo chiamate a mantenerli vivi, a valorizzarne il significato.
L’Europa ci interpella anche a trovare nuove forme e stili nuovi di essere e fare missione oggi. Alcune presenze sono divenute spazi di consolazione e vicinanza per i migranti, le donne che vogliono spezzare le catene della tratta. Da poco abbiamo iniziato una presenza missionaria a Ruffano, in Puglia. Siamo in una parrocchia dove cerchiamo di sensibilizzare la Chiesa alla missione e ad avere un’attenzione particolari ai giovani e a chi ha bisogno di consolazione.
Vorrei sottolineare però che noi come Istituto, per rispondere al nostro carisma, siamo chiamate ad andare dove non c’è una presenza di Chiesa o dove ci sono popoli che ancora non hanno sentito parlare del Vangelo, di Gesù. Qui in Europa c’è una presenza di Chiesa molto valida, che può servire e donare; invece, ci sono parti del mondo che sono dimenticate, è lì il nostro posto».
Marco Bello
Il fuoco della missione
Reportage dal capitolo delle missionarie della consolata
Ventotto sorelle dai quattro continenti si sono riunite per un mese nella casa di Nepi (Viterbo). Hanno analizzato la presenza dell’istituto nel mondo e riflettuto sulle sfide della missione del futuro. Dal 1910, anno della fondazione, questo è il dodicesimo capitolo generale. Il racconto di una testimone d’eccezione.
Dall’8 maggio all’8 giugno 2023 si è svolto il XII Capitolo generale delle Suore Missionarie della Consolata dal titolo: «Il fuoco della missione».
Un fuoco in un braciere: questa immagine viva e scoppiettante ha accompagnato la preghiera iniziale della nostra assemblea capitolare, ed è rimasta impressa nei nostri occhi e cuori durante tutto il capitolo. Nei primi giorni il tema del fuoco è stato abbordato da diverse angolature: dal punto di vista biblico e spirituale ha alimentato la nostra preghiera personale e comunitaria. Ma perché questo simbolo?
La metafora del fuoco era usata dallo stesso nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che affermava energicamente: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Fuoco come passione per Cristo e per l’umanità. E questa eredità carismatica ha letteralmente scaldato i cuori dell’incontro capitolare, che ha riaffermato la missione ad gentes come senso del nostro esistere nel mondo e nella Chiesa.
Lo spirito di corpo
Ventotto sorelle, di nove nazionalità e diverse generazioni, provenienti da quattro continenti: quello che a prima vista può sembrare un gruppo estremamente variegato, in realtà ha vissuto una profonda unione di cuore e di mente.
Lo «spirito di corpo» additato dal beato Allamano come ideale e modello di vita per la nostra famiglia missionaria, è stato percepito dalle capitolari come una realtà di corpo piccolo e unito, attorno al fuoco della missione, che è anche il fuoco del carisma. Una tale esperienza non può che essere un dono di Dio e dello Spirito Santo.
«Il capitolo è stato una benedizione – ricorda suor Getenesh, missionaria della Consolata etiope, formatrice delle giovani aspiranti missionarie in Etiopia – è stato un’esperienza bella di condivisione e di ascolto. Giunte da diversi continenti, e con esperienze molto differenti, tutte siamo arrivate a un’armonia e intesa particolari. Il capitolo è stato un’esperienza dello Spirito Vivente. Porto nel cuore tanta gratitudine a Dio, alla Consolata e al padre fondatore».
Per questo, in tutte noi sorelle, ricordando il capitolo appena vissuto, il cuore si colma di molta gratitudine e commozione.
I temi del capitolo
Il capitolo è un’assemblea che si tiene ogni sei anni, nella quale si valutano i cammini realizzati e si proiettano i cammini futuri. Inoltre, si elegge la nuova direzione generale dell’istituto.
Sono stati due i grandi temi in agenda, dai quali sono scaturite le linee guida e le priorità per il sessennio che inizia: l’approvazione della Ratio missionis, documento del diritto proprio dell’istituto, e il «Tesoro del carisma», sviluppato dall’intercapitolo (assemblea di preparazione del capitolo). Alla luce di questi due temi, si è riflettuto quindi sulle nostre presenze. La redazione di una Ratio missionis era stata indicata dal precedente capitolo 2017 come uno degli impegni del sessennio. La finalità di questo documento era raccogliere la ricchezza carismatica e i cammini compiuti nel primo secolo di vita della congregazione, e pensare alle linee guida della missione nell’oggi e nel futuro. Nel 2018 si è costituita un’equipe di cinque sorelle con diverse esperienze missionarie e competenze. Confrontandosi con esperti e rileggendo il vasto materiale prodotto sul tema della missione, l’équipe ha redatto una prima bozza, che è stata mandata a tutte le sorelle e a persone esterne, competenti sul tema. Gli apporti di grande qualità giunti all’équipe sono stati integrati in una seconda bozza, che è stata presentata all’assemblea capitolare 2023.
Nella Ratio missionis sono presentati i fondamenti della missione ad gentes, a livello biblico, teologico, ecclesiale, e carismatico. Segue una riflessione sugli elementi carismatici missionari che nel tempo si sono sviluppati nell’istituto, per poi tracciare linee guida per la missione del futuro.
Si tratta di un documento importante sia nella formazione delle nuove generazioni di Missionarie della Consolata, sia nella vita di ogni comunità e nello stile di missione che vogliamo vivere e assumere. Per questo, il sessennio che inizia avrà come uno dei suoi punti centrali il processo di appropriazione di questo documento.
Nelle motivazioni date dall’Assemblea capitolare sull’importanza di questo documento, troviamo che la Ratio missionis promuove una visione e una prassi comune di missione, per una sempre più profonda unità di intenti. Aiuta ad approfondire l’oggi e il futuro della missione, e a favorire un «cambio di rotta», dove necessario.
Il tesoro del carisma
L’altro grande tema del capitolo è stato il «Tesoro del carisma», che ha coinvolto tutte le Missionarie della Consolata in un percorso di riflessione e preghiera, e che ha avuto un momento centrale e significativo nell’intercapitolo del 2022. L’assemblea avrebbe dovuto riunirsi a metà sessennio, cioè nel 2020, per vivere un approccio/immersione nel carisma a livello esperienziale, storico ed ermeneutico. La pandemia e il lockdown mondiale hanno fatto rimandare in più occasioni questo incontro, che si è tenuto infine nei mesi di febbraio e marzo 2022.
Dall’Intercapitolo sono emersi elementi fondamentali del carisma, come raggi luminosi che scaturiscono da un nucleo carismatico. Più volte nel tempo del capitolo si è fatta memoria di questo evento molto forte, sia a livello personale, sia a livello di gruppo. Per il poco tempo intercorso tra i due momenti di istituto, non si è potuto realizzare un cammino che coinvolgesse tutta la congregazione, per questo motivo il Capitolo ha indicato il sessennio entrante come il «sessennio del carisma», un tempo benedetto da Dio per continuare ad approfondire e immergersi nel dono carismatico.
Ricorrenze importanti
Naturalmente, l’appropriazione della Ratio missionis e l’immersione nel carisma non sono elementi separati, bensì dimensioni intimamente intrecciate, a cui si uniscono anniversari importanti per la famiglia consolatina: a metà del sessennio, nel 2026, ricorrono i cento anni dalla morte del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei due istituti missionari della Consolata. Sarà un tempo propizio per cammini che coinvolgano tutta la famiglia: padri, fratelli, suore, laici e laiche, identificati con il carisma donato a noi e alla Chiesa dal beato Giuseppe Allamano. D’altra parte, non si tratta di un’iniziativa estemporanea, ma fa parte di un cammino iniziato da alcuni anni, come l’ evento di Murang’a 2 (cfr. MC ottobre 2022), vissuto in tempo di quarantena nel 2022, grazie alla tecnologia odierna, a cui hanno partecipato membri della famiglia consolatina da tutto il mondo, come pure il lavoro delle commissioni congiunte sul carisma, che hanno lavorato per diversi anni sia a livello generale, che a livello continentale.
Riflessione in famiglia
Il 3 e il 4 giugno, le due assemblee capitolari dei Missionari e delle Missionarie della Consolata si sono ritrovate a Roma per un momento di riflessione comune. Chiaramente si è ribadito il desiderio di cammini in comunione sia nello studio che nell’approfondimento del carisma che ci unisce. Non c’è occasione migliore per realizzarli: il centenario della morte del fondatore e (speriamo con tutto il cuore) la sua prossima canonizzazione, per la quale tutti stiamo pregando. I suggerimenti di iniziative sono numerosi, adesso spetta a ciascuno di noi trovare i modi e i tempi per realizzarli insieme.
Il carisma, la missione ad gentes: sono fuoco che arde nel cuore di ogni Missionaria della Consolata, non importa l’età, la provenienza o la missione che sta compiendo. Di questo non c’è dubbio, si percepisce forte nei momenti di condivisione e negli apporti dati da tutta la famiglia durante questi anni. Il capitolo ha riconosciuto questa vitalità, ma allo stesso tempo ha preso in mano la realtà attuale della congregazione: si tratta di una famiglia religiosa piccola e in diminuzione, dove le sorelle anziane sono numerose, ma dove fioriscono anche nuove vocazioni, specialmente nel continente africano.
I processi per ridisegnare le nostre presenze sono in corso già da molti anni, tenendo conto della realtà concreta delle comunità: nel sessennio concluso si sono costituite le Regioni Africa e America, unificando le circoscrizioni di ciascun continente, e ci siamo aperte alla missione nell’Asia centrale, in Kazakistan e in Kirghizistan, ma il cammino non è ancora terminato. La riflessione sulle nostre presenze, sul ridisegnare la geografia delle nostre comunità, è stato un tema toccato dal capitolo per un lungo tempo.
Il fuoco della missione, unito alla realtà attuale della congregazione, esigono un discernimento e scelte concrete.
Sorge nel cuore molta riconoscenza per le vite donate di tante sorelle, che adesso vivono la missione nell’offerta e consegna della loro vita e sofferenza, e sorge pure molta speranza per i «germogli» che spuntano sulla vite centenaria, che è il nostro istituto.
Continuiamo a vibrare per la chiamata della missione ad gentes. Ma come vivere questo tempo così particolare? La risposta data (o meglio, da darsi passo dopo passo) è accogliere e vivere la piccolezza.
La piccolezza: non è solo una realtà storica che stiamo vivendo oggi, è la risposta che, come famiglia religiosa, vogliamo dare e vivere in questo tempo. Una piccolezza che inizia dal cuore di ciascuna in relazione con Dio, che passa per la semplicità e l’umiltà. Una piccolezza che è uno stile di vita e di missione, dove la vicinanza alla gente e la relazione a tu per tu costituiscono il cuore dell’incontro e dell’evangelizzazione.
All’udienza con papa Francesco
Piazza San Pietro: mercoledì 7 giugno 2023. Arriviamo presto e ci mettiamo in fila, vicino al colonnato, per poter accedere ai posti riservati per l’udienza generale di papa Francesco. Si uniscono a noi anche i confratelli capitolari, e come gruppo ci presenteremo al Santo padre per un saluto. Dopo i dovuti controlli della polizia, ci rechiamo sul sagrato della basilica di San Pietro, e aspettiamo pazientemente – ma anche con molta emozione – l’arrivo del pontefice. Scorgiamo, vicino alla sedia del Papa, un’urna di legno. Alcune di noi la riconoscono: è l’urna che contiene le reliquie di Santa Teresina di Lisieux. Scopriamo che di fianco c’è anche un’altra teca, contenente i resti dei genitori di Santa Teresina, riconosciuti beati dalla Chiesa Cattolica.
Papa Francesco arriva in papamobile, saluta lungamente i pellegrini presenti in piazza, quindi, avvicinandosi alla sua postazione, si ferma alcuni istanti in preghiera. E poi inizia la sua catechesi con queste parole: «Sono qui davanti a noi le reliquie di santa Teresa di Gesù bambino, patrona universale delle missioni. È bello che ciò accada mentre stiamo riflettendo sulla passione per l’evangelizzazione, sullo zelo apostolico. Oggi, dunque, lasciamoci aiutare dalla testimonianza di santa Teresina. È patrona delle missioni, ma non è mai stata in missione: come si spiega, questo? Era una monaca carmelitana e la sua vita fu all’insegna della piccolezza e della debolezza: lei stessa si definiva “un piccolo granello di sabbia”».
Potete immaginare la nostra emozione e come queste parole sono arrivate dritte ai nostri cuori. Pura coincidenza? Non pensiamo. Il ricordo della via della piccolezza da parte del Papa è una chiara conferma dei cammini che il capitolo, in discernimento, indica a tutta la famiglia delle Missionarie della Consolata.
Una famiglia religiosa, per molti aspetti vulnerabile e fragile: la via della piccolezza è quella intuita ed intrapresa da Santa Teresina di Lisieux, e ricordata da papa Francesco nell’Udienza generale a cui abbiamo partecipato come capitolari Imc e Mc. Il Signore non solo conosce i nostri cammini, Lui li guida. E a Lui, alla Consolata e al padre Fondatore ci affidiamo per poter seguire unite, piccolo corpo, sulla strada della missione, e con il fuoco della missione dentro.
Stefania Raspo
Hanno firmato il dossier:
Stefania Raspo, suora missionaria della Consolata dal 2001, in Bolivia dal 2013. È anche redattrice della rivista Andare alla genti. È stata eletta consigliera generale nel capitolo.
Piero Demaria, missionario della Consolata dal 2003. Dopo aver lavorato in Mozambico e a Taiwan, si occupa ora di animazione missionaria in Italia. È stato uno dei delegati per l’Europa del XIV capitolo.
A cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale MC.
Si ringrazia Suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, per la collaborazione.
Marzuk, il beniamino
Il 13 maggio 1903, arrivando al porto di Mombasa, Kenya, la terza spedizione dei Missionari della Consolata e la prima delle Vincenzine del Cottolengo ricevono un dono speciale: Selmi, Angior e Marzuk, tre piccoli schiavi appena liberati. Qui la storia del più piccolo.
La foto del bimbo in mezzo ai cavoli , non si sa bene se scattata per evidenziare quanto sia piccolo lui o quanto siano grandi i cavoli, pur apparsa più volte su questa rivista, mantiene sempre la sua innegabile simpatia. E come ogni foto di oltre cento anni fa, porta in sé una storia.
