Carissimo padre Gigi, direttore di MC,
ho terminato ora la lettura/meditazione del commento al brano evangelico del «racconto delle nozze di Cana» meravigliosamente spiegato dal sacerdote biblista Paolo Farinella, che voi con grande lungimiranza avete pubblicato sulla rivista Missioni Consolata in 38 puntate dal febbraio 2009 al febbraio 2013. Una lettura impegnativa, ma molto interessate e coinvolgente.
La meticolosa indagine mi ha «costretto» a calarmi nell’analisi fin nel profondo, sviscerando tutte le sfaccettature mai nemmeno ipotizzate e intuite, a scoprire i significati più nascosti e reconditi di un racconto di «soli» undici versetti. Una passeggiata che da tempo volevo intraprendere, ma avrei voluto effettuare solo dopo aver raccolto e messo assieme tutte le puntate pubblicate così d’avere un testo uniforme e scorrevole senza interruzioni lunghe un mese che avrebbero potuto fiaccare sia la mia memoria che la mia costanza. Grazie alla tua grande disponibilità ad aiutarmi a raccogliere e comporre tutto questo materiale, ho avuto la spinta necessaria per continuare in questo tuo grande lavoro e così ho potuto immergermi, naturalmente un po’ al giorno, nella lettura delle stupende pagine che don Farinella ci aveva gentilmente concesso.
Un grazie a Missioni Consolata per questo grande regalo e a te che essendo il direttore ne hai reso possibile la realizzazione. Il Vangelo raccontato da Giovanni rimane per noi, poveri tapini, un cibo difficile da digerire se non a piccoli bocconi, magari premasticati, come in natura fanno le madri per nutrire i propri piccoli ancora implumi e inconsciamente incapaci di cibarsi. L’importante in tutto questo è trovare la persona giusta che ti serva un piatto con il cibo sminuzzato, digeribile e allettante per te. Impresa non facile, ma in questo caso, e per me, di sicuro riuscita. Grazie ancora e speriamo di poter presto intraprendere un’altra «avventura» alla scoperta di un libro, il Vangelo e la Bibbia in generale, spesso letto e interpretato «alla nostra maniera» in modo superficiale e tradizionale senza riuscire a coglierne il profondo significato e il singolare messaggio nascosto ai più.
Giacomo Fanetti, 27/02/2024
Grazie a te per lo stimolo e l’aiuto che mi hai dato nel raccogliere tutte le 38 puntate di quel lungo cammino. Ora il testo è disponibile per tutti sul nostro sito in pdf, ben 240 pagine da leggere online o scaricare sul proprio computer. Voglio anche ringraziare di cuore don Paolo Farinella che ha dato il suo consenso all’operazione. Una fruttuosa lettura a tutti.
Un milione di firme per fermare la violenza alle frontiere dell’Europa
Stop border violence: entro il 10 luglio occorre raggiungere un milione di firme dai cittadini di almeno sette paesi dell’unione per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione per un trattamento più giusto e umano dei migranti e rifugiati sia in Europa che alle sue frontiere. Questo è il senso di una proposta lanciata dal basso.
«L’Unione europea si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà», così il preambolo della Carta dei diritti fondamentali.
L’Iniziativa dei cittadini europei (Ice) denominata «Art. 4: Stop tortura e trattamenti disumani alle frontiere d’Europa», prende il via dall’assunto enunciato nell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, in cui si afferma che nessuna persona «può essere sottoposta a tortura, né a trattamenti disumani e degradanti», quotidianamente violato lungo le frontiere di tutto il continente e non solo.
L’obiettivo della campagna Stop border violence, che ha avuto inizio lo scorso 10 luglio e si concluderà allo scadere dell’anno il 10 luglio 2024, è quello di arrivare a un milione di firme per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione che preveda misure concrete per contrastare e prevenire violenze e torture contro migranti e rifugiati in Europa e alle frontiere.
Per raggiungere l’obiettivo è però indispensabile che ci sia non solo un milione di firme, ma che questo milione sia l’espressione della volontà dei cittadini di almeno sette paesi europei differenti. Un obiettivo non facile per una campagna che non ha finanziamenti, né una organizzazione di riferimento, essendo portata avanti da attivisti che da tutta Italia e da alcuni paesi Ue, si sono messi in rete coordinandosi spontaneamente. L’iniziativa rischia di non arrivare alla meta se le realtà della società civile e religiosa, del grande associazionismo, dei sindacati, della politica e della stampa, non ne supporteranno attivamente la diffusione e la promozione.
Cosa si chiede in particolare al Parlamento europeo?
La tutela delle persone igranti o richiedenti asilo:
all’ingresso dello spazio comune europeo attraverso la regolamentazione dell’attività di controllo delle frontiere con la previsione di sanzioni specifiche per i paesi che violino apertamente il divieto dell’uso della violenza;
all’interno di paesi terzi, fuori dalla Ue, nell’ambito di operazioni volte alla cosiddetta «esternalizzazione delle frontiere» europee, attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i paesi membri che concludano accordi che non prevedano il controllo del rispetto dell’articolo 4;
nella definizione degli standard di accoglienza all’interno dello spazio dei paesi europei per tutto il periodo di permanenza sul territorio attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i Paesi che si rendano protagonisti con i propri organismi e/o le proprie forze dell’ordine di violazioni dei diritti delle persone migranti o richiedenti asilo.
Durante i prossimi mesi, a poca distanza dalla chiusura della campagna, in tutta Italia saranno allestiti banchetti per la raccolta delle firme in numerose città ed organizzati eventi e dibattiti.
È importante la partecipazione quanto più ampia possibile di tutti i cittadini e le cittadine che credono nella possibilità di un cambiamento attraverso il loro attivo coinvolgimento divenendo protagonisti di un processo di pace tanto necessario e invocato ma che può concretizzarsi solo a partire dal riconoscimento pieno dei diritti di tutti, piuttosto che dei privilegi di pochi.
L’interesse incontrato fino a ora ci conferma che il momento sia maturo per utilizzare questo strumento democratico.
di Anna Bellamacina, 14/03/2024 su Citta Nuova
Questa rivista fa sua la campagna in coerenza con il mondo missionario di cui è portavoce, un mondo che è a diretto contatto con le sofferenze di chi è vittima di guerre, ingiustizie, dittature, sopraffazioni, invasioni di terre, disastri climatici e scontri tribali (spesso alimentati ad arte per permettere lo sfruttamento incontrollato di risorse minerarie o energetiche).
La giornata di sabato 18 maggio sarà una grande festa della Chiesa di Verona nella vigilia di Pentecoste e un incontro tra papa Francesco e la città scaligera sul tema «Giustizia e pace si baceranno».
Il programma
Come anticipato, la giornata inizierà con la festa in piazza san Zeno, rivolta a bambini e ragazzi fino alla terza media, alle scuole e all’associazionismo dei ragazzi: sarà anche il momento dell’accoglienza di papa Francesco. In particolare, per i ragazzi di terza media questo incontro sarà l’inizio della «Festa del passaggio» che durerà tutto il giorno.
Il secondo appuntamento per il Pontefice sarà all’interno della basilica di san Zeno con un momento di dialogo e preghiera, nei pressi delle spoglie del patrono, riservato a preti, diaconi, consacrati e consacrate.
Di lì è poi previsto il trasferiento in Arena per partecipare ad una parte dell’evento «Arena di pace 2024» che si svolgerà nell’anfiteatro cittadino dalle 9 alle 13.
Successivamente, il Pontefice si sposterà alla casa circondariale di Montorio, per l’incontro con i detenuti, la polizia penitenziaria, i familiari, la cappellania, i volontari e tutti coloro che compongono questo mondo in cui, come ha sottolineato il vescovo Domenico, «sembra che regni il silenzio», mentre in realtà spesso salgono grida, speranze e lacrime, rispetto alle quali la società tace e si dimostra indifferente.
Culmine della giornata sarà la messa di Pentecoste allo Stadio Bentegodi che papa Francesco presiederà alle 16; sarà anticipata dalla festa dei giovani con musica, riflessioni, testimonianze, a partire dalle 14.
Ufficio stampa diocesi di Verona, 04/02/2024
Sessantesimo di sacerdozio
Mi presento. Mi chiamo John (Giovanni) e da 65 anni sono missionario della Consolata. L’avventura missionaria che il Signore ha scelto per me è stata molto variopinta. Dopo tre anni in un seminario minore a Bevera di Castello Brianza (Lc) come vicerettore, ho cominciato a viaggiare per il mondo: cinque anni come animatore missionario in Andalusia (Spagna); tredici anni in Kenya, prima in una missione con una superficie di 850 km2 a Siakago (Embu), poi come professore e formatore in un nostro seminario a Langata (Nairobi); sette anni a Pittsburgh negli Stati Uniti e due a Toronto in Canada, come animatore missionario; undici anni a Roma, prima in aiuto alla direzione generale e poi in un ambiente accademico, e dieci anni, ancora a Roma, come padre spirituale in una residenza di sacerdoti provenienti da oltre sessanta paesi per ottenere i gradi accademici di licenza e dottorato in diverse discipline nelle università romane. Alla bella età di 80 anni, sono approdato a Milano, in un centro dei Missionari della Consolata, nel territorio parrocchiale di San Benedetto (in aprile è tornato a vivere a Bevera, dove ha cominciato il suo servizio, ndr).
Il 21 dicembre scorso ho celebrato 60 anni di sacerdozio. La sensazione che il tempo sia volato è normale. Affiora però nel cuore un vivo ringraziamento e un proposito di usare bene il tempo che ancora mi sarà dato. Certamente il ringraziamento va al Signore, che mi è stato vicino in tutti questi anni, ma non posso non riconoscere la sua premurosa presenza in tutti coloro che hanno condiviso il mio cammino e mi hanno sostenuto, confortato, incoraggiato con la loro amicizia sincera. […]
I miei spostamenti non sono stati sempre facili. Alcune volte ho fatto ciò che i miei superiori volevano – sapevo che in loro lo voleva anche il Signore – in maniera pulita, cioè accettando subito di buon grado. Altre volte invece con qualche resistenza […]. Così anch’io ho finito sempre di fare ciò che mi è stato chiesto.
Tante sono state le «idee forza» che mi hanno guidato in questi 60 anni di servizio missionario, ma ne scelgo solo due, quelle, forse, che sono state più incisive e direi anche più efficaci. […]
La prima idea forza è stata il «momento presente»: come tutti i santi hanno insegnato con convinzione, il passato è nella misericordia di Dio, il futuro è nella sua provvidenza. Solo il presente mi è dato per viverlo con impegno. Il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, lo riassumeva nel «hic et nunc» e nel «nunc coepi» (qui e ora e ora ricomincio). L’attimo presente mi ha salvato tantissime volte dal sostare nella delusione di un fallimento, dal cadere nell’ansia per ciò che sarebbe accaduto, dal prendere decisioni avventate e rimanere nella calma, da reazioni esagerate in momenti di tensione, nel vivere con solennità ogni parte della mia giornata, senza dare importanza più a una che all’altra. Tutto è importante, se volontà di Dio: la preghiera, prendere cibo, la passeggiata, un incarico anche di poco conto a servizio degli altri.
La seconda idea forza è stata considerare il mio sacerdozio non uno stato di privilegio o un tantino superiore ad altri, ma un servizio. Mi ha fatto tanto bene un articolo di don Tonino Bello, intitolato «Stola e grembiule» (che invito tutti a leggere), in cui egli dice tra l’altro che Gesù, nella messa solenne celebrata nel Giovedì Santo, non indossò né casule né stole, ma si cinse ai fianchi un panno rozzo, con un gesto squisitamente sacerdotale. Ho visto sempre il mio Sacerdozio come «ministeriale», come lo è effettivamente, in confronto a quello «regale», ricevuto da tutti i cristiani nel giorno del loro battesimo. Quante volte ho ripetuto a me stesso e poi agli altri: «Con voi sono cristiano, per voi sono sacerdote», (riferendomi a ciò che dice ancora Sant’Agostino: «Con voi sono cristiano, per voi sono vescovo»), per partecipare a incontri di preghiera, per esempio, senza la pretesa di prendere la parola o avvicinare anche chi ha altre convinzioni religiose, senza la smania di convincere nessuno.
Che brutto, fino a sentirmi addolorato, al tempo del mio servizio come padre spirituale, sentire da sacerdoti una espressione come questa: «Siamo sacerdoti, dovremmo essere trattati meglio», quando c’era qualche disservizio involontario. Allora prendevo la prima occasione per ricordare loro che tutti gli studi che avevano fatto per diventare sacerdoti erano per prendere il diploma in «schiavitù», cioè per essere completamene al servizio della gente a loro affidata. Cercare di usare il mio sacerdozio come scusa per ottenere qualcosa mi è parso sempre sbagliato.
Vi chiedo una preghiera.
padre John Marconcini, Imc Milano, 16/01/2024
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
Dall’umiliazione alla dignità
Dopo aver condiviso le forti impressioni provocate da quanto descritto sull’umiliazione a cui si sottomettono vasti strati impoveriti della popolazione argentina, (vedi «Uomini e maiali» su MC notizie) ho avuto occasione di visitare recentemente una delle comunità indigene che la Provvidenza mi ha permesso di accompagnare vent’anni fa nelle vicinanze di Orán (Salta) nella lotta per il diritto al territorio ancestralmente occupato, contrastato dalla grande multinazionale Seabord Corporation (ex Ingenio San Martín del Tabacal), ma grazie a Dio recuperato.
È stata una mezza giornata di intense emozioni, al ricordare l’esperienza vissuta insieme dal 2004 al 2011, come parte di un’équipe della diocesi di Orán, per accompagnare la dura realtà dei conflitti per la terra di diverse comunità che dovevano affrontare l’opposizione ostile e violenta di potenti gruppi economici presenti nella zona.
Mi sto riferendo concretamente alla comunità Tupí Guaraní Iguopeigenda, situata a pochi chilometri della città di Orán.
La resistenza decisa di questa comunità ha fatto sì che si rafforzasse l’organizzazione comunitaria con criteri e valori propriamente indigeni, a cui è seguita l’elaborazione pratica di progetti di sviluppo produttivo per non finire nel circolo umiliante dell’impoverimento e dell’assistenzialismo. Sin dall’inizio, la resistenza ha avuto un obiettivo chiaro: «Non vogliamo dipendere da un precario pacco di alimenti, ma vivere del lavoro della terra che generosamente ci offre quello che coltiviamo con le nostre mani e che ci appartiene». Era, ed è, una dimostrazione chiara di dignità per affrontare le sfide della sussistenza.
Provvidenzialmente, proprio nel giorno in cui ho visitato questa comunità, mi si mostrava con sano orgoglio un riassunto di tutta l’esperienza, attraverso un cartello che riproduceva la memoria viva lasciata come eredità da Pablo Andrada, un hermano (fratello), morto recentemente.
«Siamo un’eredità viva, presente, dei Tupí Guaraní in questo mondo. E rimaniamo in una comunità radicata nel sud del Río Blanco. Iguopeigenda, la nostra identità.
Abbiamo un consiglio di anziani, e anche un nobile consiglio direttivo, e, insieme a tutti i fratelli, cerchiamo di raggiungere gli obiettivi.
Qui la cultura è trascendentale, così come le nostre tradizioni; professarla sarà veramente fondamentale per le future generazioni.
Come ogni comunità ancestrale, con coraggiosa saggezza, anche noi vigileremo sulla biodiversità e la preservazione dell’ambiente.
Siamo produttori di diversi tipi di frutta di stagione, così come ortaggi, tuberi e moringa per la medicina tradizionale.
Le nostre banane sono il nostro orgoglio, sia perché fonte di sostentamento per tutti sia per la loro pregiata qualità è nota in tutto il paese.
Siamo immensamente ed eternamente grati a tante persone per la loro collaborazione, e alle istituzioni per essere state un ponte verso un futuro migliore.
Allo stimato, padre José Auletta, un degno esempio di benevolenza: “grazie” da parte della comunità, per il suo aiuto, consiglio, saggezza e anche per la perpetua amicizia» (Pablo Andrada, Orán – Salta, 10/04/2021).
Un’ulteriore prova della dignità di questa comunità – che porto nel cuore, insieme a tante altre che la missione mi ha fatto incontrare – è il fatto che durante la mia visita essa abbia condiviso con altre comunità pervenute da diverse località la propria esperienza produttiva e di auto sostegno.
Tutto questo è un segno di speranza per una vita fraternamente sostenibile e degna.
José Auletta missione di Yuto (Jujuy), Argentina, gennaio 2024
PADRE K’OKAL
Il missionario che spargeva allegria
La notizia arriva nel pomeriggio del 2 gennaio: padre K’Okal è scomparso. Penso subito a un sequestro. In Venezuela è diventata una pratica ricorrente. Poi la doccia fredda: è stato ritrovato il suo cadavere. Non ci credo. Cosa è successo? Mille sono le domande. Nei giorni successivi arrivano altri dettagli. La polizia conclude l’indagine in maniera sbrigativa: per loro si tratta di suicidio.
Non è possibile. Non K’Okal.
Padre Josiah Asa K’Okal («K’» per dire «figlio di», ndr), era riconosciuto in America Latina come difensore dei diritti degli indigeni, in particolare dei Warao, che erano diventati il suo popolo, la sua missione. Lavorava con loro oramai da molti anni, parlava bene la loro lingua, conosceva la loro cultura.
«Tu eri impegnato con i diritti umani del popolo Warao, e stavi alzando la voce per denunciare la sempre più preoccupante tratta di persone, dai villaggi indigeni warao verso Trinidad [e Tobago]. Stavi mettendoti contro una mafia pericolosissima, alla quale il tuo presunto suicidio è convenuto tremendamente, per diffondere tra le comunità il terrore del suo potere. Perché si suiciderebbe qualcuno che si è messo in una lotta tanto ardua?», scrive l’attivista Santiago Arconada Rodriguez. I Warao mettono in dubbio il verdetto della polizia e chiedono un’inchiesta indipendente, un’autopsia indipendente. Lo stesso fanno altri movimenti indigenisti, di difesa dei diritti umani e della società civile venezuelana. Una lunga petizione è firmata da centinaia di organizzazioni e attivisti.
Grande sorriso, sempre allegro, positivo nei confronti della vita. Parlava tante lingue padre Bare Mekoro (il «Padre Nero», come lo chiamavano i Warao), e sempre con un approccio accogliente con tutti. Era keniano, ma era anche venezuelano (nel Paese dal 1997), e fiero d’esserlo.
Ricordo quando ci mostrò la sua carta d’identità di quel paese che amava. Era stato felice di tornarci, quando ci accompagnò per girare parte di «Odissea Warao» sulla migrazione warao dal delta dell’Orinoco verso il Brasile.
«Chi ha conosciuto K’Okal pensa che fosse un santo in carne e ossa. Era un uomo meraviglioso», dice un attivista che ha lavorato con lui.
Le parole di un membro della comunità Warao lo descrivono così: «Padre K’Okal ci ha insegnato ad amare la nostra gente, la nostra cultura. È stato il sale e la luce del nostro popolo, ci ha trasmesso la luce della Parola di Dio e il sale dell’allegria che spargeva ovunque andava».
Marco Bello Torino, 19/01/2024
Una risata indimenticabile
Ancora lo ricordo mentre balla con un folto gruppo di rifugiati warao a Pacaraima, cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.
Stavamo viaggiando per documentare la migrazione di quel popolo indigeno, costretto ad abbandonare i villaggi posti lungo i canali del delta dell’Orinoco. Padre K’Okal, missionario della Consolata e antropologo, era persona fondamentale sia per aver condiviso con i Warao un lungo percorso, sia perché aveva imparato la loro lingua (come lo spagnolo, l’italiano e non so quante altre).
Nel 2022, a Quito, in Ecuador, aveva studiato alla Flacso e la sua tesi era stata proprio sui Warao rifugiati a Boa Vista («Entre vulnerabilización y resistencia estratégica: caso de los desplazados warao en Boa Vista»). Insomma, era una persona di grande intelligenza e preparazione.
Tuttavia, la cosa più bella di Josiah era la sua gioia contagiosa: sorrideva e rideva con estrema facilità e con tutti.
Padre Josiah Asa K’Okal è morto a soli 54 anni. Non di malattia e non per scelta. Una perdita pesante che in tantissimi sentiamo come una grande ingiustizia.
