Mozambico:

Bwana Cilimba, l’uomo dal cuore forte


I missionari della Consolata arrivano in Mozambico nel 1925 nella provincia del Niassa. Uno dei primi è padre Pietro Calandri, detto «Bwana Cilimba», un cuneese forte, determinato, innamorato della gente e con il cuore pieno di Cristo. Fonda una grande missione, ma soprattutto costruisce una solida comunità cristiana che vive con fedeltà la propria fede in un ambiente musulmano e attraverso le prove di una lunga guerra.

I cattolici e i musulmani del Niassa hanno celebrato a Massangulo con grande affetto e solennità il 50° anniversario della morte di padre Pietro Calandri, il primo missionario della Consolata in Mozambico e il pioniere dell’evangelizzazione della zona. È morto il 12 agosto 1967 a 74 anni dopo una lunga vita missionaria dedicata quasi interamente al servizio dell’evangelizzazione del popolo Ayao e all’educazione dei giovani.

Il suo funerale, partecipato da una moltitudine riconoscente, e la sepoltura in Massangulo, la missione da lui fondata nel 1928, sono stati l’espressione eloquente di quanto fosse considerato e amato da tutti.

Tra i musulmani Ayao del Niassa, si era guadagnato un nome: «Bwana Cilimba», che significa «uomo dal cuore forte e che può gestire tutto». È questo senza dubbio il titolo più adeguato per questo grande missionario della Consolata.

1925: verso la zambesia. Fratel Benedetto, padre Sandrone, padre Calandri, padre Luigi Perlo e padre Peyrani.

Missionario della Consolata

Intenso ritratto del giovane padre Calandri.

Nato il 5 luglio 1893 a Moretta, Cuneo, fin da piccolo mostra curiosità e un temperamento disciplinato e determinato. Intelligente, sviluppa presto quel notevole senso di osservazione che plasmerà l’artista che più tardi si rivelerà in lui. Il sogno di una vita di dedizione e di avventura portano il giovane Calandri verso la vocazione missionaria, che abbraccia nel 1911, quando entra nell’Istituto Missioni Consolata. Conclusa la sua formazione, è ordinato il 3 febbraio 1917. A causa della guerra non può realizzare il suo desiderio di partire subito verso terre lontane. Il sogno diventa realtà solo tre anni più tardi, quando, nel 1920, viene inviato in Africa. Il Kenya è la sua prima missione e vi rimane cinque anni maturando esperienza, rafforzando la sua formazione e forgiando quel senso pratico che gli sarà molto utile in futuro.

Pioniere in Mozambico

Nel 1925 il giovane missionario riceve una nuova destinazione. Un altro paese africano sta emergendo all’orizzonte: il Mozambico. Sbarca nel porto di Beira il 30 ottobre 1925, ma quasi subito deve tornare in Kenya per accompagnare un padre che si è ammalato e ha bisogno di cure. Rientra nel giugno 1926 accompagnato da padre Giuseppe Amiotti. Hanno il compito difficile di sondare la possibilità di stabilirsi nella vasta regione del Niassa, dove non è ancora entrato alcun missionario cattolico.

Calandri e Amiotti iniziano, così, una grande avventura attraverso terre sconosciute, in un’epoca in cui le comunicazioni sono quasi inesistenti e la mancanza di strade e mezzi di trasporto rende tutto più isolato, lontano e difficile. I due giovani missionari sono i primi cattolici a entrare nel Niassa e si stabiliscono a Mandimba il 5 luglio 1926. Per circa due anni la prima preoccupazione è l’inserimento nel contesto sociale della regione.

Per raggiungere al meglio questo obiettivo si dedicano all’apprendimento della lingua Ciyao, cercando di conoscere gli usi e i costumi del popolo Ayao, compito in cui mettono sempre maggior impegno nella misura in cui cresce in loro l’amore per la gente e la sua terra. Mentre sono a Mandimba dedicano il loro tempo allo studio e all’individuazione e preparazione delle strategie future.

1925 La carovana sulle rive del lagp Niassa

Uno stratega della missione

Dopo essersi dedicato all’osservazione e allo studio, padre Calandri sceglie, ai piedi del Monte Massangulo, il terreno adatto alla sede della missione. E lì, in pieno Niassa, nel mese di maggio del 1928, fonda «Nostra Signora della Consolata di Massangulo».

Uomo metodico, padre Calandri non rallenta il ritmo. Intraprendente, inizia a disegnare una mappa precisa della regione di Massangulo dove svilupperà la sua attività. Rapidamente si impegna nella programmazione dei compiti da intraprendere al fine di creare le strutture di base della missione: la bonifica del terreno; la piantagione dei primi alberi; l’apertura di strade; la costruzione delle strutture necessarie. Visionario, progetta e fabbrica gli edifici per l’abitazione e i servizi essenziali a uno sviluppo strutturato e integrato: internati, scuole, laboratori, mulino, dispensario e maternità.

Usa le risorse locali per gli edifici impiegando l’argilla per la produzione di mattoni e tegole. Attraverso un ingegnoso sistema di canali capta l’acqua da una sorgente nel monte Massangulo per la missione, ottenendo così una risorsa essenziale per tutte le iniziative. Investe nell’agricoltura e nell’allevamento di bovini, nei laboratori di falegnameria, carpenteria e di calzature, per l’auto-mantenimento e il commercio, e anche nella stampa e rilegatura di libri.

Coinvolge la gente in tutte le attività. Integra gli alunni della missione nel lavoro e li forma in modo da poter essere autonomi e capaci di sognare e osare una vita diversa e migliore.

Lavora sempre in collaborazione con altri missionari: i padri Angelo Lunati e Luigi Wegher e i fratelli Giuseppe Benedetto, Lorenzo Baroffio e Ugo Versino, e con il sostegno delle suore missionarie della Consolata e dei catechisti locali.

2-X-1927 padre Calandri insegna nelal scuola di Mandimba

Mandimba: prima chiesa dei Missionari della consolata nel Niassa (1926) – padre Calandri e il sig. Regina davanti alal chiesa

Il dialogo e la cooperazione con i musulmani

Nei primi tempi non tutto è facile. Dopo la fondazione di Massangulo, padre Calandri e i suoi compagni sperimentano l’ostilità di due capi Ayao musulmani, che non vogliono un’altra religione nella loro terra.

Sopporta pazientemente in quei primi anni l’atteggiamento ostile della popolazione verso la missione e i missionari. Le relazioni di buon vicinato e il lavoro paziente poco a poco danno frutti e l’ostilità lascia il posto a un buon rapporto di collaborazione e rispetto.

Padre Calandri ha un grande merito nello stabilire questo clima di reciproca comprensione e rispetto che dura ancora oggi. Sono numerosi i gesti di aiuto reciproco vissuti negli anni: la difesa della popolazione contro l’espropriazione delle terre per la coltivazione forzata del cotone; l’accoglienza nella missione di gente ricercata (perseguitata) dai militari portoghesi durante la guerra per la liberazione del Mozambico dal dominio coloniale; le visite alle moschee; la partecipazione alle feste comuni. Padre Calandri rispetta la religione della gente senza imporre a nessuno la conversione al cattolicesimo.

Padre Calandri nel 1964

Una vita missionaria feconda

Le opportunità per evangelizzare la popolazione Ayao sono rare, ma padre Calandri non si lascia scoraggiare e con pazienza pone le basi per un servizio pastorale duraturo. Alcuni giovani musulmani Ayao accettano, dopo l’approvazione delle loro famiglie, di ricevere il battesimo, e non c’è dubbio che a questo ha contribuito anche la sua indiscussa autorità morale, oltre all’eccellente educazione data nelle scuole della missione.

Con pazienza la comunità cristiana cresce. Si formano le prime famiglie cristiane a cominciare dagli alunni educati negli internati (i «collegi» nei quali gli studenti vivevano durante il periodo della scuola, ndr).

Uomo d’azione, pur con pochi mezzi, dota la missione di Massangulo di un insieme di edifici imponenti non solo per rispondere ai bisogni immediati ma anche per preparare il futuro sviluppo. Uomo di scienze e di lettere, dopo alcuni anni di permanenza nel Niassa, senza tralasciare il lavoro che gli era stato affidato, compila un dizionario e una grammatica della lingua Ciyao.

Lo studio, il dialogo e la predicazione in lingua locale avvicinano alla popolazione e rafforzano l’empatia. Questo radicamento nella cultura della gente porta come frutto positivo l’adozione del missionario tra gli Ayao.

Uomo di elevata sensibilità e senso estetico, progetta e dirige i lavori dell’imponente e bellissima chiesa dedicata alla Madonna Consolata, oggi Santuario diocesano di Massangulo. Ci volgliono 10 anni per costruirla. Il cantiere diventa anche centro di formazione di carpentieri, falegami e muratori esperti perché impiega maestranze e operai locali e utilizza i laboratori di arti e mestieri della missione. Questa straordinaria chiesa ancora oggi è motivo di meraviglia per chi la visita. È stata benedetta il 3 gennaio 1964 dal primo vescovo della diocesi, Dom Eurico Dias Nogueira, nel suo primo atto pubblico.