Il bambino dei cavoli, presto battezzato Giacomino in onore del canonico Giacomo Camisassa, aiutante e amico del beato Giuseppe Allamano, si chiama Marzuk (che significa il beniamino) e ha più o meno quattro anni quando schiavisti somali provenienti dal Benadir (zona della Somalia vicino a Mogadiscio, allora colonia italiana) lo rapiscono dal suo villaggio nel sud dell’Etiopia per venderlo nella penisola arabica. Con lui sul dhow (la grande barca a vela tipica di quei mari) ci sono altri due bambini un po’ più grandicelli, Selmi e Angior, e diverse ragazze.
Ma quel dhow non arriva in Arabia: una cannoniena italiana che pattuglia l’Oceano Indiano per bloccare i negrieri, infatti, lo intercetta e libera tutti gli schiavi. Emilio Dulio, governatore del Benadir, affida i tre bambini al cavalier Giulio Pestalozza (1850-1930), console italiano a Zanzibar (da cui dipende Mombasa) che li tiene per oltre un anno, ma poi, dovendo rientrare in Italia per fine servizio, li consegna a padre Filippo Perlo, giunto a nella città portuale per accogliere la terza spedizione di missionari della Consolata (quattro preti, uno studente di teologia e un fratello) e la prima delle suore Vincenzine del Cottolengo (otto in tutto), arrivate a Mombasa il 13 maggio 1903.
Dal porto i nuovi arrivati raggiungono in treno la casa procura nel villaggio di Limuru, la prima stazione dopo Nairobi e la più vicina (si fa per dire) alla missione di Fort Hall (in seguito Murang’a) dove è in costruzione la casa per le suore.
Il 31 maggio è la festa di Pentecoste. È l’occasione ideale per battezzare il piccolo Marzuk. Padre Filippo Perlo scatta prima una foto dei tre nei loro abiti da «schiavetti» (foto qui sotto) e poi fa rivestire il suo figlioccio e gli altri due con un bell’abito battesimale bianco.
Quel giorno Marzuk diventa Giacomino, mentre gli altri due, di 8 e 9 anni, continuano la loro preparazione catechistica per essere battezzati più avanti a Murang’a con i nomi di Giuseppe (come l’Allamano) e Agostino (come il cardinal Richelmy di Torino).
Le suore, a fine giugno, entrano finalmente nella loro nuova casa, costruita secondo le regole di sicurezza imposte dagli inglesi. I tre ragazzi vanno con loro, e Giacomino diventa davvero il «beniamino» di tutti. Sveglio, svelto e intelligente, parla l’italiano e anche un po’ di piemontese che ha imparato dalle suore ancora prima del kikuyu e dell’inglese. Attivo e attento, si presta ai piccoli servizi, recita le poesie nelle feste e si fa benvolere da tutti. La foto con i due cavoli è rivelatrice della sua simpatia contagiosa.
Crescendo, mentre i suoi due compagni mettono su famiglia, Giacomino, che nella casa serve come «boy» (domestico) con salario, seguendo una profonda ispirazione interiore, comincia invece a esprimere il desiderio di mettersi al servizio del Signore e della missione come sacerdote. Così nel 1917, quando monsignor Filippo Perlo inizia il primo nucleo di seminario, lui è tra i primi a esservi accolto. Tra il 1920 e il 1927 fa i suoi studi filosofici e teologici nel seminario sant’Agostino a Nyeri e viene ordinato sacerdote con Tommaso Kemango, il primo sacerdote kikuyu, il 5 febbraio 1927 (foto a inizio testo).
Dal 1927 al 1950, don Giacomino serve come sacerdote diocesano nelle missioni di Gaichanjiru, Kianyaga e Ngandu nel vicariato di Nyeri. Intanto matura in lui il desiderio di diventare missionario. Il 6 aprile 1950 scrive a padre Domenico Fiorina, superiore generale dei Missionari della Consolata: «Da quando ero giovane sacerdote sentivo la vocazione di farmi religioso, cioè sacerdote della Consolata…».
Ottenuto il consenso, padre Giacomino Camisassa Díma Irma (così si firma nella lettera), il 18 giugno 1950 inizia il noviziato alla Certosa di Pesio (Cuneo), che lascia presto per il troppo freddo, e il 19 giugno 1951, a Roma, emette i primi voti come missionario.
Tornato in Kenya, per quasi trent’anni lavora nelle missioni della diocesi di Nyeri, fino a quando l’8 agosto 1979 il Signore lo chiama alla festa dei servi fedeli. Marzuk, il beniamino, ora conosce davvero l’Amore più totale.
Gigi Anataloni
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
Tanti pregano per voi
Carissimi missionari,
sono amica di una suora di clausura del monastero di Santo Stefano di Imola alla quale arriva la vostra rivista. L’ho abbonata io perché prima di essere claustrale è stata tanti anni missionaria in Kenya con un altro istituto di suore missionarie e sapevo che sarebbe stato tanto gradita la rivista che parlava di luoghi da lei conosciuti.
Avendo letto della elezione a cardinale di padre Giorgio Marengo, mi riferì che lei ha sempre pregato per lui da quando nel 2003 è stato mandato con le due suore in missione in Mongolia. Avendo ricevuto questa notizia l’ha riempita di gioia e di ancor più fervore nella preghiera per i missionari e le missionarie.
Tutto questo ve lo scrivo perché sappiate che tanti sconosciuti pregano per voi missionari e siate sempre fiduciosi e abbandonati alla grande Provvidenza del Signore che fa tutto e tanto con il nostro poco. Basta la nostra buona volontà.
Vi saluto con tanto amore pensando ai miei cari defunti, vostri confratelli: padre Giuseppe da Frè e padre Armando Cecconi, nonché la mia parente missionaria della Consolata, suor Bassiana Lorenzi.
Auguri di ogni bene
Gianna Agostini Rossi Vigodarzere (Pd) 06/01/2023
Grazie di cuore delle preghiere, un energetico sicuro per ogni missionario. Ecco qui una brevissima memoria dei suoi «cari defunti».
Padre Armando Cecconi, (foto a destra) nasce a Castions di Strada (Ud) il 21/03/1922 e va incontro al suo Signore il 31/03/2014, pochi giorni dopo aver compiuto i 92 anni. Ordinato sacerdote nel 1951, dopo alcuni anni come formatore in Italia, nel 1968 parte per il Kenya, dove rimane nelle terre alte del Kikuyu fino al 2012, quando deve rientrare per salute.
Anche padre Giuseppe Da Fré ha passato la sua vita missionaria in Kenya, ma in aree molto diverse, nel grande Nord sopra l’equatore, nelle terre dei Samburu e di altri popoli nomadi, da Loyangalani a Wamba. Nato il 03/01/1939, sacertote missionario della Consolata il 18/12/1965, dopo il corso di inglese a Londra, nel dicembre 1967 è destinato a Baragoi (nella foto sotto), la primogenita (1952) delle missioni del Nord. Loyangalani, Laisamis, Maralal, Wamba sono le altre missioni dove è chiamato a essere segno di consolazione e costruttore di pace, fino al 2015, quando la salute lo obbliga a rientrare fino a che il Signore lo chiama a sé il primo giorno del 2016.
E più avanti: «Indubbiamente sono sotto i riflettori ma questo che problema è?».
Tali considerazioni si riferiscono a Lorena Fornasir e a suo marito Gian Andrea Franchi che da anni a Trieste prestano quotidiana assistenza ai migranti, in particolare curando i loro piedi piagati dal lungo cammino. Da triestina posso testimoniare che tutto sono meno che mediatici; e che «sotto i riflettori» è il posto che meno si addice al loro profilo, saldamente agli antipodi da ogni sia pur minimo sospetto di protagonismo.
Secondo me andava precisato che purtroppo è stata la cronaca a metterli brutalmente sotto i riflettori, quando nel 2021 furono accusati di essere complici dei trafficanti. Ma fortunatamente i magistrati hanno poi chiuso il caso: la solidarietà non è reato.
Loro sono stati le vittime, di quell’amara e scandalosa parentesi. E dopo di essa, esattamente come prima, hanno sempre operato nell’umiltà e nell’ombra (e «Linea d’Ombra» è il nome della loro benemerita associazione).
Con l’occasione vi rinnovo il mio plauso più sentito per la vostra utilissima e irrinunciabile rivista.
Ciao mi chiamo Lorenzo sono di Parma ho 24 anni e ho letto un vostro articolo riguardo i pigmei, sarei interessato sempre di più ad imparare a come sopravvivere nella natura usando cose che si trovano in natura. Sto leggendo numerosi articoli di Survival International sui popoli indigeni e mi sto interressando sempre di più.
Volevo chiedere se a voi serve un aiuto a lavorare con questi popoli? Buona serata.
Lorenzo 14/06/2023
Caro Lorenzo,
ci sono due aspetti complementari nella tua richiesta: da una parte la voglia di imparare a conoscere meglio la natura proprio da popoli da sempre immersi in essa, dall’altra il desiderio di metterti al servizio con noi tra i «popoli indigeni».
Comincio dal secondo punto: diventare un nostro «aiutante». Qui occorre precisare che per periodi lunghi di permanenza in una missione, occorre sia avere una certa qualificazione professionale che tenere conto delle normative che regolano le prestazioni di volontariato nel mondo, senza le quali non è possibile restare in un paese con regolare permesso di soggiorno. Diverso è andare per un mese, massimo tre, con un permesso turistico.
Per un’esperienza più lunga di volontariato noi, come Missionari della Consolata, non siamo attrezzati legalmente, per questo di solito ci affidiamo alle organizzazioni di volontariato già esistenti e operanti con noi.
Abbiamo sì anche la figura degli «aggregati», persone che diventano parte del nostro istituto per un periodo e un servizio precisi. Ma su questo tema del volontariato, spero di tornare presto perché sembra ci siano novità interessanti.
Quanto alla tua voglia di imparare dai popoli che vivono a contatto con la natura, è bella e interessante. Forse vivere con quei popoli può essere un aiuto per capire un po’ di più «il creato» e disintossicarsi da certe mitizzazioni che abbiamo nel nostro mondo. A cominciare dal nostro affetto per cani e gatti, che riempiono le nostre case e spesso le nostre solitudini, ma a condizione di essere castrati e rinunciare ai loro comportamenti naturali.
Credo che il requisito fondamentale del vero contatto con la natura sia la sobrietà, accompagnata da profondo rispetto e cambiamento di attitudine: da padrone a servo, da sfruttatore a giardiniere e amministratore per il bene di tutti.
Non vorrei sembrare scorbutico su questo, ma lo scrivo come uno che ricorda molto bene che da bambino camminava a piedi nudi tutta l’estate e beveva l’acqua dei fossi o dalle sorgive in campagna quando aveva sete e poi andava allegramente con gli amici a «rubare» ciliege, pere, pesche o uva nei campi dei vicini, magari sotto lo sguardo dei padroni che facevano finta di non vedere.
Contributi
Dopo un lungo periodo d’assenza per difficoltà economiche, avverto il bisogno di riaiutarvi/ci.
Nel ‘78 vi ero vicino per i campi di raccolta (con padre Giordano Rigamonti). In seguito l’amicizia con padre Ugo Pozzoli mi permise di ancor più comprendere il valore della vostra missione attraverso la rivista Missioni Consolata.
Oggi, più di ieri, rappresentate l’unico canale onesto per meglio conoscere il grande pericolo verso cui ci stanno incamminando.
Contribuirò annualmente con la cifra di 30,00 euro; non è molto ma, ciò posso fare. Grazie se mi riaccoglierete.
Una esortazione a proseguire lungo il cammino – insieme. Con voi, fratelli.
Alessandro B. 14/06/2023
Grazie Alessandro per il tuo aiuto. Come dici, non è molto, ma significa tanto.
Qualche tempo fa mi ha colpito una storia che qualcuno ha raccontato in occasione di una serata a sostegno degli alluvionati in Emilia Romagna. Era la storia di un incendio nella foresta. Tutti gli animali fuggivano, eccetto un colibrì che invece andava avanti e indietro a raccogliere con il becco acqua dal fiume per buttarla sulle fiamme. Un esempio che ha poi contagiato tutti.
Come concludi tu: proseguiamo lungo il cammino, insieme.
IMPANTANATO NEL GUADO
Carissimi, vorrei condividere con voi una piccola parte delle memorie di missionari che ho incontrato ad Alpignano, nella loro casa di riposo.
I padri della Consolata raccontano spesso aneddoti del loro trascorso nelle missioni, in qualsiasi parte del mondo. Qualcuno ne ha fatto anche dei libri: pagine di esperienza (30 o 50 anni in quei luoghi) utili a capire meglio le genti e scuola per noi, ma sentirli dalla loro viva voce è un’altra cosa! Trentacinque anni fa ho avuto la fortuna di conoscere molto bene un padre ed una suor
a missionari in Kenya e di recente un loro confratello (padre Aimone Rondina) in Italia motivi di salute. Le sorelle sono, invece, a Venaria. Hanno tutti un passato non semplice, perché vivere in missione ti segna inesorabilmente; però trascorrono questi momenti con serenità e, pur consci che forse in missione non torneranno, il desiderio e la speranza restano vivi e forti. Probabilmente è questo il motore che dà loro l’energia per accettare la situazione, insieme alla grande fede che li accompagna.
Ecco qui un racconto raccolto dalle labbra di padre Rondina Aimone, classe 1929, nato negli Usa da genitori emigrati là dalla Marche, missionario nel Meru, Kenya, dal 1958 al 2017 (vedi foto finale).
Il guado, insidia e benedizione
In Africa, soprattutto nelle zone più remote, molte strade prima o poi sono interrotte da un guado, ne sono esenti solo le principali arterie asfaltate dotate di ponti. Il guado (wadi nelle zone desertiche sahariane) è un luogo dove è normalmente possibile attraversare un fiume senza pericolo, ma l’innocuo torrentello della stagione secca, alle prime piogge può trasformarsi in qualcosa di enormemente pericoloso. In un nonnulla il livello dell’acqua s’innalza anche di metri impedendo ogni passaggio. In certe zone il missionario ne deve attraversare parecchi nei suoi spostamenti per raggiungere le molte cappelle della sua missione. Immaginate che all’improvviso la pista davanti a voi finisca in un fiume di acqua impetuosa per ricomparire dall’altra parte cinquanta o anche cento metri (a volte più, a volte meno) più in là. Tu devi andare, hai un appuntamento con una comunità o devi tornare a casa. La macchina è una 4×4 con motore diesel, il livello dell’acqua non è poi così altro, il fondo è buono e non fangoso, la notte si avvicina, ponti in vista nessuno. Passare o non passare?