Paolo Moiola Torino, 19/01/2024
ICE, Iniziative dei Cittadini Europei
Gen.mi direttore e redazione,
sono una vostra lettrice da sempre, e accolgo con gioia MC perché vi trovo parole sagge, notizie di prima mano da tantissime parti del mondo, semi di speranza, pagine di storia e di fede, presentazione di situazioni critiche analizzate senza pregiudizi né ipocrisia, rubriche interessanti. I dossier mi hanno sempre aiutata a capire meglio questo nostro mondo e talvolta li ho presentati anche a scuola (sono un’insegnante in pensione); tramite la vostra rivista sono venuta a conoscenza di problemi di cui i media più diffusi non si occupano, anche con anni di anticipo rispetto al deflagrare di una crisi.
Segno dei tempi, in una rivista missionaria trovano spazio sempre più spesso anche l’Europa e l’Italia, sia perché bisognose di una nuova evangelizzazione, sia perché terre di immigrazione.
A questo proposito mi riferisco al bell’articolo «Sostituzione etnica o necessità?» che leggo nella pagina di «E la chiamano economia» del numero di dicembre ‘23, in cui, dati alla mano, Francesco Gesualdi presenta con chiarezza la situazione italiana con l’immigrazione clandestina, il «curriculum» di Frontex, il ruolo delle Ong, e la costruzione della paura. Condivido al cento per cento la necessità di una «operazione verità» e sottoscrivo la conclusione dell’articolo: «Dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza». Ora, proprio a questo scopo, perché non far conoscere le seguenti Iniziative dei cittadini europei (Ice)?
La prima è «Stop border violence», nata «per costringere la Commissione europea a garantire e applicare anche nei confronti dei migranti quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea» (che afferma: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti», ndr).
L’Ice è un prezioso strumento di democrazia partecipativa a disposizione dei cittadini dell’Ue, che possono influire direttamente sulle politiche messe a punto dalla Commissione europea, presentando richieste sottoscritte da almeno un milione di cittadini Ue in almeno sette paesi membri.
Le due Ice di cui sopra sono nate, rispettivamente in Italia e in Francia, da persone di diversa formazione, e indipendenti da partiti politici, ma accomunate dall’angoscia per le violenze subite dai nostri fratelli migranti e per i loro diritti negati.
Penso che anche questi strumenti possano contribuire a creare una società aperta, solidale, consapevole, che cura e ripara.
Grazie per l’attenzione e ancora complimenti e auguri per la rivista.
Giovanna Golzio 02/01/2024
Molte grazie per la segnalazione. Il tema dell’immigrazione ci sta ovviamente molto a cuore, essendo testimoni sul posto delle terribili e disumane realtà di tanti popoli.
Mi viene una «provocazione» leggendo l’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea: ho pensato che i soggetti cui riconoscere tali diritti siano molti, tra essi, ad esempio, anche i carcerati costretti a vivere in condizioni disumane (cfr. articolo del 15 gennaio in MC notizie sul nostro sito web).
Dossier sul Canada
Ciao Paolo (Moiola),
ho letto quanto hai scritto sul Canada nel dossier del mese scorso. Ho percorso con te, con l’aiuto del computer, il viaggio nell’Ovest del Paese. La lettura è affascinante; penso che anche il viaggio lo sia stato. Hai presentato in forma molto appropriata il tema dello sfruttamento minerario a scapito dell’ambiente e, sicuramente, con ritorni finanziari ingiusti in molti aspetti; la tematica della conquista e spogliazione dei popoli originari; il difficile e doloroso rapporto delle Chiese (e del governo coloniale e post) con essi.
Mi è piaciuto il riquadro sul multiculturalismo, di cui il Canada va giustamente fiero. Credo che tale tema insieme a quello del fenomeno migratorio (Toronto è la più grande «città Italiana» fuori Italia) meriti un approfondimento.
Paolo Fedrigoni, 02/01/2024, Montreal, Canada
Ho letto (il dossier) per intero. È molto, molto interessante. Non so se qualcuno ti ha detto che nella Carta canadese c’è scritto che nel nostro Paese ci sono due lingue ufficiali: l’inglese e il francese. Sono stati i francesi di François I, compreso Jacques Cartier, a dare il nome Canada al Paese. Avevano sentito gli irochesi pronunciare la parola kanata (non sapevano che significasse villaggio) ed è così che il nome è comparso (un po’ storpiato) sulle mappe. Gli inglesi vennero dopo. Mi è piaciuto molto il tuo approccio più antropologico.
Ghislaine Crête, 03/01/2024, Montreal, Canada
Torino. Missione Barriera
Periferia nord di Torino. Il quartiere più povero e multietnico della città dalla quale partirono i primi missionari della Consolata per il Kenya. Qui, un missionario keniano, da dieci anni, vive l’ad gentes tra italiani, stranieri, poveri, tossicodipendenti, migranti appena arrivati. L’annuncio attraverso la difesa dei diritti di chi non ha voce, l’accoglienza e la vicinanza.
I Missionari della Consolata sono arrivati nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, zona Nord di Torino, nel 2013. Il parroco, padre Godfrey Msumange, classe 1973, era tanzaniano; il vice, padre Nicholas Muthoka, dell’81, keniano.
La stampa locale, ai tempi, aveva parlato del «parroco nero» con un certo stupore. Ad accoglierli, una donna italiana che lanciava insulti dal balcone.
Nello storico quartiere torinese di Barriera di Milano, il più multietnico della città, non tutti, forse, erano ancora pronti a vedere la chiesa locale guidata da sacerdoti africani.
Stile accogliente
Dal 2017 il parroco è padre Nicholas. Lo incontriamo in una fredda mattina d’inverno dopo dieci anni da quell’inizio per farci raccontare una delle frontiere della missione ad gentes dell’Imc in Europa.
Arriviamo in via Ceresole 44 alle 11. Le strutture della parrocchia prendono un intero isolato.
Suoniamo il citofono: viene ad aprire un giovane vietnamita che non dice una parola di italiano. È uno dei cinque migranti accolti in parrocchia.
Ci conduce dal parroco nel suo spartano ufficio ricavato in una stanzetta al fondo della chiesa.
Tra i banchi, nella navata, alcune persone fanno le pulizie: una donna nigeriana con suo figlio, un uomo brasiliano-peruviano, due donne italiane, una pugliese, l’altra piemontese.
Il missionario ci aspetta seduto su una poltrona in tessuto marrone. Maglioncino e camicia grigi, collarino bianco «d’ordinanza» in evidenza. Occhi brillanti, sorriso ironico, voce squillante. È in compagnia di padre Elmer Pelaez Epitacio, l’attuale viceparroco, messicano del 1982.
Il quartiere più straniero
La parrocchia, fondata nel 1929, si trova nel cuore di un quartiere popolare da sempre meta di migranti: prima dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia, oggi da tutto il mondo.
La popolazione di «Barriera» è la più povera della città, con un reddito medio di 17mila euro, contro i 35mila del centro e i 47mila della collina, ma è anche la più giovane e, forse, vivace. Se nel capoluogo piemontese gli stranieri, provenienti per quasi la metà dall’Europa e per l’altra metà da Africa, Asia e America Latina, sono il 15,6% della popolazione (134mila su 858mila), in Barriera di Milano sono uno su tre (18mila su 50mila, il 36%), senza contare quelli che negli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.
Barriera è anche il quartiere nel quale viene sentita maggiore insicurezza da parte dei residenti, tanto da indurre le forze dell’ordine a fare frequenti retate che servono più a lavorare sulla percezione della popolazione che non sulla soluzione dei problemi. Proprio come denunciato più volte negli anni da padre Nicholas: le istituzioni parlano solo di degrado e mai delle persone che ne sono coinvolte, e affrontano lo spaccio, la violenza, i bivacchi di donne e uomini senza dimora, spostandoli da una zona all’altra del quartiere, senza offrire prospettive a chi volesse iniziare una vita più dignitosa.
Parrocchia colorata
Padre Nicholas ci fa accomodare. Accanto a lui, padre Elmer è seduto dietro la scrivania: volto ampio e allegro, capelli nerissimi, sciarpa beige sopra una maglia di pile grigia. Il missionario messicano è stato ordinato sacerdote nel 2021, ed è arrivato qui da un anno e mezzo, dopo un’esperienza tra gli indigeni Nasa della Colombia.
Racconta: «Sono felice di essere qua. Siamo in un territorio molto ricco. In questi dieci anni, la presenza missionaria ha dato un nuovo volto alla parrocchia». Poi elenca le attività: «Oltre alla pastorale ordinaria e al catecumenato, c’è l’oratorio aperto tutta la settimana, il gruppo caritativo che offre cibo ai poveri, il gruppo di mutuo aiuto per ex tossicodipendenti, il centro d’ascolto, due doposcuola. Poi abbiamo una prima accoglienza per stranieri: in uno spazio gestito dall’Ong Cisv ospitiamo una dozzina di donne; nella nostra canonica invece, in questo momento, stanno con noi cinque uomini».
Il missionario illustra anche l’ampia e variegata comunità Imc che vive in parrocchia: quattro sacerdoti (lui, p. Nicholas, p. Samuel Kabiru, keniano, e p. Frederick Odhiambo, keniano) e cinque seminaristi, provenienti da Etiopia, Tanzania, Kenya, Uganda e Costa d’Avorio, che studiano teologia e fanno pastorale in parrocchia. «Questo è un posto ricco di missione – chiosa -. Domenica scorsa, quattro donne africane e quattro adolescenti latinoamericani hanno chiesto ufficialmente il battesimo. Non è necessario andare in Africa o America o Asia. Oggi il mondo è qui».
Laicato e annuncio
Domandiamo da chi sono aiutati i missionari. «Ci sono suor Romana, una vincenziana, e Ivana, dell’Ordo virginum – risponde padre Nicholas -. Si occupano di catechesi, centro di ascolto, carità, anziani… praticamente di tutto. E poi ci sono i laici: il laicato qui è forte, non è solo manovalanza. Le cose le pensiamo e facciamo assieme».
Il missionario ha visto crescere, in questi dieci anni, il protagonismo dei laici e la loro attenzione ai «lontani», oltre che ai «vicini». «C’è stata anche una crescita nell’annuncio – aggiunge, dando una particolare forza a questa sottolineatura -. Una maggiore consapevolezza che non dobbiamo stare solo tra noi».
In oratorio le attività principali sono tre: l’oratorio feriale nel quale le persone, soprattutto ragazzi, vengono, giocano, stanno assieme. Questa è l’occasione per conoscerli. «Poi proponiamo il gruppo formativo – aggiunge padre Nicholas -. Infine, c’è il doposcuola due giorni alla settimana: sono quasi tutti magrebini, asiatici e africani. Poi c’è un gruppo di 35 bambini cinesi che fanno doposcuola la domenica, seguiti da una donna cinese. Per imparare la loro lingua e ripassare le materie di scuola. Da una parte, tutto questo è promozione umana, dall’altra è annuncio: all’estate ragazzi vengono tutti, sentono il Vangelo, cantano. La donna cinese, spesso, si ferma davanti alla madonna a pregare. Anche se non è cristiana».
La droga, il disagio
Nel quartiere, uno dei problemi più visibili è la droga: sia il consumo che lo spaccio.
Negli ultimi anni la stampa locale ha parlato spesso di un gruppo di tossicodipendenti che fino a poche settimane fa occupava il capannone abbandonato di un’azienda, la ex Gondrand.
Dopo l’ennesimo sgombero e l’inizio dell’abbattimento della struttura, ora i giovani si sono spostati. Sempre nei dintorni di Maria Speranza Nostra.
Padre Nicholas segue dal 2020 le persone coinvolte, e ha denunciato a più riprese l’indifferenza delle istituzioni nei loro confronti. «Per me sono prima di tutto dei giovani, non “tossici” o “migranti” o “barboni”. E sono nostri parrocchiani.
Hanno iniziato a venire da noi per il cibo – racconta -. Li abbiamo conosciuti e poi abbiamo iniziato ad andare a trovarli. C’è un gruppo più o meno fisso di venti, trenta persone. Ma il giro è più ampio: vengono da tutta la città e arrivano anche a cento. Formano una comunità. Stanno assieme, si picchiano, fanno di tutto, sono pieni di malattie.
Noi stiamo loro vicini con il cibo, le medicine, l’ascolto e con la difesa dei loro diritti presso chi dovrebbe occuparsene. Si spera che si muova qualcosa, ma sono anni che facciamo a pugni con l’aria».
Storie individuali
L’attenzione della parrocchia alle persone è segno della missione che si fa prossimità. Padre Nicholas ci racconta la storia di alcuni di loro: «Ad esempio, quella di un trentenne del Ghana: lavorava come meccanico, ma beveva molto, giocava alle macchinette, e poi chissà cos’altro faceva. Spendeva tutto in due giorni, ed era finito a vivere alla ex Gondrand. Io gli ho parlato molte volte, ma per due anni non c’è stato verso. Un giorno, cinque minuti prima della messa, arriva in lacrime: “Padre mi devi aiutare”. Io gli dico: “Proprio adesso? Cinque minuti prima della messa? Dopo due anni che ti sto dietro?” – ride padre Nicholas -. Mi sono fatto sostituire per la messa e l’ho ascoltato. Poi gli ho proposto: “Domani vieni con me al Sert, il servizio dell’Asl per le dipendenze. Una casa non te la trovo se prima non fai un percorso”. Allora lui ha iniziato a dirmi: “Sei cattivo, tu non mi vuoi aiutare…”, ma il giorno dopo è venuto con me. Dopo due mesi, era a posto.
Adesso è tranquillo, sereno, mi ha fatto pure un’offerta», conclude con un’altra risata.
Stupri e violenze
Un’altra storia riguarda una trentenne musulmana: «Una volta sono arrivato lì, alla Gondrand, proprio mentre la stupravano in tre – racconta padre Nicholas -. Meno male che mi conoscevano, e che, quando mi hanno visto, sono andati via. Per lei non era la prima volta, né l’ultima, ma non voleva denunciare per paura. Io le parlavo, ma lei non voleva andarsene. Quel gruppo è come una comunità. Si sentono legati tra loro, nel bene e nel male.
Un po’ di tempo dopo, è rimasta incinta. Non sapeva neanche chi fosse il padre. Allora si è convinta. Abbiamo contattato i servizi sociali ed è andata in una casa protetta. L’ho rivista poco tempo fa: era con il piccolo e abbiamo chiacchierato».
Nel gruppo non mancano le ragazze italiane: «Alla Gondrand, fino a un po’ di tempo fa, c’era un boss, originario dell’Africa occidentale. Era violento e controllava tutto, anche la droga che entrava e usciva. La sua ragazza di 25 anni era di Asti. Vivevano assieme al terzo piano della palazzina abbandonata. Un giorno sono stato chiamato con urgenza e, quando sono arrivato lì, ho trovato la ragazza con un ferro conficcato nella pancia. C’era sangue dappertutto. A mani nude ho tamponato la ferita e ho chiamato l’ambulanza. È stata salvata. Ma poi, quando è stata un po’ meglio, ha firmato l’uscita dall’ospedale ed è tornata lì con quell’uomo.
Io ho anche provato a chiamare la mamma, che però non ne voleva sapere. Poi se ne sono interessati i servizi sociali e alla fine è andata via. Dopo un po’ di tempo mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri di compleanno. In quel momento era a casa con la mamma. Qui non l’abbiamo più vista».
Spostare i problemi
Oggi alla ex Gondrand non c’è più nessuno. «La stanno buttando giù – dice padre Nicholas -. Ma è solo una questione di facciata. I giovani senza casa si sono semplicemente spostati».
Arrivano Franca e Mimma, due volontarie del gruppo caritativo, sulla sessantina. «Loro sono quelle a cui abbiamo sbolognato la faccenda della Gondrand», ride sornione il missionario.
«La maggior parte sono tossici, alcuni spacciatori – racconta Franca con voce calma e calda -. Ci sono anche donne italiane cui sono stati tolti i figli. Da poco siamo riusciti a sistemarne una che ha trovato un lavoretto ed è tornata a casa. Un’altra ha smesso di drogarsi da un mese. I ragazzi sono in gran parte di origine africana. Il problema di tutti loro è la droga. Vivono come randagi, un po’ qua e un po’ là.
Quando abbiamo iniziato, temevamo che fossero violenti, ma è bastato dire loro: “Ciao, come ti chiami, cosa fai, perché sei lì?”, e adesso ti salutano, ti ringraziano, ti abbracciano». «C’è una cosa che mi dà molta tristezza – interviene Mimma, che è rimasta in piedi accanto alla porta -. Questi ragazzi, uomini o donne che siano, non hanno la speranza di raggiungere un qualche obiettivo. È la droga che ammazza tutte le loro speranze. Quando vedi l’abbattimento totale di una persona ti manca il fiato».
«Sono gli “invisibili” – riprende Franca -. In realtà visibilissimi, perché sono per strada, da tutte le parti, ma sono invisibili per le istituzioni».
Vorremmo fotografare le volontarie, ma loro preferiscono di no: non vogliono «farsi pubblicità».
L’ad gentes in Europa
Si è fatto tardi. L’ora e mezza che avevamo a disposizione è già trascorsa. Rivolgiamo ai missionari le ultime due domande: «Cosa dice questa esperienza all’Istituto Missioni Consolata?».
Risponde padre Nicholas: «Penso che questa esperienza metta in luce qualcosa che sapevamo già: che la missione è anche in Europa. Facciamo opere di carità che hanno al centro l’annuncio. E indubbiamente qui siamo in un territorio ad gentes. Questa esperienza si inserisce nel nostro carisma e lo arricchisce. Qui non s’incontra un ambiente culturale omogeneo, come nella missione classica, ma molteplici culture in un contesto complesso».
Alla seconda domanda, «che cosa porta il carisma Imc in questo quartiere?», risponde invece padre Elmer: «Noi, come Imc, portiamo l’annuncio, e questo annuncio è la consolazione. E questo è un posto in cui offrire a poveri, adulti, bambini, anziani la vera consolazione».
Venezuela. Qui non funziona niente… però c’è il sole!
Suor Mara mi sta portando in auto a celebrare la messa in una comunità. Viaggiando comincia a elencare tutte le cose che non funzionano in Venezuela, e sono tante. Alla fine, però, conclude che almeno c’è il sole. È la sintesi dello spirito venezuelano e l’anima che tiene ancora in piedi questo popolo.
Da sette anni il Venezuela vive una grave crisi economica. Il crollo del prezzo del petrolio e la corruzione della classe politica hanno spinto più di cinque milioni di persone ad andarsene. La situazione è paragonabile a quella dei paesi che hanno attraversato un conflitto armato.
Le politiche economiche della cosiddetta rivoluzione bolivariana che, in un primo momento, avevano suscitato enorme entusiasmo nella popolazione venezuelana, a poco a poco hanno dimostrato la loro follia portando al collasso l’economia.
Allo stesso tempo, la mancanza di trasparenza politica e gli attacchi all’opposizione democratica hanno indotto gli Stati Uniti e l’Europa a imporre pesanti sanzioni, che hanno peggiorato ulteriormente la situazione.
A causa della fame che dilagava in tutto il Paese, la gente ha cominciato a lasciare il territorio nazionale con tutti i mezzi a sua disposizione, raggiungendo quasi sei milioni di sfollati economici.
Durante la pandemia, il governo ha dovuto fare alcune concessioni al settore privato, come la possibilità di libera importazione e vendita di molti prodotti. Questo ha contribuito a ridurre le enormi carenze, senza tuttavia risolvere il problema a causa dei prezzi in dollari degli stessi.
In questa situazione il governo ha cominciato ad accettare di dialogare con l’opposizione politica e ha aperto diversi tavoli negoziali in Messico e alle Barbados.
Le guerre cambiano le cose
Gli scenari di guerra, soprattutto quelli in Ucraina e in Israele e Palestina, hanno contribuito anch’essi ha cambiare il panorama. L’embargo petrolifero imposto alla Russia, il pericolo di un’escalation di violenza in Medio Oriente hanno costretto le potenze occidentali a ridurre le misure che avevano adottato, portando, in un certo senso, un sollievo a tutto il Venezuela.
Infatti, le compagnie internazionali possono nuovamente estrarre il petrolio nel Paese, ed è così che la Repsol spagnola, l’Eni italiana e la Total francese sono nuovamente presenti con la Chevron statunitense, che non ha mai lasciato il territorio. C’è stata quindi un’iniezione di denaro nelle casse del Paese che ha portato una ventata di sollievo economico.
Questo fa sperare che nel prossimo futuro ci sarà una leggera crescita.
Al momento, il miglioramento non si percepisce ancora, e gli stipendi di tutti rimangono molto bassi, però la riduzione delle sanzioni fa sperare in un prossimo cambiamento.