In una delle cappelle laterali dell’imponente santuario è sepolto padre Calandri in attesa della gloria della risurrezione.

Diamantino Guapo Antunes




Cari Missionari,

scambio di lettere e email

Agli amici di Neisu

Un caro saluto dal Congo. Vi spero bene in buona salute e sereni! […] È solo la forza che ci viene dallo Spirito Santo che ci spinge ad annunciare la Buona Novella di Gesù sapendo superare le diverse difficoltà che incontriamo nel nostro essere missionari nel Congo.

Repubblica Democratica del Congo: un grande e ricco paese, gente molto accogliente, allegra, ricca di fede e di sacrifici che continua a credere in un futuro più giusto e fraterno anche se il domani appare ancora incerto e insicuro… Le famose elezioni che dovevano realizzarsi l’anno scorso, poi quest’anno, saranno ancora rimandate al 2018 sperando che questo non provochi altri disordini, saccheggi, rivolte… la nostra gente è stanca.

Qui a Neisu c’è calma ma nello stesso territorio della diocesi le cose non sono tranquille, soprattutto i ribelli ugandesi Lra (Lord Resistance Army di Josef Koni) continuano devastazioni, saccheggi, uccisioni, …in altre regioni interi villaggi abbandonati, migliaia di persone in fuga. Fino a quando?

Arrivato in Congo nel 1991, non mi ricordo un anno tranquillo di pace su tutto il territorio di questa nostra nazione. Abbandonare il Congo, andare in un altro paese più tranquillo, ritornare a casa… pensieri che a volte arrivano alla testa ma non al cuore e allora, malgrado tutto, si continua, rinnovando il mio sì al Signore, che amandomi mi ha chiamato a vivere qui. La missione, lo sappiamo, non è mia ma sua! Il Vangelo è magnifico!

Continuate a essere missionari là dove il Signore vi ha chiamato e con tutta la Chiesa, in particolare con i missionari e le missionarie che amate, stimate, aiutate e per loro pregate tanto.

Da parte mia vi assicuro la mia preghiera, il mio grazie, il mio affetto. Con la Madonna continuiamo ad annunciare Gesù suo Figlio e nostro Salvatore. Un abbraccio fraterno,

padre Rinaldo Do
Neisu, 03/10/2017

Trovare Neisu su una cartina geografica è molto difficile. Se provate con Google Earth o Map, non cercate Neisu, ma «Egbita», che è il nome del posto ai tempi coloniali. Lì c’era una piccola stazione della ferrovia a scartamento ridotto che arrivava fino a Isiro. L’ospedale si trova nel punto di incontro tra la curva del tracciato ferroviario e la strada che viene da Est. È riconoscibile per il profilo della torre dell’acquedotto e il grande edificio quadrato. Sulla cartina osservate la devastazione della foresta causata dallo sfruttamento illegale del legname e dalle miniere di coltan e altri minerali strategici.

Ho visitato il posto nel 1983, tanti anni fa, quando ancora era vivo padre Oscar Goapper e a Neisu c’era solo un dispensario vicino alla chiesa in costruzione. Allora era tutta foresta fittissima. Oggi alla devastazione dell’ambiente corrisponde il dramma di un popolo che vive da tanti anni nella precarietà e nell’insicurezza. Sono molti nel mondo i missionari come padre Rinaldo che condividono la sofferenza del popolo affidato loro.

Preghiera e Messaggi

Caro Direttore,
sto leggendo un libro di Saverio Gaeta: «Il veggente». Parla di Bruno Cornacchiola, devo spiegarle chi è? No vero, lo sa chi è (*). Ha trascritto un messaggio della Madonna datato, non è ben specificato, sembra il 9 gennaio 1986. «Vi dico che è realmente così: la vostra situazione è drammatica, è deleteria per le anime! Seguite la Chiesa di mio Figlio, perché essa non perderà mai la forza della verità, della salvezza, anche se gli uomini cercano di demolirla e indebolirla della sua forza divina: non riusciranno, i caparbi!».

E ancora: «Figli, ascoltate la Chiesa, autorità visibile, e con umile ubbidienza servitela nella verità! Contro di essa, Satana non può far nulla, perché è divina, ma contro le anime che vivono in essa può molto: anzi, presenterà il male sotto la veste morale, religiosa, politica e sociale! Verranno colpite le famiglie, specialmente trascinandole nell’indifferentismo e nell’incredulità, oppure a una forma esagerata di pietà devozionale rasentante l’idolatria! Questo è il male dei tempi in cui voi vivete, figli miei cari al nostro Cuore! È il male dilagante di ogni male nel tempo passato riunito nel tempo presente sotto ogni forma! Voi avete la terribile responsabilità di scegliere: o Dio o il mondo con tutte le sue mire ingannatrici!».

Una frase che ho sottolineato (evidenziata in corsivo, ndr) mi ha colpito. Conosco fratelli e sorelle che organizzano gruppi di preghiera dove si recitano rosario, coroncina, invocazioni a san Michele, a san Giuseppe, a santa Rita e altri santi. Chi partecipa anche più volte al giorno alla santa messa, digiuna, fa adorazione anche notturna. Tutto questo sarebbe «idolatria»? Perché non sta in famiglia, critica sovente il papa per le sue battute, si lamenta dei suoi familiari che non capiscono l’urgenza del momento – la battaglia finale – o solo perché manca l’atto d’amore? «Gesù ti amo!». Cordialmente saluto.

Emanuela Rossetto
08/06/2017

Abbiamo passato la lettera a don Paolo Farinella, ecco qui la sua risposta.

Gentile Emanuela,
lei porta un «nome» che è la sintesi di tutto e anche la risposta alla sua lettera: «Emanuela – Immànuel/Dio-con-noi» non nel senso blasfemo di Hitler (**), ma nel senso che egli è «con – tra – fra – dentro – in mezzo a noi».

Una delle parole più forti del Vangelo è: «Non abbiate paura». San Giovanni ci garantisce che «Io ho vinto il mondo». Se abbiamo più fede nel maligno che può distruggere le anime piuttosto che in Dio, il quale «vuole che nulla vada perduto», penso che abbiamo perso già in partenza. Mi dispiace deluderla, io non mi occupo di apparizioni, la mia vita è presa, vissuta e consumata dalla Parola di Dio «sulla» quale cerco di stare fermo, ma vivente, immerso e abbandonato.

Non capisco queste apparizioni di Madonne che dicono sempre la stessa cosa, ormai da secoli solo per la soddisfazione di chi dice di avere avuto messaggi personali. Sto con la Chiesa che non mi obbliga a credere ad esse, nemmeno a quelle riconosciute come Fatima o Lourdes. Infatti un cattolico che affermasse: «Io non credo alle apparizioni della Madonna di Fatima o di Lourdes» non è meno cattolico di chi afferma di credervi.

Io penso che il ricorso continuo alle apparizioni nasca dalla poca frequentazione che si ha con la Bibbia, la Parola che fu «dal principio». Non basta una vita per assaporarla. Perché perdere tempo dietro ad aspetti secondari, per altro comuni a tutte le religioni (fatto che dovrebbe fare riflettere), e sottrarlo così al «mangiare il rotolo» per gustarne la dolcezza? (cf Ez 1).

Sono molto occupato a cercare di credere in Gesù Cristo, Dio incarnato, che non mi resta proprio tempo per preoccuparmi di chi è questo o quello. Non ho la pretesa di insegnare nulla, esprimo solo una via, un’esperienza, fondata sulla Parola di Dio e sulla mia serietà che è garantita dal mio totale disinteresse, sotto qualsiasi aspetto.

Lei sa che la Chiesa del secolo I-II scelse i nostri quattro vangeli tra il centinaio di apocrifi, per una sola ragione: erano e sono gli unici nei quali non vi è abbondanza di soprannaturale, mentre gli apocrifi abbondano di apparizioni, miracoli, straordinario. Ecco il criterio: la sobrietà.

Avere paura che il demonio possa avere il sopravvento significa non avere fede in Cristo risorto. A noi non è dato salvare il mondo, ma testimoniare Dio, Padre d’amore, che ci ama e non ci abbandona mai. Il resto, tutto il resto, anche le apparizioni, sì, possono venire dal maligno. «Preoccupatevi prima del Regno di Dio, il resto verrà da sé come un regalo» (cfr. Mt 6,33). Un caro saluto.

Paolo Farinella, prete

(*) Bruno Cornacchiola (1913-2001) di Roma, dal 1947 avrebbe avuto delle rivelazioni dalla «Vergine della Rivelazione» presso le Tre Fontane. È in corso la causa della sua beatificazione.

(**) Gott mit uns (in italiano: Dio con noi) era in origine il motto dell’Ordine Teutonico. Dopo la caduta dello stato dei Cavalieri Teutonici, divenne il motto dei re di Prussia, fino a divenire motto degli Imperatori tedeschi (da Wikipedia) e quindi dei loro soldati. Era il motto inciso nelle fibbie delle cinture dei soldati tedeschi e quindi anche di quelli nazisti.