«Un giorno dovevo andare a visitare un villaggio a circa dieci chilometri dalla mia missione di Gatunga, nel Taraka (depressione arida nel Meru, nord est del Kenya). Sono partito con la mia auto tranquillo e fiducioso come sempre -preoccuparsi in anticipo non serve, se lo fai senza motivo, ti sarai stressato per nulla, se poi arriva la sorpresa il pensiero negativo ti avrà solo coinvolto prima del necessario -. Nel tragitto so di dover attraversare un guado problematico. All’andata nessun problema. Sulla via del ritorno incontro “casualmente” il vicecapo di quel villaggio che con gesti convincenti mi blocca, deve recarsi con urgenza in un luogo “piazzato” proprio lungo il percorso. Mi chiede un passaggio; lo accontento e lo scarico alla sua destinazione. Un po’ più in là un guado mi sta aspettando. Era quasi secco all’andata, ma nel frattempo c’era stata una grossa pioggia a monte. L’acqua è ben più alta, ma mi butto. Questa volta il Subaru 4×4 si emoziona al punto da restare incastrato nel bel mezzo del torrente, senza alcuna intenzione di muoversi. L’ora del tramonto si avvicinava e sono solo. Ansia. Improvvisamente quel vicecapo villaggio si materializza ancora una volta con altre persone. Provano a disincagliare la macchina, ma devono desistere. Si allontanano con qualche promessa. Il tempo intanto passa e la luce lascia il posto al buio pesto.
Ho un sussulto quando accanto al vetro vedo un volto apparire all’improvviso, meno male che lo conosco, mi porta qualcosa da bere, e poi anche lui se ne va.
Visto che ormai devo rimanere in quel luogo almeno sino al mattino dopo, mi barrico bene con le portiere e i finestrini bloccati, in previsione del mattino quando, alle prime luci, gli animali (elefanti compresi) sono soliti abbeverarsi nei corsi d’acqua. Mi addormento.
Preoccupazioni inutili (che scarsa fiducia ho avuto nel prossimo): mi desta il rumore di un motore che si avvicina, un bel camion con sopra un gruppo di uomini, fra loro ancora quel vicecapo del pomeriggio prima. Ha pagato di tasca sua il mezzo e la “forza manuale” per tirarmi fuori da quella situazione e finalmente, dopo mezz’ora di tira e molla, il Subaru si schioda dal fiume.
È stato uno dei tanti casi in cui ho sperimentato l’affetto vero della nostra gente».
Roberto L. Rivelli 20/06/2023
La missione sfida i missionari
Dal 22 maggio al 20 giugno 2023 quaranta rappresentanti eletti dei Missionari della Consolata sono stati riuniti a Roma nel XIV capitolo generale dell’istituto, un evento che avviene ogni sei anni. Il suo risultato più immediato è l’elezione del nuovo superiore generale e del suo consiglio, ma il frutto più sostanziale sono le scelte che vengono fatte, a partire dal carisma originale dell’istituto, per dare una risposta creativa alle sfide che il mondo contemporaneo pone all’evangelizzazione.
Mentre mi leggete il capitolo è già terminato, ma ho scritto queste righe quando stava per cominciare e, quindi, posso solo provare a condividere con voi alcuni degli elementi che hanno stimolato la riflessione e la ricerca dei capitolari prima di riunirsi.
Il punto di partenza è stato una constatazione: stiamo tutti vivendo un tempo della nostra storia che chiede nuove attenzioni e nuove risposte.
Ad esempio, il mondo occidentale non è più cristiano, la famiglia tradizionale è in crisi e in alcuni paesi come il nostro si registra un declino demografico.
Esiste poi, nell’Occidente, un’ostilità neanche troppo nascosta contro la Chiesa e la religione cristiana, con attacchi che vanno dalla denigrazione alle notizie inventate o enfatizzate, dalle battute apparentemente spiritose agli insulti, strumentalizzando proverbi stantii come: «Quando nasci alimenti il prete, quando vai a nozze inviti il prete, quando muori il prete gode», o luoghi comuni di stampo anticlericale ottocentesco.
Il futuro della Chiesa e dell’evangelizzazione è una sfida a tutto campo per la quale non servono risposte preconfezionate e che obbliga a guardare avanti con creatività, lungimiranza, tanta fede e umiltà. È un tempo che richiede un profondo discernimento per andare al cuore dei problemi e capire quello che davvero Dio vuole. Non è l’ora del fare, ma dell’ascolto, per una vera conversione.
Sono quattro le aree dell’ascolto: la Parola di Dio, per andare alle radici della vocazione missionaria e del suo stile; il carisma trasmessoci dal nostro fondatore, il beato Allamano; la realtà viva, sofferta e sfidante del mondo di oggi; l’Istituto stesso, fatto di persone concrete con le loro potenzialità ma anche le loro fragilità.
Oggi i Missionari della Consolata sono ben coscienti di non essere più un corpo monolitico come erano fino agli anni Settanta. Gli italiani sono ormai una minoranza, più anziani che giovani. Il cuore della forza missionaria oggi viene dall’Africa: uno scenario bellissimo che vede protagoniste delle Chiese giovani, aperte e generose, pur nella loro povertà, però anche pieno di incognite e nuovi problemi.
Il capitolo si è, quindi, messo in ascolto del nostro mondo con un’attenzione speciale ai poveri, ai popoli indigeni, agli sfruttati, ai marginali della storia, alle periferie e a quelle aree, soprattutto in Asia, mai raggiunte dal Vangelo. I capitolari hanno anche fatte proprie le sfide della comunicazione, della cura del creato, della promozione della pace, delle migrazioni. C’è poi una situazione nuova, che richiede risposte nuove: quella dell’Europa che tradizionalmente mandava missionari, ma oggi li richiede con urgenza.
Dall’ascolto viene poi la conversione per vivere le dimensioni più autentiche dell’identità dei Missionari della Consolata: «Prima santi, e poi missionari», diceva il beato Allamano, affinché ogni missionario diventi testimone e costruttore di gioia, libertà, fraternità, pace e giustizia là dove la Madonna Consolata ha voluto mandarlo.
Una delle caratteristiche dei Missionari della Consolata, fin dalle origini, è stata proprio quella di ascoltare le realtà che man mano andavano a incontrare, mettendo al centro del loro interesse la persona, ogni persona, con una predilezione per i poveri, i lontani, gli emarginati, quelli che la società considera di meno. Come ha fatto Gesù, il primo vero missionario del Padre.
Non abbiamo ancora in mano i documenti finali del capitolo. Non ci aspettiamo proposte spettacolari. La missione più vera si realizza di solito nel silenzio e nell’umiltà, in un dono di vita concretizzato in piccole cose fatte con amore in un quotidiano lontano dal clamore.
Che davvero ogni missionario possa essere strumento di consolazione nelle mani di Dio.
Gigi Anataloni
XIV Capitolo generale dei Missionari della Consolata
MESSAGGIO FINALE
Gratitudine, passione e speranza
Trentatre giorni vissuti insieme, un corpo solo! Missionari giunti dai diversi luoghi della Missione, impegnati a conoscersi, attraverso il racconto personale proprio e dei tanti che hanno rappresentato, attraverso la condivisione dei cammini belli e dei percorsi che ancora sfidano a camminare per andare “oltre”. La diversità delle provenienze ha, però, lasciato presto spazio a quella capacità di riconoscersi, tutti, Missionari della Consolata.
Sì, è stato facile riconoscersi e dirsi che siamo fratelli oltre ogni differenza: fratelli nell’ispiratrice, la nostra madre Consolata; fratelli nell’ispirato, il nostro padre e fondatore, Beato Giuseppe Allamano; fratelli nell’ispirazione, quel carisma ad gentes, novità che non tramonta.
Il Capitolo, infatti, ha voluto confermare ancora una volta la scelta della missione ad gentes, nella sua specificità e nella molteplice fantasia dell’amore che si dona.
Ad gentes che in questi giorni abbiamo accolto con commozione dalle parole e testimonianza di chi, tra le lacrime, ci raccontava della sua gente in Venezuela che non ha di che mangiare o di chi nel Congo, in Mozambico e in Ucraina continua a morire e a subire violenza a causa di guerre di cui non si vede mai la fine. Di chi, come profugo, arriva in Marocco stanco, ferito e sfinito dopo un lungo cammino. E, come queste, tante altre sofferenze tra le quali siamo presenti essendo chiamati a fermarci per ascoltare, per sederci accanto, per servire con semplicità ed essere presenza che annuncia Gesù con gesti di vita, con l’ascolto e la parola.
Più volte ci siamo detti che dobbiamo anche “prenderci cura” di ogni missionario in tutto l’arco della sua vita con un progetto di formazione continua. Occorre aiutare ognuno a camminare verso la sua pienezza di vita e di donazione, partendo da una relazione viva con Cristo, per “essere” prima che “per fare”, dove santità e missione si fondono ed esprimono la nostra identità e carisma.
Con gratitudine abbiamo volto lo sguardo al passato della nostra vita e della nostra storia scritta con la dedicazione ed il sacrificio di tanti nostri confratelli e di quelli che oggi continuano ed essere per noi di stimolo ed esempio “completando nella loro carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).
Con voi, guardiamo al presente con passione e con quella gioia nella quale il Papa ci ha chiesto di camminare, in comunità chiamate ad essere in uscita e in mezzo alla gente con la forza del nostro carisma e la ricchezza delle nostre culture e in comunione con le Missionarie della Consolata ed i Laici.
Guardiamo, inoltre, al futuro con speranza al vedere ancora tanti giovani che vogliono dare la loro vita per l’annuncio del vangelo e tanti altri dei quali vogliamo prenderci cura nel servizio pastorale e di animazione missionaria e vocazionale.
La Solennità della nascita di S. Giovanni Battista, il precursore, è occasione propizia a conclusione di questo nostro XIV Capitolo Generale. Con lui e come lui sappiamo accogliere il Vangelo perché desiderosi di giustizia e di libertà. Con lui e come lui non ci poniamo come l’esempio perfetto da seguire, ma rimaniamo aperti al futuro, indicandolo, Gesù Cristo.
I capitolari
Roma, 24 giugno 2023
Padre Mino Vaccari, quando l’amore mantiene giovani
Rumuruti, Kenya. La stanza è piccola. Ci sta una branda e poco altro: tanti libri, letti e riletti. È il regno di padre Mino Francesco Vaccari, testimone dell’essenzialità della vita e dello spirito di servizio ai poveri. Accanto, c’è il piccolo studio: una scrivania, altri libri e alcune foto di scene di vita africana.
Padre Vaccari è missionario della Consolata, novanta e più anni portati bene, oltre sessanta dei quali trascorsi ininterrottamente in Kenya. I suoi racconti, attraverso un linguaggio fluido con un simpatico intervallare emiliano di tanti «capissi», lasciano un segno di memorie profonde. Umanissime.
È originario di Baiso, un paesino del reggiano. Il fascino provato nei confronti dei missionari maturò in lui fin da piccolo, quando, durante la Seconda guerra mondiale, conobbe un sacerdote braccato dai nazifascisti. La sua famiglia lo accolse in casa, nonostante i rischi: «Una grande persona, tormentata dalle mie curiosità di ragazzino vivace». Probabilmente maturò così la sua vocazione, cresciuta tra alti e bassi in un ambiente difficile come quello del seminario negli anni preconciliari.
Tutti gli studi furono portati a termine a Torino, nel seminario della casa madre dei Missionari della Consolata.
La disciplina era molto rigida. «Avevo un debole per l’informazione sportiva. Capissi. Ma dovevo leggere i giornali di nascosto, perché erano considerati stampa clandestina. Il mio debole per il Bologna rischiai di pagarlo caro. Uscii di nascosto dal seminario per andare allo stadio di Torino a sostenere la mia squadra del cuore. Capissi che poteva saltare tutto». Il tifo acceso per i rossoblu è rimasto. Padre Vaccari si concede ancora oggi un po’ di privacy per vedersi le partite del Bologna alla tv. Non ne perde una. Nel 1959 fu ordinato sacerdote. Finalmente, nei primi anni Sessanta, il Concilio Vaticano II aprì la Chiesa alla società. La promozione umana, valorizzata dalla fase postconciliare, rafforzò la missionarietà: «Puntavo fortissimamente a una destinazione in Africa, peraltro subito accolta. Dopo lo studio dell’inglese, a Londra e successivamente nel Galles, partii in nave da Venezia per il Kenya. Una lunga navigazione. Non si arrivava più».
Nella «prima» missione
La sua destinazione era Tuthu, nella prima storica missione della Consolata in Kenya.
Fu una meta importante per i contatti con la popolazione kikuyu. Entrò subito nella loro mentalità e cultura. Da Tuthu si trasferì a Nyahururu, nel cuore della contea di Laikipia, nella terra delle savane, sulla linea dell’equatore, con il compito di studiare attentamente i sistemi scolastici: «La promozione umana nasce proprio nei banchi di scuola».
La maturazione dell’attività missionaria avvenne con i tanti anni da parroco a Tetu, nei pressi della città di Nyeri, sugli altopiani centrali. Con l’aiuto delle suore, che costituiscono tuttora una vera forza della natura, ebbe l’opportunità di entrare a contatto con i villaggi dispersi in un territorio vastissimo, in rapporto diretto con le tribù indigene. «Le suore – spiega con il suo dolce sorriso – mi aiutarono a diventare un missionario tra la gente». Completò così il suo percorso in terra africana. In quel periodo maturarono anche le sue battaglie contro la corruzione, contro i giganteschi conflitti di interesse dei latifondisti, contro lo sfruttamento dei lavoratori: «Capissi, non è concepibile lavorare senza tutele per sei settemila scellini al mese (pari a una cinquantina di euro)».
Capita ancora oggi che quando vede qualcuno in grave difficoltà, padre Vaccari inventi un lavoro pur di dare un po’ di soldi per vivere. Non vuole fare l’elemosina, ma investire sulla dignità della persona. La sua denuncia continua contro le disuguaglianze sociali: «L’economia del Kenya corre a perdifiato, ma i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri».