Tornando all’esodo dei venezuelani, di carattere essenzialmente economico, è prevedibile che con il miglioramento delle condizioni di vita, esso possa diminuire, ed è addirittura prevedibile che alcuni ritorneranno.
In effetti, il responsabile degli aiuti umanitari in Venezuela, in un recente incontro con imprenditori, ha sottolineato che più di 300mila venezuelani sono già tornati nel territorio nazionale e ora stanno lavorando per avere le condizioni minime per non essere costretti a ripartire.
Tutto ciò, insieme al fatto che quest’anno ci dovrebbero essere le elezioni presidenziali, ci fa sognare che un barlume di speranza possa risplendere sul Venezuela. Questa è l’attesa di tutti coloro che lavorano perché in questo Paese ritorni la pace, la crescita e la giustizia.
Intanto, nel novembre 2023, il portale digitale del quotidiano El Nacional, contrario al governo di Nicolás Maduro, ha riferito che il flusso migratorio venezuelano, che stava arrivando in Messico attraversando diversi paesi tra cui la terribile giungla del Darién a Panama, era diminuito del 66%.
La Chiesa
La Chiesa cattolica in Venezuela conta circa 25 milioni di fedeli pari al 90% della popolazione. L’evangelizzazione del territorio cominciò agli inizi del XVI secolo contemporaneamente al processo di conquista coloniale da parte della Spagna.
Con lo Stato al collasso, l’assistenza ecclesiastica resta per molti l’unica àncora di salvezza. Aiutando i poveri, la Chiesa tiene in vita quel sostrato di umana solidarietà senza la quale non c’è riscatto.
Ha raccontato il cardinale Baltazar Porras, arcivescovo di Caracas: «Si pensa che il nostro sia un Paese ricco, mentre invece è solo il Governo a essere ricco, non la gente. In questo momento attraversiamo una grave crisi, con grandi povertà e miseria in tutto il Venezuela, e anche noi preti e vescovi dobbiamo aiutare la popolazione a non perdere la speranza. A differenza di quello che accade in Europa, qui avviene una rinascita della fede, perché nella crisi e nella sofferenza abbiamo bisogno di Dio per lavorare in favore del bene comune e della dignità delle persone. Questo fa sì che abbiamo una vita ecclesiale ricca e gioiosa». In una lettera scritta alla conclusione della Conferenza episcopale del luglio 2021, i vescovi così scrivevano: «Quando un’ideologia prende il sopravvento come sistema di potere che viola i diritti umani e rifiuta la dignità delle persone, essa genera ingiustizia e violenza istituzionale».
I vescovi sottolineano tre realtà specifiche nella dolorosa situazione del Paese, esacerbate dalla pandemia: «Lo smantellamento delle istituzioni democratiche e delle imprese statali; […] il drammatico esodo dovuto all’emigrazione forzata di quasi sei milioni di compatrioti espatriati per mancanza di opportunità di sviluppo nel Paese [e] la povertà della grande maggioranza del nostro popolo». Particolare enfasi è stata messa sulla malnutrizione dei bambini e sulle situazioni di ingiustizia vissute dagli anziani. I vescovi aggiungono che, oltre a questi aspetti, «ci sono i danni psicologici, morali e spirituali vissuti dai venezuelani nel dramma che stiamo vivendo».
«Ciò che è veramente in gioco, in mezzo a tutto questo deterioramento, è – scrivono ancora – la persona umana nella pienezza della sua vocazione». Per questo concludono invitando i cristiani a fare attenzione perché «c’è un obiettivo di fondo: trasformare l’essere umano, creato da Dio come un essere libero e responsabile, in un semplice esecutore».
Appello a non mollare
Nella lettera della Conferenza episcopale (Cev) oltre la denuncia è forte anche il richiamo alla necessità di «continuare a lavorare per la comunione, la pace e il benessere materiale e spirituale del nostro popolo» e l’appello a tutti i settori del Paese perché facciano la loro parte nella ricerca del bene comune. «Che nessuno si senta escluso». Nell’esortazione, spiegano che la «rifondazione della nazione» implica l’inclusione degli svantaggiati, la promozione del dialogo, la promozione della famiglia e dell’educazione e «il rinnovamento dei partiti politici». Insieme ai già noti problemi in ambito sociale, economico e politico c’è la fragilità del sistema democratico venezuelano e le molteplici difficoltà a partecipare alle elezioni viste le intimidazioni e l’estromissione dei candidati.
Monsignor González de Zarate, attuale presidente della Conferenza episcopale e Arcivescovo della diocesi di Cumanà, spiega: «Di fronte a questo panorama, la Chiesa fa un ripetuto appello agli attori politici perché cerchino percorsi di rinnovamento e di partecipazione, percorsi di inclusione sociale in risposta ai grandi bisogni del nostro Paese». Riguardo alla situazione economica che vede una ripresa, il presidente dei vescovi parla di un «miglioramento apparente», perché larghi strati della società restano esclusi e, anzi, sottolinea che una causa dell’esodo venezuelano è «la mancanza di opportunità che costringe le persone a lasciare il Paese», cosa che «crea una grave crisi familiare perché gli adulti in età produttiva viaggiano, lasciando spesso gli anziani e i bambini soli in situazioni precarie».
Non c’è dubbio che la Chiesa venezuelana abbia accompagnato il popolo in questa drammatica situazione. Gli ostacoli per essa sono stati gli stessi di quelli «vissuti quotidianamente da tutto il popolo venezuelano». Oggi per la Chiesa è molto più difficile compiere la sua missione – ha spiegato monsignor González de Zarate – perché ci sono problemi di insicurezza. Tuttavia continua a servire specialmente i più poveri ed esclusi come meglio può. «Con le sue esortazioni – ha concluso il presidente dell’episcopato – vuole illuminare questa realtà a partire dai valori del Vangelo, della solidarietà, della giustizia e della libertà, in modo inclusivo, con la partecipazione di tutti».
I Missionari della Consolata
I nostri missionari continuano la loro missione con una presenza semplice e consolante, molto apprezzata dalla gente e anche dalla Chiesa locale. La missione in terra venezuelana è caratterizzata dalla presenza nella periferia della capitale con una parrocchia, Carapita, in ambiente povero e popolare, e con la casa della delegazione che è la casa di accoglienza. A Barquisimento continua il Centro di animazione missionaria e vocazionale, mentre Barlovento è una missione tra afrodiscendenti. Infine, siamo nel delta del rio Orinoco con il popolo indigeno warao con una presenza nella città di Tucupita per accompagnare gli indigeni residenti in città e una sul fiume, a Nabasanuka.
La missione in questo tempo così politicamente e socialmente complicato è caratterizzata anche dal supporto alimentare ai più poveri e abbandonati. Ogni giorno nelle diverse comunità i nostri missionari distribuiscono cibo a 400 – 600 persone.
Un’esperienza che ho potuto fare una domenica sera è stata quella di unirmi al gruppo giovani di Caracas e, insieme ad alcuni missionari, visitare i poveri e i senza tetto lungo le strade della città condividendo con loro una «arrepita» e una bevanda calda fatta di latte in polvere e avena. Un’esperienza molto commovente, caratterizzata dall’incontro personale con uomini e donne concrete. Il gruppo non si limita a dare del cibo ma si rende disponibile all’incontro, al dialogo, allo scambio e condivisione fraterna, e anche alla preghiera. Ogni incontro permette uno scambio di parole e di consolazione che danno al povero pasto colore di cielo. Qui ci sono tante storie di sofferenza, tanti sogni non ancora realizzati, tante realtà negate; ma c’è anche il profumo del crisma, ci sono i segni del Messia, di colui che prende su di sé le sofferenze degli altri.
Tornando alla missione quella sera, mi sono commosso perché non siamo andati a fare la predica su Gesù, ma l’abbiamo incontrato nella sua Parola e nella sua carne: in quei volti che ho incrociato, in quelle mani che ho stretto, in quelle case che mi hanno ospitato. Non abbiamo fatto una buona azione, ma siamo andati a incontrare lo stesso Gesù che abbiamo incontrato nella celebrazione dell’Eucaristia e nell’ascolto della Parola alla Messa della mattina. E poi, se non c’è la strada non c’è Vangelo, perché noi non possiamo annunciare una notizia bella, non possiamo dire che i sogni si realizzano se non ci mettiamo in strada. E il Vangelo non è mai astratto. Mai come in questo caso il Vangelo è la strada.
Speriamo che il sole continui a risplendere anche per la povera gente di questo paese meraviglioso.
Stefano Camerlengo
Dieci anni in eSwatini
Dieci anni fa, il 27 gennaio 2014, il missionario della Consolata argentino José Luis Ponce De León «prendeva possesso» della diocesi di Manzini nel regno dello Swaziland, oggi eSwatini, proprio il giorno in cui si celebravano i 100 anni dell’inizio della evangelizzazione in quel piccolo paese immerso nel Sudafrica.
Raccontaci del tuo cammino come vescovo».
«Sono arrivato in Sudafrica dall’Argentina, mio Paese natale, nel 1994. Ero poco più che trentenne. Sono stato nelle parrocchie di Damesfontein, Piet Retief e Madadeni, e dal 1999-2004 superiore delegato dei Missionari della Consolata. Finito questo compito nel 2005 sono diventato parroco a Daveyton (Johannesburg). Da lì mi hanno inviato al capitolo generale della Consolata in Brasile e nel 2006 mi hanno chiamato a Roma, come segretario della Direzione generale dell’Istituto e procuratore presso la Santa Sede.
Non so se sia perché mi ero fatto un po’ conoscere in Vaticano o per la mia esperienza sudafricana, ma nel mese di novembre del 2008 sono stato nominato vicario apostolico di Ingwavuma (un vicariato apostolico del Sudafrica che era senza vescovo da tre anni). Da lì è cominciata la mia avventura.
Avevo tre mesi di tempo per organizzare l’ordinazione e l’entrata canonica nel vicariato. Ho però dovuto chiedere una dispensa perché a Ingwavuma nei primi mesi dell’anno è estate e fa davvero troppo caldo per poter fare una celebrazione «impegnativa» come un’ordinazione. Quindi questa è stata fatta il 18 aprile del 2009.
Ad ogni modo c’è un ricordo bello del mio ingresso nel vicariato ancora prima di essere ordinato. Era il 29 gennaio, anniversario della nostra fondazione come Missionari della Consolata, quando con padre Ze (José) Martins, che era venuto a prendermi all’aeroporto, abbiamo attraversato la frontiera di quella che sarebbe stata la mia terra, la mia missione, il vicariato. Assieme abbiamo fatto una preghiera al beato Allamano per benedire quell’impresa che era cominciata. Ingwavuma è un territorio molto bello, prossimo all’Oceano Indiano, immediatamente a sud del Mozambico e est dello Swaziland, oggi eSwatini».
Com’è avvenuto il tuo spostamento a Manzini, nell’unica diocesi cattolica del regno di eSwatini?
«È successo che il mio predecessore in eSwatini è morto improvvisamente all’età di 67 anni.
Evidentemente nessuno se l’aspettava e quindi a Roma hanno pensato bene di nominarmi amministratore della diocesi rimasta senza pastore.
Geograficamente, anche se una frontiera ci divideva, non eravamo lontani. Poi anche la lingua Siswati è molto vicina allo Zulu che è la lingua con la quale si celebra e si educa nei due territori, quindi molto conosciuta.
Bisogna comunque dire con chiarezza che eSwatini e il Sudafrica non sono la stessa cosa. Tutta la storia di apartheid e di violenza del Sudafrica non sono conosciute a eSwatini. Se in Sudafrica come bianco desti subito sospetti circolando fuori dalle zone dove dovresti stare, non succede lo stesso in eSwatini. Lì invece risulta strano se ti scoprono a girare da solo, non perché sei bianco, ma perché sei vescovo, e nella loro mentalità il vescovo va con la macchina e con l’autista.
Insomma, in poco tempo mi sono trovato a essere responsabile di due diocesi in due nazioni diverse. Ricordo che in una comunità cristiana una signora aveva detto che sarebbe stato perfetto se fossi rimasto per sempre a eSwatini perché loro erano contenti e non volevano che me ne andassi. La mia risposta era stata che un vescovo si sposa con una diocesi e che mia moglie era Ingwavuma. La sua risposta era stata lapidaria: “Monsignore, noi siamo una cultura poligama… se puoi avere tutte le donne che vuoi, non vedo perché un vescovo non possa avere tutte le diocesi che voglia”. Alla fine, è andata proprio così. In eSwatini sono stato prima amministratore, poi sono diventato vescovo titolare e sono diventato amministratore di Ingwavuma… insomma, il mio momento di poligamia l’ho anche avuto, aveva ragione la signora».
E come ti sei trovato nella nuova diocesi, tra l’altro unico vescovo cattolico?
«È vero, sono l’unico vescovo cattolico ma non sono solo. Unico in eSwatini, ma ben accompagnato dalla conferenza episcopale che riunisce i vescovi di tre paesi (Sudafrica, eSwatini e Botswana), e anche da un organismo nato nel 1976, il Consiglio delle chiese cristiane, che riunisce tredici Chiese che operano in eSwatini e che da quell’anno, ad esempio per affrontare assieme l’emergenza dei rifugiati provenienti dal Sudafrica dell’apartheid e dal Mozambico durante la guerra civile. Quando la violenza è arrivata anche in eSwatini nel 2021 (vedi MC gennaio 2023) questa solidarietà episcopale ed ecumenica è stata importantissima. Il Consiglio delle chiese è rispettato, ascoltato, indipendente. Insieme abbiamo sempre insistito riguardo la necessità di un dialogo nazionale che ci permetta di discernere insieme il nostro futuro. Come ho scritto in passato, c’è una situazione nella quale alcuni hanno tutto e si sentono sicuri e altri si domandano come fare per avere il minimo necessario per sopravvivere. E noi siamo pastori di tutti loro».
Cosa è successo nel 2021?
«Nel mese di maggio del 2021 è stato trovato barbaramente ucciso un giovane universitario. Tutti i sospetti ricadevano sulla polizia e la celebrazione del suo funerale è stata carica di rabbia e di tensione. I giovani, in modo particolare, hanno cominciato a presentare le loro aspettative ai rappresentanti eletti in Parlamento. A un certo punto il Primo ministro in carica (in realtà l’acting Prime minister – colui che fa la funzione di primo ministro) ha deciso di fermare la protesta.
Noi, Consiglio delle Chiese, abbiamo chiesto un incontro con il Governo e lo stesso giorno che siamo stati ricevuti sono scoppiata incontrollate e violente la rabbia, la frustrazione, la ribellione soprattutto dei giovani.
ESwatini ha sempre avuto un buon sistema educativo, anche dal Sudafrica molti sono venuti a studiare da noi nel tempo della segregazione razziale. Eppure, tutti questi giovani studenti sanno che almeno la metà di loro non troverà un lavoro. Come avere speranza riguardo il futuro? Come pensare a far nascere la propria famiglia?».
Che chiesa hai trovato quando sei arrivato in eSwatini?
«Una chiesa cristiana con radici profonde anche se frantumata in miriadi di sette. È presto detto: i cattolici, che sono la chiesa più numerosa, non superano il 5% della popolazione.
L’evangelizzazione di questo Paese è stata intrapresa dai Servi di Maria italiani che arrivarono, lo scoprii quando mi caddero fra le mani i tre volumi della storia della loro missione in questo territorio, nel 1914. Dopo di loro arrivarono i Salesiani, ma con un solo centro, poi nessun altro per più di 60 anni. Nel frattempo, la missione era diventata Prefettura apostolica il 19 aprile 1923.
Quando arrivai a eSwatini, senza saperlo, ero alle porte della celebrazione del centenario dall’inizio della missione. Abbiamo quindi cercato di rendere solenne la celebrazione perché bisognava riconoscere il grande lavoro fatto, che ha dato consistenza alle parrocchie e alle comunità cristiane. Sto parlando di 17 parrocchie e 120 comunità ben organizzate.
Una delle cose che feci al principio, per poter vedere la mia Chiesa non con gli occhi del vescovo ma con gli occhi dei miei sacerdoti, è stata quella di andare a celebrare l’eucaristia domenicale nelle diverse cappelle senza mai avvisare prima la comunità. Lo facevo con la complicità dei sacerdoti che mi hanno sempre assecondato. Ho trovato celebrazioni nutrite, partecipate, comunità accoglienti e cordiali anche se qualche volta un po’ sorprese di vedere questo nuovo sacerdote che le visitava».
E adesso hai chiamato in diocesi anche i Missionari della Consolata?
«Mi sembrava doveroso farlo. Ricordo di aver scritto una lettera al capitolo generale dell’istituto del 2017 nella quale parlavo di noi come l’ultima nata e riconoscevo il servizio carismatico e lo stile della mia stessa comunità nei giovani missionari arrivati un anno prima.
I missionari della regione del Sudafrica si erano già mossi, e devo ringraziare Dio non solo per la presenza ma per lo stile “consolatino” di lavorare, sempre vicini alle persone.
Quando sono arrivati, ho affidato loro una nuova parrocchia ricavata da quella della cattedrale. Ricordo che una comunità espressamente aveva chiesto di non essere separata dall’anteriore parrocchia, che loro stavano bene così com’erano. Io ai missionari che erano arrivati non avevo detto niente, avevo solo chiesto di cominciare la visita, casa per casa, delle famiglie. Forse è stata una fortunata coincidenza, ma loro, senza sapere niente, hanno cominciato precisamente dal settore che non li voleva. I cristiani non erano abituati a vedere i sacerdoti a casa loro e si sono subito affezionati e gli stessi che non volevano stare nella nuova parrocchia, poco tempo dopo e pubblicamente, hanno fatto sapere che quella era la parrocchia dove stavano meglio».
Che sfide hai davanti?
«Non vedo una riflessione su quello che è successo nel 2021. Vedo più la tentazione di pensare che sia stato il problema di un piccolo gruppo e che non ci sia più bisogno di parlarne. Infatti, la nazione sembra sia tornata a una situazione di calma nella quale nessuno parla più di quello che è successo due anni fa.
Io ho sempre visto questo come chi ha un dolore nel corpo: se non capisce da dove arriva, può prendere un calmante ma il problema rimane. Il tempo ci permetterà di capire di più.
Poi a livello ecclesiale penso che l’esperienza del Covid, dalla quale siamo appena usciti, ha lasciato anche molti insegnamenti. Nel caso nostro, le chiese sono ancora piene, ma la vita parrocchiale gira troppo attorno alla figura del sacerdote. Nei prossimi anni avremo anche delle nuove ordinazioni ma poi da quattro anni nessun seminarista è entrato in seminario.
Papa Francesco vuole una Chiesa più sinodale, con maggiore partecipazione e presenza di ministeri e questa è una sfida che non possiamo non raccogliere.
Quando papa Francesco pochi anni fa ha voluto celebrare uno speciale mese missionario, noi abbiamo celebrato tutto un anno missionario. Poi abbiamo creato un sistema online per raccogliere le preoccupazioni, i sogni, i desideri delle persone… e abbiamo ricevuto dei riscontri che non possiamo lasciare cadere».
Questo è quindi un anno speciale.
«Sono dieci anni che sono vescovo di Manzini. Sono stato nominato 29 novembre 2013 ma fatto l’ingresso il 26 gennaio 2014 in occasione del centenario dell’arrivo dei primi missionari Osm, ordine dei Servi di Maria, detti anche Serviti, avvenuto il 27 gennaio 1914. Mai nella mia vita sono rimasto così a lungo in un posto. Sono anche 110 anni dell’arrivo dei primi missionari cattolici. Vorrei fosse un anno giubilare per la nostra diocesi che ci permetta – nello spirito del cammino sinodale – guardare insieme dove siamo arrivati e come rispondere alle sfide del presente».
Cosa ne pensi del sinodo?
«Quando papa Francesco ha annunciato un sinodo sulla sinodalità, l’ho accolto come un momento provvidenziale per la nostra diocesi. Quando nel 2019, abbiamo celebrato un intero anno missionario, di fatto non l’abbiamo mai chiuso a causa delle normative Covid-19. Quell’anno, all’insegna del motto «battezzati e inviati» (ancora oggi molto vivo), la nostra diocesi vide realizzarsi una serie di iniziative.
Sotto il Covid-19, ad esempio, i nostri social media si sono sviluppati e sono oggi il principale strumento di comunicazione tra di noi. Ci sono circa 1.500 persone sul nostro Whatsapp diocesano e molte altre ci seguono in particolare su Facebook.