Grazie

Ciao padre Gigi,
grazie per la fotostoria del XIII capitolo generale, non solo per le foto (belle e con opportuna didascalia) ma per la chiara e succinta informazione su ogni continente con statistiche problemi e proposte. Il tutto presentato in un clima di serenità e speranza, notando la novità e la continuità nella vita del nostro istituto. Che il Signore ci aiuti a portare nella nostra vita personale e comunitaria le «convergenze importanti».

Molto bello l’articolo sull’Isola «bella» col parroco africano. Anche questo rileva le novità. Opportuno anche il dossier sulla Corea del Nord. Grazie.

padre Mario Barbero
03/10/2017

Ciao

Preg.mo direttore, ciao.
A proposito dell’editoriale che lei ha definito poco originale e che invece è un autentico capolavoro di ricerca su un termine quanto mai originale e sale che da sapore a tutte le minestre (cfr. MC 8/9, 2017 pag. 3). Compiacimenti non solo per l’editoriale ma per tutta la rivista, con ricchi articoli di informazione e cultura tra cui la foto storia dal XIII Capitolo Generale, tanto necessaria per essere informati sul cuore pulsante della Missione Consolata.

Ho avuto occasione di leggerlo con interesse e tempo a disposizione perché costretto per un incidente a stare in casa. Non tutti i mali vengono per nuocere, in questo caso per apprezzare la vostra rivista. Esorto i lettori frettolosi che, come me un tempo, si riducono a una scorsa veloce, ad approfondire per apprezzarla.

Don Pietro Cioffi
27/09/2017

Parchi e uomini

Cari missionari,
credo abbiano ragione gli amici di Survival International quando, nel dossier pubblicato nel n.8/9 di MC, condannano un certo ambientalismo ipocrita e invitano a riflettere sul fatto che, in non pochi casi, proprio coloro che hanno ricevuto il compito di vigilare sull’integrità degli ecosistemi sono gli autori/complici degli abusi più gravi.

La denuncia di Survival mi ha fatto tornare in mente un libro letto una ventina d’anni fa, intitolato «Fight for the tiger» edito da Headline. Il suo autore, l’inglese Michael Day, raccontava le settimane trascorse nel Parco Nazionale di Khao Sok, nel Sud della Thailandia, e denunciava senza peli sulla lingua la cattiva gestione di quel parco, accusando i pezzi grossi, locali e nazionali, di essere responsabili della decimazione delle tigri nell’area, ben più di quanto fosse la gente del posto (***).

Ha ragione chi dice che gli uomini vengono prima dei parchi e che l’ambientalismo non può diventare il giustiziere delle popolazioni indigene. Ha ragione però anche chi ricorda che le accuse e le denunce devono essere il più possibile precise e circostanziate. Non si può far di tutta l’erba un fascio.

A me la dizione «Parchi Nazionali» non dispiace affatto. Dipendesse da me, ne istituirei anche degli altri, specialmente nei paesi dove vivono minoranze tribali, inserendoli nel programma Unesco «L’Uomo e la Biosfera» (****).

A fare la differenza non sono le etichette giuste ma le persone giuste. Tutti noi siamo chiamati a diventare giusti, non solo chi indossa una divisa o chi ha un certo titolo di studio e ha ricevuto una certa nomina.

Se un parco, o riserva, peggiora la sua condizione, è per colpa dei crimini di pochi, ma anche dell’indifferenza di molti. Se invece un parco migliora la sua condizione e anche le minoranze etniche che vivono all’interno di quel parco stanno meglio, è perché quell’indifferenza è stata combattuta, rintuzzata, superata, e anche coloro che prima abusavano, si sono ravveduti e hanno iniziato un nuovo percorso, una nuova carriera, una nuova vita. Una vita più gratificante, perché coltivare, custodire e conservare, anche sotto il profilo estetico, è meglio che abusare, depredare e distruggere. Cordialmente

Carlo Erminio Pace
08/09/2017

(***) Michael Day, Fight For The Tiger: One Man’s Fight To Save The Wild Tiger From Extinction, Trafalgar Square Publishing, Londra 1995.

(****) «Il Programma sull’uomo e la biosfera (o Programma Mab per l’uomo e la biosfera) è uno dei cinque programmi dell’Unesco nel quadro delle scienze esatte e naturali. […] Questo programma, iniziato nel 1968 e formalmente istituito nel 1971, mira a creare una base scientifica per migliorare i rapporti uomo-natura a livello globale» (Wikipedia).

A commento di quanto scritto dal signor Pace, riporto qui quanto ha detto papa Francesco il 7/09 scorso a Bogotà ai vescovi della Colombia.

«E prima di concludere un pensiero vorrei rivolgere alle sfide della Chiesa in Amazzonia, regione della quale siete giustamente orgogliosi, perché è parte essenziale della meravigliosa biodiversità di questo paese. L’Amazzonia è per tutti noi una prova decisiva per verificare se la nostra società, quasi sempre ridotta al materialismo e al pragmatismo, è in grado di custodire ciò che ha ricevuto gratuitamente, non per saccheggiarlo, ma per renderlo fecondo. Penso soprattutto all’arcana sapienza dei popoli indigeni dell’Amazzonia e mi domando se siamo ancora capaci di imparare da essi la sacralità della vita, il rispetto per la natura, la consapevolezza che la ragione strumentale non è sufficiente per colmare la vita dell’uomo e rispondere alla ricerca profonda che lo interpella.

Per questo vi invito a non abbandonare a sé stessa la Chiesa in Amazzonia. Il rafforzamento, il consolidamento di un volto amazzonico per la Chiesa che qui è pellegrina è una sfida di tutti voi, che dipende dal crescente e consapevole appoggio missionario di tutte le diocesi colombiane e di tutto il suo clero. Ho ascoltato che in alcune lingue native amazzoniche per riferirsi alla parola “amico” si usa l’espressione “l’altro mio braccio”. Siate pertanto l’altro braccio dell’Amazzonia. La Colombia non la può amputare senza essere mutilata nel suo volto e nella sua anima».

«Minga» Amazonica Trifronteriza

La situazione

Il Vicariato Apostolico di Puerto Leuguizamo Solano, nella Colombia Sud orientale, si estende su una vasta regione con caratteristiche particolari: il suo territorio infatti è distribuito tra tre dipartimenti, Caquetá, Putumayo e Amazonas, e sta a ridosso delle frontiere con Perù ed Ecuador. In esso avviene il 2,5% delle relazioni commerciali, sociali, culturali e politiche tra i tre paesi latinoamericani. Infine si trova al centro del 6% dell’Amazzonia colombiana.

Queste caratteristiche rendono il Vicariato un luogo di particolare interesse per il mondo intero, non solo perché in esso si incontrano diversi popoli, ciascuno con la propria visione ancestrale del mondo, ma soprattutto perché è il cuore di una grande biodiversità, ricchezza di acqua e di potenziale energia. Allo stesso tempo il suo territorio, compreso tra i fiumi Caquetá, Putumayo e loro affluenti, è segnato da una grande vulnerabilità, perché isolato e generalmente trascurato dallo stato. Il fatto che le uniche vie di comunicazione tra la zona del Vicariato e il resto del paese siano fluviale o aerea, comporta diversi problemi: l’alto costo della vita famigliare, lo spostamento di molti in altre regioni, il non soddisfacimento dei bisogni di base della popolazione, come l’alloggio, l’istruzione, la sanità, l’occupazione, e la presenza di gruppi armati che si spostano liberamente tra i dipartimenti e, in certi momenti, tra Perù, Colombia ed Ecuador.

Ad aggravare la situazione concorre anche l’attività di estrazione, sfruttamento e traffico delle risorse naturali. L’estrazione del caucciù all’inizio del XX secolo, per esempio, ha prodotto gravi danni ambientali e socioculturali, come la schiavitù a cui è stata sottoposta la popolazione indigena della zona e addirittura l’estinzione di vari gruppi etnici.

La proposta: «Minga», lavoriamo insieme

In questo contesto, gli incaricati della pastorale sociale, educativa e indigena del Vicariato hanno organizzato un incontro di studio e lavoro a inizio novembre allo scopo di incrementare l’impegno per il territorio e di renderlo maggiormente visibile, di promuovere una riflessione che permetta agli operatori pastorali di appropriarsi del contesto sentendosi parte di un popolo multietnico e di crescere nella capacità di custodire la Casa comune, senza sempre aspettare iniziative o proposte che vengano da fuori. L’incontro si chiama «Minga», un termine indigeno che indica il lavoro fatto insieme per il bene comune.

 




Corea del Sud: L’ospite d’onore


Ogni missionario sa che, dovunque si troverà a operare, sarà chiamato a scoprire e assumere usi e costumi diversi. La ricchezza della diversità è segno della creatività dello Spirito e, a volte, anche fonte di situazioni divertenti. Padre Gian Paolo, con il suo solito stile ironico e paradossale, ci racconta un paio di aneddoti coreani.

Chiunque si trovi a visitare un paese dell’area confuciana (Cina, Corea, Giappone, Taiwan, Vietnam e diaspora cinese) entra automaticamente in una di queste due categorie fondamentali: straniero o ospite. E per quanto riguarda l’ospitalità, non ho mai sperimentato tanta squisita gentilezza in vita mia come in Corea del Sud. Per questa cultura l’ospite va coccolato al massimo. Permettetemi di raccontarvi un paio di aneddoti veramente accaduti per farvi entrare «a pelle» nel mondo dell’onorevole ospite in Corea.