Verso Rumuruti
Padre Vaccari fu chiamato a servire i Missionari della Consolata in Kenya come loro superiore dal 1987 al 1993. Ma amava stare tra la gente: ormai la sua gente. Così, finito il suo secondo mandato nel 1993, maturò la nuova destinazione, quella di una missione molto povera e allo stadio iniziale, Rumuruti, facendo la staffetta con padre Luigi Brambilla (brianzolo, classe 1939, ora a Tuthu, dove padre Mino aveva cominciato) che nel 1991 ne era diventato il primo parroco, ma era stato eletto vice superiore regionale. All’inizio di quello stesso 1993 era venuto a mancare padre Giuseppe Ricchetti (classe 1933 di Fiorano Modenese), il quale, grazie al grande cuore di tanti benefattori emiliani, aveva costruito pozzi, scuole, dispensari, fino all’ultimo gioiello: la missione di Banana Hill nella periferia nord di Nairobi.
Rumuruti, la missione sulla remote route (strada remota, da qui il nome) che da Nyahururu portava verso il nord, a Maralal nel Samburu, nacque dal nulla, come cappella della missione di Nyahururu. Quando padre Mino vi arrivò, c’erano sì una chiesa e una casetta per i missionari, ma la povertà attorno era immensa, alimentata anche da tanti conflitti tra i vari gruppi tribali per il controllo delle terre un tempo monopolio dei grandi proprietari terrieri bianchi.
Un ponte con l’Italia
Padre Vaccari ereditò nel 1993 la grande impresa umanitaria avviata da padre Richetti. Un’area economicamente forte, come quella del distretto emiliano della ceramica, si è stretta attorno ai missionari per sostenerli nelle loro attività. A Rumuruti c’è tanta Italia. E l’avventura continua anche oggi con l’impegno solidale della onlus «Africa nel cuore», una rete molto estesa di volontariato, con sede a Fiorano Modenese. Scuola, formazione, cultura e sanità sono le parole che costituiscono il motto che trascina tante iniziative. E la strategia di padre Vaccari è precisa: «I poveri devono avere le stesse opportunità dei benestanti. Il diritto allo studio vale per tutti, così come quello alla sanità».
I cambiamenti sono evidenti e la popolazione locale è pronta per assumersi le proprie responsabilità: «Il futuro è loro. È necessario un nostro passo indietro, perché la terra è degli africani e noi non siamo neo colonizzatori».
Lui però resterà in Kenya, senza creare imbarazzi, anche se ad agosto saranno 93 gli anni sulle spalle: «Non sarò ingombrante, ma non saprei proprio dove andare. Non posso lasciare la mia terra, che ormai è l’Africa». Sono stati così trovati degli spazi di convivenza: «Io sosterrò sempre le loro attività, senza disturbare». E indica orgoglioso la strada maestra: «Il bene della Chiesa è papa Francesco. Lui ci riporta concretamente al Vangelo».
Ora che ha compiuto un capolavoro lungo oltre sessant’anni, al tramonto si ritira per giocare a carte con gli amici più stretti.
E, mentre batte il fante, trova il modo di raccontare qualche aneddoto di vita vissuta.
Vanna Paltrinieri, Annie Munyi, Renato Chiarotto e Chiara Vimercati
Carissimi Missionari, Missionarie e Laici Missionari della Consolata, [mentre leggete sono in svolgimento] i Capitoli generali dei due Istituti, che [sono iniziati] l’8 maggio 2023 a Nepi (Vt) per le Missionarie e il 22 maggio 2023 a Roma per i Missionari.
Come Direzioni generali, in spirito di famiglia e memori della bellissima esperienza del Convegno «Murang’a 2» (vedi dossier in MC 10/2022, ndr) svoltosi nel giugno 2022, abbiamo pensato di aprire uno spazio comune di riflessione e condivisione durante la celebrazione dei due Capitoli, che si concretizzerà nelle giornate di sabato 3 e domenica 4 giugno 2023.
Il giorno 3 giugno le due assemblee capitolari si incontreranno e «allargheranno la tenda» alla partecipazione online di tutti i Missionari, le Missionarie e i Laici Missionari della Consolata che lo desiderano. […] Insieme potremo riflettere, guidati da alcuni esperti, circa le sfide e le opportunità del mondo odierno e l’evangelizzazione oggi.
Sabato 3 giugno avremo con noi i coniugi Mauro Magatti e Chiara Giaccardi, entrambi professori all’Università del Sacro Cuore di Milano, che ci aiuteranno a capire i macro scenari che caratterizzano il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo. Seguirà l’intervento del cardinale Luis Antonio Tagle, pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione, indicando possibili percorsi di evangelizzazione come risposta alle sfide della realtà. La giornata del 4 giugno vedrà di nuovo le due assemblee capitolari riunite assieme in presenza a Roma per raccogliere i frutti della condivisione. Sarà elaborato un messaggio da inserire negli Atti capitolari dei due istituti, quale sintesi delle riflessioni scaturite da questo incontro e come segno di comunione.
[…] Affidiamo alla nostra Mamma Consolata, al nostro beato Fondatore e alle nostre beate Irene e Leonella questa iniziativa di famiglia.
Un saluto cordiale a ciascuno e ciascuna,
padre Stefano Camerlengo e suor Simona Brambilla superiore e superiora generale, Nepi, 31/03/2023
Inaugurato «CAM – Cultures and Mission»
Presso la Casa Madre dei Missionari della Consolata di Torino, il 19 aprile 2023 si è inaugurato il nuovo Polo culturale «Cam – Cultures and Mission», uno spazio dedicato al dialogo e alla conoscenza delle civiltà e dei popoli attraverso un allestimento multimediale e l’esposizione di oggetti e testimonianze provenienti dagli oltre 120 anni di presenza missionaria nel mondo (cfr. MC aprile 2023).
Si tratta di un dono che l’Istituto Missioni Consolata vuole offrire alla città di Torino (e non solo, ndr), come spazio di dialogo e di confronto sulle tematiche dei diritti, della pace, della giustizia, della salvaguardia del creato.
Il Polo culturale Cam è stato inaugurato alla presenza delle autorità civili, tra cui il sindaco della città di Torino Stefano Lo Russo.
Ha inviato un messaggio anche l’arcivescovo di Torino, mons. Roberto Repole: «Caro padre Stefano [Camerlengo], […] inizio a mandare la mia vicinanza e la mia gratitudine per il dono del Polo culturale: oltre a essere una testimonianza viva della vostra attenzione alle persone di tutti i continenti, sono sicuro che sarà un punto di incontro e di dialogo fecondo per la città e la diocesi».
L’arcivescovo è poi stato presente alle 17.30 all’incontro dedicato al mondo ecclesiale, durante il quale ha portato un saluto anche mons. Marco Prastaro, vescovo di Asti, incaricato per la Conferenza episcopale piemontese della Commissione regionale per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra le chiese, e Migrantes; suor Maria Luisa Casiraghi, superiora della regione Europa delle Missionarie della Consolata; don Alessio Toniolo, direttore dell’Ufficio missionario diocesano.
Il Cam è un nuovo spazio espositivo moderno e interattivo che l’Istituto Missioni Consolata ha realizzato con l’obiettivo di mettere a disposizione della città un luogo che racconti l’incontro tra culture diverse e che celebri la vita e la bellezza della cooperazione tra popoli, prevedendo percorsi e aree a disposizione di scuole, associazioni e visitatori e facendone un punto di riferimento del territorio. Il Polo avvierà infatti numerose attività con l’obiettivo di coinvolgere scuole e organizzazioni giovanili per sensibilizzare sui temi della pace, della giustizia, della cura del creato, con un allestimento nel rispetto della sostenibilità ambientale – che ha visto il recupero e riutilizzo di materiali originali e l’utilizzo di tessuti naturali – con una forte ricaduta sociale per il territorio.
Il nuovo Polo culturale, oltre a offrire spazi di dialogo e confronto alla cittadinanza, valorizza infatti le collezioni museali e il patrimonio archivistico conservato in tutti questi anni dall’Istituto Missioni Consolata, su indicazione del suo fondatore. L’iniziativa è stata presentata da padre Stefano Camerlengo, superiore generale dell’Istituto Missioni Consolata, che ha dichiarato: «In questi oltre 100 anni di attività abbiamo sempre lavorato per l’incontro tra uomini e donne di fede e cultura differenti, collaborando per la difesa delle popolazioni e dei territori messi a dura prova da conflitti, povertà e cambiamenti climatici. La cooperazione e il dialogo tra popoli sono l’unica via per un’esistenza pacifica e un progresso sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale e le nostre missioni lo dimostrano da sempre. Questo spazio nasce dunque per restituire alla città una preziosa testimonianza di quello che i nostri volontari, le nostre volontarie e i missionari hanno potuto vedere nei 29 paesi in cui operiamo, dall’Africa all’Asia, ma anche in Europa e America, dove da anni siamo impegnati nella difesa della foresta amazzonica a fianco delle popolazioni locali».
Il Cam aprirà al pubblico sabato 10 giugno in via Cialdini 4, a Torino. Consultare il sito cam.consolata.eu per informazioni più precise sugli orari di visita.
testo adattato dal comunicato stampa per il lancio del Cam
Certosa missionaria. In alto e in profondità
Tra le realtà belle dei Missionari della Consolata in Europa c’è n’è una speciale: la Certosa di Pesio. Un luogo di preghiera nato 850 anni fa e abitato fino al 1802 da monaci certosini. Da quasi novant’anni è parte del patrimonio dei figli del beato Allamano: casa di spiritualità che irradia il Vangelo nel mondo.
Quando l’istituto dei Missionari della Consolata è nato nel 1901, la Certosa di Santa Maria, più nota come Certosa di Pesio, aveva già 728 anni.
Posta a 859 metri di altitudine nell’alta Valle Pesio, sulle Alpi Marittime in provincia di Cuneo, non distante dal confine francese, per diversi secoli era stata il punto di riferimento spirituale e materiale per l’intera valle.
Dal 1802, a causa della soppressione degli ordini monastici da parte di Napoleone, non era più un luogo di preghiera, ed era diventata per alcuni decenni un centro idroterapico, ospitando personaggi come Camillo Benso di Cavour, Giovanni Giolitti, Massimo d’Azeglio, ma cadendo poi gradualmente in disuso.
Quando la sua lunga storia si è intrecciata con quella dei Missionari della Consolata era il 1934: le sue imponenti strutture sviluppate su tre lati del grande chiostro centrale e aperte in direzione della montagna, i 250 metri di porticato con le sue colonne romaniche sul quale si affacciavano le celle dei monaci, le sue due chiese abbaziali, e il resto delle costruzioni sorte dal grande lavoro dei certosini, erano in stato di abbandono.
Oggi è un luogo aperto a tutti che accoglie centinaia di persone per esperienze di silenzio, ricerca di Dio e riscoperta della bellezza dell’annuncio del Vangelo.
Piemonte, Kenya, Mongolia
Incontriamo in videochiamata padre Daniele Giolitti, superiore della comunità Imc della Certosa. È fine aprile: il freddo dell’inverno inizia a mollare la presa, e i colori della primavera, ci dice, si mostrano luminosi.
Classe 1974, alto e snello, barba castana brizzolata, occhiali dall’esile montatura in metallo. Voce calda. Lo sguardo tranquillo e, all’apparenza, un po’ timido. Padre Daniele ha l’aspetto e il modo di fare di un «vero muntagnin» cuneese. Nello schermo lo vediamo vestito con camicia e maglione di pile. Per il resto, lo immaginiamo come tutte le volte che lo abbiamo incontrato: jeans e scarponi.
Padre Daniele è originario di Verzuolo, in provincia di Cuneo. Ha conosciuto i Missionari della Consolata a Torino durante gli studi da ingegnere civile.
Nel ‘98 ha compiuto il suo primo viaggio in Kenya per lavorare alla tesi di laurea sul noto acquedotto di fratel Giuseppe Argese.
Dopo quel viaggio ha fatto il noviziato a Rivoli (To), poi due anni di filosofia a Roma e quattro di teologia a Nairobi. «L’ordinazione diaconale è stata nel 2007 a Wamba – racconta -: una bellissima esperienza con i nomadi samburu nel nord del Kenya».
L’ordinazione sacerdotale nel 2008, proprio alla Certosa di Pesio. «Qui ho ricevuto la destinazione della Mongolia, dove poi sono stato per sei anni. Un’esperienza ricca con l’attuale cardinale Giorgio Marengo.
Poi sono rientrato in Italia, e nel 2014 mi hanno destinato alla Certosa. Sono contento di essere tornato, dopo 12 anni fuori dall’Italia, per un po’ di tempo, alle mie montagne del Piemonte».
La comunità di missionari che abita in Certosa e la tiene viva, oggi è composta da sei confratelli: oltre a padre Daniele, «fratel Gaetano Borgo, nato nel 1939, ha fatto 44 anni in Kenya; padre Lino Tagliani, del 1943, che arriva dalla Colombia; padre Beppe Cravero, del 1956, anche lui dalla Colombia; padre Ermanno Savarino, del 1977, dal Portogallo e, infine, arrivato da poco, fratel Gerardo Secondino, del 1959, che è stato in Mozambico e poi, ultimamente, in Portogallo».
Luogo di ricerca
Quest’anno ricorrono gli 850 anni dalla fondazione della Certosa. Per i Missionari della Consolata, ci dice padre Daniele, è una gioia celebrarli e, allo stesso tempo, una responsabilità che chiede loro un grande lavoro.
«La Certosa di Pesio è uno dei luoghi più insigni del Piemonte e monumento nazionale. Per noi rappresenta anche una parte importante della nostra identità: qui, infatti, si sono formate generazioni di miei confratelli. La Certosa è stata sede del noviziato fino agli anni ‘80. Poi, negli ultimi 30 anni, è diventata una casa di spiritualità aperta a tutti: giovani, famiglie, religiosi.
La nostra missio oggi è quella di ospitare e accogliere persone bisognose, alla ricerca di Dio, del silenzio, della meditazione.
La frenesia e i ritmi accelerati della vita spingono molti a cercare luoghi come questo. Abbiamo bisogno di decelerare e di cercare le cose essenziali della vita, quelle che contano e che riempiono di senso il cuore.
Questo è uno spazio pieno, uno spazio dello spirito nel quale la gente percepisce che c’è Dio».
Cemento e cazzuola
La Certosa di Pesio è stata terza tra le molte a essere fondate dai Certosini di san Bruno. «Questo luogo – spiega padre Daniele – è nato nel 1173 da un gruppo di monaci provenienti dalla Gran Certosa di Grenoble.
Posero la prima pietra lungo il fiume Pesio quando la valle era quasi disabitata, e realizzarono il monastero che divenne un polo di vita religiosa, culturale e sociale importantissimo.
