Oggi, lunedì 5 giugno, primo giorno dopo Pentecoste, i membri dei due capitoli generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata sono stati ricevuti in udienza privata da papa Francesco nella Sala Clementina. Un incontro cercato e desiderato da tutti, in linea con lo stile voluto per noi dal nostro Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che ci voleva “papalini” fino all’osso. Grazie papa Francesco per quanto ci hai detto e soprattutto per avere avuto un sorriso per ciascuno di noi e avere la pazienza di salutarci personalmente uno ad uno. Grazie.
Suor Simona a papa Francesco a nome di tutti i capitolari
Santità,
È una grandissima gioia per noi essere qui con Lei oggi! Grazie per aver accolto la nostra richiesta di una udienza! Siamo i capitolari e le capitolari Missionari e Missionarie della Consolata, una famiglia religiosa nata per la missione ad gentes più di cento anni fa a Torino. Il nostro Fondatore è il Beato Giuseppe Allamano, sacerdote della Diocesi di Torino, Rettore del Santuario della Consolata, appassionato della missione. Egli fondò i Missionari della Consolata nel 1901 e le Missionarie della Consolata nel 1910. Siamo oggi presenti in diverse Nazioni di 4 continenti: Africa, America, Asia e Europa.
Stiamo celebrando i due Capitoli generali, rispettivamente l’XI Capitolo per le Missionarie e il XIII per i Missionari. Abbiamo voluto chiederLe questa udienza insieme, per significare sia la comunione tra noi come figli e figlie dello stesso padre, il Beato Allamano, e della stessa Madre, la SS. Vergine Consolata, sia per esprimerLe insieme la comunione, l’affetto, il sostegno, il nostro essere pienamente nella Chiesa e con la Chiesa a servizio del Vangelo. Il nostro Fondatore ci ha trasmesso un particolare attaccamento al Papa e un forte senso ecclesiale, che cerchiamo di vivere nel nostro specifico, la missione nelle periferie, e nella periferia delle periferie che è appunto l’ad gentes, i non cristiani, coloro che non conoscono Cristo.
Entrambi gli Istituti stanno vivendo un tempo di particolare grazia, la grazia della rivitalizzazione, della ristrutturazione, ridisegnando le nostre presenze e le nostre strutture per una sempre migliore qualità di vita vocazionale, religiosa, missionaria, secondo il nostro carisma specifico. Questa è, di fatto, la tematica principale dei nostri due Capitoli Generali. In questo momento di rinnovamento e rilancio missionario siamo tanto desiderosi di sentire la Sua parola, Santo Padre, e ricevere la Sua benedizione per noi, per tutti i nostri missionari e missionarie sparsi per il mondo, per i popoli con cui condividiamo la vita.
Grazie ancora per averci accolto. Grazie perché non cessa di indicarci le vie di una Chiesa in uscita. Grazie per il coraggio, la speranza la gioia che sa infonderci. Le assicuriamo la nostra vicinanza, la nostra disponibilità e la nostra preghiera, in particolare presso la Vergine Consolata!
I capitolari e le capitolari Missionari e Missionarie della Consolata
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AI CAPITOLI GENERALI DEI
MISSIONARI E MISSIONARIE DELLA CONSOLATA
Sala Clementina – Lunedì, 5 giugno 2017
Cari Missionari e care Missionarie della Consolata,
sono lieto di accogliere insieme il ramo maschile e il ramo femminile della Famiglia religiosa fondata dal Beato Giuseppe Allamano, in occasione dei rispettivi Capitoli Generali. Vi saluto tutti con affetto e vi auguro che i vostri lavori capitolari si svolgano con serenità e docilità allo Spirito. Estendo il mio affettuoso saluto ai vostri confratelli e alle vostre consorelle che operano, spesso in condizioni difficili, nei diversi continenti, e li incoraggio a proseguire con generosa fedeltà nel loro impegno di missione ad gentes. Desidero ora offrirvi alcuni suggerimenti affinché questi giorni producano abbondanti frutti di bene nelle vostre comunità e nell’attività missionaria della Chiesa.
Voi siete chiamati ad approfondire il vostro carisma, per proiettarvi con rinnovato slancio nell’opera dell’evangelizzazione, nella prospettiva delle urgenze pastorali e delle nuove povertà. Mentre con gioia ringrazio il Signore per il bene che voi andate compiendo nel mondo, vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice. Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori (cfr Rm 5,5).