Geoffrey con la signora Angela degli Amici dei Missionari della Consolata, vestita con l’hambok, l’abito tradizionale.

Ospite o straniero?

Potrebbe capitarvi di essere per strada e avere bisogno d’informazioni. Vi avvicinate a un coreano e cominciate gentilmente a tentare una comunicazione col vostro povero inglese. In quel momento il malcapitato coreano vede il suo mondo ordinato e pre programmato sconvolgersi. Ma questo dura solo per una frazione di secondo, perché subito nel coreano scatta una delle due possibili vie di reazione:

  1. a) Pensa: «È uno straniero! Non posso capire cosa mi dice perché non conosco la sua lingua! Non posso aiutarlo». E così vi guarda come se avesse di fronte un fantasma: non vi sente e non vi vede, e anche se gli crollaste davanti per un colpo apoplettico rimarrebbe indifferente.
  2. b) Oppure pensa: «È un ospite straniero». Allora, non solo vi spiega dove dovete andare, ma lui stesso vi accompagna, prende la metro con voi, vi offre un caffè, vi porta davanti a una porta e vi consegna a un’altra persona a cui si raccomanda di portarvi esattamente alla vostra destinazione e magari vi paga anche il taxi.

Ci è capitato una volta, al bancone di una banca, di rivolgerci in perfetto coreano a una signorina per alcune questioni. La signorina, che ci guardava direttamente in faccia, ci ha risposto: «Scusi, ma non ho capito niente di quello che ha detto, perché non so l’inglese». Accanto a lei lavorava, china su un computer, un’altra signorina. Lei non ci aveva guardati, aveva solo sentito la nostra voce, ed è intervenuta: «Ma se ha detto così e così e così!», ripetendo esattamente quello che noi avevamo detto in coreano. La spiegazione di questo aneddoto è che la signorina che ci aveva guardati in faccia, prima ancora che noi aprissimo bocca, era rimasta paralizzata dalla reazione: «È uno straniero. Non posso capirlo. Non so come interagire con lui».

E adesso lasciate che vi raccontiamo l’esperienza di Geoffrey, dalla sua viva voce, di quando è stato invitato a cena dopo poche settimane dal suo arrivo in Corea.

L’ospite, il nuovo arrivato

«Quel giorno, non ero solo un invitato, ma l’ospite d’onore. Ad accogliermi c’era la padrona di casa, con pettinatura e make up impeccabili, vestita con un hanbok (vestito tradizionale, ndr) stupendo, un sorriso smagliante e un inchino profondo. Appena mi ha accolto in casa… ha urlato. Ma perché? Eh dai, avrei dovuto saperlo che mai e poi mai si entra in una casa coreana con le scarpe. Solo un bruto che viene dall’occidente non lo sa. E sarebbe anche meglio avere i calzini nuovi, o perlomeno non rattoppati. Capito? Allora via le scarpe.

Quindi la signora mi ha offerto con un inchino e con le due mani un souvenir della Corea, impacchettato in modo artistico ed elaborato. Qui, anche se il regalo fosse uno stuzzicadenti, è immancabilmente presentato con un pacchettino elegante.

Quando ci siamo messi a tavola, la padrona di casa si è scusata che non era capace a far da mangiare, che c’era poca roba e senza sapore. Invece ai miei occhi è apparsa una tavolata piena di piatti e piattini saporiti e disposti con gusto, che sicuramente avevano richiesto una giornata intera di lavoro. Ma in questo mondo chi vi ospita deve sempre mostrarvi la propria umiltà e perorare la propria incapacità».

I pomodorini sulla torta

«Allora mi sono seduto a tavola. Con il trascurabile dettaglio che il tavolo è alto 40 cm da terra e che mi sono seduto su un cuscino sul pavimento al posto d’onore, al centro, cosa che mi tagliava ogni possibile via di fuga. Ovviamente non c’erano forchette ma i classici bastoncini. È facilissimo usarli, specialmente se la fame è molta. All’inizio molti bocconcini mi sono caduti sul tavolo, anzi sui calzini, visto che sedevo con le gambe incrociate. I coreani, quando mi hanno visto così imbranato, sono diventati ancora più gentili. A un certo punto è arrivata una torta con le candeline. Sì, io ero l’ospite e dovevo soffiare sulle candeline mentre gli altri cantavano tanti auguri a te. Io sono occidentale, gli occidentali mangiano pane, e la torta è pane. Forti di questa logica mi hanno piazzato una fetta da tre porzioni nel piatto, dopodiché la torta è stata portata via, visto che nessun altro commensale aveva intenzione di assaggiarla: l’importante era compiere il rito. Ma ci si aspettava che io la mangiassi. Quindi ho cominciato dalle ciliegine. Ehi, ma quelle non erano ciliegine, bensì pomodorini. “Sai – mi ha spiegato Gian Paolo -, in Corea i pomodorini non sono considerati verdura, ma frutta, per questo si mettono sulla torta”».

Da qui in avanti le foto raccontano della festa della Consolata celebrata il 20 giugno 2017 nella comunità di Yeokgokdong.

Con le lacrime agli occhi

«La cena è poi andata avanti: c’era una specie di minestra che bolliva su un fornellino al centro del tavolo. Il mio vicino ha subito preso un mestolo per riempire una scodella davanti a me. Era pieno di “bestie del mare”. Io sono un uomo di terraferma e tutto mi pareva molto strano. Ma, come dice quel cantico del breviario, “Mostri marini benedite il Signore”, e, pur di salvare qualche anima, ho cominciato a mangiare. Il brodo era color “rosso sangue dei martiri”, era un concentrato di peperoncino rosso piccantissimo. Comunque ce l’ho messa tutta per finire quel che c’era nel piatto. Ahimè, commettendo un bell’errore: in oriente se uno vuota tutto il piatto vuol dire che ne vuole ancora, quindi il mio vicino, come un fulmine, mi ha riempito di nuovo la scodella. Mi veniva da piangere. Oppure no. Ma le lacrime sicuramente mi sono venute. Per i Coreani un cibo è piccante quando cominciano a lacrimare gli occhi, e io avevo anche la bocca in fiamme e il naso che gocciolava. Purtroppo però mi avevano appena insegnato che una delle regole più importanti del galateo coreano è quella di non soffiarsi il naso in pubblico. Mai. Volevo alzarmi e uscire un momento ma le gambe mi si erano già addormentate e non riuscivo a muovermi. Il fazzoletto l’avevo dimenticato e non c’era il tovagliolo».

Il rito del Soju

«Mi sono guardato intorno e ho visto che miei confratelli, furbacchioni, si stavano concentrando su altri piattini che a loro piacevano di più. Ho visto una salsina fatta di gamberetti in miniatura. Era bianca, buon segno, perché ormai associavo il rosso al piccante, e se quella salsina era bianca non poteva farmi del male. Ne ho presa un po’ con il cucchiaio: era salatissima. Padre Tamrat che mi osservava di fianco a me mi ha detto: “Ma va, non si fa così, quella è una salsa: tu devi prendere una foglia di lattuga, metterci dentro una fettina di maiale bollito, poi la salsina, poi un pezzettino di aglio crudo intinto in un’altra salsina e qualche erbetta di quelle che vedi nei vari piattini, poi fai un boccone e lo mangi”. Mentre Tamrat mi parlava, una signora ha seguito tutti i suoi movimenti e ha capito la situazione. In men che non si dicesse aveva preparato il boccone e me lo ficcava in bocca, aglio crudo e tutto. Era un segno di grande onore: così facevano le cortigiane con il re nei tempi che furono. L’aglio crudo in bocca faceva un bruciore diverso da quello del peperoncino rosso. Il mio cervello sopraffatto da tanto onore gridava: “Acqua, pompieri”. Appena il padrone di casa, seduto di fianco a me, ha intuito il mio sguardo e il mio movimento verso il bicchierino che mi stava davanti, è scattato in azione: nessuno può servirsi da bere da solo. Il gentil signore mi ha riempito il bicchiere di Soju, grappa coreana. Bisogna sapere che: 1) il Soju ha lo stesso colore dell’acqua; 2) il Soju fa dai 18 ai 22 gradi, quindi è “leggermente” più alcolico dell’acqua. L’etichetta impone, senza scarti alla regola, che una volta vuotato il bicchierino io lo prenda, lo riempia di Soju e lo dia a colui che me l’ha appena offerto, il quale, per rispetto a me, lo svuota in un sol sorso. A quel punto è stato come se fosse caduta una barriera invisibile: gli altri commensali, uno per uno, si sono alzati per venire a rendere omaggio all’ospite d’onore, cioè a me, con lo stesso identico rito».

Shiksa

«Abbiamo poi continuato a mangiare, ma adesso anch’io sceglievo le cose che mi piacevano di più. Quando oramai ero ben pieno, la padrona di casa ha annunciato, tutta gaia: “Shiksa”. Ma shiksa vuol dire cibo, mangiare. E fino a quel momento cosa avevamo fatto? In Corea, in effetti, non si è mangiato finché non arriva il riso. Mi sono detto: “E come faccio io adesso? Sono già strapieno”.