Oltre alle strutture proprie della Certosa, il monastero comprendeva anche alcune grange (fattorie legate all’abbazia, ndr) sia in montagna che in pianura. Oggi si potrebbe dire che i monaci hanno trasformato l’ambiente della valle in modo sostenibile.
Dopo la soppressione degli ordini monastici, la Certosa è rimasta vuota, poi è stata trasformata in uno stabilimento idroterapico, infine è stata di nuovo abbandonata. Nel 1934 l’Imc acquistò un edificio fatiscente».
I primi missionari che l’hanno abitata e che hanno iniziato a ristrutturarla sono stati i fratelli Imc. D’estate andavano ad aiutarli anche i seminaristi del liceo, della filosofia e della teologia.
Negli anni ‘41 e ‘42 il governo l’ha sequestrata per ospitare anziani in fuga dalla guerra.
Dopo di che, i lavori di ricostruzione sono ripresi, e il primo anno di noviziato è stato il ‘49.
I Missionari della Consolata, oltre a pregare e studiare, quindi, hanno usato cemento e cazzuola. Padre Daniele sottolinea che quegli stessi missionari, dopo l’esperienza in Certosa, sono poi partiti per i quattro continenti dove hanno costruito scuole, ospedali, acquedotti. «È bello che da questo antico luogo di spiritualità monastica si sia diffusa la missione nel mondo». Poi, tornando alle esigenze pratiche, lancia un piccolo appello: «Ancora oggi, le sfide nella Certosa, non mancano: ora sono in cantiere il progetto di rifacimento delle facciate e il restauro dell’affresco di San Bruno. Per sostenere le spese di gestione abbiamo realizzato, cinque anni fa, una centrale idroelettrica, installando una nuova turbina sull’impianto dell’antico mulino certosino: energia pulita dall’abbon-
dante acqua del Pesio che ci aiuta a coprire una parte delle spese da affrontare. Ma da soli non ce la facciamo: tanti lavori sono stati fatti e verranno fatti solo grazie all’aiuto dei benefattori».
Le porte si aprono
Nel settembre 1982, ci dice ancora padre Daniele per concludere l’excursus storico, la Certosa ha smesso di essere sede del noviziato Imc, ed è diventata casa di ospitalità per gruppi parrocchiali, scout, associazioni, anche laiche, campi scuola, ciascuno con il suo programma.
Nel 1995 la direzione generale l’ha destinata in modo più specifico alla spiritualità missionaria. È proseguita, quindi, l’ospitalità per gruppi, ma i missionari hanno iniziato anche a offrire proposte proprie: incontri mensili, ritiri estivi, convegni, esercizi spirituali, settimane bibliche. Allo stesso tempo, però, la Certosa non ha smesso di avere una funzione anche «interna», continuando a essere un luogo nel quale i confratelli di padre Daniele vanno per periodi di riposo e preghiera, proprio nell’ottica del nutrimento fisico e spirituale necessario per annunciare il Vangelo nel mondo.
Certosa «in uscita»
Negli 850 anni della sua storia, a parte la parentesi laica dal 1802 al 1934, la vita della Certosa è stata quasi sempre interna, di clausura. L’apertura data dai missionari della Consolata, soprattutto con l’avvio delle accoglienze, che ha fatto passare l’antico monastero da una dimensione contemplativa a una missionaria e attiva, ci sembra una vera rivoluzione.
«A volte gli opposti si toccano – continua padre Daniele -. Apparentemente, la vita contemplativa, quella di clausura dei monaci, e quella dei missionari in uscita, che girano per il mondo, sono agli estremi opposti, ma in realtà sono in continuità tra loro. E questo a me riempie il cuore dando un profondo significato a ciò che sto facendo.
L’ora et labora dei monaci, anche noi missionari lo viviamo nei progetti, nella promozione umana, e in una spiritualità che ogni giorno è da rinnovare.
La continuità si potrebbe vedere anche nello specifico carisma dei monaci certosini. Il loro fondatore San Bruno li aveva pensati eremiti, ma nella vita di un cenobio. Erano, e sono, eremiti con un senso di comunità.
Il cenobio consisteva nel ritrovarsi una volta al giorno per l’eucaristia, e una volta alla settimana per il cosiddetto spaziamento, una passeggiata a due a due nei boschi qui intorno.
Tutti siamo chiamati a riscoprire questa dimensione di vita: chi riesce a vivere bene da solo, riesce a vivere anche con gli altri e, viceversa, chi vive bene con gli altri deve ritagliarsi momenti di solitudine e di silenzio per portare avanti la propria missione.
Con i Missionari della Consolata le porte della Certosa si sono aperte. Il nostro compito, bello per me, è di offrire questi spazi a chi fatica a trovare profondità. Questo è un luogo che parla al cuore dell’uomo e offre non delle risposte, ma delle domande di senso, sul senso della vita».
Bellezza, via di missione
In occasione degli 850 anni, i Missionari della Consolata, insieme a vari enti, tra cui la provincia di Cuneo, il comune di Chiusa Pesio, la regione Piemonte, l’Ente di gestione aree protette Alpi Marittime, hanno ideato a un nutrito calendario di eventi: giornate spirituali e trekking meditativi, concerti, convegni, escursioni e visite guidate.
A giugno è previsto il convegno intitolato «Bellezza come via di evangelizzazione». Chiediamo a padre Daniele il motivo di questo tema: «La bellezza è lampante in questo contesto dove l’arte e la natura si esaltano a vicenda. Come dice papa Francesco in Evangelii gaudium: “Annunciare Cristo significa mostrare che credere in lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di gioia”. Noi crediamo che la bellezza vera può toccare le corde profonde del cuore e aiutare a seguire il Vangelo come una cosa bella. Non solo come uno sforzo volontaristico, ma scoprendo quella dimensione di gioia e bellezza che, a volte, dimentichiamo. La bellezza ci porta in alto e in profondità nella nostra vita. E quindi diventa via di evangelizzazione».
I bisognosi dell’Europa
Nell’immaginario collettivo, quando si parla di missione, normalmente si pensa ai missionari che aiutano i poveri, bisognosi dal punto di vista materiale. Padre Daniele, all’inizio di questa chiacchierata, ha detto che in Certosa i missionari accolgono bisognosi, riferendosi però a bisogni di altro tipo: di spirito, profondità, senso.
«Questa forse è una delle nuove dimensioni della missione nella nostra Europa, ma anche in tutto il mondo. Nella mia piccola esperienza, vedo che c’è un tremendo bisogno di essere ascoltati. Le persone hanno bisogno di qualcuno che stia con loro e che possa ascoltare le loro storie. Purtroppo, sono sempre meno quelli che hanno tempo o possibilità per farlo.
Una casa di spiritualità come questa è un luogo per l’ascolto.
Personalmente anche io sono stato aiutato qui alla Certosa dai missionari che c’erano all’epoca e che mi hanno offerto un accompagnamento spirituale.
Gli incontri oceanici sono importanti, ma non bastano.
Trovo più importante, invece, che le persone, i giovani, possano fare un cammino personale di dialogo nel quale, se c’è una certa sensibilità da ambo i lati, si può andare davvero in profondità, toccando anche punti difficili che ciascuno si porta dentro.
Questo accompagnamento crea una relazione che può diventare una vera amicizia spirituale.
Ritengo che l’apertura all’ascolto realizzi veramente lo stile missionario, uno stile che non dimentica i bisogni materiali, ma che è capace di guardare anche i bisogni del cuore, la solitudine, le ferite interiori che, a volte, sono più devastanti della povertà materiale. Solo con un dialogo profondo si possono affrontare.
Qui accogliamo anche persone fragili che a volte non trovano spazio nelle parrocchie o in forme di Chiesa troppo strutturate. Persone che hanno difficoltà a credere, ma anche che vivono traumi o fatiche particolari, come ad esempio una qualche forma di dipendenza».
Un luogo per tutti
Tra le attività proposte dai Missionari della Consolata in Certosa, ci sono corsi di preparazione al matrimonio, esercizi spirituali per laici e religiosi, trekking spirituali, la scuola di preghiera per giovani e giovanissimi, i fine settimana per famiglie e adulti, il deserto giovani, il ritiro di agosto per famiglie.
Il target di persone che frequentano l’antico monastero è ampio.
«La Certosa è aperta tutto l’anno. È bello accogliere persone che stanno compiendo una ricerca e che vogliono fare un cammino serio di vita cristiana.
Quest’anno stiamo facendo un cammino sugli incontri di Gesù, sottolineando che la spiritualità vera è vera umanità: siamo chiamati ad approfondire l’umanità di Cristo per umanizzare la nostra vita.
Poi ogni anno proponiamo iniziative come il capodanno, il triduo pasquale, una settimana biblica nella quale quest’anno affronteremo la missione tramite le lettere di san Paolo e l’inizio della comunità cristiana».
Un piccolo Tabor
Nel contesto del ripensamento che i Missionari della Consolata stanno compiendo sulla propria missione in Europa, il ruolo che la Certosa si ritaglia è molto particolare. «Possiamo citare alcuni documenti dell’Imc che ci invitano a essere sempre più una presenza significativa di ricerca di senso e spiritualità in funzione di una crescita nell’umano.
L’icona del monte è molto appropriata per questo luogo: la Certosa è un piccolo Tabor nel quale uno può raccogliersi insieme ad altri per fare l’esperienza di una trasfigurazione, l’esperienza di un Dio vicino. È un luogo abitato dove si respira una presenza secolare di preghiera.
Come i certosini avevano il motto di san Bruno che recitava “la croce resta fissa mentre il mondo ruota”, anche noi missionari della Consolata vogliamo costruire la nostra vita attorno a ciò che è essenziale (il Vangelo, il silenzio, la relazione con Dio e con gli uomini) e condividerlo con tutti».
Luca Lorusso
Per un tuffo nel passato
Dalla Certosa ai monti della Valle di Pesio, e tanto altro. Uno squarcio nella vita degli «apprendisti» missionari negli anni Quaranta.
Un eccezionale documentario in bianco e nero di padre Alfredo Deagostini, ora conservato e digitalizazto dall’l’Archivio Nazionale Cinema Impresa di Ivrea, e reso disponibile sul canale Youtube Cinemareligioso nel Fondo IMC-Istituto Missioni Consolata.
L’Etiopia è un sogno di Giuseppe Allamano, che fin dagli inizi, vede nel cardinal Massaia un’ispirazione. Ma le difficoltà sono tante, e i suoi primi missionari partono per il Kenya nel 1902. Dieci anni dopo ci riprova, e la sua tenacia, unita alla scelta delle persone giuste, porta all’apertura di alcune missioni in un territorio ostile. Inizia così una storia appassionante che sarà influenzata dai futuri eventi mondiali.
Fino dalla fondazione dell’Istituto Missioni Consolata il beato Giuseppe Allamano pensa di mandare i suoi in Etiopia, a continuare l’opera del cardinale Guglielmo Massaia (1809-1889), che è stato missionario cappuccino nella regione dei Galla (sud ovest). Le difficoltà a entrare in quel Paese, però, fanno sì che i primi quattro partano per il Kenya nel 1902.
Ma il sogno dell’Etiopia resta vivo, così, dieci anni dopo, il fondatore inizia una intensa opera diplomatica, aiutato da Giacomo Camisassa e da monsignor Filippo Perlo (responsabile del gruppo in Kenya), che porta alla creazione della prefettura del Kaffa il 28 gennaio 1913 (area etiopica nel sud ovest) da parte di Propaganda Fide (l’organo della Curia romana preposto alle missioni). La nuova prefettura confina a sud con il Kenya, dove la Consolata è presente. A guidarla è scelto padre Gaudenzio Barlassina, da dieci anni missionario, proprio in quel Paese.
Un paese difficile
Il contesto è complesso e gli impedimenti molteplici. L’Etiopia è divisa in zone governate da capi locali che fanno riferimento all’impero con capitale Addis Abeba. La morte dell’imperatore Menelik II, nell’agosto del 1913, aumenta l’instabilità a causa della lotta per la successione. Inoltre, le potenze coloniali dell’area, Francia, Inghilterra e Italia, hanno interesse a espandersi nei suoi territori. I cappuccini francesi guidati da monsignor André Jarosseau, vicario apostolico di Harar, sono ostili all’ingresso di missionari italiani in una zona tradizionalmente di loro competenza, ma dalla quale erano stati cacciati (lo stesso vescovo aveva ostacolato il primo progetto dell’Allamano). Infine, il clero della Chiesa copta, dominante nell’impero, è contrario a un’espansione del cattolicesimo. Le rappresentanze italiane ad Addis Abeba esprimono pure loro un parere contrario (e non tarderanno a mettere i bastoni tra le ruote).
Nonostante tutto, Camisassa da Torino e Perlo dal Kenya, lavorano per organizzare l’arrivo dei missionari della Consolata e l’apertura di missioni nel Kaffa. Prende piede l’ipotesi di una penetrazione dal Kenya, attraverso Moyale, città di frontiera sotto controllo britannico.
È nel novembre del 1914 che la carovana affidata alla guida di padre Angelo Dal Canton, parte da Nyeri, in Kenya, per iniziare il primo avventuroso tentativo di condurre una spedizione esplorativa. Monsignor Barlassina, già nominato prefetto apostolico, ne viene tenuto fuori.
Le difficoltà iniziano nel nord del Kenya, nell’attraversare 500 km di zona desertica e senza stazioni di rifornimento. Dal Canton è con due fratelli, Aquilino Caneparo e Anselmo Jeantet, sette portatori, cammelli e muli carichi di acqua e provviste.
La carovana non ha i permessi per entrare nel Paese. I missionari, però, ottengono un permesso di transito, ma come commercianti.
I rischi e le difficoltà sono elevatissimi, nonostante la tenacia dei missionari. La carovana, pur riuscendo a entrare in Etiopia, è poi costretta a ripiegare verso il Kenya un anno dopo.
In seguito, si pensa a una seconda carovana da sud, che non partirà mai. Le indicazioni delle fonti diplomatiche italiane, che hanno interesse nell’installazione di connazionali nel Kaffa, sono, infatti, di «ottenere un permesso non solo di transito ma di “stabilire sedi di commercio” per mercanti missionari, escludendo “ogni propaganda religiosa o proselitismo”», ma Giuseppe Allamano vuole che «i suoi entrino a viso aperto, senza nascondere la propria identità di missionari».