La storia dei vostri Istituti, fatta – come in ogni famiglia – di gioie e di dolori, di luci e di ombre, è stata segnata e resa feconda anche in questi ultimi anni dalla Croce di Cristo. Come non ricordare qui i vostri confratelli e le vostre consorelle che hanno amato il Vangelo della carità più di sé stessi e hanno coronato il servizio missionario col sacrificio della vita? La loro scelta evangelica senza riserve illumini il vostro impegno missionario e sia d’incoraggiamento per tutti a proseguire con rinnovata generosità nella vostra peculiare missione nella Chiesa.
Per portare avanti questa non facile missione, occorre vivere la comunione con Dio nella percezione sempre più consapevole della misericordia di cui siamo oggetto da parte del Signore. È molto più importante renderci conto di quanto siamo amati da Dio, che non di quanto noi stessi lo amiamo! Ci fa bene considerare anzitutto questa priorità dell’amore di Dio gratuito e misericordioso, e sentire il nostro impegno e il nostro sforzo come una risposta. Nella misura in cui siamo persuasi dell’amore del Signore, la nostra adesione a Lui cresce. Abbiamo tanto bisogno di riscoprire sempre l’amore e la misericordia del Signore per sviluppare la familiarità con Dio. Le persone consacrate, in quanto si sforzano di conformarsi più perfettamente a Cristo, sono, più di tutti, i familiari di Dio, gli intimi, coloro che trattano con il Signore in piena libertà e con spontaneità, ma con lo stupore di fronte alle meraviglie che Egli compie.
In questa prospettiva, la vita religiosa può diventare un itinerario di riscoperta progressiva della misericordia divina, facilitando l’imitazione delle virtù di Cristo e dei suoi atteggiamenti ricchi di umanità, per poi testimoniarli a tutti coloro che avvicinate nel servizio pastorale. Sappiate anche raccogliere con gioia i continui stimoli al rinnovamento e all’impegno che provengono dal contatto reale col Signore Gesù, presente e operante nella missione attraverso lo Spirito Santo. Ciò vi consentirà di essere operosamente presenti nei nuovi areopaghi dell’evangelizzazione, privilegiando, anche se ciò dovesse comportare dei sacrifici, l’apertura verso situazioni che, con la loro realtà di particolare bisogno, si rivelano come emblematiche per il nostro tempo.
Sull’esempio del vostro beato Fondatore, non stancatevi di imprimere nuovo impulso all’animazione missionaria. Sarà soprattutto il vostro fervore apostolico a sostenere le comunità cristiane a voi affidate, in particolare quelle di recente fondazione. Nello sforzo di riqualificazione dello stile del servizio missionario, occorrerà privilegiare alcuni elementi significativi, quali la sensibilità all’inculturazione del Vangelo, lo spazio dato alla corresponsabilità degli operatori pastorali, la scelta di forme semplici e povere di presenza tra la gente. Attenzione speciale meritano il dialogo con l’Islam, l’impegno per la promozione della dignità della donna e dei valori della famiglia, la sensibilità per i temi della giustizia e della pace.
Cari fratelli e sorelle, continuate il vostro cammino con speranza. La vostra consacrazione missionaria possa essere sempre più sorgente di incontro vivificante e santificante con Gesù e con il suo amore, fonte di consolazione, pace e salvezza per tutti gli uomini.
Auspico che gli orientamenti elaborati dai rispettivi Capitoli Generali possano guidare i vostri Istituti a proseguire con generosità sulla via tracciata dal Fondatore e seguita con eroico coraggio da tanti confratelli e tante consorelle. Invoco la celeste protezione di Maria, Regina delle Missioni, e del Beato Giuseppe Allamano, e di cuore imparto a tutti voi la Benedizione, estendendola all’intera Famiglia della Consolata.
Cento anni fa i primi missionari della Consolata, guidati da padre Gaudenzio Barlassina, arrivarono in Etiopia mimetizzati da commercianti di macchine da cucire. Si realizzò così il sogno del beato Giuseppe Allamano che aveva fondato i suoi missionari proprio per quel paese. Ma, oltre alla vecchia «Singer», nel cuore portavano un bene più prezioso: la consolazione di Maria Consolata (in apertura: onorata da bambini orfani, in una foto d’epoca evidentemente organizzata per ringraziare i benefattori).