Il cammino sinodale ha sfidato la nostra diocesi ad aprire spazi di “ascolto” alla gente. La nostra gente è abituata ad “ascoltare” il vescovo e i sacerdoti, ma difficilmente chiede spazi per parlare. Abbiamo preparato sondaggi cartacei e online, in inglese e in Siswati. La prima indagine si è occupata in particolare dei nostri punti di forza e di debolezza, con chi camminiamo e chi ci lasciamo alle spalle. La seconda si è occupata della liturgia: le nostre celebrazioni, le omelie, i ministri laici (condurre le funzioni senza sacerdote, i ministri dell’Eucarestia, i lettori).
È stato durante il primo sondaggio che abbiamo notato che molte persone parlavano delle difficoltà dei nostri giovani, in particolare dopo il Covid-19. Abbiamo deciso di continuare il cammino sinodale affrontando questa sfida. A febbraio del 2022 abbiamo avuto una sessione in cui quattro giovani (di diverse fasce d’età), provenienti da ciascuna delle 17 parrocchie, si sono riuniti e hanno risposto ad alcune domande sulle loro gioie e difficoltà. Il Consiglio pastorale diocesano si è riunito contemporaneamente in un’altra sala. Li tenevamo separati per paura che i giovani non si sentissero liberi in presenza degli «anziani». Poi, li abbiamo riuniti per condividere le loro risposte.
Un processo simile è stato fatto in ogni parrocchia. Poi, alla fine dell’anno, abbiamo chiesto a tutti i consigli parrocchiali di riflettere sul modo in cui noi, la Chiesa, dovremmo affrontare la situazione politica. Ho chiesto loro di individuare azioni concrete da intraprendere a livello locale (e non di dirmi cosa avrei dovuto fare). Solo tre parrocchie hanno risposto condividendo ciò che era stato detto, su ciò che si era deciso di fare e se era stato fatto o meno (e perché). Le persone partecipano, ma alle attività, meno alla riflessione. C’è bisogno di creare spazi di dialogo e di far dialogare.
Il nostro piano è quello di sviluppare “club per la pace” e “gruppi di Laudato si’” in ogni parrocchia (non è ancora chiaro se si tratterà di due cose diverse o dello stesso gruppo)».
Cosa sperate da questo anno giubilare?
«Celebrando i 110 anni dell’arrivo dei primi missionari cattolici e il decimo anniversario del mio insediamento, la nostra diocesi avrà un anno giubilare da gennaio a novembre.
Sarà un’opportunità per continuare il nostro cammino sinodale e celebrare il primo congresso delle scuole cattoliche (riflettendo sull’identità cattolica delle nostre 60 scuole).
Vogliamo poi sviluppare i “club per la pace” e i “gruppi Laudato si’” in ogni parrocchia.
Inoltre, dare forma a iniziative di cui si è parlato più volte, come lo sportello della famiglia (attuando iniziative di preparazione al matrimonio tenendo conto delle questioni culturali e del sostegno alle coppie dopo il matrimonio). C’è poi lo sportello della salute (coordinando il lavoro del nostro ospedale, delle cliniche, dell’hospice, degli infermieri parrocchiali, dell’équipe di consulenti traumatologici, ecc.).
Importante è anche il rilancio di Caritas eSwatini (l’ufficio nazionale della Caritas che coordinerà il lavoro delle 17 Caritas parrocchiali).
Sarà un anno nel quale daremo fondamento alle cose che vogliamo continuare in futuro e, naturalmente, un anno di rinnovamento personale e familiare. Il (possibile) motto «Lazzaro, vieni fuori», sarà una chiamata a una nuova vita in Gesù coinvolgendo ogni aspetto della nostra vita personale, familiare e ecclesiale.
Abituato a parlarti
con troppe parole,
mi rivolgo a Te, Signore,
nel silenzio.
Parole belle e gradevoli,
ma astratte e lontane,
ripetute all’infinito.
Nel frastuono che mi circonda
non sento più la Tua voce.
Parlami, o Signore, nel silenzio.
Ho bisogno del tuo silenzio
che mi penetri dentro
nell’intimità del cuore,
che mi avvolga e mi parli
per ridare slancio
alla mia preghiera.
Ho bisogno del tuo silenzio.
Che possa ascoltarlo a lungo!
Mentre mi immergo
nel mistero del Tuo amore,
parlami nel silenzio.
Che possa sempre ascoltare
la Tua voce, Signore.
Giampietro Casiraghi
Questa preghiera era nella stanza di padre Giampietro Casiraghi, missionario della Consolata che il Signore ha chiamato a sé il 16 novembre scorso. Una preghiera particolarmente intensa per uno come lui che era un maestro della parola.
Nato il 23 aprile 1936 a Osnago, allora provincia di Como, a vent’anni emette i primi voti come missionario della Consolata ed è ordinato sacerdote il 7 aprile 1962. Brillante e preparato, è mandato prima come professore nel seminario minore di Bevera (Como, ora Lecco) fino al 1964, e poi è trasferito a Rivoli (Torino) nella redazione di questa rivista e di altre due che erano pubblicate allora: «La vedetta» (per ragazzi) e «Selezione missionaria». Il suo compito è pubblicare quest’ultima, che vuole essere la versione missionaria di Selezione del Reader’s Digest per far conoscere in Italia il meglio di quanto si pubblica nel mondo sulle riviste missionarie degli altri paesi. La bella avventura si conclude nel 1970 e nel 1971 diventa insegnante di Cristologia (lo studio approfondito della figura di Gesù Cristo) nella scuola di teologia della Fist (Federazione italiana studentati teologici) a Torino dove studiano i seminaristi della Consolata (tra cui lo scrivente) e di altri istituti.
Da quel momento la sua vita è segnata dall’insegnamento e, quando nel 1990 la Fist chiude, passa a insegnare all’Università di Vercelli dove può condividere un’altra delle sue passioni, l’Epigrafia e lo studio della storia medioevale, campo nel quale diventa uno degli esperti più qualificati sulla storia della Sacra di San Michele e delle pievi del Piemonte.
Impegnato a livello della diocesi di Torino nell’ufficio della pastorale, assistente del Movimento Rinascita cristiana, responsabile degli studi nell’Imc, padre Casiraghi vive una vita intensa, pubblicando diversi libri e collaborando attivamente con questa rivista fino al 2015, quando la sua salute è condizionata pesantemente da una malattia cerebrale che gli impedisce di dedicarsi agli studi e alla predicazione come era nel suo stile brillante e profondo.
Nel 2021 deve essere trasferito nella residenza per missionari anziani ad Alpignano (Torino), dove il Signore lo chiama a sé.
Una cosa importante abbiamo imparato da lui, noi che siamo stati suoi studenti, quella di non accontentarci mai delle risposte più ovvie e popolari, ma di mantenere sempre un forte senso critico e continuare ad approfondire la conoscenza a tutto campo. Grazie.
Il testamento di una mamma
Caro padre,
mi faresti un grande regalo se potessi pubblicare questa lettera testamento che mia mamma scrisse nel lontano 1955 prima di andare all’ospedale per l’asportazione di un rene, un’operazione molto rischiosa allora. Grazie a Dio tutto è andato bene e lei è vissuta ancora per molti anni, fino al 1994. Ho sempre conservato gelosamente questa lettera. Allora avevo solo undici anni, ora vivo anch’io nell’attesa di andare in Paradiso a fare festa con lei e mio padre Guido. Grazie
padre Carlo Laguzzi, Imc Torino, 02/11/2023
«Caro Guido e carissimi figli miei,
se per caso non tornassi più (sia fatta la volontà di Dio! Adoriamola) raccomando a voi che siete i miei amatissimi, di avere l’un verso l’altro un grande amore scambievole; ed ai maggiori raccomando anzitutto di sopportare ciascuno col suo carattere, e di aver cura dei più piccoli.
Abbiate tutti voi figli cura di vostro padre, che è sempre stato verso di voi generoso e affettuoso, e pei quali non ha risparmiato sacrifici.
Quel poco che è mio egli lo dividerà equamente fra di voi: abbiate sacri i suoi pareri e i suoi consigli. Vi manifesto i miei ultimi desideri che avrei piacere fossero ottemperati:
Non fate avvisi per la mia morte: se proprio il babbo lo vuole, a funerali avvenuti e senza lutto per mio espresso desiderio. Il funerale deve essere il più umile possibile, e desidero essere sepolta nel campo comune, senza tomba, senza pietra. Quando potete mi porterete qualche fiore di campo, qualche margherita, che io ho sempre prediletto.
Quello che invece caldamente vi raccomando, è che mi facciate dire, e soprattutto che ascoltiate per me, il maggior numero di Messe possibile.
Avrei voluto andarci sovente, per voi non ho potuto; riparate per quel che potete alla mia negligenza. Vestitemi col mio vestito nero solito e bruciate tutti gli scritti miei che troverete in casa, soprattutto quelli (lettere) riuniti in una scatola nella parte inferiore della libreria, e quelli (quaderni) in uno scatolone posto sopra la libreria.
Ho pregato spesso perché a tutti i miei cari fosse concessa la grazia della perseveranza finale: possa essere veramente il nostro viatico comune per l’aldilà. Vi bacio tutti e porto tutti con me nel cuore».
La vostra mamma Torino, 27/01/1955
I racconti di padre Rondina
Camminare nella foresta, di notte…
Storia che ho raccolto dalla bocca del novantaquattrenne padre Aimone Rondina, ospite nella Residenza Allamano ad Alpignano.
«Quella mattina dovevo alzarmi presto per recarmi in un dispensario a qualche chilometro da Matiri (la mia missione, nella regione del Meru in Kenya). Mi avrebbero dato un passaggio ma solo all’andata, il ritorno era affidato alle mie stanche gambe, che conoscevano bene il sentiero attraverso il bush (lett. cespuglio, figurativamente indica una zona disabitata con folti cespugli e piante, ndr). Non avevo però fatto i conti con l’unica e più subdola variabile, le chiacchiere; una tira l’altra e il tempo passò senza che me ne rendessi conto. Fu solo quando osservai l’orologio che tornai alla realtà, erano quasi le sei del pomeriggio e fra un po’ si sarebbe fatto buio, quel buio che qui in Kenya arriva all’improvviso. Mi affrettai a salutare e ripresi la via di casa. Il tramonto mi colse quando ero già sulla piccola strada sterrata. La sicurezza iniziale cominciò a lasciare il posto a un po’ di ansia, mentre sentivo chiaramente i mille rumori della foresta venirmi incontro.
Frugai in tasca alla ricerca della torcia, che sciocco, non l’avevo presa con me tanto sarei tornato presto. Solo, nel buio che più buio non si può, compresso fra due “muri” di vegetazione da dove poteva spuntare qualsiasi cosa da un momento all’altro. Non sapevo quanto avevo camminato (l’orologio non era fosforescente), né quanto mi restasse da camminare, soprattutto se avevo tenuto il sentiero giusto. Unica fonte luminosa che mi dava un po’ di sicurezza: una grande luna sempre di fronte.
Cominciai a pregare per rassicurarmi, ma per fortuna dopo appena qualche minuto intravvidi una flebile luce in lontananza che faceva capolino fra la vegetazione. Era proprio la missione! La raggiunsi abbastanza velocemente, entrai e il missionario mio collega mi accolse con un “era ora, cominciavamo a preoccuparci”.
Da allora andai nei villaggi sempre in auto, andata a e ritorno, anche quando pensavo di rientrare presto».
R.L. Rivelli Torino, novembre 2023
Sete di verità
Spett. Redazione,
grazie mille della vostra preziosa risposta su MC di novembre. Considero il dialogo, anche per email, sempre fonte di crescita, specie se con persone speciali come vi ritengo.
La famosa frase del papa che lei cita «chi sono io per giudicare» forse è stata un po’ strumentalizzata dai sostenitori dell’omosessualità. Non si tratta di giudicare le persone ma lo sbaglio, infatti occorre separare l’errore dall’errante. Drogarsi è sbagliato e da condannare, i drogati sono da accogliere e da guidare verso il superamento dell’errore, liberarli.
Il mio discorso non era un voler giudicare ma una preoccupazione per i giovani. Chi è genitore sa quanto sia difficile crescere i figli in una società che non sa più ciò che è bene e ciò che è male. Siamo in un tempo in cui è di moda il relativismo, il «così è se vi pare».
Invece esiste la verità, abbiamo un grandissimo bisogno di verità, di sapere ciò che è realmente buono e non solo apparentemente. Quando non distinguiamo più ciò che è veramente bene dal falso bene unica ancora di salvezza è la chiesa, il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Conosco la preoccupazione di tanti genitori che vedono i giovani alla deriva specie quelli che sono più soli, per un motivo o per l’altro abbandonati a se stessi e che si trovano senza guida senza sapere più ciò che è bene o ciò che è male.
Non si tratta di essere progressisti o meno, di diritti o meno, ma di salvaguardia della natura umana e di riconoscimento di molti casi di omosessualità come malattia psicologica. Le malattie per guarirle bisogna prima riconoscerle come tali. Malattia causata sovente dalla moda e dal fatto che i media, il libero accesso a internet anche a 9/10 anni spingono i giovani a una sessualità sempre più precoce. Gli insegnanti lamentano preoccupazioni e interessi in età in cui si dovrebbe poter crescere serenamente, giocare, studiare, ecc. ma non essere precocemente spinti alla sessualità. Unica luce è il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Al riguardo ci sono brani contro l’ipocrisia, contro chi vede la pagliuzza nell’occhio altrui e non vede la trave nel proprio, ma ci sono sapientemente altri brani che rappresentano una guida sicura.
I comportamenti dei sodomiti continuano ad essere indicati come errori, considerati tali nella Bibbia ma anche nel Vangelo. Nella lettera di san Paolo ai Romani si legge: «Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti: adorano immagini dell’uomo mortale, di uccelli, di quadrupedi e di rettili, invece di adorare Dio glorioso e immortale. Per questo Dio li ha abbandonati ai loro desideri: si sono lasciati andare a impurità di ogni genere fino al punto di comportarsi in modo vergognoso gli uni con gli altri … Dio li ha abbandonati lasciandoli travolgere da passioni vergognose: le loro donne hanno avuto rapporti sessuali contro natura invece di seguire quelli naturali. Anche gli uomini, invece di avere rapporti con le donne, si sono infiammati di passioni gli uni per gli altri. Uomini con uomini commettono azioni turpi, e ricevono così in loro stessi il giusto castigo per questo traviamento…» (Rm 1,20-32).
Nella lettera di Giuda, fratello di Giacomo, si legge: «Ricordate Sodoma e Gomorra e le città vicine: anche i loro abitanti si comportavano male, si abbandonarono ad una vita immorale e seguirono vizi contro natura. Ora subiscono la punizione di un fuoco eterno, e sono un esempio per noi» (Giuda 1,7).
Il Vangelo è veramente luce del mondo e i preti che con fatica e con eroismo annunciano la Parola di Dio sono grandi portatori della luce evangelica. Il mondo ha tantissima sete della verità evangelica.
Con ammirazione per le vostre missioni e per il vostro lavoro porgo cordiali saluti
Enrica B. 11/11/2023
La tentazione era quella di tagliare alcune delle frasi della sua lunga lettera perché possono suscitare reazioni polemiche, in un tempo come il nostro in cui sembra che il dialogo non sia più consentito e sperimentiamo una forte radicalizzazione delle posizioni. Un esempio è l’accesissimo dibattito che stiamo vivendo a proposito della guerra in atto in Palestina, dove chi cerca veramente il dialogo è ostracizzato ed emarginato.
Nello stesso tempo, i temi che lei affronta, così scottanti e conflittivi, trovano conferme terribili quasi ogni giorno. Mentre scrivo, la scena è occupata dall’uccisione di Giulia, centocinquesima nella lista dei femminicidi del 2023 (il cui numero sta tristemente continuando a crescere) è un segnale di allarme che sfida tutti a un ripensamento forte del nostro modo di relazionarci.
Probabilmente l’umanità ha sempre avuto gli stessi problemi che abbiamo oggi. I testi nel libro della Genesi e le tirate di Paolo, ne sono una prova. Certo noi oggi stiamo vivendo le stesse problematiche ma con nuove dimensioni, forse anche perché, soprattutto nella nostra società, l’educazione sembra essere scappata dalle mani della famiglia, della scuola e della comunità cristiana.
Basti pensare alla pervasiva influenza che hanno sui nostri bambini i contenuti da cui sono raggiunti tramite i molteplici schermi e piattaforme, incantati dai cartoni animati e dalla pubblicità consumista (io sono il centro e ho diritto ad avere tutto, se non ce l’ho sono un fallito e un infelice) che subiscono senza possibilità di reagire. Senza poi parlare della realtà dei social, spesso usati acriticamente e soprattutto senza un supporto di relazioni di amicizia sane e concrete.
È un tempo, questo, che non ha bisogno solo di preti testimoni autentici della Parola di Dio, ma soprattutto del risveglio di ogni cristiano, che diventi soggetto vivo e attivo nella comunità, nella società, nella politica. È lo spirito del Sinodo che stiamo celebrando. Nessuno può dire «non tocca a me». Solo così si evita il rischio di dividere il mondo in «buoni e cattivi», in «noi e loro», «padroni e servi» o negli altri mille stereotipi che siamo abilissimi a creare.
L’ascolto della Parola di Dio ci fa allora sperimentare che il vero amore non è possedere l’altro e avere tutto, ma è la felicità dell’altro. La vera felicità è far felici gli altri, è diventare «servi» degli altri e non padroni, custodi del creato e non rapinatori di risorse.
Il giorno in cui davvero impareremo a vivere questo, sarà un mondo nuovo, pur nella diversità e unicità di ogni persona.
Ambiguità
Gentile Sig. Pescali,
ho letto con interesse il dossier del numero 8-9 2023 di MC sull’Islanda. Lei dice che con il sindaco Gnarr la città si arricchita di riferimenti alla pace. Siccome mi incuriosiva mi sono informato e sono rimasto molto deluso nel constatare che le strade della città in realtà sono/erano dipinte con l’arcobaleno… a sei colori (senza l’azzurro). Ma scusi, lei conosce la differenza tra la bandiera arcobaleno a sei colori e quella della pace a sette colori? Credo che confondere le due cose sia molto grave! Non so se pensare ad una ingenuità (grave per chi intende fare giornalismo di buon livello) o voluta ambiguità, che sarebbe ancora peggio. Rischio di fare il sapientone ma ci tengo a evitare queste confusioni nelle quali siamo purtroppo quotidianamente immersi. La bandiera della pace è un arcobaleno a sette colori e il viola è in alto (spesso con la scritta Pace). C’è l’azzurro. La bandiera arcobaleno a sei colori è l’emblema della lobby Lgbtiq+ per rivendicare diritti (secondo me non tutti legittimi e quindi solo presunti) e con la pace non c’entra nulla. Sarebbe auspicabile almeno che sulle riviste cristiane, e comunque sulle riviste serie, questa confusione non venga più fatta. Cordiali saluti
Andrea Sari 14/11/2023
Abbiamo passato la sua lettera all’autore del dossier. Qui il nocciolo della sua risposta.
Gentile sig. Sari,
nell’articolo in questione non ho scritto che «con il sindaco Gnarr, la città (Reykjavik, ndr) si è arricchita di riferimenti alla pace». Ad una più attenta lettura, ciò che invece ho scritto è che «viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore». Il riferimento, quindi, non era limitato alla città di Reykjavik, ma all’Islanda tutta, dove ho visto strade e bandiere (lo ribadisco) arcobaleno.
Arcobaleno perché, se la fisica non ci inganna, i colori dell’arcobaleno sono… sette. Quindi, da uomo di scienza, nessuna ingenuità, nessuna voluta ambiguità, nessuna confusione e, soprattutto, nessun deterioramento della serietà dell’articolo e della rivista. Anzi, semmai questa distinzione razionale e scientifica denota una maggiore autorevolezza della stessa.
Piergiorgio Pescali 04/12/2023
Guerra in Tigray. Le braci restano accese
La guerra interna in Etiopia è durata due anni. È intervenuta l’Eritrea e diverse altre potenze estere si sono «posizionate», in particolare fornendo armi. Un anno fa, la firma del cessate il fuoco, ma il conto delle vittime è elevatissimo e il Tigray è da ricostruire.