Poi improvvisamente la conversazione si è animata e ho capito che stava capitando qualcosa: era arrivato il momento delle canzoni, e ognuno doveva cantarne almeno una da solo. Padre Diego si era appena defilato con la scusa di andare a fumare. Ce l’aveva fatta di nuovo: in 28 anni di Corea pare che nessuno sia mai riuscito a farlo cantare da solo. Io invece, ero già riuscito a imparare una canzone. Quando è venuto il mio turno è stato un successo immediato. Tra gli applausi tutti mi dicevano: “Che bravo, sei da poco tempo in Corea e ami già così la nostra cultura, ecc.”. Ma col successo… è arrivato anche il Soju. A quel punto tutti volevano offrirmi da bere. Io pensavo: “Qualcuno mi aiuti, mi difenda”. Guardavo padre Tamrat che aveva il bicchiere pieno dall’inizio ed era riuscito a fingere di portarlo alle labbra varie volte senza toccarlo: lui riusciva a conversare con tanta naturalezza che nessuno se ne accorgeva. Padre Gian Paolo mi aveva spiegato la teoria del Soju: dopo 4 bicchieri la stanza comincia a muoversi da sola; dopo 8 uno dice: “Posso volare”; dopo 12, uno si sente antiproiettile come Superman. Bene, io ancora non potevo volare, ma dalla torre di controllo mi stavano chiamando per andare in pista.

Finalmente oramai la cena era finita, ero salvo. Mi sono alzato ma le gambe erano addormentate e facevo fatica a stare in piedi. La testa girava un po’ e la bocca era piena di sapori strani e bruciava. Il naso gocciolava. La pancia era strapiena e non capivo più una parola. Troppo onore, troppe esperienze nuove, troppa inculturazione. Allora mi sono detto: “Domani riposo, e magari salto anche pranzo!”».

 Gian Paolo Lamberto




Taiwan: nell’isola «bella» un parroco africano


Dopo quasi tre anni di paziente studio della lingua e della cultura cinese, padre Mathews Owuor, keniano, e padre Eugenio Boatella, spagnolo, iniziano il loro servizio missionario «in Cina» prendendo la responsabilità della parrocchia del Sacro Cuore nella città di Hsinchu.

Il momento è finalmente arrivato. La nostra comunità sta per compiere tre anni di presenza nella diocesi di Hsinchu, a Taiwan, un tempo conosciuta come isola di Formosa: l’isola «bella». Siamo arrivati in tre, dopo un periodo di discernimento e studio, per capire se questo piccolo paese del Pacifico potesse diventare la terza presenza dei Missionari della Consolata nel continente asiatico.

Il Capitolo generale del 2011 aveva chiesto che l’Istituto, prevalentemente orientato al lavoro di evangelizzazione in Africa e America Meridionale, si aprisse all’Asia con decisione. Gli obiettivi erano due: creare tra i missionari una maggiore consapevolezza e una conoscenza più profonda della missione in Asia e operare una nuova apertura che, dopo la Corea (1988) e la Mongolia (2003), fosse il segno tangibile dell’assunzione di questo impegno da parte dell’Istituto.

Il lavoro di discernimento, portato avanti dalla Direzione generale insieme ai missionari già presenti nel continente, aveva sin da subito suggerito Taiwan come una delle possibili mete; questo per tre ragioni principali:

1) l’importanza, per un Istituto come il nostro, di avere una qualche apertura verso il mondo cinese, in modo da esporsi alla cultura, impararne la lingua, conoscerne le caratteristiche principali;
2) rimanere compatti e non distanziarsi troppo dalle altre presenze, per avere la possibilità di incontrarsi periodicamente;
3) la relativa facilità di accesso e la positiva accoglienza da parte del governo e della Chiesa locale.

La scelta di Hsinchu

Le due visite fatte dal sottoscritto insieme all’allora consigliere generale per l’Asia, padre Ugo Pozzoli, nel luglio 2013 e maggio 2014 avevano offerto nuovi elementi capaci di far pendere definitivamente il piatto della bilancia a favore della scelta di Taiwan. Determinante era stato l’incontro con mons. John Baptist Lee, vescovo della diocesi di Hsinchu dove poi ci siamo diretti e attualmente lavoriamo.

Hsinchu si trova molto vicina alla capitale Taipei. È una cittadina industriale che vive sui proventi dell’industria tessile e di quella della tecnologia. Ospita una grande quantità di migranti provenienti da moltissimi altri paesi del Sud Est asiatico, in particolare Filippine, Vietnam e Thailandia, ma anche da alcuni paesi dell’America Latina. Durante il periodo di studi della lingua cinese ci siamo avvicinati a questo mondo complesso e bisognoso di «consolazione» rappresentato dai lavoratori stranieri.

La chiesa locale ha anche un grande bisogno di clero, fattore che ha contribuito in maniera risolutiva alla scelta di Hsinchu come nostra meta. Il vescovo ci ha ospitati presso l’episcopato per tutto il tempo del nostro inserimento nella realtà di Taiwan, garantendoci accompagnamento e incoraggiamento nella prima, arida fase di apprendistato nella nuova realtà. I primi due anni e mezzo di permanenza sono stati infatti dedicati allo studio intensivo del cinese mandarino, senza la conoscenza del quale si è praticamente bloccati in ogni attività pastorale. Eravamo in due: padre Mathews Odhiambo, keniano, e il sottoscritto, spagnolo. Personalmente avevo già fatto la fatica di imparare un idioma complesso come il coreano e adesso mi trovavo davanti a questa nuova domanda: sarei stato capace di iniziare un lavoro pastorale efficace con la conoscenza del cinese che avevo maturato fino a quel momento? Dove, soprattutto, il vescovo ci avrebbe chiesto di iniziare la nostra missione «sul campo»? Con padre Mathews, sovente ci chiedevamo quale sarebbe potuta essere, al termine dei nostri primi due anni in Taiwan la nostra responsabilità pastorale. Forse una parrocchia in qualche città della diocesi? O in una zona rurale dove vivono i nativi? Saremmo stati capaci, col nostro cinese così limitato, ad affrontare una tale responsabilità?

Esterno della chiesa costruita secondo lo stile di un palazzo tradizionale nella città di Hsinchu.

La parrocchia del Sacro Cuore di Gesù

Alcuni di questi dubbi si sono sciolti quando il vescovo Lee mi ha chiamato per dirmi: «Ho già pensato quale sarà la parrocchia per voi missionari della Consolata. È la parrocchia dei Gesuiti, quella del Sacro Cuore. Loro stanno per consegnare la parrocchia alla diocesi e così ho pensato a voi!». Che sorpresa! Non lo avremmo mai immaginato. La conoscevamo già, perché è una di quelle che avevamo visitato con padre Ugo durante il nostro secondo viaggio di esplorazione prima di fare la scelta di aprire una missione in Taiwan. È una chiesa molto significativa nella diocesi di Hsinchu, e il vescovo l’ha anche designata come santuario per i pellegrinaggi. Eravamo rimasti allora colpiti dalla forma particolare di questa chiesa, unica per la sua bellezza, costruita 45 anni fa ispirandosi all’architettura dei palazzi cinesi.

A gennaio di quest’anno, terminati i nostri primi due anni di studio del mandarino, il vescovo ci ha inviato in questa parrocchia come assistenti fino a oggi, 30 di luglio, giorno in cui ne abbiamo assunto la completa responsabilità. Fino a oggi padre Mathews e io abbiamo vissuto e lavorato insieme con la comunità dei Gesuiti (quattro padri anziani e un fratello), e questo ci ha permesso di conoscere a poco a poco le persone e la vita della comunità.

Il lavoro pastorale e missionario della diocesi di Hsinchu fu assegnato fin dal 1952 alla Compagnia di Gesù. Molti dei padri espulsi dalla Cina comunista vennero qui e cominciarono un gran lavoro missionario che diede come frutto la costruzione delle attuali parrocchie di questa città. E tra queste la nostra, la parrocchia del Sacro Cuore. Ovviamente i Gesuiti godono del rispetto e dell’ammirazione di tutti i fedeli della diocesi per il loro impegno di evangelizzazione. E questo vale anche per l’ultimo parroco, il padre Sun di 93 anni nato nella Cina continentale, e per il suo vice parroco, il padre Arturo, ottantenne colombiano, che hanno guidato questa comunità con grande visione, facendola crescere in 10 anni sia come numero che come qualità di fede. I fedeli sono una novantina e sono attivi in vari gruppi parrocchiali, come la Legio Mariae, la catechesi domenicale dei bambini, il coro, il gruppo di preghiera «Taizé», lo studio della Bibbia e dei documenti del Vaticano II, il gruppo anziani, il gruppo di formazione di evangelizzatori e la catechesi battesimale.

Certo, questo numero di fedeli è veramente piccolo a confronto delle chiese di altri paesi. Ma noi guardiamo a questo piccolo gregge con tanta speranza. Saranno loro che ci aiuteranno a entrare in questa cultura e con loro potremo arrivare a quelli «di fuori», che ancora non conoscono il Vangelo, e così realizzare il primo obiettivo della nostra missione.