La via più semplice
A questo punto è Barlassina che, dopo aver aspettato ed essere stato escluso dal primo tentativo, prende l’iniziativa. Nell’ottobre 1916 dal Kenya si sposta a Gibuti passando da Mogadiscio, poi, in treno, arriva ad Achachi e in seguito, a dorso di mulo, nei panni di un «turista», raggiunge Addis Abeba il 25 dicembre installandosi nel miglior albergo della città, il Bollolakos. Qui mantiene la massima discrezione per restare in incognito. Avvisa mons. Jarosseau, che non lo vede di buon occhio, ma lui è appoggiato da Propaganda Fide, anch’essa avvisata.
Monsignor Barlassina, ancora lontano dal Kaffa, inizia il suo lavoro di diplomazia e di conoscenza del Paese. Si fa conoscere e si fa ben volere, come era nel suo carattere.
Ottiene un incontro con l’erede al trono, il ras Tafari nel marzo dell’anno successivo (si veda cronologia pag. 42). Riesce a spiegargli i suoi obiettivi: «esplicare la nostra attività ed essere utili alla popolazione […] essere utili allo sviluppo intellettuale del popolo con coltivazioni e commerci […]». Tra i due si approfondirà una conoscenza reciproca e un rispetto che saranno molto utili. L’erede al trono è però condizionato dal vescovo copto e dal suo clero: non può farsi vedere troppo aperto verso i cattolici. Le autorità etiopiche dicono no a una «Missione cattolica».
Monsignor Barlassina comprende la questione: «Farà il missionario ma a modo suo, vestendosi da mercante» (cfr. libro di Crippa in bibliografia). Il governo italiano, intanto, moltiplica le pressioni per la fondazione di una società commerciale perché vuole ottenere vantaggi dalla presenza dei missionari sul territorio. Monsignor Perlo, dal Kenya, sostiene questa via. Ma, mentre questa strada stenta, compare l’uomo della provvidenza: il signor Felice Gullino, un vero commerciante incontrato ad Addis da Barlassina. Gullino, tramite accordi privati, senza cioè l’interessamento della rappresentanza italiana, ottiene i permessi necessari per aprire due concessioni della «Società Felice Gullino e compagni», che altro non saranno che le prime missioni della Consolata in Etiopia.
Intanto Barlassina, argomentando che «la nostra opera al principio sarà solo morale e materiale, ma sempre benefica ed efficace […]», ottiene il permesso di procedere da Torino e da Propaganda fide, ricevendo felicitazioni da quest’ultima per «il suo tatto e la sua prudenza» e i risultati ottenuti.
La prima missione
Il 15 ottobre 1917 arrivano ad Addis dal Kenya padre Delfino Bianciotto e fratel Carlo Angrisani. Con una carovana, accompagnati dal signor Gullino, entrano nella zona del Kaffa chiamata Leka, e si installano a Ghimbi (oggi Gimbi). Indossano vestiti civili e affittano tre «tucul» (capanne) nei pressi del mercato, per poi costruire una casetta e aprire un negozio. È questa la prima missione-agenzia commerciale della Consolata in Etiopia. Un anno più tardi, padre Giovanni Emilio Toselli aprirà a Billo, sempre nel Kaffa. Il viaggio da Addis a Ghimbi è un’avventura. Nonostante abbiano i permessi, numerosi sono i posti di blocco tra i territori di capi e capetti e le imposte da pagare per passare, a rischio di dover fare dietro front. Inoltre, ci sono i predoni che infestano alcune zone. I missionari incontrano persone locali e non, che li aiutano e li proteggono. Percorrono così 430 km in circa 22 giorni.
Rispetto al Kenya, l’Etiopia è un altro mondo. Qui il modo di fare missione è ben diverso: non si può agire allo scoperto, a causa dell’ostilità dei preti copti. Si rischia di essere denunciati ed espulsi. Si tratta dunque di un «apostolato occulto», e lo sarà per molto tempo.
Barlassina, rimasto in capitale, può contare sull’appoggio dell’Allamano, con il quale c’è vicinanza e comprensione. Frequenti e dettagliati sono i resoconti del neo prefetto al fondatore.
Padre Bianciotto studia quali sono i commerci possibili a copertura della missione. Parla di pelli di animali e cereali, di fabbricazione del sapone, di filatura del cotone, di agricoltura e di allevamento.
I padri sono impressionati dal commercio degli schiavi, che fiorisce all’interno del Paese. E proprio questi saranno tra i primi a ricevere l’attenzione dei missionari, in quanto sono gli ultimi nella scala sociale. Occorre «il coraggio dei profeti e la prudenza dei pastori» (cfr. Crippa). Per ogni mossa falsa, si rischia di essere scoperti: ogni ministero pubblico è proibito. Tutte le iniziative sono esperimenti da valutarsi nel tempo.
La carovana del Blas
Monsignor Barlassina (detto Blas), non ha ancora messo piede nel Kaffa, la sua prefettura apostolica. All’inizio del 1919 organizza una carovana, con la quale vuole fare un ampio giro di perlustrazione di quel territorio. Parte con padre Toselli, che è arrivato a ottobre del 1918. Vuole toccare Billo, Ghimbi, Gore, Didu, Kaffa, Gimma, Lìmmu.
Questo viaggio verrà ricordato come «la carovana del Blas».
È così che Barlassina entra in contatto con una realtà importante: i cattolici (e loro discendenti) che si erano convertiti grazie ai missionari del cardinale Massaia, e che poi sono stati costretti a praticare in segreto, o a uniformarsi ai riti copti. Sono incontri delicati: da entrambe le parti occorre fare molta attenzione. Il prefetto intuisce che il recupero e l’assistenza di queste comunità cattoliche clandestine costituirà una priorità per il suo ministero. I «pagani» verranno in seguito, senza essere dimenticati. Particolarmente toccante è l’incontro con un vecchio prete cattolico, ordinato dal cardinale Massaia.
La Consolata si espande
Nel 1925 si possono contare sette missioni nel Kaffa e attività ad Addis Abeba: Andreaccia-Irgalem, Umbi-Saio, Magi, Ciaha, Comto (Lechemti), Bonga e Addis Abeba. Billo è stata chiusa nel 1920.
Barlassina, che nel 1904 ha partecipato alle Conferenze di Murang’a in Kenya (cfr. MC ottobre 2022), decide che è tempo di radunare i confratelli per riflettere sulla metodologia missionaria da adottare. Nascono così le Conferenze di Umbi, tenutesi nel gennaio del 1925.
Nel frattempo, il Blas, fin dal 1923, ha richiesto l’arrivo di suore e le prime sei sono arrivate nel marzo del 1924. Tre destinate nell’interno e tre ad Addis Abeba hanno l’utilissima qualifica di infermiere.
Nelle conferenze si discutono le Norme e raccomandazioni per la prefettura del Kaffa, un insieme di regole per i missionari. Si delineano, inoltre, le priorità dell’azione.
Particolare attenzione si dà ai «cattolici occulti», cercando di dare loro lavoro e facendo in modo che le famiglie vivano nei pressi della missione, per dare coraggio e riportarli alla normalità del culto.
In secondo luogo, i praticanti di religioni tradizionali (detti pagani) sono favoriti, anche perché sono i più disprezzati. Con i copti occorre invece fare molta attenzione, per i rischi di denuncia.
A livello di opere, le missioni-agenzie di commercio si occupano di cure mediche (soprattutto grazie alle suore), di scuole, in prevalenza per mestieri e primaria, e poi di catecumenato. Importante è la scuola voluta dal Blas e diretta da padre Luigi Santa nella capitale.
Molte attività sono però quelle commerciali di paravento, che comunque permettono ai missionari di entrare in contatto con la gente di diverse estrazioni e fedi. Sono creati mulini, piantagioni di tè e caffè, allevamenti.
Un’altra caratteristica peculiare è che le missioni sono a molti giorni di carovana una dall’altra, e che i viaggi sono utili per trovare cattolici occulti.
Ordini superiori
Nel 1933 monsignor Gaudenzio Barlassina viene richiamato in Italia, in quanto nominato superiore generale dell’istituto, in sostituzione di monsignor Perlo, che a sua volta era succeduto ad Allamano. A malincuore deve lasciare l’Etiopia, ma obbedisce, e il bilancio del suo lavoro è molto positivo. Come prefetto è nominato padre Santa, inizialmente con padre Mario Borello incaricato della procura di Addis Abeba.
Nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia senza dichiarazione di guerra. I missionari, diventati nemici, sono espulsi.
Ritornati al seguito degli invasori, nel 1936, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la vittoria sul campo degli inglesi, i missionari della Consolata sono espulsi in via definitiva tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942. L’ultimo a partire è proprio monsignor Luigi Santa.
Delle 43 stazioni missionarie aperte, solo due restano attive, gestite da due sacerdoti etiopi.
Ma il sogno dell’Etiopia resta vivo.
Marco Bello
Bibliografia:
Giovanni Crippa, I Missionari della Consolata in Etiopia, dalla prefettura del Kaffa al vicariato di Gimma(1913-1942), ed. Missioni Consolata 1998.
Giovanni Tebaldi, L’ultimo carovaniere, Gaudenzio Barlassina 1880-1966, ed. Emi 2004.
La Consolata in Etiopia: 1970, atto secondo
Il ritorno in punta di piedi
I missionari della Consolata non mollano. E nel 1970 tornano in Etiopia. Questa volta non come mercanti, ma come «Fatima fathers». Si confrontano con i difficili anni della dittatura marxista e poi della carestia. Ma resistono. Di nuovo sono importanti alcune figure guida, come padre De Marchi e padre Bonzanino.
Il sogno del beato Allamano per l’Etiopia resta vivo nei suoi missionari, e nel 1970 la Consolata rimette piede nel Paese, con discrezione, sotto il nome di Fatima fathers, assumendo alcune missioni (Meki e Shashemane) nel vicariato di Harrar, centro est.
A fine giugno, il superiore generale, padre Mario Bianchi, incontra il vicario apostolico di Harrar, monsignor Urbani Marie Person, per accordarsi sulla presenza dei missionari della Consolata a Meki, a metà strada tra Addis Abeba e Awasa. Incontra pure i padri Comboniani, operanti nella zona.
Per le trattative dirette viene incaricato padre Giovanni De Marchi che, nel 1971, con padre Lorenzo Ori, apre il centro di Meki. Qui si contano 600mila abitanti, di cui la metà musulmani, 250mila aderenti a religioni tradizionali, 50mila copti, 2.500 protestanti e appena 150 cattolici. È un’area Oromo-Arsi (musulmani) e Shoa-Oromo (cristiani).
Nel 1975 i missionari della Consolata sono dieci, guidati dal carismatico padre De Marchi, e operano a Meki, ad Addis Abeba, a Shashemane, aperta nel 1972, e nel 1973 a Gambo (missione con lebbrosario che ospita oltre 100 lebbrosi) e Gighessa (missione e centro per bambini poliomielitici).
Tempi difficili
Il lavoro missionario in Etiopia non è facile, anche per le esigenze e i continui controlli del governo, il quale, più che missionari, desidera persone esperte in promozione umana, e impone una pesante burocrazia.
A Meki, la missione dedicata a Nostra Signora di Fatima è bene avviata e organizzata, con case per i padri e le suore, cappella, scuole, laboratori di tecnica, falegnameria, ospedale.
Nel 1980 proprio a Meki viene creata una nuova prefettura apostolica, che viene affidata all’istituto. Viene nominato amministratore padre Giovanni Bonzanino e, nonostante sia destinato a diventare vescovo, i missionari propendono per un sacerdote locale, e così Yohannes Woldegiorgis diventa il primo vescovo di Meki (1981).
La Prefettura apostolica di Meki copre un’area di 156mila km² (la metà dell’Italia), con una popolazione di oltre tre milioni di abitanti, di cui ottomila cattolici. I missionari della Consolata sono diciannove, dei quali uno solo è etiopico, e occupano nove missioni. Oltre all’evangelizzazione si dedicano al servizio dei più poveri: a Gambo gestiscono un ospedale e un centro di controllo per la lebbra; a Gighessa e ad Asella dirigono due centri per bambini con disabilità fisiche e mentali; a Shashemane reggono una scuola per ciechi, lebbrosi e disabili; a Meki dirigono una piccola scuola tecnica a livello accademico. La concessione agricola a Gambo, proprietà della Diocesi, è messa a disposizione della missione per il sostentamento di tutte le attività. Il terreno è ancora in gran parte foresta e solo 100 ettari sono coltivabili.
I missionari operano dunque su due settori: quello sociale, che caratterizza la loro presenza, e quello pastorale per la creazione di comunità cristiane.
Missione e rivoluzione
Il contesto politico, in questi anni, è molto complesso. L’imperatore Selassié viene deposto nel 1974, dopo una serie di scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali contro l’assolutismo del Negus, e a causa della mancanza di cibo.
Un comitato delle forze armate, diretto dal generale Aman Andon, abolisce la monarchia e proclama la repubblica. Nel 1977 assume il potere il colonnello Menghistu Hailé Mariam, che instaura un regime di «socialismo scientifico»: nazionalizza ogni settore produttivo, statalizzando suolo e sottosuolo, ponendo fine al latifondismo.
Con il «terrore rosso», fra il 1977 e il 1978 stronca ogni opposizione con migliaia di esecuzioni sommarie. Nel 1977 l’esercito deve affrontare le ribellioni in Eritrea e nell’Ogaden (Somalia). L’Etiopia è appoggiata dalla Russia e da Cuba. Nel contempo scoppia la guerriglia dei contadini del Tigray.
Verso la fine del 1980, padre Bonzanino scrive una nota positiva: «La rivoluzione ha un volto meno ostile e persino favorevole ad opere socio-caritative a cui attendono i missionari della Consolata per essere accettati dal governo». Poi aggiunge: «Si spera persino in una primavera di vocazioni». In effetti a Nazareth c’è un seminario e ad Addis Abeba padre Francesco Ponsi, insegna alla National University di Addis Abeba, ma anche al seminario minore.
Nel 1984 il paese incomincia a risentire degli effetti della siccità iniziata nel 1982 che uccide più di 500mila contadini, minacciando la vita di oltre 5 milioni di persone.
I missionari della Consolata aprono una ventina di centri per la distribuzione di viveri. A coadiuvare il Prefetto apostolico è soprattutto il padre Paolo Angheben. Nel 1986, il superiore generale dell’Imc, Giuseppe Inverardi, dopo una visita in Etiopia, scrive: «Il futuro è incerto e imprevedibile, cioè precario. Non è il caso di passare alla denuncia. È faticoso confrontarsi con una forza che agisce non ispirandosi alle necessità ma ad una ideologia». Il regime è antireligioso. È perciò comprensibile un senso di amarezza e di frustrazione nei missionari in attesa di tempi migliori.