La consolazione era vissuta e praticata nella semplicità di vita quotidiana e si traduceva anche nell’attenzione affettuosa ai più piccoli, come mostrano le due foto qui di seguito che parlano da sole.
Arrivati in Etiopia, i primi missionari e missionarie della Consolata si adattarono alla vita del posto, diventando presto, suore comprese, esperti cavallerizzi, visto che il cavallo o il mulo era il mezzo più semplice e diffuso per muoversi su un terreno montuoso e privo di strade.
A conclusione della lunga e faticosa giornata, alla luce della lucerna a petrolio, nella quiete della notte restava il tempo per compilare il diario, scrivere alla famiglia, approfondire la lingua locale…
In memoria di sr Serafina Sergi, Missionaria delle Consolata
Il pomeriggio del 29 maggio 2017 nella cappella della casa generalizia delle Missionarie della Consolata a Nepi (Viterbo, diocesi di Civita Castellana) si sono radunati ancora una volta – avevano fatto un convegno in comune il 25-26 maggio sulla Missione e la figura della beata Irene Stefani – i due capitoli generali, quello delle suore e quello dei missionari, per accompagnare nella preghiera il ritorno di suor Natalina Sergi alla casa del Padre e condividere la consolazione di essere uniti come famiglia soprattutto nei momenti di prova.
Il ricordo della missionaria nelle parole di suor Simona Brambilla, superiora generale delle suore.
Sr Serafina Sergi nasce il 3 ottobre 1947 a Gagliano, in provincia di Lecce.
Entra nell’istituto nel 1965 e nel 1968, in questa casa di Nepi, emette la prima professione religiosa divenendo Missionaria della Consolata. Nel 1973 parte per gli Stati Uniti dove nel 1975 emette i voti perpetui a Belmont (Michigan). Nel 1977 termina gli studi universitari laureandosi in Matematica e Scienze e nel 1978 è inviata dagli Stati Uniti in Liberia dove si dedica principalmente all’insegnamento. Nel 1983 è richiamata in Italia per svolgere il servizio di Maestra delle Novizie in questa casa di Nepi. Nel 2003 è inviata in Kenya dove dà inizio alla scuola secondaria di Karare, nella diocesi di Marsabit, dedicando tutta se stessa alle studenti. Nel 2012 viene nominata Superiora maggiore della regione Kenya e nel 2015 è nominata Superiora maggiore della Regione DELK che comprende le nostre presenze sui territori di Kenya, Liberia, Etiopia e Djibouti.
Sr Serafina era in Italia per partecipare al nostro XI Capitolo generale (in corso a Nepi, Viterbo, diocesi di Civita Castellana, dal primo maggio scorso, ndr). Poco più di un mese fa aveva subito un intervento chirurgico da cui si era ripresa bene. Partecipava al capitolo con impegno, gioia, senso di responsabilità e di famiglia. La notte del 28 maggio, già nella festa dell’Ascensione del Signore, sr Serafina si sente male e viene trasportata in ambulanza all’Ospedale di Civita Castellana, dove decede dopo pochi minuti dall’arrivo.
Ci ha lasciato in fretta, sr Serafina. Aveva trascorso la sua ultima giornata impegnata nei lavori capitolari che l’avevano vista attivamente partecipe, sempre entusiasta e pronta a dare il meglio di sé per la nostra famiglia religiosa, a cui la legava un fortissimo vincolo di appartenenza. Sì, sr Serafina ama molto l’Istituto, continua a amarlo ora dal Cielo e da lì a offrire il suo prezioso e appassionato contributo di donna consacrata missionaria della Consolata autenticamente innamorata di Cristo, della missione, del carisma che sentiva scorrere in sé come linfa vitale.
Sr Serafina è stata la mia maestra di noviziato, 26 anni fa. E rifarei volentieri il noviziato con sr Serafina. Ogni volta che la incontravo le ricordavo alcuni delle sue massime proverbiali, attraverso cui in qualche modo condensava il suo stile formativo. Una di queste era: “libere e responsabili”: lo diceva spesso a noi novizie! La formazione alla libertà interiore per compiere scelte sempre più responsabili davanti a Dio, a se stesse e agli altri era il filo conduttore della sua opera educativa, che svolgeva con semplicità, acutezza, intuito femminile e materno, passione, flessibilità, amore vero per le persone che le venivano affidate. Sr Serafina sapeva prendersi cura della persona, con sensibilità e cuore materno, anche a costo di molto sacrificio. Lo sanno le tante sorelle che lei ha accompagnato nel percorso formativo del noviziato; lo sanno i tanti ragazzi e ragazze che l’hanno avuta come insegnante e direttrice nelle scuole in Italia, Stati Uniti, Liberia e Kenya; lo sanno le Sorelle per le quali svolgeva il servizio di autorità.