Due anni di combattimenti intensi. Di avanzate e di ritirate da ambo le parti. Di battaglie tra creste vertiginose e valli aspre. Una guerra fratricida, piena di vendette maturate in anni di tensioni represse. Un conflitto che ha fatto scricchiolare le fondamenta dell’Etiopia. Nel Tigray, tra il 2020 e il 2022, si sono confrontati l’esercito federale, che rispondeva agli ordini del governo di Addis Abeba, e le milizie tigrine, agli ordini del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Ma tra gli attori sono comparsi anche le milizie amhara e l’esercito eritreo (che oggi è ancora presente nel territorio etiope). A un anno dalla firma del cessate il fuoco che cosa è rimasto sul terreno? Qual è l’eredità di quei durissimi 24 mesi che hanno segnato la regione settentrionale del Paese?
Le radici
Facciamo un passo indietro. La guerra in Tigray è scoppiata nel 2020, ma le radici del conflitto sono molto più profonde. I tigrini sono stati il nerbo delle forze che hanno destituito, negli anni Ottanta e Novanta, Menghistu Hailè Mariam. Alleate agli eritrei hanno condotto una guerriglia che ha deposto il «negus rosso», ha portato all’indipendenza dell’Eritrea e alla nascita, in Etiopia, di un regime di cui proprio i tigrini sono stati il centro per quasi un trentennio. Decenni duri nei quali dall’alleanza con gli eritrei si è passati a un’aperta contrapposizione tra Addis Abeba e Asmara, culminata nella guerra del 1998. Una guerra, quest’ultima, che, anche quando le armi sono state messe a tacere, ha lasciato un lunghissimo strascico di tensioni tra Etiopia ed Eritrea.
Solo l’avvento al potere del premier Abiy Ahmed (2018) ha portato a una svolta. Il nuovo leader, di etnia oromo, ha siglato una storica pace con l’Eritrea (nello stesso anno) e ha progressivamente messo ai margini il Tplf, che ha perso sempre più potere e si è arroccato nella propria regione di appartenenza. Le continue frizioni tra il governo federale di Addis Abeba e il Tplf hanno portato a un conflitto aperto nel gennaio del 2020. L’esercito federale ha condotto un’offensiva che ha, inizialmente, messo in un angolo le milizie tigrine. Solo nel giugno 2021 lo stato maggiore di Macallè è riuscito a prendere l’iniziativa e a lanciare una controffensiva che ha portato i propri reparti a 200-300 chilometri da Addis Abeba.
Nel frattempo, la disputa ha visto scendere in campo nuovi attori. A fianco del governo federale si sono schierate le milizie amhara, la seconda etnia dell’Etiopia che si contende con i tigrini alcune zone di confine tra le due regioni. Pochi mesi dopo è scesa in campo, a fianco del premier Abiy, anche l’Eritrea che, come abbiamo visto, aveva un antico conto da saldare con la dirigenza tigrina, ma, soprattutto, aveva pretese territoriali su una zona che confina tra Eritrea e Tigray. A supportare i tigrini è invece arrivato l’Esercito di liberazione oromo (Ola), formazione armata della frangia più estremista del popolo oromo (l’etnia più numerosa dell’Etiopia).
Gli scontri sono stati durissimi e a subire le conseguenze più forti è stato il Tigray. Senza corrente elettrica, senza collegamenti al web, senza medicine e con cibo scarso a scontare gli effetti più duri dei combattimenti è stata la popolazione civile. Amnesty International ha anche, a più riprese, denunciato i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati soprattutto dai soldati eritrei nel nord del Tigray. Accuse rigettate da Asmara, ma che sono state confermate anche dai Medici per i diritti umani e dall’Organizzazione per la giustizia e la responsabilità nel Corno d’Africa che hanno denunciato le continue aggressioni sessuali, durante e dopo il conflitto, perpetrate dagli eritrei a danno delle donne tigrine.
Fine del conflitto
Nel 2022, il Tigray ha iniziato a cedere di fronte all’offensiva dell’esercito federale. Tra agosto e settembre 2022, l’entrata in scena dei velivoli senza pilota forniti ad Addis Abeba da Turchia, Iran ed Emirati arabi uniti ha permesso un’offensiva dell’esercito federale che ha messo in ginocchio i miliziani tigrini. Impossibilitati a sostenere ulteriormente lo scontro, i vertici del Tplf hanno quindi accettato di sedersi al tavolo in colloqui di pace mediati dall’Unione africana.
Il 2 novembre 2022 Addis Abeba e Macallè hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine al conflitto. Il bilancio di due anni di guerra è tragico. Secondo alcune stime sarebbero state circa 500mila le vittime, alle quali si aggiungerebbero due milioni di sfollati interni.
Il Tigray è distrutto, ma anche lo Stato federale avverte forti scricchiolii nel suo assetto istituzionale. «Addis Abeba – riporta una ricerca dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano – ha sempre sottolineato il carattere di questione interna [del conflitto], rivendicando la propria piena sovranità nazionale e il connesso diritto e dovere, in quanto governo legittimo, di applicare la legge su tutto il territorio nazionale, imponendo quindi l’autorità centrale sulla ribellione “terrorista” del Tigray». Una visione che mette in dubbio la costruzione federale dello Stato a vantaggio di un forte potere centrale. «Il Tplf – continua la ricerca Ispi – ha insistito nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo ritenuto illegittimo per essere rimasto in carica nel 2020 dopo la scadenza del suo mandato, il duro intervento armato con violazioni indiscriminate a danno dei civili e il prolungato isolamento del Tigray che ha causato una gravissima crisi alimentare e umanitaria».
L’internazionale
La guerra in Tigray ha però avuto anche forti ricadute internazionali. L’Europa ha subito preso le distanze da Addis Abeba, e Bruxelles ha imposto un embargo delle armi tanto verso l’Etiopia quanto verso l’Eritrea. Gli Stati Uniti, un tempo fedeli alleati del premier Abiy, si sono dimostrati molto critici nei suoi confronti. Una tensione che ha raggiunto il culmine con la sospensione dell’Etiopia dall’African growth and opportunity act, la legge statunitense che prevede agevolazioni commerciali in favore dei Paesi che rientrano entro certi canoni prefissati. A trarne vantaggio sono state la Cina e la Russia. Pechino ha dimostrato subito un sostegno incondizionato ad Addis Abeba e ha criticato sia le sanzioni sia l’interventismo di Usa e Ue. Anche la Russia ha sostenuto il premier Abiy parlando della guerra come «un affare interno» nel quale non interferire.
Altri due attori «minori» hanno tratto beneficio dal conflitto: la Turchia e l’Iran. Ankara ha riallacciato rapporti, fino ad allora freddi, con Addis Abeba. E ciò le ha garantito fruttuosi contratti nel settore della difesa, che hanno fruttato alle casse dei colossi turchi della sicurezza 51 milioni di dollari nel solo 2021. Non dissimile l’atteggiamento di Teheran che, come sottolinea la ricerca Ispi, «ha visto nelle tensioni tra Stati Uniti e Addis Abeba un’opportunità per mantenere profondità strategica nel Corno d’Africa».
La testimonianza
«L’Etiopia è lo specchio delle emergenze dell’Africa. Il Nord, al confine con il Somaliland, è stato investito da ondate di siccità. Il Sud è stato colpito dalle inondazioni. A Ovest devono fare i conti con 500mila rifugiati sudsudanesi e nella regione di Gambella con 80mila rifugiati sudanesi. E poi il Tigray che è uscito provato da due anni di guerra civile», a parlare è Giovanni Putoto, medico, responsabile della programmazione del Cuamm medici con l’Africa, organizzazione da anni impegnata nell’assistenza medica nel continente. Putoto è reduce da un recente viaggio in Tigray dove la sua organizzazione è stata chiamata a intervenire per supportare il sistema sanitario locale duramente colpito dalla guerra.
La tensione, racconta, non è terminata. I tigrini devono fare i conti con le rivendicazioni dei vicini amhara su territori confinanti. Non solo, ma devono continuare a sopportare la presenza dei reparti eritrei che non hanno abbandonato il territorio etiope. «Nel nostro viaggio – continua – non abbiamo visto militari eritrei. Sappiamo però che ci sono. Ce lo hanno testimoniato numerosi tigrini che abbiamo incontrato. Occupano ampie fasce di territorio al confine tra Etiopia ed Eritrea. Asmara non ha firmato l’accordo di pace e la loro presenza è un dossier che deve ancora essere affrontato e risolto da Addis Abeba».
Gran parte dei morti, spiega Putoto, sono stati civili: uomini, donne, bambini vittime degli scontri e delle privazioni causate dal conflitto. A questi si aggiungono gli sfollati. Sono migliaia, perlopiù concentrati nelle periferie delle città. Solo nel nord ovest del Tigray sono 400mila, la maggior parte all’interno dell’abitato di Shire. Le condizioni della popolazione sono drammatiche. La malnutrizione acuta e grave è elevata, soprattutto nei bambini. Una situazione aggravata dalla sospensione degli aiuti in cibo da parte del Programma alimentare mondiale disposta a seguito dello scandalo della sottrazione di derrate da parte delle autorità etiopi.
I leader tigrini hanno denunciato la morte per inedia di almeno 50mila persone a causa del mancato arrivo degli aiuti alimentari. Cifre che non possono essere verificate, ma che tracciano la situazione drammatica della regione. «Il sistema sanitario è al collasso – osserva Putoto -. In tutto il Tigray un solo ospedale è in grado di fare parti cesarei e trasfusioni di sangue, parametri minimi per stabilire se una struttura sanitaria funziona. Gli altri ospedali sono chiusi o sono stati intenzionalmente distrutti dalle truppe eritree. Solo il 20-30% dei centri sanitari è operativo. Il personale sanitario è deceduto o non lavora perché senza retribuzione. Mancano quindi operatori e farmaci. Le uniche strutture che funzionano sono quelle di proprietà della Chiesa cattolica che hanno fatto un lavoro preziosissimo. Anche le scuole sono chiuse. I ragazzi e le ragazze crescono per strada, lontano dalle aule».
Il Tigray ha di fronte a sé la necessità di ricostruire. «È una sfida enorme – continua Putoto – perché non si tratta solo di riabilitare le infrastrutture distrutte o danneggiate, ma di ricreare i quadri professionali che sappiano guidare questa ricostruzione. C’è tantissimo da fare per restituire ai tigrini un sistema scolastico, sanitario e produttivo funzionante».
Enrico Casale
La storia di un missionario formatore in Etiopia
Una vita in seminario
Padre Antonio Vismara ha dedicato la sua vita all’Etiopia, pur avendo lavorato anche in Kenya e Italia. La sua vocazione è stata quella di fare il formatore di altri missionari. E ha pure avuto la fortuna di avere a fianco un gruppo di appoggio inossidabile.
Padre Antonio Vismara è nato nel 1942 a Ossona, in provincia di Milano. Terzo figlio, dopo un fratello e una sorella. Ottenuto il diploma da disegnatore tecnico scopre la vocazione e intraprende il percorso per diventare missionario. Nel giugno del 1972 è ordinato sacerdote. Alla fine dello stesso anno parte per l’Etiopia e inizia la sua missione a Meki.
Lo incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata a Torino, dove vive dal 2021.
«Fin dall’inizio il fondatore (Giuseppe Allamano) ha sognato l’Etiopia, ma noi (missionari in quel paese, ndr) diciamo che questo sogno non si è mai realizzato», ci confida con un sorriso sornione.
Perché? Gli chiediamo. Oggi ci sono diversi missionari etiopici nell’istituto, questo è già un bel risultato. «Il governo non ha mai realmente accettato i missionari, volendo piuttosto progetti di sviluppo sociale. E neppure la Chiesa ortodossa ci ha mai voluti – continua padre Antonio -. Noi eravamo sul posto con dei visti di lavoro, realizzavamo progetti, e a fianco abbiamo fatto chiese, parrocchie, comunità cristiane, che sono molto attive anche oggi». Le difficoltà per ottenere visti e permessi di soggiorno ci sono sempre state, ma negli ultimi anni si sono inasprite. È quasi un dire: «bastiamo noi, non vogliamo più stranieri».
Oltre a diversi missionari etiopi e alcuni keniani, come missionari della Consolata oggi sono presenti nel paese padre Edoardo Rasera, padre Marco Martini e fratel Vincenzo Clerici.
Padre Antonio apprezza molto i missionari etiopi: «Sono molto fedeli, perché attingono dalla lunga tradizione dei monaci».
Ma andiamo con ordine. Padre Antonio ha iniziato il suo lavoro a Meki, sede del vicariato nel 1973, poi ha lavorato anche a Modjo, nello stesso vicariato. I suoi incarichi sono stati fin da subito nel campo della formazione dei nuovi missionari, ruolo che ha mantenuto sempre: «Una vita in seminario», ci dice ridendo. Seguiva gli aspiranti missionari con lezioni sulla spiritualità dell’istituto, incontri personali, e con il discernimento. Aveva studiato teologia tra Torino e Washington e aveva fatto anche un corso per formatori.
«Negli anni Ottanta lavoravo con il vescovo Yohannes Woldegiorgis. Quando il vescovo morì (nel 2002, ndr), mi chiesero di sostituirlo. Ma dissi loro, “no, qui ci vuole un etiope”. L’Etiopia è troppo complicata, occorreva un locale per districarsi», dice, quasi a giustificarsi.
Dopo l’Etiopia, ha lavorato per tredici anni al seminario di Bravetta a Roma, e poi otto in Kenya, al seminario di Nairobi.
È nel 2005 che viene richiamato in Etiopia dove è diventato superiore regionale e, successivamente, formatore al seminario di Addis Abeba: «Tenevo lezioni sulla nostra identità come missionari della Consolata, al pomeriggio, dopo i corsi universitari. Poi ero a disposizione per i cosiddetti dialoghi personali, perché la teologia insegnata in classe pone delle domande, ma la scuola soltanto non può rispondere perché sono questioni troppo personali». L’ultimo periodo etiopico il missionario lo ha passato nuovamente a Modjo.
In tutti questi anni padre Antonio è stato accompagnato da un gruppo di amici, il «Gruppo Meki». Costituitosi nel 1973 a Ossona, nella sua parrocchia di provenienza, è composto da volontari, lo ha sempre appoggiato raccogliendo e inviando fondi per i suoi progetti sul campo, e facendo qualche visita. «Il gruppo è ancora attivo, dopo cinquant’anni. Io scrivo loro e vado a trovarli regolarmente. Loro continuano ad appoggiare le missioni a Meki», conclude con soddisfazione.
Marco Bello
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
Chi è al top
«Eat the rich» è la scritta posta su una scatoletta di cibo con il disegno di un ricco che viene «cotto» sopra un fuoco. È questa l’immagine provocatoria che fa da copertina alla 13ª edizione di «Top200», il report annuale (basato sui dati relativi al 2022) sulle principali multinazionali curato dal «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it), curato da Francesco Gesualdi. Il motto provocatorio richiama una celebre frase di Jean-Jacques Rousseau: «Quando il popolo non avrà più da mangiare, allora mangerà i ricchi». Così si capisce chiaramente da che parte stia chi ha predisposto il dossier.
Nel merito si tratta – come nelle precedenti edizioni – di uno studio puntuale, sia perché i dati riportati forniscono un quadro preciso della ricchezza delle imprese multinazionali, sia per l’attualità della problematica in un mondo che presenta enormi disuguaglianze.
Il sottotitolo – «la crescita del potere delle multinazionali» – sintetizza il risultato che emerge dal report. Anzitutto i profitti delle prime 200 imprese internazionali sono raddoppiati in dieci anni, passando da 1.089 a 2.054 miliardi di dollari. Nella classifica delle «top 200» società troviamo 62 multinazionali con sede principale negli Usa e 61 in Cina, che insieme rappresentano il 64,1% del fatturato: 17.770 miliardi su un totale di 27.722 miliardi di dollari. Al terzo posto si colloca il Giappone con 18 imprese e al dodicesimo l’Italia con tre società (Assicurazioni Generali, Eni e Enel).
Assai significativo per comprendere il potere delle imprese è il confronto tra le entrate degli stati e i fatturati delle multinazionali. Al primo posto ci sono gli Usa con 8.010 miliardi di dollari di introiti, al decimo troviamo l’India con 682 miliardi, seguita dalla prima delle multinazionali – la Walmart – con un fatturato di 611 miliardi. In questa classifica ibrida (stati e multinazionali insieme), ai primi 100 posti ci sono 72 multinazionali.
Il dossier, oltre a numerose classifiche sulle top 200 imprese mondiali, contiene quattro approfondimenti relativi ai finanziamenti pubblici alle imprese private, agli affari delle società che producono programmi di intrattenimento, alla crescita dei privati nel settore della sanità e alla presenza di mercenari nei teatri di guerra nel mondo. Proprio questi quattro focus rappresentano la parte più attuale e originale del report. Da non perdere.
Rocco Artifoni 17/09/2023
Meno Cpr più umanità
Complimenti per la rivista. A mio modesto parere per quanto riguarda gli immigrati che vengono in Italia via mare occorre trovare una soluzione in Africa, visto che il numero di affamati è enorme. Si può creare punti mensa nelle zone con maggiori problemi utilizzando i canali delle missioni e ong. Meno Cpr in Europa e più aiuti diretti in Africa. Cordiali saluti,
Giorgio Tagliavini 23/09/2023
Grazie signor Giorgio per le brevi parole che hai scritto alla vigilia della giornata mondiale dei migranti e rifugiati, a cui abbiamo dedicato il nostro editoriale del mese di agosto-settembre.
Su questo tema le parole di papa Francesco sono sempre di una profondità e chiarezza unica, che spesso però trovano resitenze incredibili e cuori duri come pietre. Più grave ancora è la strumentalizzazione dei drammi dei migranti a uso elettorale e la chiusura totale nel nome della propria identià culturale da difendere. È decisamente penosa l’impocrisia di chi grida contro certe parole denigranti, come «tribù», perché ritenute umilianti, ingiuste e discriminatorie, da sostituire quindi con altri lemmi più rispettosi della dignità di tutti, e poi di fatto ha idee, atteggiamenti e comportamenti decisamente tribalisti nella pseudo difesa della propria superiorità e soprattutto dei propri interessi.
Come già scritto e riscitto, non è con la chiusura delle frontiere e l’incolpare i trafficanti e scafisti che si risolvono i problemi, ma con una vera rivoluzione sociale ed economica nelle relazioni tra stati e popoli, soprattutto da parte dei paesi più ricchi.
Opinioni post Lisbona
Egregia Redazione,
leggo da tempo il vostro interessante giornale e sentendomi quasi in famiglia ho pensato di condividere con voi queste riflessioni, benché modeste.
La giornata della gioventù a Lisbona ha radunato molti giovani. Bello vederli attenti e in silenzio ad ascoltare le parole del Papa. Il messaggio di verità del Vangelo attira sempre ed è indispensabile per l’umanità. I media hanno sintetizzato il discorso del Papa con le parole «tutti inclusi nella Chiesa». Va benissimo tutti inclusi, ma ciò non vuol dire che si debbano accettare e avallare gli errori e i grandi peccati che si fanno. Bisogna distinguere la persona dall’errore. Va bene tutti inclusi nella Chiesa ma i pedofili per esempio sono stati fin troppo inclusi. Il Vangelo richiede verità; bisogna dire chiaramente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. I giovani devono sapere ciò che è sbagliato e chi compie tali errori deve essere invitato a correggersi. La pedofila è stata per molti la madre dell’omosessualità. A 14/15 anni i giovani sono ancora ragazzini e avrebbero bisogno di essere lasciati crescere serenamente in pace senza caricare sulle loro giovani spalle pesi così grandi come quelli dei dubbi sulla propria identità sessuale, come invece è di moda in questi tempi.
Personalmente ho visto il nascere di un atteggiamento gay in un ragazzo che aveva avuto esperienza di pedofilia. Nella scuola dove lavoravo c’era un quindicenne che si vantava con i compagni di sapere cose particolari sulla sessualità, gli altri rispondevano alle sue vanterie deridendolo. Alcuni invece lo ascoltavano perplessi e incuriositi. Lui voleva farsi vedere più emancipato e sperava così di attirarsi tanti amici, di essere più stimato ma a volte finiva col prendersi spintoni e insulti. Convocati i genitori, ignari di tutto, era emerso che, quando dovevano uscire di casa per il lavoro o per spese, mandavano il figlio da un loro vicino che sembrava affidabile ma che invece intratteneva questo ragazzino facendogli vedere video sulla omosessualità e rischiando così di creare nel giovane la «forte distorsione cerebrale e psichica che comporta l’omosessualità» (parole di un importante psicologo membro dell’Associazione internazionale di psicologia applicata). In seguito a queste esperienze subite questo ragazzo a 15/16 anni risultava quindi volersi indirizzare verso l’omosessualità. Un comportamento gay derivato da una pedofilia.