Alcuni si chiedono: «Cosa deve fare un missionario nella rivoluzione?». Altri lasciano il Paese. Occorre la capacità di mantenere l’equilibrio missionario. Tante sono le difficoltà burocratiche e fiscali create dal governo per la gestione di scuole, ospedali, lebbrosari, o anche solo per ottenere un lasciapassare.
Ma i cambiamenti mondiali e la caduta del Muro di Berlino (novembre 1989) portano il regime a ridimensionare le proprie posizioni e strategie. Nel marzo 1991, Menghistu fugge in fretta e furia dal paese, e gli succede, come capo del governo, Meles Zenawi.
Il dialogo con i copti
Un’opera altamente benemerita favorita dai missionari della Consolata in Etiopia è quella delle varie iniziative ecumeniche con i cristiani copti. La Chiesa ortodossa copta, con 16 milioni di fedeli, ha iniziato un dialogo con la Chiesa cattolica. E i missionari sono all’avanguardia, mirando non al proselitismo, ma alla collaborazione. Oltre a curare le scuole, i ciechi e i lebbrosi, i missionari della Consolata proseguono nelle varie iniziative ecumeniche in un clima di vera fratellanza.
Lo sviluppo della presenza dell’Imc in Etiopia è dipeso dalla capacità coraggiosa e intelligente di padre Giovanni De Marchi prima, e di padre Giovanni Bonzanino poi. Questi ha guidato i missionari dal 1979, fino alla sua morte prematura nel gennaio 1983.
adattamentodatesti di Igino Tubaldo
Cronologia essenziale
1889. Menelik II diventa imperatore d’Etiopia, unificando i regni di Scioà, Oromo, Amara e Tigré. È l’inizio della dinastia Salomonide.
1913, 28 gennaio. Eretta la Prefettura del Kaffa.
1913, 12 dicembre. Morte di Menelik II, breve regno del nipote Ligg Jasu, seguito da una conflittuale divisione di potere tra l’imperatrice Zauditù, e il ras Tafari, successore designato.
1914, novembre. Primo tentativo di carovana dei Missionari della Consolata, travestiti da mercanti, dal Kenya verso il Kaffa. La guida padre Dal Canton.
1916, 25 dicembre. Monsignor Barlassina, partito da Mombasa (Kenya) arriva ad Addis Abeba, «ben camuffato».
1917, ottobre. I padri Bianciotto e Angrisani, entrati nel Leka, aprono la prima missione a Ghimbi. Un anno più tardi, padre Toselli aprirà la missione di Billo.
1919, gennaio. «Carovana del Blas»: mons. Barlassina compie un ampio viaggio di perlustrazione nel Kaffa, per vedere dove aprire le altre missioni.
1923. Ammissione dell’Etiopia nella Società delle Nazioni. Il Paese si impegna a rispettare le libertà fondamentali, abolire la schiavitù, garantire la libertà di culto e di educazione.
1924, 3 marzo. Arrivo delle prime sei suore della Consolata ad Addis Abeba. Impossibile nasconderle a causa degli abiti.
1925, gennaio. I missionari della Consolata presenti in Etiopia si riuniscono per pregare e fare il punto sul metodo: «Conferenze di Umbi».
1930. Sale al potere il ras Tafari Maconnen, con il nome di Hailé Selassié, in seguito alla morte improvvisa dell’imperatrice Zauditù.
1935, 3 ottobre. L’Italia invade l’Etiopia senza dichiarazione di guerra.
1936, 5 maggio. Gli italiani arrivano ad Addis Abeba, l’imperatore scappa in esilio, l’Etiopia è annessa all’Africa orientale italiana. Vengono iniziate opere di infrastrutture e abolita la schiavitù che coinvolgeva ancora nove milioni di persone.
1941. Cade l’impero coloniale italiano, l’Etiopia è liberata dagli inglesi. Torna l’imperatore Selassié (secondo regno). I missionari italiani sono espulsi.
1955. Costituzione dell’Etiopia.
1970. I missionari della Consolata tornano in Etiopia sotto il nome di Fatima fathers. Sono guidati da padre De Marchi e poi da padre Bonzanino.
1974, 12 settembre. Colpo di stato a opera di un gruppo di ufficiali dell’esercito. Deposto dal Derg (giunta militare al potere), Selassié scompare misteriosamente nel 1975.
1975, 12 marzo. Proclamata la fine del regime imperiale e la nascita dello Stato comunista.
1977. Prevale Menghistu Hailé Mariam che instaura il regime di «terrore rosso».
1980. La prefettura apostolica di Meki viene affidata alla Consolata.
1984-85. Grande siccità e carestia, muore circa un milione di persone.
1987. Il Paese prende il nome di Repubblica democratica popolare d’Etiopia, la dittatura è sostituita dal monopartitismo.
1991. Il negus perde l’appoggio dell’Urss e scappa in esilio, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf) fonda la Repubblica federale democratica d’Etiopia.
Meles Zenawi, leader del Fronte popolare di liberazione del Tigray, resta a capo del governo di transizione dal 1991 al 1995.
1995. Prime elezioni multipartitiche. Zenawi nominato primo ministro e poi confermato alle elezioni del 2000.
1998-2000. L’Etiopia è in guerra con l’Eritrea. Terminerà con l’accordo di Algeri.
2005. Le elezioni, considerate le prime realmente multipartitiche, e quelle del 2010, vedono Zenawi riconfermato.
2012. Zenawi muore improvvisamente ed è sostituito da Hailé Mariam Desalegn, confermato alle elezioni del 2015.
2018, 15 febbraio. Desalegn rassegna le dimissioni. Un mese dopo Abiy Ahmed Ali, presidente dell’Organizzazione democratica del popolo Oromo, uno dei quattro partiti di coalizione al governo, è designato leader dell’Eprdf, il 2 aprile è eletto primo ministro dal parlamento, è il primo premier oromo dell’Etiopia.
Ma.Bel.
La Consolata in Etiopia negli anni 2000: le sfide di oggi
Gli eredi di Barlassina
Il sogno del beato Allamano sull’Etiopia continua ancora oggi e, dopo oltre 100 anni, è portato avanti anche da molti missionari e missionarie etiopici. Le sfide non sono lontane da quelle di un tempo: l’esiguo numero di cattolici, le difficoltà burocratiche, i problemi economici e le continue guerre interne.
Asella, Meki, Shashemane, Alaba, Gambo, Weragu, Minne, Modjo, Ropi e, più tardi, Shambu: sono le missioni dove i missionari della Consolata hanno lavorato e continuano tutt’ora a lavorare. Dopo anni di impegno nel creare comunità cristiane, le missioni di Asella, Shashemane, Meki e Ropi sono state passate al clero locale che continua le attività iniziate della Consolata.
Gambo, conosciuta per il suo ospedale e per il villaggio dei lebbrosi, continua a essere servita dall’Imc anche se l’ospedale tre anni fa è stato consegnato al governo della regione Oromia. La missione, oltre a continuare a dare supporto all’ospedale, sostiene con aiuti economici tanti lebbrosi che abitano nella zona, molti dei quali sono anziani e vivono grazie all’aiuto ricevuto.
Il gruppo oggi
Oggi i missionari della Consolata che lavorano in Etiopia sono diciassette, di cui dieci etiopici, tre italiani e quattro keniani.
Da sempre, l’attività missionaria comprende sia la cura pastorale delle comunità cristiane, sia le attività di sviluppo sociale e umano. I missionari, in collaborazione con due congregazioni femminili, portano avanti due asili, a Modjo e a Shambu,
e due cliniche mediche con reparto maternità, a Weragu e ancora a Modjo.
Sempre in Modjo, oltre al seminario propedeutico, i missionari gestiscono un centro di animazione e spiritualità missionaria, molto apprezzato sia per ritiri che per convegni.
Piccole comunità
Una delle caratteristiche delle missioni della Consolata in Etiopia, è la loro presenza in zone abitate in prevalenza da popolazioni di fede musulmana e con piccole comunità di cattolici. Si va dalle poche decine di fedeli in Modjo a qualche migliaio in Weragu. Questa è una delle sfide maggiori, sia dal punto di vista dell’evangelizzazione che finanziario. Nonostante la generosità delle comunità cristiane, l’esiguo numero e povertà dei loro membri, in maggioranza contadini, rende difficile l’auto sostentamento delle missioni. Senza gli aiuti provenienti dai benefattori dell’Italia e di altri paesi, sarebbe impossibile gestirle.
Il numero esiguo dei fedeli non è solo un elemento delle nostre missioni, ma una caratteristica dei cattolici in Etiopia che sono meno del 1% della popolazione, la quale si aggira intorno ai 115/120 milioni di abitanti.
Sono quindici i missionari della Consolata di origine etiopica. Otto giovani seminaristi stanno studiando teologia nei vari seminari internazionali dell’Imc, e saranno ordinati nei prossimi anni. Nel seminario propedeutico di Modjo ci sono dieci giovani in discernimento vocazionale e altrettanti nel seminario di Addis Abeba che stanno studiando filosofia.
Le sorelle
Oltre ai missionari della Consolata, sono presenti nel Paese le missionarie della Consolata che per anni hanno condiviso la stessa missione.
Arrivarono in Etiopia nel 1924. Al momento hanno una missione in Addis Abeba che funge anche da casa di formazione con otto ragazze in discernimento vocazionale.
Senso di insicurezza
In molti avranno sentito parlare in questi ultimi anni dell’Etiopia. La guerra che si è combattuta nel Tigray, nel nord del paese, tra il Tplf (Fronte popolare per la liberazione del Tigray, ndr) e il governo etiope, ha lasciato una triste eredità di sofferenza e di morte per milioni di persone. Si calcola che circa 500mila etiopi siano morti durante i due anni di guerra. Alla fine del 2022 si è firmato in accordo di pace promosso dall’Unione africana.
Nonostante le armi abbiamo cessato di sparare, gli odi etnici permangono e tutt’ora esiste un senso di insicurezza nel Paese a causa delle continue tensioni che nascono tra le varie realtà.
Recentemente una specie di scisma si è verificato all’interno della chiesa ortodossa causato dalle rivendicazioni dei cristiani di etnia oromo. La crisi ha coinvolto anche politici, sia a livello locale che nazionale, e la componente politica nazionalista è fondamentalmente alla base di diverse di queste rivendicazioni.
Aumentano le disuguaglianze
La divisione tra coloro che vivono nell’abbondanza e coloro che a fatica riescono ad avere un pasto al giorno si sta facendo sempre più acuta.
Fa impressione vedere nella capitale Addis Abeba un aumento di auto di lusso nuove, mentre in altre zone del Paese la gente fa la fame. A causa della guerra, ci sono ancora milioni di rifugiati interni che vivono in campi gestiti dalle agenzie dell’Onu o dalle autorità locali. A tutto questo si è aggiunta recentemente una carestia in alcune zone come il Borana e la Somalia etiopica. Oltre a migliaia di animali, sono morti decine di bambini per malnutrizione e malattie connesse.
Mancanza di unità
L’Etiopia è un paese ricco di risorse naturali e umane, con tradizioni e una cultura millenaria, nonostante ciò, ha raramente avuto periodi di pace negli ultimi cent’anni.
Come in ogni situazione umana, molti dei problemi di questo Paese sono riconducibili alla povertà della leadership. Tutt’ora non esiste una coscienza nazionale condivisa, piuttosto ci si identifica con la propria etnia a scapito di una visione unitaria di Paese.
Le tensioni indipendentiste sono molto forti tra i vari gruppi etnici. La sfida maggiore per i politici presenti e futuri è quella di creare un senso di unità nazionale.
La corruzione, come in tanti altri paesi del continente, è dilagante (nella classifica dell’indice di percezione della corruzione Cpi di Transparency international, l’Etiopia si trova al 94° posto su 180 paesi, in peggioramento, mentre l’Italia è al 41°, ndr).
Nonostante le difficoltà presenti e le sfide dell’evangelizzazione, i missionari della Consolata continuano la loro missione fiduciosi in un futuro migliore sia per il Paese che per la Chiesa.
Marco Marini
Una storia e uno sviluppo economico senza pari
Identità e globalizzazione
L’Etiopia è un paese molto particolare. Di storia cultura millenaria, fatica a trovare un’unità. Al contrario, molti conflitti vengono ancora regolati con le armi. L’economia galoppante sta ora rallentando, mentre importanti risorse, come la terra, sono state svendute a privati e all’estero.
Il 12 gennaio 2015, in occasione degli auguri per il nuovo anno ai rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, papa Francesco parlava di «globalizzazione uniformante che scarta le culture stesse, recidendo così i fattori propri dell’identità di ciascun popolo».
Se si guarda ai secoli passati, dagli antichi fasti di Aksum alle complesse dinamiche feudali, l’Etiopia è senza dubbio il Paese africano che può vantare la storia più peculiare. Se si guarda ai tempi recenti, con l’accettazione degli investimenti cinesi e il boom edilizio nella capitale, sembra invece una delle nazioni macinate dalla «globalizzazione uniformante» di cui parlava il papa. Quale di queste due tendenze prevale nel caratterizzare l’attualità etiope? Abbagliati dalle cifre da capogiro che le statistiche economiche hanno evidenziato negli ultimi anni, si sarebbe tentati di pensare alla seconda. Tra il 2000 e il 2020, infatti, il Paese ha fatto registrare una crescita del Pil di quasi il 9% annuo, diventando la quarta potenza economica del continente dietro a Nigeria, Sudafrica e Angola. Come tale ricchezza sia distribuita tra i suoi 120 milioni di abitanti, è tutto un altro discorso. Inoltre, per gli effetti della pandemia da Covid-19 e della guerra in Tigray, nel 2021 tale crescita è scesa al 2%, contro il 6% dell’anno precedente.
Ma cos’è che cresceva? Come è noto, i numeri delle statistiche economiche riportano solo quanto viene ufficialmente contabilizzato e quindi escludono l’economia informale, quella sulla quale si basa il sostentamento della maggioranza degli abitanti dell’Africa subsahariana. Non di rado, poi, accade che una crescita in certi settori, classicamente indirizzati all’esportazione, provochi un impoverimento di altri, spesso proprio quelli che riguardano gli strati più poveri della popolazione. Ne sanno qualcosa contadini e pescatori nigeriani che si sono ritrovati terre e acque inquinate dalle fuoriuscite di petrolio provenienti dagli impianti della Shell.