Ora per sr Serafina è giunto il momento di “passare all’altra riva”, quella definitiva, quella dell’abbraccio senza fine con il Cristo il cui Volto ha cercato, desiderato, amato. Dopo una vita spesa a facilitare, attraverso l’umile e vibrante mediazione della sua umanità consacrata, l’incontro di tante persone con Lui, la notte dell’Ascensione Lui l’ha voluta incontrare pienamente e definitivamente. È avvenuto tutto così improvvisamente che è difficile per noi renderci conto dell’accaduto. Ci fermiamo in silenzio e accogliamo il mistero sacro di questo Incontro. La fede è lampada ai nostri passi e illumina questo segreto di dolore e di amore, introducendoci alla logica dell’abbandono in Dio in cui ogni morte è resa feconda e portatrice di infinita benedizione, in cui ogni consegna diviene possibilità inaudita di vita, ogni dolore apre il passaggio alla luce dell’Amore.
Grazie, sr Serafina! Ti affidiamo alla nostra Madre tenerissima, la Consolata, perché ti introduca pienamente nell’abbraccio Consolatore di suo Figlio e appaghi la tua sete ardente del Suo Volto. Da lì, da quell’abbraccio, continua a accompagnarci come sorella in questo cammino di rinascita, di rigenerazione a una vita consacrata missionaria sempre più autenticamente “della Consolata”.
Grazie, nostra sorella!
Sr Simona Brambilla, MC Nepi, 28 maggio 2017
Un tuffo nel futuro
C’è un gioco di «iniziazione» interessante che ho visto fare in gruppi di giovani e ragazzi: sei bendato, in piedi in mezzo ad un cerchio di amici, e devi lasciarti cadere all’indietro senza paura, sicuro che ci sono braccia pronte a raccoglierti, sostenerti e proteggerti. È un esercizio ansiogeno, ma aiuta a cementare la coesione e far crescere la fiducia gli uni negli altri. Una scena simile a quella di Pietro che vuole andare da Gesù sulle acque in tempesta. La risposta di Gesù è semplice: «Vieni». Pietro si butta. Cammina sull’acqua, ma la tempesta è forte, il vento impetuoso. Si spaventa, comincia a dubitare, affonda. Un grido: «Salvami!». Ed ecco, subito, una mano tesa è lì per lui. «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
Ho davanti agli occhi queste due scene, Pietro e i ragazzi, mentre penso a quanto stiamo vivendo noi missionari della Consolata. Il prossimo 22 maggio, a Roma, inizieremo il tredicesimo capitolo generale al quale ci stiamo preparando ormai da molti mesi. Il capitolo è un incontro che avviene ogni sei anni. Ci vanno di diritto i superiori dei vari gruppi sparsi nel mondo e poi diversi missionari liberamente eletti dai confratelli. In tutto una cinquantina di persone che hanno il compito di analizzare e valutare il cammino fatto, ma soprattutto di tracciare il camino per il futuro. Tutto semplice in tempi ordinari, ma l’oggi della missione sembra più un mare in tempesta che un tranquillo lago alpino. Quello che un tempo era chiaro, oggi non lo è più. Ieri essere missionario era uscire dalla propria terra, dalla propria cultura, dalla propria lingua, da un ambiente «cristiano» e andare lontano verso chi «cristiano» non era. Oggi ci si chiede «dov’è la missione?» e la risposta non è più univoca: la missione è ovunque. Essere «Chiesa in uscita» non significa più soltanto «attraversare i mari», non si qualifica più per la dimensione geografica, ma è un movimento di incontro con l’uomo, l’altro, secondo lo stile di Gesù che ha scelto le periferie, i peccatori, i poveri, gli ammalati, gli «scarti»… ovunque essi siano, anche appena fuori dell’uscio di casa o addirittura dentro casa, dove arrivano «calandosi dal tetto».