Purtroppo, la pedofilia risulta essere veramente all’origine di tanti casi di comportamenti gay. La chiesa ha il dovere di proteggere e salvaguardare ogni persona specie i giovani e per farlo deve dire ciò che è errore e danno e quindi peccato. La pedofilia e l’omosessualità che in genere ne è una derivazione sono un errore, un peccato, un danno più o meno cosciente per sé e per la società. Il normale bisogno di amicizia e affetto viene confuso con comportamenti sbagliati e contro natura.
Nella parabola sulla indissolubilità del matrimonio, a Pietro che di fronte all’impossibilità del divorzio dice che allora è meglio non sposarsi, Gesù risponde che non a tutti è dato di capire e che a volte occorre farsi eunuchi per il regno dei cieli. È però un linguaggio figurato. Non intende dire che occorre veramente farsi eunuchi ma che in certe situazioni bisogna comportarsi come se non sentissimo attrazione sessuale per l’altro sesso. Per rimanere fedeli a volte occorre veramente farsi eunuchi, cioè non ascoltare l’attrazione verso la donna che non è la propria moglie o viceversa verso l’uomo che non è il proprio marito.
Nella Chiesa invece sembra che alcuni abbiano preso alla lettera il farsi eunuchi traducendolo anzi in farsi omosessuali, per cui ci sono preti gay che continuano a svolgere il loro ministero pur comportandosi da omosessuali. Altri prelati sono sommessamente favorevoli ai rapporti gay causando così grande scandalo. Va bene accogliere tutti nella Chiesa ma non accogliere l’errore. Accogliere l’errante, ma dirgli chiaramente che deve impegnarsi a cambiare vita, non comportarsi più da gay ma vivere l’astinenza e non praticare rapporti sbagliati e contro natura.
[…] La chiesa anziché avallare i comportamenti omosessuali dovrebbe piuttosto rivedere l’ordine di celibato per i preti. Accettare anche preti sposati ma con una fede sincera, forte e disinteressata economicamente.
Certo, essere liberi da impegni familiari per poter andare ovunque ad annunciare il Vangelo è più generoso ed eroico ma si potrebbe accogliere anche chi desidera sposarsi. Meglio questo anziché accettare i comportamenti omosessuali. Non è assecondando le persone nei loro grandi errori che si guadagnano i fedeli. Cordiali saluti
Enrica B. 18/09/2023
Onestamente non credo che il messaggio centrale della Gmg di Lisbona fosse «Tutti inclusi», soprattutto nella sua interpretazione, come se papa Francesco avesse avvallato pedofilia e omosessualità. Lo slogan «Maria si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39), ha una portata molto più vasta e missionaria ed è un forte invito a non chiudersi, a non fare una vita da «seduti sul divano» e diventare concreti testimoni di amore in questo nostro mondo dilaniato da guerre, ingiustizie sociali, cambiamento climatico, povertà, disciriminazioni e intolleranza di molti tipi.
La sua lettera rivela comunque una sofferenza vissuta sulla sua pelle di fronte a fatti nei quali sono coinvolti anche dei sacerdoti dagli atteggiamenti certamente non evangelici. E questo mi richiama il dialogo che ho avuto pochi giorni fa con una catechista che mi raccontava della perplessità di una famiglia a mandare i suoi bambini al catechismo dopo aver sentito e letto di episodi di pedofilia da parte di sacerdoti.
Vorrei solo confermare che su omosessualità e pedofilia di persone religiose, la presa di posizione di papa Francesco e della Chiesa intera è senza equivoci. Occorre però tanta vigilanza e intelligenza per non cadere nella trappola della generalizazzione che conduce dalla colpa di un singolo sacerdote, o vescovo, o religioso o religiosa a mettere sotto accusa tutto e tutti.
Probabilmente nel futuro vedremo anche i preti sposati nella nostra Chiesa, ma non certo come soluzione alla pedofilia. Le statistiche dicono che gran parte degli abusi sessuali sui minori avviene tra le mura di casa.
Credo che per affrontare seriamente la situazione occorra smettere di cercare il capro espiatorio e di puntare il dito, ma impegnarsi a vivere con maggior coerenza, tutti e in fretta, l’insegnamento del Vangelo, consci che tutti siamo fragili e peccatori.
Per quanto riguarda il legame causa effetto tra pedofilia e omossesualità, non mi trova d’accordo. Non penso sia un caso particolare (da lei conosciuto), a dare la regola generale. Preferisco quindi separare le due situazioni.
Se la pedofilia è senza dubbio sempre un «errore, un peccato», come lei la definisce, più complesso è il discorso per l’omossessualtà, che può essere un «sentire» differente, un voler vivere i propri sentimenti sulla base di quello che si prova davvero, senza ipocrisia. In questo caso non è un «errore, un peccato». Papa Francesco ha detto infatti: «Essere omossessuali non è un crimine» e, inoltre, «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?».
Ricordando Don Delfino
Gent. Direttore,
vorrei ringraziarvi per quanto realizzate, in particolare sono stato molto sorpreso dall’articolo del 12 giugno 2023 «La grande avventura». Sono pronipote di don Delfino Bianciotto, da lui battezzato nel suo 49° anno di sacerdozio. Era lo zio e il padrino di battesimo di mio padre che portava il suo nome. Io fin da piccolo venivo premiato con dei favolosi soggiorni presso don Delfino. Il missionario Delfino era un mito di saggezza e di fede. Lo ammiravo passeggiare per ore nel giardino in preghiera leggendo il Vangelo. Quando si accorgeva di me, mi avvicinava facendomi ammirare Dio nel creato, in un fiore, un’ape, nel volo di un uccello. Mi diceva che la preghiera si svolge in ogni luogo e in ogni istante.
Avevo 11 anni quando don Delfino, il 2 aprile 1961, festeggiò i 60 anni di sacerdozio. Fu felice che in quell’occasione molti si ricordassero di Lui: (tra questi) padre Carlo Masera, suo coadiutore in Abissinia (così era chiamata allora l’Etiopia, ndr) nel Kaffa, il vice superiore generale dell’Istituto, padre Giuseppe Caffaratto, il provicario della diocesi (di Pinerolo) don Giovanni Barra. Gli arrivò anche il telegramma d’auguri di papa san Giovanni XXIII (io gli recitai una breve poesia).
La mia curiosità ed ammirazione di bambino per don Delfino era immensa. Chiedevo che mi raccontasse le sue straordinarie avventure e venivo accontentato.
Mi raccontava dei suoi viaggi favolosi e pericolosi, dei bambini felici come me, ma dal destino tragico che aveva conosciuto e soccorso, chi aveva perso i genitori per incidenti con animali della foresta, chi era stato rapito dai predoni ed era venduto schiavo dagli stessi. Si rammaricava di non aver potuto riscattare tutti quegli innocenti che aveva consolato avvicinandoli a Gesù. Salì al cielo il 27 luglio 1962. Il 16 agosto 2023 don Delfino sarà stato molto felice, per l’elezione a superiore generale dei Missionari della Consolata di padre James Bhola Lengarin del Kenya (un «pronipote» dei bambini che lui aveva incontrato e soccorso in Kenya). Cordiali saluti
Franco Bianciotto 02/09/2023
Padre Delfino Bianciotto nacque a Frossasco (To) il 27 marzo 1874. Ordinato sacerdote il 23 marzo 1901, dopo aver esercitato per alcuni anni il ministero nella diocesi di Pinerolo, il 4 agosto 1906 entrò nell’Istituto. Partì per il Kenya il 10 dicembre dello stesso anno e là lo troviamo quando il canonico Giacomo Camisassa compì la sua visita nel 1910/1911. Il 15 ottobre 1917 entrò avventurosamente in Etiopia come commerciante e si unì a monsignor Gaudenzio Barlassina aprendo una prima casa a Ghimbi, nel Kaffa. Nel 1922 tornò in Italia come rappresentante dei missionari d’Etiopia per il primo capitolo generale dell’Istituto. Nel 1932, scaduto il periodo per il quale si era legato all’Istituto, ritornò nella sua diocesi di Pinerolo.
Una storia americana
I Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946, in Canada l’anno seguente. La loro attività ha conosciuto anni d’oro, ma anche una fase di declino. Oggi i gruppi missionari dei due paesi del Nord America si sono uniti al Messico per affrontare assieme una nuova sfida, difficile ma entusiasmante.
Il Vangelo di Matteo – «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (28,9) – e il Vangelo di Marco – «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (16,16) – testimoniano che i primi discepoli di Gesù di Nazareth erano consapevoli di aver ricevuto dal Risorto il mandato di andare ad annunciare la sua parola in tutto il mondo.
Se questa evangelizzazione rimase confinata negli ambienti ebraici fin dai primi anni, san Paolo sentì il dovere di portare la buona notizia ai pagani: in Rm 1,1 si presenta come un «apostolo messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio». Gli Atti degli Apostoli raccontano i viaggi missionari di Paolo in Turchia, Grecia, Roma, e forse in Spagna. Nella sua lettera ai Galati, capitolo 2, Paolo spiega che Pietro fu mandato ai Giudei, mentre lui stesso fu mandato ai Gentili.
Questa epopea missionaria ebbe un tale successo che, all’inizio del IV secolo, l’intero impero romano sarebbe diventato cristiano e per secoli le comunità cristiane avrebbero creduto che il loro mandato missionario fosse completo e il Vangelo fosse stato annunciato a tutte le nazioni.
Il mondo è più grande
Fu nel XV e XVI secolo che ci si rese conto di quanto, oltre i limiti dell’Occidente, ci fosse ancora una moltitudine di esseri umani da raggiungere. In questa consapevolezza, ebbe un ruolo importante l’uomo che sarebbe diventato patrono delle missioni, San Francesco Saverio, il primo missionario gesuita e il primo missionario in Giappone.
I missionari iniziarono, quindi, a unirsi ai conquistadores portoghesi e spagnoli nella loro ricerca di nuove rotte verso l’Asia. Quando poi si comprese che la terra è rotonda e che la strada può prendere anche la direzione verso Ovest, i missionari accompagnarono i colonizzatori – soprattutto portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi – che si stabilirono nelle Americhe.
Ciò provocò una querelle che oggi è difficile da comprendere: la cosiddetta «disputa di Valladolid» tra Juan de Sepulveda (1490-1573) e Bartolomé de Las Casas (1484-1566).
Il primo riteneva che gli amerindi non fossero esseri umani e, di conseguenza, non ci si dovesse preoccupare delle loro anime e che potessero essere considerati come bestiame o schiavi; il secondo, al contrario, credeva che anch’essi fossero esseri umani con un’anima e, quindi, era necessario predicare loro il Vangelo perché potessero essere salvati.
In ogni caso, durante il primo secolo di colonizzazione delle Americhe, gli studiosi stimano che quasi il 90% degli indigeni scomparì, principalmente a causa di malattie contagiose portate dai coloni europei, ma anche a causa della violenza.
Evangelizzazione dal Sud al Nord America
Gradualmente, le Chiese cristiane costituirono comunità in tutta l’America con coloni provenienti dall’Europa.
In America Latina, nel XVI secolo, le comunità cristiane fondarono varie città: Buenos Aires nel 1536, Rio de Janeiro nel 1565, Cartagena (Colombia) nel 1533 e Quito nel 1534.
In Nord America, il cristianesimo prese piede con gli espolratori europei. Già nel 1524 l’italiano Giovanni da Verrazzano arrivò nei pressi di New York, che venne però fondata soltanto nel 1609 dagli olandesi che le diedero il nome di New Amsterdam.
L’evangelizzazione di questa parte delle Americhe fu opera dei missionari spagnoli in California, di quelli anglicani negli Stati Uniti e dei francesi in Canada. Tra i primi si ricorda Junipero Serra (1713-1784), un francescano che papa Francesco ha dichiarato santo il 23 settembre del 2015.
Nel 1534, l’esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) scoprì il fiume San Lorenzo. Fu però solo nel 1608 che ci fu il primo insediamento permanente – Québec (Ville de Québec) – per merito di un altro esploratore transalpino, Samuel de Champlain (1567-1635). Ciò che Champlain cercava era un pied-à-terre per acquistare le pellicce portate dagli indiani. Lo stesso obiettivo del commercio può essere visto come motivo della fondazione nel 1634 di una seconda città sulle rive del San Lorenzo, Trois-Rivières.
Québec fu la città dove operò la mistica francese Marie Guyart (Marie de l’Incarnation, 1599-1635, proclamata santa nel 2014). Santo è anche il suo primo vescovo, François de Montmorency-Laval (1623-1708). La sua diocesi copriva praticamente tutto il Nord America. Diversa è la storia della fondazione di Montréal, nata sotto il nome di Ville Marie (oggi quartiere della città canadese noto come Old Montréal, ndr), come missione presso gli aborigeni. Questo è il motivo per cui molti dei suoi fondatori sono stati riconosciuti beati o santi.
Popoli indigeni e martiri
I primi sacerdoti vennero per prendersi cura dei nuovi coloni. Tuttavia, molto presto i gesuiti e i recolletti (della famiglia francescana, ndr) iniziarono a voler evangelizzare gli aborigeni della Nuova Francia (nome di una vasta area del Nord America colonizzata dai francesi, ndr). Ebbero un certo successo con gli Uroni, ma penetrarono molto poco tra gli Irochesi, dove visse la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), la cui tomba si trova nella piccola chiesa all’interno della riserva di Kahnawake, appena a sud ovest di Montréal.
Il conflitto tra Irochesi e Uroni fece vittime anche tra i missionari. Tra il 1642 ed il 1649, otto missionari di origine francese subirono il martirio: sei sacerdoti gesuiti (Isaac Jogues, Antoine Daniel, Jean de Brébeuf, Gabriel Lallemant, Charles Garnier, Noël Chabanel) e due coadiutori laici (René Goupil e Jean de La Lande). Tutti furono dichiarati santi nel 1930.
Secondo Statistics Canada, dei quasi due milioni di aborigeni censiti in Canada, circa la metà afferma di non avere alcuna affiliazione religiosa, mentre poco più della metà sono cattolici. E qui si apre una questione delicata. Come ha dimostrato la «Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione» nel suo rapporto finale del 2015, i missionari, specialmente attraverso le «scuole residenziali» (scuole per indigeni; ne scriveremo in un futuro dossier, ndr) hanno collaborato a un «genocidio culturale», che avvelena ancora le relazioni tra le diverse comunità indigene e il resto del Canada, comprese le Chiese.
In The History of Québec Catholicism, lo storico Jean Hamelin parla di «colonialismo spirituale» e di «ambiguità dell’attività missionaria»: «Le missioni sono presentate come una questione di orgoglio nazionale».
Dopo la sconfitta francese nella battaglia delle pianure di Abramo nel 1759, i canadesi francesi sopravvissero raggruppandosi attorno alla Chiesa cattolica per sfuggire ai tentativi di assimilazione ed eliminazione culturale da parte dei nuovi governanti inglesi.
È questa Chiesa franco canadese che diventò una delle Chiese più missionarie del mondo: a metà del XX secolo, il Québec, con più di cinquemila missionari (1 missionario ogni 1.120 cattolici), seguiva soltanto l’Irlanda (un missionario ogni 457 cattolici), l’Olanda (uno ogni 556) e il Belgio (uno ogni 1.050 cattolici).
I Missionari della Consolata
Fu in questo contesto che i Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946 e in Canada nel 1947.
Non sorprende quindi che i padri Bartolomeo Durando (1901-1992) negli Stati Uniti e Luigi Amadio (1916-2010) in Canada ebbiano avuto difficoltà a trovare vescovi disposti ad accoglierli nelle loro diocesi.
Alla fine, i primi Imc si stabilirono in California e in una riserva indiana in Ontario. I primi accettarono di lavorare nelle parrocchie, ma ben presto la congregazione si rese conto che ciò non corrispondeva agli obiettivi ricercati, che erano l’animazione vocazionale e missionaria e la raccolta di donazioni per le missioni.
A tal fine, negli anni Novanta, l’istituto si trasferì negli Stati Uniti orientali e nella provincia canadese del Québec. Negli Stati Uniti furono importanti anche le attività di formazione e specializzazione, non solo per sacerdoti e fratelli, ma anche per i laici disponibili a dedicare qualche anno alla missione. Venti americani e una dozzina di canadesi diventarono missionari Imc.
Gli anni d’oro
L’età d’oro dell’attività missionaria Imc in Nord America furono gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985.
C’erano allora più di cinquanta Imc negli Stati Uniti e più di trenta in Canada. Negli Stati Uniti venivano pubblicati nove periodici, mentre in Canada erano almeno quattro.
Tra il 1976 e il 1986, Notre Dame Hall, il nostro Centro di animazione missionario di Montréal, inviò 1,86 milioni di dollari in assistenza finanziaria a più di dodici paesi di missione. Solo nel 1979, negli Stati Uniti, 257 parrocchie in 46 diocesi furono visitate per le giornate missionarie, che raccolsero circa 200mila dollari per le missioni. E il settore dell’assistenza missionaria inviava circa 150mila dollari all’anno per tutti i tipi di progetti missionari. Una trentina di studenti di origine africana vennero a studiare negli Stati Uniti.
La reazione al declino
Il declino è avvenuto molto rapidamente: la vocazione è scomparsa completamente negli anni Novanta e in questi due paesi nordamericani il numero delle comunità è passato da quindici a solo due negli Stati Uniti, e i membri da 60 a una decina ora in due comunità: una nel New Jersey e una in California.
Anche in Canada ci sono due comunità, una a Toronto e la seconda a Montréal con otto missionari Imc, sempre più spesso di origine straniera.
Per rivitalizzare la presenza in Nord America, la Direzione generale dell’istituto ha unito le circoscrizioni di Canada e Stati Uniti con quella del Messico (paese nel quale l’istituto è entrato nel 2008) formando, quindi, un’unica delegazione religiosa. Nelle nuove missioni messicane operano attualmente otto missionari, distribuiti su due comunità: una a Guadalajara (stato di Jalisco) e un’altra a Tuxtla Gutiérres (nello stato meridionale del Chiapas, vicino al confine guatemalteco).
Jean Paré*
* Missionario della Consolata canadese (Montréal, 1945), dopo gli studi a Montréal, Torino, Roma e Parigi, padre Jean Paré ha insegnato in Canada, Congo Rd e Italia (Università Urbaniana) e lavorato come giornalista in riviste ed emittenti radio (Radio Canada e Radio Ville Marie). Oggi vive e lavora a Montréal.
Le riviste Imc di Canada e Stati Uniti
Anima missionaria
Sono la responsabile delle tre riviste che l’Istituto Missioni Consolata pubblica nel Nord America: Réveil missionnaire (Rm, per il Canada francese), Consolata missionaries (Cmc, per il Canada inglese) e Consolata missionaries US (Cmus, per gli Stati Uniti, in inglese). Oltre alla sottoscritta, il nostro comitato di redazione comprende un redattore laico, Domenic Cusmano (italiano), e un redattore religioso, padre Jean Paré. Il primo è giornalista per le due riviste inglesi, mentre il secondo firma alcuni articoli e scrive di spiritualità, giustizia nel mondo e dialogo interreligioso. A turno, facciamo (in verità, più in passato che attualmente) i cosiddetti viaggi missionari sul campo sia per raccogliere materiale giornalistico sulle varie comunità Imc nel mondo sia per vedere i progetti per i quali raccogliamo fondi.
Il comitato di redazione pianifica le tre pubblicazioni che presentano un contenuto quasi identico. In Canada escono sei numeri all’anno, e precisamente cinque riviste di 16 pagine e un calendario di 32 pagine. Gli Stati Uniti, invece, producono quattro numeri all’anno, cioè tre di 16 pagine e un calendario. La tiratura di ogni numero è tra le 3.500 e le 5.000 copie.
Le riviste sono un essenziale strumento di comunicazione tra i Missionari della Consolata e tutti i nostri amici e benefattori. Ci permettono, infatti, d’informare i lettori sulle attività della missione, sulle storie di successo e, naturalmente, sulle molte sfide che i missionari devono affrontare ovunque essi operino. L’obiettivo è anche quello di rendere i lettori consapevoli della situazione dei più poveri e di toccare la loro anima missionaria.
Ghislaine Crête
I capitoli generali della famiglia Consolata, in un cambiamento d’epoca
Tra l’8 maggio e il 24 giugno si sono tenuti i due capitoli generali dei missionari e delle missionarie della Consolata. Le due assemblee hanno avuto anche una due giorni in comune, il 3 e 4 giugno, durante la quale hanno partecipato in collegamento online anche diversi laici missionari della Consolata, che completano la famiglia Allamaniana.