Passaggio del testimone

Oggi, 30 luglio, finalmente è stato passato il testimone. Il nostro vescovo Lee ha presieduto la cerimonia di consegna della parrocchia, dai Gesuiti ai missionari della Consolata. Per questa occasione sono venuti dalla Corea il nostro superiore regionale, padre Tamrat Defar, e padre Gian Paolo Lamberto, il quale ci ha anche predicato il ritiro annuale la settimana precedente a questa cerimonia.

È stato un momento emozionante per tutti, specialmente per i padri gesuiti che dopo tanti anni lasciano questa comunità parrocchiale tanto amata. Il provinciale dei Gesuiti ha ricordato ai fedeli che la parrocchia non è qualcosa dei Gesuiti, o del vescovo o della Consolata, ma di Gesù, che dona questa comunità alla Chiesa.

Da oggi padre Mathews è parroco, e si assume la responsabilità di questa comunità. Potete immaginarvi le sfide che ha davanti, tra cui forse la più grande è quella di una lingua che non si finisce mai di imparare, anche se lui già se la cava molto bene. Questa parrocchia per noi non è solamente la prima opportunità di realizzare il nostro servizio pastorale a Taiwan, ma è anche la sede della nostra comunità, formata per ora da quattro padri (Mathews Odhiambo, Gilberto Da Silva, il sottoscritto Eugenio Boatella, e Jasper Kirimi – foto a sinistra). La diocesi ha ristrutturato per noi un secondo piano dell’edificio, trasformando cinque uffici e un salone nella nostra attuale residenza, che diventa così sede e punto di riferimento della nostra presenza nella bella isola di Taiwan.

Oserei quindi dire che questo è un momento storico della nostra presenza in Asia. È un passo importantissimo per la nostra famiglia missionaria, per il suo desiderio di aprirsi con decisione all’Asia. Oggi siamo già con un piede in mezzo al popolo cinese. Che il Padrone della Missione ci assista in questo lungo cammino in cui oggi ci ha fatto fare un gran passo in avanti.

Eugenio Boatella




Lumache e camaleonti


Quando avrete tra le mani questo numero di MC, il Capitolo generale dei missionari della Consolata sarà già concluso. Mentre scrivo, invece, è ancora in corso.
Mi sembra di vivere in un mondo irreale, chiuso tra le mura di questa casa a due passi da san Pietro, assordato giorno e notte dal garrito dei gabbiani che hanno invaso il bel cielo di Roma, con il tempo ritmato dalle campane della basilica, il sordo rumore di fondo del traffico e il ta-ta-tum-ta-ta lontano dei fuochi artificiali che quasi ogni notte scoppiano lontano (ma cos’hanno sempre da celebrare in questa città?). Le ore passano veloci tra riunioni e sedute, preghiera e studio, condivisione e servizi. La possibilità di pregare il rosario passeggiando sotto i mandarini del nostro piccolo giardino è una benedizione per corpo e spirito.

Eppure non siamo qui per stare fuori dal mondo. Siamo qui per ricaricarci e per essere, sempre più, veri missionari. Lo scopo del nostro stare insieme per quattro settimane, 45 missionari originari di tre continenti (Africa, Europa e America Latina), è proprio quello di aprire il cuore e la mente alla realtà per tornarvi con energia e vita nuova, per «essere nel mondo» in maniera sempre più efficace e responsabile.

«Rivitalizzazione» e «ristrutturazione» sono le due parole più usate in questi giorni. E il buffo è che più ne parliamo, più io penso a due animaletti che sono entrati di soppiatto nel nostro capitolo: il camaleonte e la lumaca. Sono «scappati dalla borsa» di padre Giuseppe Frizzi, un bergamasco, missionario in Mozambico da una vita. Nel 1989, a gennaio, era a Nipepe quando suor Irene Stefani, ora beata, dissetò per diversi giorni un centinaio di persone – chiuse nella chiesa a causa delle minacce dei ribelli della Renamo che avevano assalito il villaggio – facendo scaturire acqua da un tronco secco, usato solitamente come fonte battesimale. Il «vecchio veterano» padre Giuseppe è venuto a condividere con noi capitolari lo speciale stile missionario della nostra beata e a raccontarci come i Makua di Nipepe l’avessero capita. L’ha fatto tramite immagini disegnate da artisti del posto. In alcune di esse, suor Irene era paragonata a un camaleonte, in un altro a una lumaca.

Io subito mi sono domandato: com’è possibile paragonare una missionaria dinamica e attiva come suor Irene alla lumaca, simbolo della pigrizia, o al camaleonte, simbolo del trasformismo che evita tutte le difficoltà?

Ho provato allora a mettermi nella prospettiva di padre Frizzi e dei suoi Makua: la lumaca è una creatura che non si lascia fermare da nessun ostacolo. Che il terreno sia liscio o ruvido, piano o in salita, spinoso o corrugato, sassoso o impolverato, bagnato o asciutto, lei avanza sempre. Niente la ferma. E lo fa senza violenza, senza imporsi, senza distruggere sul suo cammino. Altro che pigra! Una forza della natura invece. Però una forza mite, rispettosa.

E il camaleonte? È una sorpresa ancora più grande: egli, pur rimanendo se stesso, sa entrare in un ambiente senza spaventare, senza imporsi, con gesti lenti e misurati, assumendo il colore di chi è attorno a lui, diventando parte dell’ambiente.

Proprio come suor Irene che sapeva entrare nella vita delle persone con pazienza e mitezza, senza violenza o imposizione, nel rispetto dell’altro, della sua sensibilità e cultura. Delicata e sensibile, ma nello stesso tempo pertinace, resistente, inarrestabile. Disposta a farsi consumare dalla fatica, a dare tutto, pur di comunicare l’Amore di Dio.

Davvero una provocazione per i missionari di oggi e per ogni cristiano. Un modo di essere decisamente contro corrente, in un mondo in cui sembra prevalere la logica dell’imposizione con la forza (vedi ad esempio la corsa agli armamenti), del prendere per sé ciò che si vuole con ogni mezzo (land e water grabbing, rapina delle risorse, traffico di persone, giochi in borsa, corruzione, violenza sulle donne, ecc.) e della rassegnazione (di fronte a disastri o situazioni che non ci interessano finché non ci toccano). Il modo di vivere di una persona che, come la lumaca, spende senza riserve tutto quello che è e che ha, non si rassegna mai, non si lascia fermare da nessun ostacolo, non aspetta che siano gli altri a muoversi per primi e agisce con mitezza e rispetto, senza la fretta di avere i risultati «ieri» … ci fa dire: «Wow! Forse vale la pena pensarci».

Se poi, come il camaleonte, assumessimo i valori e le cose belle degli altri, facendo diventare il rispetto dialogo, l’accoglienza uno scambio, l’incontro una festa … tanto più direi: «Ne vale la pena!».

Per noi missionari «professionisti». Ma non sarebbe una bella proposta per ogni cristiano?

 




Missionari col cuore della Consolata

MESSAGGIO DEI CAPITOLARI PER I CONFRATELLI
IN OCCASIONE DELLA FESTA DELLA CONSOLATA 2017

“Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato. Entrati in città, salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelòta e Giuda di Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui”. (Atti 1,12-14)

Rileggere questo brano degli Atti degli Apostoli ci aiuta a raccontarvi l’esperienza vissuta in questo XIII Capitolo Generale e a condividerla con voi in occasione della festa della Consolata, madre di Gesù e madre nostra.

Siamo “entrati in città”,

non certo Roma, ma ogni città o villaggio dove noi siamo ai quattro angoli del mondo. Siamo entrati aprendo “il libro della missione” per ascoltare ed imparare dai cammini dei diversi continenti dove siamo presenti. Per “fare memoria” di come Dio, proprio in questo oggi, compie meraviglie attraverso la testimonianza e la dedizione di tanti missionari. Siamo entrati nella vita delle periferie di città anonime, attraversate da disagio e solitudine, serbatorni di scarti umani e di esclusione; dentro le foreste e le savane immense, sopra le montagne e lungo i fiumi, dentro la vita di popoli e comunità con cui camminiamo e lottiamo, soffriamo e ridiamo, cantiamo e piangiamo, preghiamo e speriamo imparando a conoscere, insieme, l’amore di Dio e a celebrarlo.

Siamo “saliti al piano superiore”

per vedere “la città di Gerusalemme”, cioè l’umanità, con gli occhi del Dio di bontà, lento all’ira, ricco di grazie e misericordia, e per lasciarci evangelizzare dai poveri e dalla realtà. Siamo saliti in alto per poter ascoltare nuovamente la chiamata di Gesù a “stare con Lui”, (Marco 3,13-14), per “alzare la testa e vedere che la nostra Liberazione è vicina” (Lc 21,28) e non lasciarci quindi scoraggiare dalle enormi difficoltà della vita e dalle tristezze dell’orizzonte del mondo. E per imparare da Lui a fare missione, con i suoi stessi atteggiamenti (Fil 2,5), di bontà e misericordia, lungo le strade, nei villaggi e nelle città, visitando la gente, accoglienti e premurosi nell’annunciare la misericordia di Dio per tutti contro ogni pregiudizio e divisione.