Tutto bello, tutto nuovo, anzi, tutto antico e collaudato, visto che si rifà a Gesù stesso. Dove sta il problema allora? Dov’è il mare tempestoso? Presentando il capitolo, il nostro superiore, padre Stefano Camerlengo, ricorda due obiettivi: rivitalizzazione e riorganizzazione. Riorganizzazione significa prendere atto del fatto che (dal punto di vista religioso) l’Italia (e l’Europa) non è più al centro ma è diventata periferia. Questo è ormai evidente, ma non per questo accettato da tutti. Riorganizzare indica efficienza, essere al passo coi tempi, stare attenti alle «leggi del mercato», prendere atto che i missionari italiani sono una «specie in via di estinzione» e che le nuove forze vengono dal Sud del mondo e quindi bisogna «delocalizzare». È un processo doloroso che richiede sacrifici, tagli, abbandoni, ma ha una sua logica ineluttabile, come ci dimostrano le decine e decine di conventi, case religiose e chiese in vendita in ogni angolo del Belpaese. Potremmo dire allora che riorganizzare è una questione di «quantità» e di «fare».
Rivitalizzare è invece tutta un’altra storia in un tempo in cui i «vecchi» sono tentati dallo scoraggiamento e i «giovani» dalla globalizzazione della modernità. Parla di vita e tocca profondamente la «qualità» e l’«essere». Prendo un esempio per tutti. È più facile dire «impegniamoci affinché il beato Allamano sia dichiarato santo» o dire «diventiamo santi come ci vuole il beato Allamano»? Ed è proprio su questo punto che si gioca il futuro dei missionari della Consolata e del loro bellissimo servizio al mondo e al Vangelo. O imparano a fare come i bambini che si fidano ciecamente dei loro amici e come Pietro che si aggrappa alla mano di Gesù nel lago in tempesta, oppure anche le strategie più belle finiranno in niente.
Il beato Allamano ha ripetuto più volte che a fondare l’Istituto non è stato lui ma la Consolata. Da Maria, Consolatrice e Consolata, i suoi missionari devono imparare a fare un tuffo di fiducia nelle mani di Dio. Solo così, con occhi e orecchie, cuore e mente aperti per scoprire il sentiero che Dio ha tracciato per loro in questo oggi difficile, saranno «semplici servi» che «fanno bene il bene» senza lasciarsi condizionare dalle paure o sentirsi arrivati. «Prima santi», diceva l’Allamano, «e poi missionari», professionisti che agiscono con prudenza e coraggio, con realismo e creatività.
Ci aspetta un tuffo coraggioso nel futuro della Missione. Per questo abbiamo bisogno di voi, nostri amici, nostri tifosi, la nostra «curva». Contiamo sul vostro affetto e la vostra preghiera per vincere la partita contro lo scoraggiamento, la mediocrità, la tentazione del «si è sempre fatto così», la presunzione di essere indispensabili, la paura del nuovo.
Grazie a nome di tutti i capitolari e di tutti i missionari della Consolata.
2 Istituti, 1 Missione
Stesse domande, due intervistati: la superiora e il superiore generali delle missionarie e dei missionari della Consolata, eredi, insieme, del beato Giuseppe Allamano.
Suor Simona Brambilla è brianzola, cinquant’anni, infermiera e psicologa, a fine anni Ottanta sceglie la missione ad gentes e diventa missionaria della Consolata. Nel 2011 è eletta superiora generale. I suoi modi tranquilli e un’apparente timidezza incuriosiscono i suoi interlocutori, almeno quanto la luce, la gioia e l’entusiasmo che ha negli occhi quando racconta della missione e del suo Istituto.
Padre Stefano Camerlengo, marchigiano Doc ma cittadino del mondo, cinquantanove anni, ordinato sacerdote il 19 marzo del 1984 a Wamba, Congo RD, nel 2011 è eletto superiore generale dei missionari della Consolata. Ciò che colpisce di padre Stefano è l’entusiasmo irrefrenabile, l’amore, la dedizione alla missione, e un’apertura mentale plasmata dal pensiero del beato Allamano.
Quando ha scelto di diventare missionario/a? Cosa l’ha spinto/a a lasciare tutto per dedicarti a Dio e alla missione? E perché proprio in questo Istituto?
SUOR SIMONA – Ho deciso quando avevo circa 22 anni e lavoravo come infermiera professionale in un ospedale. Il contatto coi malati ha suscitato in me una serie di domande sul senso della vita e della sofferenza. Da lì è iniziato il mio avvicinamento al Signore e il progressivo e intenso desiderio di consacrarmi a Lui. Ero indecisa tra la clausura e la missione ad gentes. Ho conosciuto i Missionari della Consolata e, dopo un cammino di accompagnamento spirituale con uno di loro, ho chiesto di conoscere le Suore Missionarie della Consolata. A 23 anni sono entrata nel mio Istituto e… eccomi qua. Da allora sono passati, velocissimi, altri 27 anni!