Il capitolo generale si tiene ogni sei anni. È un’assemblea della durata di circa un mese, durante il quale i delegati o le delegate degli istituti, provenienti da tutto il mondo, si riuniscono e condividono riflessioni, bilanci e programmi.
Infine, l’assemblea dei capitolari elegge i nuovi consiglieri, il (o la) generale e il (o la) vice generale, che saranno le guide dei rispettivi istituti fino al 2029.
In questo periodo storico di cambiamenti rapidi e profondi, pensiamo che i prossimi sei anni saranno fondamentali per i due istituti fondati da Giuseppe Allamano. Abbiamo dunque ritenuto importante raccontare in un dossier, senza pretese di essere esaustivi, le linee principali emerse dai lavori.
Ma.Bel.
Essere fuoco che accende
Il nuovo superiore generale dei Missionari della Consolata.
Padre James Lengarin è nato a Maralal, in Kenya. È il nono successore di Giuseppe Allamano. Forte di un’esperienza come formatore in Italia e nel suo paese, negli ultimi sei anni è stato vice di padre Stefano Camerlengo, generale per due mandati. Abbiamo raccolto le sue prime impressioni.
Decimo superiore generale dei Missionari della Consolata, eletto il 14 giugno scorso, padre James Bhola Lengarin è nato nel 1971 a Maralal (Kenya). È il primo generale di origine africana.
Padre James, lei è stato per sei anni vice superiore generale. Che cosa si porta dietro da questa esperienza?
«Quando entriamo nell’istituto pensiamo di conoscerlo, però in questi sei anni ho visto davvero la realtà dell’Imc, visitando tantissime missioni, in diversi paesi. Ho constatato che in ogni paese la missione ha il suo approccio. Ho incontrato tanti missionari che non conoscevo. Ci si incontra con le persone, si scambiano le impressioni e le esperienze, e questo ci fa innamorare ancora di più del carisma. Come diceva Giuseppe Allamano, lo spirito di famiglia è una cosa reale e concreta. Si condivide, si pensa, si sogna insieme.
Anche l’incontro con i popoli che accolgono i miei confratelli è stato importante. Lavorano e pregano con loro, iniziano a prendersi delle responsabilità nella chiesa, e sono stimolati a conoscere la nostra famiglia missionaria. E questo ti fa innamorare del genere umano».
Viviamo in un cambiamento di epoca. Quali sono le novità principali decise nel capitolo per affrontare i prossimi anni?
«Ci sono cambiamenti a tutti i livelli. Abbiamo fatto un’analisi delle sfide del mondo di oggi, sia quello esterno che quello interno all’istituto. Abbiamo deciso che è importante accettare di rinnovarci, e per farlo occorre una formazione continua. È una dimensione che ognuno di noi deve avere e che tocca tutto l’arco della vita. La formazione ci serve per non vivere di rendita. È come una rinascita che possiamo vivere anche andando a cercare nel nostro carisma delle novità. Il carisma è sempre lo stesso, ma il modo di applicarlo e viverlo deve essere diverso a seconda dei tempi e delle generazioni.
Un altro aspetto che ci fa riflettere è quello dei cambiamenti di vocazione: ci sono alcuni missionari che escono dall’istituto: possiamo imparare dalle loro motivazioni, e capire cosa non sta funzionando. Le nostre costituzioni sono attuali per questi tempi o c’è qualcosa da cambiare?
Nel 2026 saranno cento anni dalla morte del nostro fondatore. Al capitolo ci siamo detti che oltre a celebrare, dobbiamo riflettere e rispondere a delle domande: chi era questo papà? Cosa ci dice oggi? Cosa ci ha lasciato? Cosa abbiamo fatto bene, cosa resta da fare?
Quale può essere il ruolo dei laici nel futuro dell’istituto?
«Abbiamo riflettuto sul coinvolgimento dei laici nella nostra vita quotidiana. Ne parliamo solo come appendice o sono parte integrante del nostro istituto? Sono la terza pietra (missionari, missionarie e laici), facendo riferimento al focolare tradizionale africano? Abbiamo analizzato quali sono le problematiche che emergono a vivere con loro.
Abbiamo previsto di fare un incontro internazionale dei laici, nel quale si parlerà delle esperienze che abbiamo avuto e di come valorizzarle e, in condivisione con loro, si rifletterà su come dare un’identità chiara e ufficiale ai laici della Consolata. Porteremo avanti questo processo nei prossimi sei anni.
Penso anche alla componente Imc rappresentata dai fratelli missionari della Consolata. La loro importanza e il fatto che oggi sono solo trentuno è un richiamo per noi a essere più attenti a promuovere la loro vocazione».
E quale collaborazione con le missionarie?
«Attualmente ci sono due incontri all’anno tra le direzioni generali per organizzare alcune attività da svolgere insieme. Ad esempio, alcuni momenti di condivisione sul nostro comune carisma. Poi è un fatto che la loro presenza è diminuita dove siamo attivi noi e viceversa.
Al di là di questo, si è parlato anche della necessaria collaborazione con altre congregazioni religiose. Importante in questo mondo che cambia».
Come vede la missione in Europa?
«In Europa è cambiata la nostra missione. Il continente è stato la terra di animazione missionaria e vocazionale, fin dall’inizio. Si presentava la missione al popolo, anche per ottenere aiuti spirituali e materiali. Adesso l’Europa è diventata terra di missione ad gentes. Anche la rivista è cambiata: parlava del mondo della missione alle persone in Italia. Ora di cosa parlate? Anche della missione qui. Inoltre il mondo è cambiato e ha bisogno di altri modi di comunicare, messaggi veloci e corti.
Un altro grande cambiamento è l’attenzione a non avere più strutture pesanti, perché non abbiamo più persone che le riempiono».
Ci dica, secondo lei, qual è un punto di forza e uno di debolezza dei Missionari della Consolata oggi.
«Come punto di forza direi che abbiamo un istituto stabile, che rispecchia quello che il fondatore voleva che fosse.
Dal 1960 siamo rimasti in modo costante a circa 900 missionari.
È forte perché, oltre agli anziani, abbiamo più del 50% che sono giovani. Infatti, i confratelli di origine africana sono 520, e sono in maggioranza giovani. È dal 1970 che si sono iniziate a cercare vocazioni in Africa, e c’è stato un boom. Abbiamo, inoltre, una grande diversità culturale. Dall’età di 22 anni, i nostri giovani nelle comunità formative stanno insieme ad altri giovani provenienti da tutto il mondo. L’interculturalità è un valore importante nella nostra società.
Come punto di debolezza, invece, direi l’accompagnamento dei missionari. Negli anni passati essi erano formati in Italia e conoscevano bene carisma e gli insegnamenti del fondatore, e dunque li trasmettevano bene a noi studenti africani. In seguito, la formazione è stata presa in mano da confratelli di altre culture, ed è mancato qualcosa nel passaggio delle conoscenze. Dal 2011 anche la leadership è cambiata, i primi africani hanno cominciato ad essere superiori regionali o delegati, e anche in questo forse è venuto a mancare qualcosa dello stile originario.
Un altro aspetto che vedo è questo: siamo in tante missioni che non sono più di ad gentes. Abbiamo presenze belle, di accompagnamento delle persone nella vita quotidiana, ma nel nostro carisma parliamo di andare verso i non cristiani. Dobbiamo allora definire bene cos’è l’ad gentes per noi. Prima si sapeva bene dove erano i non cristiani.
Le sfide che il mondo ci propone possono diventare opportunità per dei missionari che sognano e che offrono la loro vita per dare una risposta giusta».
Si aspettava di essere eletto superiore generale?
«Non ero pronto a questo. La prima cosa che ho fatto è stata cinque minuti di silenzio ma anche di pianto. Mi sono trovato in difficoltà quando mi hanno chiesto se avrei accettato.
Mi sono detto, faccio la mia parte, non sono da solo, ci sono i confratelli. Niente è impossibile, ci vuole il tempo affinché l’impossibile diventi possibile.
Io vengo da una etnia che non ha un re, ma ha capifamiglia che formano un consiglio degli anziani.
Secondo me per tutte le cose è necessario coinvolgere gli altri missionari nelle loro responsabilità, così tutti i membri dell’istituto partecipano con la loro vita e diventiamo un fuoco che accende gli altri fuochi (Lc 2,49)».
Marco Bello
Un’esperienza che ti cambia
Il XIV capitolo generale dei missionari della consolata
Innanzitutto, un richiamo alla memoria della storia, poi l’ascolto della presenza nei quattro continenti, una riflessione sul futuro, infine l’elezione della nuova direzione generale. Il tutto passando attraverso due giorni di riunione di «famiglia» con le sorelle e i laici. Il racconto di un giovane padre capitolare.
Dal 22 maggio al 24 giugno scorsi, come Missionari della Consolata ci siamo riuniti a Roma per il nostro quattordicesimo capitolo generale.
Già prima di arrivare in casa generalizia sentivamo di avere ricevuto una grazia a partecipare a un evento speciale, che, in qualche modo, avrebbe dato un orientamento al futuro del nostro istituto. Grati per la fiducia riposta in noi da coloro che ci avevano indicati come delegati per quest’importante assemblea, percepivamo anche la responsabilità del lavoro che ci accingevamo a compiere.
Uno dei primi atti del capitolo è stato la firma, da parte di ogni missionario, della dichiarazione con la quale ci si impegnava a far sì che ogni intervento, decisione e azione fossero orientati unicamente al bene dell’istituto.
Il pensiero andava ai capitoli precedenti, a partire da quello del 1922 nel quale, per la prima volta, dodici missionari si erano riuniti per eleggere il superiore generale. Undici voti erano per per Giuseppe Allamano e uno per Filippo Perlo. Il Fondatore aveva replicato: «Non è possibile, bisogna rifare, io sono ormai anziano e ci vuole un giovane per guidare l’istituto», ma padre Tommaso Gays era intervenuto: «Padre, possiamo ripetere quante volte vogliamo la votazione, il risultato non cambierà». Tali e tanti erano l’affetto, la stima, la riconoscenza dei missionari nei confronti del Fondatore che rieleggerlo come superiore generale era qualcosa di naturale e prorompente.
Il capitolo del 1969 fu uno dei più significativi di tutta la nostra storia, perché aveva il non facile compito di ripensare la missione a partire dai documenti e dallo spirito del Concilio Vaticano II. La realtà e la responsabilità del «popolo di Dio» diventavano sempre più importanti e suggerivano nuovi cammini di inculturazione e di vicinanza ai percorsi di lotta per l’indipendenza, sia civile che religiosa, che molti Paesi avevano appena compiuto o si trovavano ad affrontare.
A confronto con la storia
Di fronte alla grandezza dei missionari che ci hanno preceduto, a confronto con le loro iniziative e realizzazioni, veniva da pensare: «Chi siamo noi?». Ci siamo fatti coraggio sentendo che, da un lato, provenivamo da una storia di dedizione e di amore ai popoli e alla missione e che, dall’altro, il tratto di cammino che ci trovavamo a percorrere era affidato proprio a noi, con i nostri limiti e talenti.
Il momento attuale è infatti di grande delicatezza e importanza, dato che, come ricorda papa Francesco, non ci troviamo tanto di fronte a un’epoca di cambiamento, quanto a un cambiamento d’epoca. Le sfide sono numerose e impegnative, ma dalla capacità di affrontarle e di trovare una qualche soluzione dipende niente meno che la sopravvivenza della nostra specie sulla faccia della Terra. Noi capitolari sentivamo quindi più che mai necessario dare il meglio di noi, nella fraternità e semplicità.
La straordinarietà del momento era percepibile anche dai tanti messaggi di vicinanza, affetto e preghiera che provenivano dai missionari e dalle missionarie, dai laici, dagli amici, persino dal papa. Il clima tra di noi è stato subito d’intesa e di gioiosa collaborazione, per cui le paure di contrasti, difficoltà, momenti di stallo, sono presto svanite. I capitolari rappresentano in qualche modo l’intero istituto ed era dunque naturale che la maggioranza avesse origine africana. Nei momenti di preghiera, durante il canto, si sentiva la forza delle tradizioni che hanno sempre dato importanza alla musica e al canto corale, fatto di varie voci che, con potenza, si fondono in armonia.
In ascolto
I primi giorni del capitolo sono stati dedicati all’ascolto delle sfide del mondo, tramite l’intervento di alcuni esperti, e della nostra realtà d’istituto, attraverso le relazioni dei superiori e degli amministratori. Un capitolo dovrebbe aiutare a capire come rispondere alle esigenze che emergono dalla realtà sociale contemporanea e provare a dare alcune risposte ai problemi e alle difficoltà che l’istituto si trova ad affrontare.
Ci siamo resi conto che era necessario provare a riflettere su cosa sia l’ad gentes oggi, cioè come portare la «Buona notizia» a quelle persone e realtà che ne sono distanti. La salvaguardia del creato, la promozione di mentalità e atteggiamenti di pace, l’accoglienza della sensibilità delle donne, la vicinanza alla strada dei tanti migranti, l’ascolto dei giovani, la collaborazione con le chiese locali sono realtà in cui siamo chiamati a essere presenti e a portare una parola e un’azione capaci di costruire relazioni e condivisione.
Abbiamo trovato un istituto vivo e appassionato, che ha ancora voglia di camminare insieme ai popoli, ma qualche volta stanco, un po’ disilluso e incapace di continuare a immergersi in quegli ambienti sfidanti che costituiscono le frontiere della missione.
Accanto al desiderio di trovare nuovi stili di missione adatti all’oggi, abbiamo trovato anche nostalgia per il passato e resistenza al cambiamento, in contrasto con l’apertura alla novità caratteristica del nostro Fondatore. Lo studio della nostra storia, il ritorno al carisma, il contagio da parte della passione missionaria di tanti uomini e donne che ci hanno preceduto deve aiutarci a riprendere con rinnovato slancio la voglia di consumare la vita per costruire comunità e per aiutare altri a condurre con dignità il loro percorso esistenziale.
La multiculturalità che caratterizza l’istituto è sicuramente una ricchezza, ma necessita di cammini che trasformino «l’essere insieme» in un desiderio di collaborazione, di accettazione e valorizzazione delle diversità, di un impegno a vivere e lavorare in cordata. Siamo, infatti, chiamati a costruire un istituto che sia un vero riflesso del Regno di Dio, dove genti di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (Ap 7,9) possano vivere e lavorare in armonia e fratellanza.
La Parola
Il testo biblico che ci ha ispirati durante i lavori capitolari è stato l’incontro di Filippo con l’Etiope funzionario della regina Candace (At 8,26-40). «Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: “Capisci quello che stai leggendo?”. Egli rispose: “E come potrei capire, se nessuno mi guida?”. E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: “Come una pecora egli fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, la sua discendenza chi potrà descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. Rivolgendosi a Filippo, l’eunuco disse: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?”».
Filippo non inizia a predicare, prima di tutto si fa compagno di viaggio e si mette in ascolto, poi fa una domanda e di conseguenza è invitato a salire sul carro e a spiegare il passo.
Ogni testo della Scrittura diventa significativo quando incontra la nostra realtà, quando lo sentiamo valido e vitale per la nostra condizione attuale. La domanda dell’Etiope mira proprio a questo: il testo biblico parla di un servo sofferente che è stato umiliato, ma al quale è promessa una grande discendenza, e anche l’Etiope, reso eunuco da chi l’ha voluto al servizio della regina Candace, vorrebbe con tutto se stesso essere fecondo, poter avere in qualche modo una discendenza. Filippo, parlandogli di Gesù, gli annuncia una speranza.
E noi? Riusciamo come singoli e come comunità a lasciarci plasmare dalla Scrittura e a «raccontarla» in modo che sia significativa per chi l’ascolta? «L’episodio dell’annuncio di Filippo all’eunuco ci incoraggia ad un cambiamento di direzione: dall’attesa all’uscita che porta ad ascoltare, a correre, a servire, a stare lungo la strada sporcandosi le mani e camminando con le persone. Anche noi siamo chiamati a essere Chiesa in uscita, a “sederci accanto”, ad accompagnare e poi a lasciar andare perché il Vangelo genera libertà».
Family workshop
Uno dei momenti più intensi di tutto il percorso capitolare è stato senza dubbio il fine settimana insieme alle suore e agli altri missionari, missionarie e laici collegati online. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, entrambi professori alla Cattolica di Milano, ci hanno presentato alcune riflessioni sugli atteggiamenti missionari più importanti per raggiungere i giovani che desiderano una Chiesa più aperta, autentica e accogliente; il cardinale Luis Antonio Tagle ci ha offerto un intervento appassionato e ricco di esperienze personali suggerendoci di lasciar perdere le «strategie» per preferire «l’alleanza» con la Parola, ma anche con le persone, che quando si sentono capite, accolte e valorizzate, danno il meglio di sé. I laici hanno fatto sentire con forza la loro voce e il loro desiderio di pensare, sognare e realizzare la missione insieme a noi.
Vicinanza nella distanza dunque, ma anche incontri, sorrisi, parole scambiate con un sentimento di reale fratellanza e sorellanza e con la voglia di pensare a un cammino congiunto da portare avanti insieme ai giovani, a un coinvolgimento più profondo nel mondo del digitale, insieme al desiderio di mettersi in ascolto del grido che i popoli e il pianeta fanno sentire, per tentare di abbozzare qualche riposta.
Da qualche tempo a questa parte si è inaugurato un modo nuovo di collaborazione tra missionari, missionarie e laici, in cui ci si interroga, alla pari, su come affrontare le sfide che la realtà pone e si prova a individuare, con l’apporto delle diverse sensibilità e competenze, alcune strade percorribili.
Molto è ancora il cammino da fare, perché non sempre si è preparati a questo tipo di collaborazioni, eppure è più che mai necessario procedere insieme se si desidera ancora essere significativi nella realtà contemporanea.
Votazioni
Uno dei tempi più attesi e preparati di tutto il capitolo è stato senza dubbio l’elezione del superiore generale e del suo consiglio. Fin dall’inizio e ancor prima, ci si interrogava su chi sarebbe potuta essere la persona più adatta per questa importante responsabilità. I lavori di gruppo, il pellegrinaggio ad Assisi, i momenti informali, oltre alle sessioni in plenaria, sono stati occasione per conoscersi nel modo di pensare, di lavorare, di affrontare i problemi e per confrontarsi sulla scelta da fare.
Il giorno antecedente alle elezioni è stato interamente dedicato alla preghiera e al discernimento, guidati dal preposito (superiore, ndr) generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal. Al termine del ritiro ci sono state le cosiddette mormorationes, momenti di dialogo a due in cui, con rispetto e realismo, ci siamo confrontati sull’opportunità di eleggere un dato missionario.
Questo capitolo ci ha riservato una sorpresa che tra l’altro era la cosa più naturale per la realtà di oggi: il primo superiore africano dell’istituto. Chissà se il Fondatore si era mai immaginato che qualcuno di coloro che avrebbero ricevuto l’annuncio, magari un pastore samburu sensibile, attento, intelligente, un giorno sarebbe diventato non solo cristiano e poi missionario e formatore, ma anche, dopo un lungo cammino, il superiore generale del suo istituto?
Alle radici
È stato significativo il viaggio a Torino che ci ha portati a contatto con la Casa Madre, con i nostri confratelli di Alpignano che, pur nell’anzianità e a volte nella sofferenza, portano nel cuore le persone, i popoli, i paesaggi in cui hanno speso i loro anni di missione e continuano ad accompagnarli con il pensiero e la preghiera. Incontrare missionari con cui si è lavorato o che sono stati di esempio per noi e stimolo nella missione è sempre un momento di grande intensità. Vederli così fragili e a volte sofferenti tocca nel profondo.
Spontanea scaturisce la riconoscenza per la loro vita spesa a servizio della missione e anche il proposito di recarsi qualche volta in più a trovarli, per farli sentire meno soli, ma anche per essere contagiati dalla passione per la missione che li ha portati fino a lì.
Il capitolo ha deciso che le famiglie dei missionari devono essere accompagnate di più, in modo particolare nei momenti di maggiore difficoltà.
Immancabile la celebrazione dell’eucarestia al Santuario della Consolata che è la culla in cui il nostro istituto è stato pensato, sognato e diretto per tanti anni da Giuseppe Allamano e dal suo fedele collaboratore Giacomo Camisassa.