Siamo stati “assidui e concordi nella preghiera”

per cogliere il passaggio di Dio che in questi giorni “ci ha visitato” e ci ha fatto sentire la sua presenza in vari modi, specialmente nella fraternità tra di noi e nell’“attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgiamo la nostra azione di evangelizzazione” (Papa Francesco a noi).

In modo particolare, Dio è “passato in mezzo a noi” nelle due giornate trascorse insieme alle suore missionarie della Consolata e un gruppo di laici missionari a loro legati, e dedicate all’ascolto della vita e dell’insegnamento della Beata Irene Stefani, Nyaatha, umile missionaria del Vangelo, che “tutto faceva per Gesù” per essere carità e donare consolazione. E poi è “passato tra noi” in Papa Francesco che ci ha ricordato che “è molto più importante renderci conto di quanto siamo amati da Dio, che non di quanto noi stessi lo amiamo” e ci ha detto: “Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta… Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori (cfr Rm 5,5),” e imprimete “un nuovo impulso all’animazione missionaria” riqualificando “lo stile del vostro servizio missionario”.

Tutto questo abbiamo vissuto in compagnia di Maria, capace di “conservare e meditare tutto nel suo cuore,” per imparare da Lei a seguire suo Figlio Gesù (discepoli) e come Lei diventarne testimoni (missionari).

Cari confratelli,

Maria, non poteva lasciarci soli perché, come ci ricorda il nostro Beato Fondatore, è la “nostra Madre Tenerissima” che “ci ama più della pupilla dei suoi occhi”, e per questo ha vissuto con noi questo tempo di grazia, il kairos, tempo dello Spirito, vento di nuova Pentecoste per tutto l’istituto.

Lo Spirito Santo ci fa entrare nel mistero del Dio vivente e ci spinge ad aprire le porte per uscire, per annunciare e testimoniare il Vangelo, per comunicare la gioia della fede, dell’incontro con Cristo.

Lo Spirito Santo è l’anima della missione. Quanto avvenuto a Gerusalemme quasi duemila anni fa non è un fatto lontano da noi, è un fatto che ci raggiunge, che si fa esperienza viva in ciascuno di noi. La Pentecoste del cenacolo di Gerusalemme è l’inizio, un inizio che si prolunga e oggi coinvolge anche il nostro Istituto.

Cari confratelli,

non eravamo soli, “in quel piano superiore” in attesa dello Spirito Santo. Oltre a Maria, al Beato Giuseppe Allamano, alla Beata Irene Stefani e a tutti i confratelli che “hanno reso feconda la storia del nostro Istituto col sacrificio della vita” (Papa Francesco a noi), c’eravate anche voi che con la preghiera ci avete sostenuto e incoraggiato.

La nostra speranza non si fonda sui numeri o sulle opere, ma su Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia (cfr. 2 Timoteo 1,12) e per il quale “nulla è impossibile” (Luca 1,37). È questa la nostra speranza che ci permetterà di continuare a scrivere altre pagine di una grande storia nel futuro, al quale dobbiamo tenere rivolto lo sguardo, coscienti che è verso di esso che ci spinge lo Spirito Santo per continuare a fare grandi cose con noi.

In occasione della festa della nostra Madre Consolata, chiediamo a tutti di rinnovare l’impegno di mettere la missione al cuore della nostra vita, così come il nostro Fondatore ci invita a fare anche oggi: “datevi con tutto il cuore e con tutte le forze all’opera di evangelizzazione. È per questo speciale fine, per farvi santi, che sceglieste la via della missione” (Giuseppe Allamano, Lettera ai missionari del Kenya, 2 ottobre 1910).

I vostri confratelli partecipanti al XIII Capitolo Generale

* L’immagine della Consolata in questa pagina fu dipinta nella Corea de Sud e offerta a Papa Francesco in occasione dell’Udienza concessa ai capitolari IMC/MC il 5 giugno 2017.




Completata l’elezione della Direzione Generale dei Missionari della Consolata


Roma, 13 giugno 2017. Dopo l’elezione-riconferma del superiore generale nella persona di padre Stefano Camerlengo avvenuta ieri, oggi il XIII Capitolo generale dei missionari della Consolata ha eletto il vice superiore generale e i tre consiglieri generali.

Come vice superiore generale è stato scelto padre James Bhola Lengarin, nato a Maralal in Kenya nel 1971. Ordinato sacerdote nel 1999 dopo gli studi a Roma, ha servito nella pastorale e nell’animazione missionaria a Galatina (Lecce); l’ultimo suo impegno fino all’inizio di questo anno è stato quello di amministratore dei missionari della Consolata in Kenya.

Dopo di lui sono stati eletti i tre consiglieri generali:

  • padre Godfrey Msumange, tanzaniano nato a Iringa nel 1973, ordinato nel 2005, e fino a questo momento superiore dei missionari della Consolata in Tanzania, dopo che era stato preso per quel servizio solo meno di un anno fa dalla parrocchia della Speranza di Torino dove era parroco.
  • padre Jaime Carlos Patias dal Brasile, nato nel 1964 a Tuparendi (Rio Grande do Sul – Brasile) e ordinato nel 1993; lascia l’incarico di comunicatore e segretario nelle Pontificie opere missionarie del Brasile.
  • padre Antonio Rovelli, nato nel 1958 a Barzago, provincia di Lecco, ordinato sacerdote nel 1984, missionario prima in Uganda e poi da molti anni in Italia con diversi compiti, ultimo quello di vice superiore dei missionari della Consolata  in Italia e coordinatore della pastorale migranti della diocesi di Torino.

Ai nuovi eletti il nostro ringraziamento per la loro disponibilità e gli auguri per un generoso e gioioso servizio alla Missione, avendo davanti la sfida di aiutare l’istituto intero a realizzare i progetti di rivitalizzazione e ristrutturazione lanciati in questo capitolo.

In coda per eleggere il vice generale.

Segretari al lavoro per controllare le schede.

Padre James Lengarin dichiara la sua accettazione a vice generale.

L’obbedisco di padre Godfrey Msumange.

Il sì di padre Antonio Rovelli.

Da sinistra: i padri Jaime Patias, James Lengarin (VG), Stefano Camerlengo (SG), Godfrey Msumange e Antonio Rovelli, team direzionale dei Missionari della Consolata.

Partecipanti al XIII capitolo con la nuova direzione generale dell’Istituto.




Padre Stefano Camerlengo riconfermato superiore generale dei Missionari della Consolata


Padre Stefano Camerlengo, neo rieletto superiore generale dei Missionari della Consolata.

Roma, 12 giugno 2017. Oggi i Missionari della Consolata, al primo scrutinio e a maggioranza assoluta, hanno rieletto padre Stefano Camerlengo a superiore generale del loro istituto per i prossimi sei anni. L’elezione è avvenuta durante il 13° capitolo generale. Iniziato il 22 maggio scorso, il capitolo si concluderà il 20 giugno, festa di Maria Consolata, considerata fondatrice dell’istituto stesso attraverso il beato Giuseppe Allamano che da rettore del santuario della Consolata in Torino fondò l’istituto nel 1901.

Nativo di Morrovalle (Macerata), padre Stefano ha compiuto 61 anni proprio ieri, 11 giugno. Fu ordinato nel 1984 nell’Alto Uele della Repubblica Democratica del Congo, allora Zaire, dove era andato per esercitare il ministero di diacono. Dopo l’ordinazione ha prestato il suo servizio missionario in quel paese lavorando nelle missioni, nella formazione e nella direzione regionale, guidando la comunità nel periodo difficile della transizione tra Mobutu e il nuovo governo repubblicano. Eletto vice superiore generale nel 2005, nel 2011 fu scelto come superiore generale dei missionari della Consolata e ora, in questo 13° capitolo, riconfermato.

Al capitolo partecipano 45 missionari (22 africani, 15 europei e 8 latinoamericani) in rappresentanza dei circa mille missionari della Consolata sparsi in 26 paesi del mondo. Nei prossimi due giorni saranno eletti il vice superiore generale e i tre consiglieri. Gli ultimi giorni saranno dedicati alla stesura del testo finale focalizzato sulla rivitalizzazione (rimettere la Missione di Gesù al centro della vita di ogni missionario) e la ristrutturazione (riorganizzare l’istituto a livello continentale per una Missione più efficace secondo le necessità specifiche di ogni continente).

* Gigi Anataloni, IMC, per il team di comunicazione del XIII capitolo

I capitolari votano per la scelta del nuovo generale.

I segretari fanno lo spoglio dei voti.

P, Matthew Owuor domanda all’eletto se accetta la rielezione.

Padre Stefano Camerlengo accetta il mandato.

L’abbraccio e le congratulazioni dei confratelli.

Messaggio di padre Stefano e momenti dell’elezione.