PADRE STEFANO – La storia della mia vocazione è molto semplice e molto «umana». Ancora molto giovane ho sentito la necessità di condividere la mia vita con i più poveri, da questa spinta iniziale è nato tutto il resto. Sono stati i poveri che mi hanno portato a Gesù, e poi è stato Gesù che mi ha riportato ai poveri. Per questo dono ringrazio in primo luogo il Signore che mi ha fatto «degno» di questa «sublime vocazione», come la chiama il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. In secondo luogo, ringrazio i miei confratelli missionari che mi hanno aiutato e plasmato sulle orme della missione, e infine ringrazio tutte le persone che ho incontrato finora nella mia vita che mi hanno aiutato a essere quello che sono, senza dimenticare la mia famiglia che con la sua presenza e vicinanza mi ha insegnato i valori che contano e che non si dimenticano più. Ho scelto l’Istituto dei Missionari della Consolata perché sono stati i primi missionari che ho incontrato sulla mia strada e che, ora, amo come la mia vera famiglia.
Mi racconti l’emozione più grande che ha provato girando il mondo e incontrando tante realtà in questi anni.
SUOR SIMONA – C’è un’emozione che provo tante volte visitando i nostri posti, i nostri popoli: è quella di sentirmi accolta, di ricevere tantissimo. Questo mi fa sentire piccola davanti a tanta gratuità. L’emozione di arrivare alla missione di Arvaiheer in Mongolia e trovare donne, vestite col bellissimo abito tradizionale, che ci offrono la loro bevanda tipica e la sciarpa blu in segno di accoglienza. Di arrivare a Vilacaya, Bolivia, e trovare i rappresentanti del popolo indigeno che ci ornano con pannocchie di mais e un aguayo (panno tipico boliviano, coloratissimo) in segno di benvenuto; di arrivare a Gibuti e trovare i ragazzi del centro di alfabetizzazione di Ali Sabieh coi loro maestri che per dimostrare l’amore verso le nostre sorelle ci decorano le mani con impasto di henna… e tanti, tanti gesti di accoglienza che ci fanno sperimentare come la missione è davvero uno scambio, è un dare e un ricevere.
PADRE STEFANO – In questi anni di servizio all’Istituto, in cui mi trovo a visitare tanti paesi, tante comunità e tanti missionari, la cosa che più mi emoziona è la forza della debolezza. Mi meraviglia sempre e mi fa cadere in ginocchio a ringraziare, vedere che piccoli uomini in posti sperduti e difficili, con pochi mezzi, tra tantissimi problemi, possono cambiare la storia di un popolo, di un gruppo, sono riferimento e segno di speranza per tanti, sono luci accese in mezzo alla notte del mondo. Un’altra emozione forte te la danno sempre i bambini. Lo sguardo dei bambini, la loro gioia di vivere, la loro pura bellezza sono sempre e ovunque un’emozione fortissima che ti riempie il cuore e ti fa camminare.
Infine, mi piace ricordare che, come missionario, mi sento sempre a casa sua dovunque sia e dovunque vada. Che spettacolo poter trovare sempre delle persone amiche che ti accolgono, ti fanno trovare il calore di una famiglia. Che dono grande l’organizzazione e lo spirito missionario.
Come vede il futuro dell’Istituto. Quali sono secondo lei i punti di forza e quali, qualora ci fossero, le debolezze?
SUOR SIMONA – Un punto di forza è senza dubbio la vivacità del nostro carisma, la missione rivolta ai non cristiani nel segno della Consolazione. L’identità nostra, il nostro Dna è vivo, originalissimo, e chiede di esprimersi oggi in forme nuove, diverse. È sempre se stesso e proprio per questo capace di rinnovarsi, di rivelare aspetti inediti a seconda delle epoche, delle culture, delle circostanze. Un altro aspetto di forza è la passione missionaria che davvero non ci manca.
Di debolezze ne abbiamo. Una è rappresentata dalle quotidiane sfide della vita comune, che chiamano ciascuna di noi a uscire da se stessa, verso la «mistica dell’incontro», vissuta non solo con l’altro là fuori, ma prima di tutto, con la sorella dentro casa nella fruttuosa convivialità delle differenze. Siamo in cammino, un cammino non facile ma che assolutamente vale la pena di percorrere. Non si può pensare la missione se non a partire dalla comunione.