Dopo un mese di lavori intensi, il capitolo è terminato. Quale sintesi? Innanzitutto è stato un tempo speciale che ci ha posti a contatto gli uni con gli altri e con le realtà più stimolanti e più problematiche della nostra famiglia consolatina e del mondo. Il documento conclusivo non propone nuove ricette missionarie, ma vuole aprire alcuni cammini che coinvolgano missionari, missionarie e laici e che ci portino ad approfondire il nostro ad gentes oggi e a pensare una formazione che prepari i giovani e poi accompagni i missionari a sentirsi in sintonia con le persone e le realtà all’interno delle quali siamo chiamati a offrire il nostro umile, ma significativo contributo.
Il sogno, che deve tramutarsi in realtà, è quello di un istituto che provi a fare di tutto per essere una comunità interculturale dove le differenze di pensiero e di stile non costituiscano occasione di divisione, ma di ricchezza, e che rinnovi la passione e l’impegno per offrire qualche proposta significativa a una realtà che, in mezzo a tante difficoltà, non smette di sentire il fascino della bellezza, anche spirituale.
Un primo frutto delle fatiche capitolari è senza dubbio l’amicizia che si è creata tra di noi e il cambiamento che la conoscenza delle realtà del nostro tempo e della nostra famiglia missionaria ci spinge a realizzare nelle nostre vite e nella
missione.
Piero Demaria
Vivere la missione in comunione
La nuova Madre generale delle Missionarie della Consolata
Suor Lucia Bortolomasi è nata a Susa (To). Ha fatto parte del primo gruppo che ha aperto in Mongolia nel 2003, mentre negli ultimi sei anni è stata nella direzione generale. È consapevole dei limiti del suo istituto, ma anche dei suoi punti di forza. Ci parla di carisma, di giovani e dell’importanza della «famiglia» della Consolata.
Suor Lucia Bortolomasi è nata nel 1965 a Susa, in provincia di Torino. È entrata nelle Missionarie della Consolata nel 1987 ed è partita per la missione in Mongolia nel 2003, nel primo gruppo, e vi è rimasta 14 anni. Negli ultimi sei anni è stata consigliera generale. Il 28 maggio scorso, durante il XII capitolo generale, è stata eletta superiora del suo istituto.
Suor Lucia, in un cambiamento di epoca, quale sono le nuove sfide per le Missionarie della Consolata e come affrontarle?
«Per noi il Capitolo è stato una benedizione e una grazia. Ci siamo trovate come famiglia, anche se stiamo diminuendo di numero, ma questo non ci ferma, perché abbiamo nel cuore la passione per la missione.
È stato un momento in cui abbiamo ripreso tutto il nostro cammino, abbiamo visto la presenza dell’oggi, dove siamo, come viviamo, con che stile, per proiettarci verso il futuro. C’è stata una riflessione sui tre temi: la missione, il carisma e le presenze.
Durante gli ultimi sei anni è stato elaborato il documento della Ratio missionis, approvato al capitolo. È un documento che ci ha dato una prospettiva ed è frutto di un lavoro collettivo. A partire da una bozza iniziale tutte le sorelle hanno potuto dare il loro apporto.
Il secondo tema trattava del tesoro del nostro carisma. Abbiamo discusso e approfondito su come ravvivare il carisma, datoci da Giuseppe Allamano.
Il terzo tema prevedeva il ridisegnare le presenze. In sintesi vuol dire chiudere dove c’è già la chiesa locale che può camminare, e non c’è più bisogno di una nostra presenza, e proiettarci invece su luoghi e in ambiti dove non c’è presenza di chiesa.
Durante il Capitolo abbiamo sentito un richiamo forte a vivere la grazia della piccolezza, una chimata che lo Spirito dirige a noi come istituto, oggi: un cammino che ci aiuta a non porre l’attenzione sulle nostre capacità, ma sulla fiducia in Dio. Non siamo nate per le grandi strutture o le grandi opere, non siamo state fondate per realizzare grandi progetti, siamo chiamate da Dio a prenderci cura della persona ad ascoltarla e annunciare l’amore di Dio.
Oltre a tutto questo, in maniera trasversale, abbiamo parlato molto di comunicazione. Ormai vediamo che è un aspetto importante, è come una missione. L’ambito della comunicazione è diventato una missione ad gentes, nel quale puoi raggiungere tante persone.
Abbiamo dunque deciso di realizzare un ufficio centrale della comunicazione. Esso raccoglierà tutti i nostri sforzi in questo ambito, e sarà come una presenza nel continente del mondo digitale».
Quante siete attualmente e che prospettive avete?
«Siamo circa 500, presenti in diciotto paesi. Le giovani in formazione provengono in maggioranza dall’Africa, qualcuna dall’America Latina, in questo momento ci sono 19 novizie.
Una delle priorità dell’istituto è la cura delle sorelle anziane e malate, che dopo anni dedicati alla missione, quando le forze vengono a mancare per età o salute, continuano a servirla nella preghiera, nell’adorazione eucaristica, nell’offerta della sofferenza, unendosi più intimamente all’opera redentrice di Cristo. Un’altra priorità è quella delle giovani generazioni, due realtà che in questo momento hanno bisogno di attenzione particolare per la vitalità della nostra famiglia. Sono le radici e i germogli. Siamo un’istituto in diminuzione numerica, un piccolo gruppo di sorelle, con una grande passione per Dio e per la missione nel cuore».
Come interessare il mondo dei giovani alla missione?
«Non lo so, però credo fortemente che se siamo fedeli al nostro carisma e viviamo con radicalità il Vangelo e lo testimoniamo con la nostra vita, sicuramente i giovani si porranno delle domande.
Anche durante il capitolo si è parlato del bisogno dei giovani, della loro sete di cose vere. Ci sono tante situazioni di fragilità, dove noi dobbiamo essere presenti per donare speranza».
Come vede la collaborazione tra uomini e donne della famiglia Consolata? E il ruolo dei laici?
«È un segno dei tempi, sorelle e fratelli che insieme testimoniano che è bello credere in un Dio che ama. Questo richiede rispetto e un grande desiderio di vivere la missione come famiglia unite ai nostri missionari e ai laici. Penso che ci sia la volontà di condividere e vivere la missione assieme. Un esempio è la Mongolia, un’apertura missionaria pensata e voluta dai due istituti generali, e poi vissuta insieme. La missione in Mongolia non sarebbe quello che è adesso se non fossimo stati insieme, se non avessimo, pensato, riflettuto, pregato e vissuto l’apostolato. È bello pensare a una missione vissuta in comunione e arricchita dalla presenza dei laici, di famiglie, che condividono lo stesso carisma. Il fondatore è unico, il carisma è unico, che cosa ci impedisce di sederci e riflettere per vivere la missione? La comunione sempre arricchisce.
Un’animazione missionaria fatta con femminile e maschile sarebbe una ricchezza. Più efficace. Spero che si possa andare avanti su questa strada, perché le possibilità ci sono e anche il desiderio».
La missione in Europa è diventata ad gentes?
«Per il nostro Istituto, l’Italia è la culla dove siamo nate: in Europa ci sono i luoghi della nostra spiritualità, il cuore del carisma, le radici dell’istituto. Sono luoghi sacri, un dono per tutti. Siamo chiamate a mantenerli vivi, a valorizzarne il significato.
L’Europa ci interpella anche a trovare nuove forme e stili nuovi di essere e fare missione oggi. Alcune presenze sono divenute spazi di consolazione e vicinanza per i migranti, le donne che vogliono spezzare le catene della tratta. Da poco abbiamo iniziato una presenza missionaria a Ruffano, in Puglia. Siamo in una parrocchia dove cerchiamo di sensibilizzare la Chiesa alla missione e ad avere un’attenzione particolari ai giovani e a chi ha bisogno di consolazione.
Vorrei sottolineare però che noi come Istituto, per rispondere al nostro carisma, siamo chiamate ad andare dove non c’è una presenza di Chiesa o dove ci sono popoli che ancora non hanno sentito parlare del Vangelo, di Gesù. Qui in Europa c’è una presenza di Chiesa molto valida, che può servire e donare; invece, ci sono parti del mondo che sono dimenticate, è lì il nostro posto».
Marco Bello
Il fuoco della missione
Reportage dal capitolo delle missionarie della consolata
Ventotto sorelle dai quattro continenti si sono riunite per un mese nella casa di Nepi (Viterbo). Hanno analizzato la presenza dell’istituto nel mondo e riflettuto sulle sfide della missione del futuro. Dal 1910, anno della fondazione, questo è il dodicesimo capitolo generale. Il racconto di una testimone d’eccezione.
Dall’8 maggio all’8 giugno 2023 si è svolto il XII Capitolo generale delle Suore Missionarie della Consolata dal titolo: «Il fuoco della missione».
Un fuoco in un braciere: questa immagine viva e scoppiettante ha accompagnato la preghiera iniziale della nostra assemblea capitolare, ed è rimasta impressa nei nostri occhi e cuori durante tutto il capitolo. Nei primi giorni il tema del fuoco è stato abbordato da diverse angolature: dal punto di vista biblico e spirituale ha alimentato la nostra preghiera personale e comunitaria. Ma perché questo simbolo?
La metafora del fuoco era usata dallo stesso nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che affermava energicamente: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Fuoco come passione per Cristo e per l’umanità. E questa eredità carismatica ha letteralmente scaldato i cuori dell’incontro capitolare, che ha riaffermato la missione ad gentes come senso del nostro esistere nel mondo e nella Chiesa.
Lo spirito di corpo
Ventotto sorelle, di nove nazionalità e diverse generazioni, provenienti da quattro continenti: quello che a prima vista può sembrare un gruppo estremamente variegato, in realtà ha vissuto una profonda unione di cuore e di mente.
Lo «spirito di corpo» additato dal beato Allamano come ideale e modello di vita per la nostra famiglia missionaria, è stato percepito dalle capitolari come una realtà di corpo piccolo e unito, attorno al fuoco della missione, che è anche il fuoco del carisma. Una tale esperienza non può che essere un dono di Dio e dello Spirito Santo.
«Il capitolo è stato una benedizione – ricorda suor Getenesh, missionaria della Consolata etiope, formatrice delle giovani aspiranti missionarie in Etiopia – è stato un’esperienza bella di condivisione e di ascolto. Giunte da diversi continenti, e con esperienze molto differenti, tutte siamo arrivate a un’armonia e intesa particolari. Il capitolo è stato un’esperienza dello Spirito Vivente. Porto nel cuore tanta gratitudine a Dio, alla Consolata e al padre fondatore».
Per questo, in tutte noi sorelle, ricordando il capitolo appena vissuto, il cuore si colma di molta gratitudine e commozione.
I temi del capitolo
Il capitolo è un’assemblea che si tiene ogni sei anni, nella quale si valutano i cammini realizzati e si proiettano i cammini futuri. Inoltre, si elegge la nuova direzione generale dell’istituto.
Sono stati due i grandi temi in agenda, dai quali sono scaturite le linee guida e le priorità per il sessennio che inizia: l’approvazione della Ratio missionis, documento del diritto proprio dell’istituto, e il «Tesoro del carisma», sviluppato dall’intercapitolo (assemblea di preparazione del capitolo). Alla luce di questi due temi, si è riflettuto quindi sulle nostre presenze. La redazione di una Ratio missionis era stata indicata dal precedente capitolo 2017 come uno degli impegni del sessennio. La finalità di questo documento era raccogliere la ricchezza carismatica e i cammini compiuti nel primo secolo di vita della congregazione, e pensare alle linee guida della missione nell’oggi e nel futuro. Nel 2018 si è costituita un’equipe di cinque sorelle con diverse esperienze missionarie e competenze. Confrontandosi con esperti e rileggendo il vasto materiale prodotto sul tema della missione, l’équipe ha redatto una prima bozza, che è stata mandata a tutte le sorelle e a persone esterne, competenti sul tema. Gli apporti di grande qualità giunti all’équipe sono stati integrati in una seconda bozza, che è stata presentata all’assemblea capitolare 2023.
Nella Ratio missionis sono presentati i fondamenti della missione ad gentes, a livello biblico, teologico, ecclesiale, e carismatico. Segue una riflessione sugli elementi carismatici missionari che nel tempo si sono sviluppati nell’istituto, per poi tracciare linee guida per la missione del futuro.
Si tratta di un documento importante sia nella formazione delle nuove generazioni di Missionarie della Consolata, sia nella vita di ogni comunità e nello stile di missione che vogliamo vivere e assumere. Per questo, il sessennio che inizia avrà come uno dei suoi punti centrali il processo di appropriazione di questo documento.
Nelle motivazioni date dall’Assemblea capitolare sull’importanza di questo documento, troviamo che la Ratio missionis promuove una visione e una prassi comune di missione, per una sempre più profonda unità di intenti. Aiuta ad approfondire l’oggi e il futuro della missione, e a favorire un «cambio di rotta», dove necessario.
Il tesoro del carisma
L’altro grande tema del capitolo è stato il «Tesoro del carisma», che ha coinvolto tutte le Missionarie della Consolata in un percorso di riflessione e preghiera, e che ha avuto un momento centrale e significativo nell’intercapitolo del 2022. L’assemblea avrebbe dovuto riunirsi a metà sessennio, cioè nel 2020, per vivere un approccio/immersione nel carisma a livello esperienziale, storico ed ermeneutico. La pandemia e il lockdown mondiale hanno fatto rimandare in più occasioni questo incontro, che si è tenuto infine nei mesi di febbraio e marzo 2022.
Dall’Intercapitolo sono emersi elementi fondamentali del carisma, come raggi luminosi che scaturiscono da un nucleo carismatico. Più volte nel tempo del capitolo si è fatta memoria di questo evento molto forte, sia a livello personale, sia a livello di gruppo. Per il poco tempo intercorso tra i due momenti di istituto, non si è potuto realizzare un cammino che coinvolgesse tutta la congregazione, per questo motivo il Capitolo ha indicato il sessennio entrante come il «sessennio del carisma», un tempo benedetto da Dio per continuare ad approfondire e immergersi nel dono carismatico.
Ricorrenze importanti
Naturalmente, l’appropriazione della Ratio missionis e l’immersione nel carisma non sono elementi separati, bensì dimensioni intimamente intrecciate, a cui si uniscono anniversari importanti per la famiglia consolatina: a metà del sessennio, nel 2026, ricorrono i cento anni dalla morte del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei due istituti missionari della Consolata. Sarà un tempo propizio per cammini che coinvolgano tutta la famiglia: padri, fratelli, suore, laici e laiche, identificati con il carisma donato a noi e alla Chiesa dal beato Giuseppe Allamano. D’altra parte, non si tratta di un’iniziativa estemporanea, ma fa parte di un cammino iniziato da alcuni anni, come l’ evento di Murang’a 2 (cfr. MC ottobre 2022), vissuto in tempo di quarantena nel 2022, grazie alla tecnologia odierna, a cui hanno partecipato membri della famiglia consolatina da tutto il mondo, come pure il lavoro delle commissioni congiunte sul carisma, che hanno lavorato per diversi anni sia a livello generale, che a livello continentale.
Riflessione in famiglia
Il 3 e il 4 giugno, le due assemblee capitolari dei Missionari e delle Missionarie della Consolata si sono ritrovate a Roma per un momento di riflessione comune. Chiaramente si è ribadito il desiderio di cammini in comunione sia nello studio che nell’approfondimento del carisma che ci unisce. Non c’è occasione migliore per realizzarli: il centenario della morte del fondatore e (speriamo con tutto il cuore) la sua prossima canonizzazione, per la quale tutti stiamo pregando. I suggerimenti di iniziative sono numerosi, adesso spetta a ciascuno di noi trovare i modi e i tempi per realizzarli insieme.
Il carisma, la missione ad gentes: sono fuoco che arde nel cuore di ogni Missionaria della Consolata, non importa l’età, la provenienza o la missione che sta compiendo. Di questo non c’è dubbio, si percepisce forte nei momenti di condivisione e negli apporti dati da tutta la famiglia durante questi anni. Il capitolo ha riconosciuto questa vitalità, ma allo stesso tempo ha preso in mano la realtà attuale della congregazione: si tratta di una famiglia religiosa piccola e in diminuzione, dove le sorelle anziane sono numerose, ma dove fioriscono anche nuove vocazioni, specialmente nel continente africano.
I processi per ridisegnare le nostre presenze sono in corso già da molti anni, tenendo conto della realtà concreta delle comunità: nel sessennio concluso si sono costituite le Regioni Africa e America, unificando le circoscrizioni di ciascun continente, e ci siamo aperte alla missione nell’Asia centrale, in Kazakistan e in Kirghizistan, ma il cammino non è ancora terminato. La riflessione sulle nostre presenze, sul ridisegnare la geografia delle nostre comunità, è stato un tema toccato dal capitolo per un lungo tempo.
Il fuoco della missione, unito alla realtà attuale della congregazione, esigono un discernimento e scelte concrete.
Sorge nel cuore molta riconoscenza per le vite donate di tante sorelle, che adesso vivono la missione nell’offerta e consegna della loro vita e sofferenza, e sorge pure molta speranza per i «germogli» che spuntano sulla vite centenaria, che è il nostro istituto.
Continuiamo a vibrare per la chiamata della missione ad gentes. Ma come vivere questo tempo così particolare? La risposta data (o meglio, da darsi passo dopo passo) è accogliere e vivere la piccolezza.
La piccolezza: non è solo una realtà storica che stiamo vivendo oggi, è la risposta che, come famiglia religiosa, vogliamo dare e vivere in questo tempo. Una piccolezza che inizia dal cuore di ciascuna in relazione con Dio, che passa per la semplicità e l’umiltà. Una piccolezza che è uno stile di vita e di missione, dove la vicinanza alla gente e la relazione a tu per tu costituiscono il cuore dell’incontro e dell’evangelizzazione.
All’udienza con papa Francesco
Piazza San Pietro: mercoledì 7 giugno 2023. Arriviamo presto e ci mettiamo in fila, vicino al colonnato, per poter accedere ai posti riservati per l’udienza generale di papa Francesco. Si uniscono a noi anche i confratelli capitolari, e come gruppo ci presenteremo al Santo padre per un saluto. Dopo i dovuti controlli della polizia, ci rechiamo sul sagrato della basilica di San Pietro, e aspettiamo pazientemente – ma anche con molta emozione – l’arrivo del pontefice. Scorgiamo, vicino alla sedia del Papa, un’urna di legno. Alcune di noi la riconoscono: è l’urna che contiene le reliquie di Santa Teresina di Lisieux. Scopriamo che di fianco c’è anche un’altra teca, contenente i resti dei genitori di Santa Teresina, riconosciuti beati dalla Chiesa Cattolica.
Papa Francesco arriva in papamobile, saluta lungamente i pellegrini presenti in piazza, quindi, avvicinandosi alla sua postazione, si ferma alcuni istanti in preghiera. E poi inizia la sua catechesi con queste parole: «Sono qui davanti a noi le reliquie di santa Teresa di Gesù bambino, patrona universale delle missioni. È bello che ciò accada mentre stiamo riflettendo sulla passione per l’evangelizzazione, sullo zelo apostolico. Oggi, dunque, lasciamoci aiutare dalla testimonianza di santa Teresina. È patrona delle missioni, ma non è mai stata in missione: come si spiega, questo? Era una monaca carmelitana e la sua vita fu all’insegna della piccolezza e della debolezza: lei stessa si definiva “un piccolo granello di sabbia”».
Potete immaginare la nostra emozione e come queste parole sono arrivate dritte ai nostri cuori. Pura coincidenza? Non pensiamo. Il ricordo della via della piccolezza da parte del Papa è una chiara conferma dei cammini che il capitolo, in discernimento, indica a tutta la famiglia delle Missionarie della Consolata.
Una famiglia religiosa, per molti aspetti vulnerabile e fragile: la via della piccolezza è quella intuita ed intrapresa da Santa Teresina di Lisieux, e ricordata da papa Francesco nell’Udienza generale a cui abbiamo partecipato come capitolari Imc e Mc. Il Signore non solo conosce i nostri cammini, Lui li guida. E a Lui, alla Consolata e al padre Fondatore ci affidiamo per poter seguire unite, piccolo corpo, sulla strada della missione, e con il fuoco della missione dentro.
Stefania Raspo
Hanno firmato il dossier:
Stefania Raspo, suora missionaria della Consolata dal 2001, in Bolivia dal 2013. È anche redattrice della rivista Andare alla genti. È stata eletta consigliera generale nel capitolo.
Piero Demaria, missionario della Consolata dal 2003. Dopo aver lavorato in Mozambico e a Taiwan, si occupa ora di animazione missionaria in Italia. È stato uno dei delegati per l’Europa del XIV capitolo.
A cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale MC.
Si ringrazia Suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, per la collaborazione.