A differenza di ciò che è avvenuto in Angola e Nigeria, lo sfruttamento delle risorse di idrocarburi etiopi, presenti nella regione dell’Ogaden ed estratte dalla società cinese Poly-Gcl, è iniziato solo nel 2018, e richiederà tempo prima di entrare a regime. Una volta tanto, quindi, è stata l’economia agricola quella su cui si è puntato. Conformemente ai dettami del mercato globale, ci si è concentrati sulle esportazioni così da favorire l’ingresso di moneta pregiata: quasi il 60% dei redditi etiopi derivanti da valuta estera provengono dal caffè, che rappresenta oltre un quarto dell’export. Altri prodotti di vario tipo, dai fiori recisi ai semi oleosi, hanno concorso ad aumentare i profitti, contribuendo, secondo le statistiche ufficiali, a dimezzare la povertà estrema che nel 1995 affliggeva ancora il 45% della popolazione.
Investimenti e grandi opere
La crescita economica basata sul settore agricolo ha favorito una certa industrializzazione, seppur limitata ad alcune zone nelle quali si sono adottate agevolazioni fiscali e forniti servizi logistici per attrarre capitali d’investimento. Sono comunque aumentate anche le industrie manifatturiere destinate al mercato interno, quelle che molti analisti ritengono essere una delle chiavi per lo sviluppo dell’Africa. Infine, nel febbraio 2022 è entrata in funzione sul Nilo Azzurro la diga del «Grande rinascimento etiope», il maggiore impianto idroelettrico del continente che, con i suoi 5.200 megawatt, raddoppierà presto la produzione energetica dell’Etiopia.
Nondimeno, tale successo ha avuto un rovescio della medaglia, essendosi prodotto anche a seguito di pratiche di land grabbing. Valutando le risorse effettive del Paese, nel 2003 il governo aveva messo a fuoco l’idea che uno sviluppo industriale sarebbe potuto essere finanziato da uno sviluppo agricolo destinato all’esportazione. Su questa base, nel 2010 è stato varato un piano quinquennale di crescita e trasformazione a seguito del quale l’anno successivo, oltre a spingere, mediante agevolazioni fiscali, molti piccoli proprietari a dedicarsi a coltivazioni indirizzate ai mercati esteri, l’Etiopia ha siglato ben 406 contratti di sfruttamento commerciale della terra, per un totale di un milione di ettari concessi in locazione pluridecennale a imprese nazionali o straniere. Per attrarre gli investitori, i canoni di affitto sono stati tenuti molto bassi (da 1 a 5 euro all’anno per ettaro); inoltre, l’inizio dei pagamenti veniva posposto di 3-6 anni e, avvenendo in valuta locale, assicurava un grande risparmio alle imprese affittuarie, le quali avrebbero potuto beneficiare della ovvia svalutazione a cui la moneta nazionale, il birr, sarebbe andata incontro in periodi così lunghi (basti dire che, se vent’anni fa il cambio con l’euro si aggirava su un valore 10, adesso è vicino a 60).
Le conseguenze di tale politica erano considerevoli su una popolazione che per l’85% opera nel settore agricolo, per di più in certi casi ancora in regime di sussistenza.
Negli studi macroeconomici delle grandi agenzie di sviluppo, la parcellizzazione della proprietà terriera in Etiopia è il fattore che da ormai lungo tempo viene indicato come l’ostacolo principale al progresso del Paese. D’altra parte, fino a meno di mezzo secolo fa, era ancora in vigore il potere imperiale e l’usufrutto della terra era regolamentato da complesse norme consuetudinarie e feudali elaborate nel corso dei secoli.
Menghistu
Con il colpo di Stato che nel 1974 ha deposto Hailé Selassié, l’ultimo imperatore d’Etiopia, il Paese è passato sotto la dura dittatura comunista del maggiore Menghistu Hailé Mariam, con conseguente nazionalizzazione delle proprietà, terra inclusa, e, nel 1984, reinsediamenti di contadini (in totale, un milione e mezzo di persone) dal nord al sud che hanno provocato una forte mortalità per malaria (i nuovi arrivati non disponevano di difese immunitarie specifiche), conflitti con gli abitanti del posto e sconvolgimento delle rotte di transumanza.
A seguito di una lunga e sanguinosa guerra di liberazione, nel 1991 Menghistu è stato sconfitto e la nuova Etiopia, sotto la guida del nuovo leader Meles Zenawi, oltre a concedere l’indipendenza all’Eritrea, si è data la formula originale di una Repubblica federale organizzata su base etnica. Siccome però le persone, a differenza dei territori, si muovono e si mischiano, i confini regionali sono rimasti incerti, tanto che trovare delle cartine unanimemente riconosciute è stato un problema ricorrente.
All’inizio, il decentramento di potere alle regioni è risultato abbastanza marcato, poi si è progressivamente ridotto. L’affitto della terra, infatti, è stato legalizzato nel 1996 e sottomesso alle diverse legislazioni regionali. Ma cinque anni dopo, anche a causa di episodi di corruzione e inefficienza, il governo centrale ha avocato a sé la gestione dei contratti riguardanti superfici superiori ai 5mila ettari.
Dopo il decesso di Meles Zenawi, nel 2012 la funzione di primo ministro è passata a Hailé Mariam Desalegn, dello stesso partito del suo predecessore. Pertanto, il nuovo piano quinquennale di crescita e trasformazione, varato nel 2015 nonostante le manifestazioni di piazza avvenute nel 2014, ha ricalcato le linee guida del precedente. E proprio il problema della sottrazione delle terre è stato alla base, negli ultimi mesi di quell’anno, delle proteste scoppiate fra la popolazione oromo che, costituendo circa un terzo degli etiopi, è la più numerosa del Paese.
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era rappresentata dal piano di espansione edilizia di Addis Abeba, che prevedeva la confisca di molte terre prima adibite ad agricoltura e a pascolo. Gli scontri, intensificatisi nel 2016, hanno provocato diverse centinaia di morti a causa dei tentativi di repressione governativa. Per di più, proprio in quel biennio l’Etiopia veniva colpita dalla peggiore siccità degli ultimi 30 anni, con un aumento di 10 milioni nel numero di persone a rischio di insicurezza alimentare.
Abiy, oromo e premio Nobel
Nel 2018, di fronte a una protesta che non sembrava intenzionata a scemare, Desalegn ha rassegnato le dimissioni e, dopo che i due precedenti capi di governo erano stati entrambi di etnia tigrina, il parlamento ha affidato la guida del Paese ad Abiy Ahmed, un Oromo.
L’inizio del suo mandato ha rappresentato una vera e propria svolta, con la liberazione di detenuti politici, la riabilitazione di gruppi di opposizione che erano stati messi al bando, l’abolizione della censura sulla stampa, la nomina di una donna sia alla presidenza dello Stato sia a quella della Corte suprema e, soprattutto, la tanto agognata pace con l’Eritrea, provvedimento che nel 2019 ha fatto conseguire ad Abiy il premio Nobel per la pace. Sembrava un sogno, l’inizio di una nuova era di prosperità. Peccato che l’anno dopo l’Etiopia era di nuovo in guerra.
Stato (non) monolitico
Per capire questo tragico ritorno al passato, bisogna partire dalla considerazione che l’Etiopia non è mai stata, e non lo è tutt’ora, uno Stato monolitico. La sua è una storia di molti popoli, ognuno con la sua cultura, la sua religione e i suoi modi di vita. Popoli che non di rado sono stati in conflitto tra loro, stringendo alleanze ogni volta diverse, pronte a sciogliersi per costituirne altre a seconda dei bisogni. E, in quest’ottica, disposti a coalizzarsi quando la minaccia era esterna e l’interesse comune.
Ne sa qualcosa l’Italia che, il primo marzo 1896, ha subito ad Adua la più grande sconfitta militare mai occorsa a uno Stato coloniale in terra d’Africa: le nostre autorità, avendo constatato i forti contrasti tra i vari gruppi feudali di allora, non avrebbero mai immaginato che questi riuscissero a unirsi così efficacemente, e in breve tempo, per mettersi al servizio di un potere imperiale che molti di loro consideravano opprimente.
Ciò che in Etiopia è sempre stato combattuto è il tentativo di uniformare tutto. Non a caso, l’appiattimento collettivista imposto dalla dittatura comunista di Menghistu negli anni ‘70 non ha tardato a trovare un’opposizione sempre più determinata, fino a giungere al suo rovesciamento nel 1991. Quel ribaltamento è stato possibile anche grazie all’alleanza tra i due leader dei fronti di liberazione del Tigray e dell’Eritrea, subito però di nuovo divisi all’indomani del successo e addirittura in guerra tra loro pochi anni dopo: il conflitto tra Asmara e Addis Abeba del 1998-2000, che ha causato diverse decine di migliaia di morti per parte, è scoppiato apparentemente per futili rivendicazioni territoriali ma soggiaceva a una tensione che covava da tempo.
Due anni dopo la fine delle ostilità, una commissione internazionale appositamente costituitasi ha decretato che l’area contesa fosse da assegnarsi all’Eritrea, ma l’Etiopia ha rifiutato tale deliberazione per 16 anni, fino a quando, un paio di mesi dopo la sua nomina, Abiy non ha deciso di accettarla. La cosa non è piaciuta ai dirigenti regionali del Tigray, che consideravano la striscia contesa, circostante la cittadina di Badme, come territorio proprio.
Per di più, nell’autunno 2019, il premier etiope ha fondato una nuova formazione politica, il Partito della prosperità, con l’intenzione di riunire le varie componenti della coalizione di governo. Il potente Fronte popolare di liberazione del Tigray, che fino ad allora aveva tirato le file della politica nazionale, ha deciso di non aderire, passando di fatto all’opposizione.
L’uso delle armi
E qui veniamo a uno dei grandi difetti dell’Etiopia, forse il più grande: il ricorso alle armi. Studiandone la storia, non si può evitare di provare sgomento di fronte alla successione di sanguinosi conflitti armati esplosi con troppa facilità. A questa deriva ha contribuito senz’altro la compresenza di culture forti, ciascuna sostenuta da grande orgoglio nazionalista. Poi anche la difficoltà di condividere risorse, terra e acqua in primis. Queste da sempre oggetto di scontro, ora lo sono ancora di più a seguito della recente crescita demografica, del cambiamento climatico e del land grabbing. In più, con la vertiginosa crescita economica degli ultimi anni, si sono aggiunti i lucrosi affari di compagnie di tutto il mondo.
Quando nel 2020, a seguito della pandemia da Covid-19, il governo etiope ha deciso di rinviare le elezioni, le autorità tigrine non hanno nascosto il loro disaccordo e hanno deciso di organizzarle autonomamente nella propria regione. Se tale chiamata alle urne, svoltasi a settembre, aveva tutto il sentore di un tentativo di secessione, ben più grave è stato l’attacco «preventivo» compiuto dall’esercito regionale tigrino contro alcune basi regionali federali nella regione, uccidendo molti soldati e impossessandosi di gran parte degli armamenti lì presenti. L’escalation militare così innescata ha portato a un’ennesima terribile guerra, con la solita sequela di fasi alterne a favore di uno o dell’altro dei contendenti, massacri compiuti anche contro i civili da ambo le parti, due milioni di sfollati in stato di enorme indigenza, smantellamento dei già precari servizi sanitari, abbandono delle attività agricole, destrutturazione dei tessuti sociali, spese militari esorbitanti per dotarsi dei più recenti ritrovati della tecnologia bellica, nonché oltre 600mila morti.
A rendere il conflitto ancora più cruento è stato l’ingresso dell’Eritrea a fianco dell’esercito federale etiope, contro gli odiati vicini del Tigray. Qualche speranza di pace si è fatta strada dopo gli accordi, siglati a Pretoria il 2 novembre scorso, che prevedono il disarmo dell’esercito tigrino, nonché il ritiro di quello eritreo e delle milizie regionali amhara che appoggiavano le forze armate federali. Nel contempo, però, sembrano riacutizzarsi le tensioni contro la regione oromo.
Progresso e retaggi feudali
Quando ci siamo ormai addentrati nel XXI secolo da oltre 20 anni, l’Etiopia continua a presentare un’incredibile coesistenza di eccellenze nel campo del progresso e di retaggi feudali. Addis Abeba, sede dell’Unione africana e di ben 115 ambasciate, è uno dei principali centri politici internazionali fin dagli anni ‘60, ma il Paese sembra proprio non riuscire a trovare una formula di governo che possa soddisfare le circa 80 etnie in esso presenti. I «fattori propri dell’identità di ciascun popolo» e la «globalizzazione uniformante» di cui parlava il Papa, in Etiopia non risultano opposti, ma si coniugano in un mix micidiale dagli effetti troppo spesso tragici. Come non ricordare Abraham Demoz, il linguista eritreo che, nel 1968, aveva scelto l’eloquente titolo «I molti mondi dell’Etiopia» per un suo intervento presso la Royal african society di Londra? La relazione dello studioso iniziava così: «L’Etiopia è la disperazione del classificatore compulsivo».
Alberto Zorloni
Il Paese in cifre
Repubblica federale di Etiopia
Superficie: 1.127.127 km2 (3,7 volte l’Italia).
Popolazione: 121 milioni (2022).
Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 175/191 (2021).
Pil procapite annuo [PPP$]: 2.360.
Nota:PPP$ significa «dollari in parità di potere d’acquisto», tiene conto dei livelli dei prezzi nel paese.
Hanno firmato il dossier:
Marco Marini
Missionario della Consolata, è in Etiopia dal 2017. È stato superiore dei missionari in Etiopia fino al 2022 e ora è amministratore. Ha lavorato anche in Kenya, Italia, Canada. È stato consigliere generale dell’Imc.
Alberto Zorloni
Veterinario tropicalista, ha lavorato in diverse attività di sviluppo in Etiopia e in altri paesi africani. Tra le sue pubblicazioni: Etiopia, una storia africana, ed. Dissensi, 2016; Ripartire da ieri, Emi, 2015.
Marco Bello
Giornalista, direttore editoriale MC.
Si ringraziano
Fratel Domenico Brusa per i suoi appunti e la consulenza sulla presenza Imc in Etiopia. Padre Marco Marini per il suo apporto da Addis Abeba.
Foto e copertine
Tutte le foto del dossier (se non specificato) provengono dall’Archivio fotografico storico dell’Imc e furono realizzate su lastre fotografiche. Le più antiche risalgono alla fine degli anni ‘10 del secolo scorso.