Il futuro dell’Istituto? Lo immagino luminoso. Dico luminoso, non grandioso. Stiamo diminuendo numericamente, ridimensionando e ridisegnando le nostre presenze, in vista di un rilancio secondo il fine specifico dell’Istituto che è la missione ad gentes nel segno della Consolazione. Per il futuro vedo un Istituto piccolo, umile, gioioso di essere ciò che è chiamato ad essere, impegnato a «fare bene il bene, senza rumore».
PADRE STEFANO – Personalmente non sono eccessivamente preoccupato per il futuro dell’Istituto, sono più attento alla qualità dell’Istituto. Mi guida una frase della grande santa Edith Stein, Benedetta della Croce: «Noi spesso non sappiamo dove Dio ci conduce. Ma sappiamo che è Lui a condurci. E questo ci basta!». L’Istituto è opera di Dio, è nelle sue mani. Era questa la certezza dell’Allamano e sulla sua scia anche la nostra. I punti di forza della nostra famiglia missionaria sono diversi. Prima di tutto la persona dei missionari. Nelle nostre Costituzioni diciamo chiaramente che «la persona del missionario è il primo bene dell’Istituto», la meraviglia più grande è incontrare questi testimoni, e vederli vivere e lavorare con gioia e generosità nei luoghi più sperduti e difficili dell’umanità. Legata alle persone c’è anche la ricchezza dell’interculturalità: appartenere a diversi popoli e culture e cercare di essere segno insieme della comunione e della solidarietà universale, vivendo e servendo insieme la missione, è un grande messaggio per la nostra società oggi. L’Allamano parlava di «spirito di famiglia».
Certamente siamo umani e, grazie a Dio, non siamo perfetti. Abbiamo anche noi le nostre difficoltà e i nostri problemi a essere fedeli alla grande vocazione che Dio ci ha donato. Anche noi combattiamo ogni giorno con le nostre piccole e grandi infedeltà e fragilità, con il nostro individualismo che rende, a volte, dura la vita comunitaria, con una mancanza di spiritualità forte, per cui ci lasciamo prendere dai modi e dai ragionamenti del mondo. Inoltre, facciamo fatica ad aprirci e accogliere il nuovo, il rinnovamento…
Si parla di crisi di vocazioni, secondo me dovremmo parlare di crisi di valori e d’identità in Europa. Cosa ne pensa?
SUOR SIMONA – Sì, la crisi di vocazioni mi sembra un segno, un aspetto di qualcosa di molto più vasto. E non solo in Europa. Certamente questo fenomeno ci fa pensare. Che cosa stiamo proponendo? Il Vangelo è bello. Il nostro carisma, intuito e accolto dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e poi trasmesso a noi, è un tesoro inesauribile; la vocazione a essere Missionaria della Consolata è vocazione alla gioia. E allora, perché il calo vocazionale? Al di là di tutte le analisi sociali, credo che occorra chiedersi: che cosa proponiamo? Che cosa si vede e si legge sui nostri volti, nei nostri rapporti, nelle nostre scelte concrete? Non si tratta di colpevolizzarci. Ma di responsabilizzarci e di risvegliarci, sì. Non saremo mai, credo, un istituto dai grandi numeri e sono convinta che il discernimento vocazionale debba essere un processo molto serio, approfondito e esigente in tutte le sue fasi: «La porta stretta per entrare e larga per uscire» diceva l’Allamano. Per questo non spero in grandi numeri, ma nel coltivare in profondità la chiamata di quelle giovani donne che portano nel loro cuore «il Dna della Consolata», donne a cui possiamo proporre una vita che è davvero bella e intensissima. Non ho detto facile, ho detto bella, che è molto diverso.
PADRE STEFANO – Circa la crisi vocazionale in Europa non ho molte letture sociali e psicologiche da fare, ma appare evidente la crisi di valori che blocca ogni ideale e sogno. Soprattutto, per me, c’è una crisi della gratuità e della donazione: siamo in una società dove tutto ci è dovuto e in cui io non devo niente; senza la gratuità non si capisce la vocazione, la donazione, l’attenzione all’altro. L’assenza di gratuità provoca anche una mancanza di amore verso i poveri, gli ultimi, gli esclusi. Quando si è troppo piegati su se stessi non si può più dare spazio agli altri; quando i miei problemi sono più grandi e importanti di tutto, non posso chinarmi sulle sofferenze degli altri; quando si perde la compassione non ho più passione per la vita e per la fede e vivo male.