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Con generosità per la Missione ad gentes


Oggi, lunedì 5 giugno, primo giorno dopo Pentecoste, i membri dei due capitoli generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata sono stati ricevuti in udienza privata da papa Francesco nella Sala Clementina. Un incontro cercato e desiderato da tutti, in linea con lo stile voluto per noi dal nostro Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che ci voleva “papalini” fino all’osso. Grazie papa Francesco per quanto ci hai detto e soprattutto per avere avuto un sorriso per ciascuno di noi e avere la pazienza di salutarci personalmente uno ad uno. Grazie.

Suor Simona a papa Francesco a nome di tutti i capitolari

Santità,
È una grandissima gioia per noi essere qui con Lei oggi! Grazie per aver accolto la nostra richiesta di una udienza! Siamo i capitolari e le capitolari Missionari e Missionarie della Consolata, una famiglia religiosa nata per la missione ad gentes più di cento anni fa a Torino. Il nostro Fondatore è il Beato Giuseppe Allamano, sacerdote della Diocesi di Torino, Rettore del Santuario della Consolata, appassionato della missione. Egli fondò i Missionari della Consolata nel 1901 e le Missionarie della Consolata nel 1910. Siamo oggi presenti in diverse Nazioni di 4 continenti: Africa, America, Asia e Europa.

 

Stiamo celebrando i due Capitoli generali, rispettivamente l’XI Capitolo per le Missionarie e il XIII per i Missionari. Abbiamo voluto chiederLe questa udienza insieme, per significare sia la comunione tra noi come figli e figlie dello stesso padre, il Beato Allamano, e della stessa Madre, la SS. Vergine Consolata, sia per esprimerLe insieme la comunione, l’affetto, il sostegno, il nostro essere pienamente nella Chiesa e con la Chiesa a servizio del Vangelo. Il nostro Fondatore ci ha trasmesso un particolare attaccamento al Papa e un forte senso ecclesiale, che cerchiamo di vivere nel nostro specifico, la missione nelle periferie, e nella periferia delle periferie che è appunto l’ad gentes, i non cristiani, coloro che non conoscono Cristo.

Entrambi gli Istituti stanno vivendo un tempo di particolare grazia, la grazia della rivitalizzazione, della ristrutturazione, ridisegnando le nostre presenze e le nostre strutture per una sempre migliore qualità di vita vocazionale, religiosa, missionaria, secondo il nostro carisma specifico.  Questa è, di fatto, la tematica principale dei nostri due Capitoli Generali. In questo momento di rinnovamento e rilancio missionario siamo tanto desiderosi di sentire la Sua parola, Santo Padre, e ricevere la Sua benedizione per noi, per tutti i nostri missionari e missionarie sparsi per il mondo, per i popoli con cui condividiamo la vita.  

Grazie ancora per averci accolto. Grazie perché non cessa di indicarci le vie di una Chiesa in uscita. Grazie per il coraggio, la speranza la gioia che sa infonderci. Le assicuriamo la nostra vicinanza, la nostra disponibilità e la nostra preghiera, in particolare presso la Vergine Consolata!

I capitolari e le capitolari Missionari e Missionarie della Consolata

 


DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AI CAPITOLI GENERALI DEI
MISSIONARI E MISSIONARIE DELLA CONSOLATA

Sala Clementina – Lunedì, 5 giugno 2017


Cari Missionari e care Missionarie della Consolata,

sono lieto di accogliere insieme il ramo maschile e il ramo femminile della Famiglia religiosa fondata dal Beato Giuseppe Allamano, in occasione dei rispettivi Capitoli Generali. Vi saluto tutti con affetto e vi auguro che i vostri lavori capitolari si svolgano con serenità e docilità allo Spirito. Estendo il mio affettuoso saluto ai vostri confratelli e alle vostre consorelle che operano, spesso in condizioni difficili, nei diversi continenti, e li incoraggio a proseguire con generosa fedeltà nel loro impegno di missione ad gentes. Desidero ora offrirvi alcuni suggerimenti affinché questi giorni producano abbondanti frutti di bene nelle vostre comunità e nell’attività missionaria della Chiesa.

Voi siete chiamati ad approfondire il vostro carisma, per proiettarvi con rinnovato slancio nell’opera dell’evangelizzazione, nella prospettiva delle urgenze pastorali e delle nuove povertà. Mentre con gioia ringrazio il Signore per il bene che voi andate compiendo nel mondo, vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice. Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori (cfr Rm 5,5).

La storia dei vostri Istituti, fatta – come in ogni famiglia – di gioie e di dolori, di luci e di ombre, è stata segnata e resa feconda anche in questi ultimi anni dalla Croce di Cristo. Come non ricordare qui i vostri confratelli e le vostre consorelle che hanno amato il Vangelo della carità più di sé stessi e hanno coronato il servizio missionario col sacrificio della vita? La loro scelta evangelica senza riserve illumini il vostro impegno missionario e sia d’incoraggiamento per tutti a proseguire con rinnovata generosità nella vostra peculiare missione nella Chiesa.

Per portare avanti questa non facile missione, occorre vivere la comunione con Dio nella percezione sempre più consapevole della misericordia di cui siamo oggetto da parte del Signore. È molto più importante renderci conto di quanto siamo amati da Dio, che non di quanto noi stessi lo amiamo! Ci fa bene considerare anzitutto questa priorità dell’amore di Dio gratuito e misericordioso, e sentire il nostro impegno e il nostro sforzo come una risposta. Nella misura in cui siamo persuasi dell’amore del Signore, la nostra adesione a Lui cresce. Abbiamo tanto bisogno di riscoprire sempre l’amore e la misericordia del Signore per sviluppare la familiarità con Dio. Le persone consacrate, in quanto si sforzano di conformarsi più perfettamente a Cristo, sono, più di tutti, i familiari di Dio, gli intimi, coloro che trattano con il Signore in piena libertà e con spontaneità, ma con lo stupore di fronte alle meraviglie che Egli compie.

In questa prospettiva, la vita religiosa può diventare un itinerario di riscoperta progressiva della misericordia divina, facilitando l’imitazione delle virtù di Cristo e dei suoi atteggiamenti ricchi di umanità, per poi testimoniarli a tutti coloro che avvicinate nel servizio pastorale. Sappiate anche raccogliere con gioia i continui stimoli al rinnovamento e all’impegno che provengono dal contatto reale col Signore Gesù, presente e operante nella missione attraverso lo Spirito Santo. Ciò vi consentirà di essere operosamente presenti nei nuovi areopaghi dell’evangelizzazione, privilegiando, anche se ciò dovesse comportare dei sacrifici, l’apertura verso situazioni che, con la loro realtà di particolare bisogno, si rivelano come emblematiche per il nostro tempo.

Sull’esempio del vostro beato Fondatore, non stancatevi di imprimere nuovo impulso all’animazione missionaria. Sarà soprattutto il vostro fervore apostolico a sostenere le comunità cristiane a voi affidate, in particolare quelle di recente fondazione. Nello sforzo di riqualificazione dello stile del servizio missionario, occorrerà privilegiare alcuni elementi significativi, quali la sensibilità all’inculturazione del Vangelo, lo spazio dato alla corresponsabilità degli operatori pastorali, la scelta di forme semplici e povere di presenza tra la gente. Attenzione speciale meritano il dialogo con l’Islam, l’impegno per la promozione della dignità della donna e dei valori della famiglia, la sensibilità per i temi della giustizia e della pace.

Cari fratelli e sorelle, continuate il vostro cammino con speranza. La vostra consacrazione missionaria possa essere sempre più sorgente di incontro vivificante e santificante con Gesù e con il suo amore, fonte di consolazione, pace e salvezza per tutti gli uomini.

Auspico che gli orientamenti elaborati dai rispettivi Capitoli Generali possano guidare i vostri Istituti a proseguire con generosità sulla via tracciata dal Fondatore e seguita con eroico coraggio da tanti confratelli e tante consorelle. Invoco la celeste protezione di Maria, Regina delle Missioni, e del Beato Giuseppe Allamano, e di cuore imparto a tutti voi la Benedizione, estendendola all’intera Famiglia della Consolata.

Testo originale da vatican.va

 

 




Cento anni di Consolazione


Cento anni fa i primi missionari della Consolata, guidati da padre Gaudenzio Barlassina, arrivarono in Etiopia mimetizzati da commercianti di macchine da cucire. Si realizzò così il sogno del beato Giuseppe Allamano che aveva fondato i suoi missionari proprio per quel paese. Ma, oltre alla vecchia «Singer», nel cuore portavano un bene più prezioso: la consolazione di Maria Consolata (in apertura: onorata da bambini orfani, in una foto d’epoca evidentemente organizzata per ringraziare i benefattori).

La consolazione era vissuta e praticata nella semplicità di vita quotidiana e si traduceva anche nell’attenzione affettuosa ai più piccoli, come mostrano le due foto qui di seguito che parlano da sole.

 

Arrivati in Etiopia, i primi missionari e missionarie della Consolata si adattarono alla vita del posto, diventando presto, suore comprese, esperti cavallerizzi, visto che il cavallo o il mulo era il mezzo più semplice e diffuso per muoversi su un terreno montuoso e privo di strade.

A conclusione della lunga e faticosa giornata, alla luce della lucerna a petrolio, nella quiete della notte restava il tempo per compilare il diario, scrivere alla famiglia, approfondire la lingua locale…