Quali sono le realtà del suo Istituto che secondo lei hanno bisogno di maggiore attenzione e sacrificio?
SUOR SIMONA – Accennavo prima al processo del ridisegnare le presenze. Siamo un Istituto con «lavori in corso», in ristrutturazione, in ripensamento, proprio per essere fedeli nell’oggi al dono originario e originale che abbiamo ricevuto più di 100 anni fa. In questo processo abbiamo riscoperto come fondamento biblico l’icona evangelica della vite e dei tralci. Ogni vite che voglia produrre buon vino ha bisogno di molte cure, tra cui la potatura. Ecco, occorre saper potare i tralci giusti e curare i germogli giusti. La vite potata piange, ma il pianto della vite è preludio a nuovi tralci, a nuovi grappoli, a vino nuovo.
PADRE STEFANO – Ce ne sono diverse perché siamo sempre in cammino e dobbiamo cercare di migliorare, di andare avanti. Ma posso fermare la mia attenzione su tre aspetti che oggi sono più urgenti.
La formazione:
oggi più di ieri siamo chiamati a curare la formazione dei nostri giovani missionari per ben preparare l’avvenire. Senza una buona formazione non possiamo realizzare una buona missione. I giovani di oggi sono molto più preparati di noi di ieri, ma sono anche figli del loro tempo, per cui dentro di sé vivono profonde contraddizioni e fragilità.
Inoltre, c’è tutto un cambiamento sociale che necessita di introspezione e comprensione. In poche parole, oggi dobbiamo studiare molto per capire come funziona la realtà e che cosa possiamo fare per cambiarla o migliorarla. Anche i cambiamenti della teologia e della prassi missionaria meritano grande attenzione e riflessione e tutto questo rientra nella formazione che oggi preferiamo chiamare continua. Continua appunto, per significare che non ci si dovrebbe fermare mai, che lo studio, la riflessione, l’approfondimento dovrebbero essere il nostro pane quotidiano e la base su cui fondare tutto il nostro servizio alla gente nella missione.
La vita comunitaria:
è chiamata a essere il segno più importante e profetico della missione di domani. Le nostre comunità sono espressione dell’interculturalità e per questo sono un grande segno e progetto di solidarietà per un mondo nuovo e migliore. Tuttavia, anche se riconosciamo che è l’elemento fondamentale, tutti sappiamo che è uno degli aspetti più difficili da vivere in profondità. Sinceramente siamo ancora lontani dall’ideale, a volte viviamo la vita fraterna solo «sulla carta» o seguendo ciascuno il proprio gusto. Tutto questo è inconciliabile con la nostra vocazione e dobbiamo sempre essere vigilanti. Questa situazione necessita di una rivitalizzazione della vita fraterna in comunità, tenendo presente che questo è uno dei termometri principali per verificare la qualità della nostra vita evangelica.
L’economia:
la crisi economica, se da un lato è positiva perché ci permette di recuperare alcuni valori fondamentali e l’umanità di ognuno, dall’altro ci fa cadere in un’eccessiva preoccupazione per noi stessi, per la nostra sopravvivenza. Credo che sia un aspetto importante da curare per una conversione profonda. Il futuro della vita consacrata e della missione ce li giochiamo nell’economia. La crisi ci «obbliga» a rivedere il nostro stile e metodo di fare missione, ci invita a maggiore sobrietà e condivisione con la gente, a fare progetti e cammini decisamente insieme e in cordata con i popoli, le comunità e le persone che serviamo, e non da soli, da protagonisti. Un cammino questo che nello stesso tempo deve prendere in considerazione la difficoltà reale di reperire fondi per realizzare la missione e per dare un minimo di stabilità alle comunità.
Ecco, in sintesi, alcuni aspetti che reputo importanti da approfondire perché su questi si fonderà la vita consacrata per la missione di domani, almeno credo. Molto è il lavoro e ardua la fatica che ci attende su questi temi, ma merita la pena porre mano all’opera, perché dall’attenzione alla qualità dipenderà la fecondità della nostra missione e della nostra vita.
Come pensa possano aiutare i laici e cosa potrebbero fare per l’Istituto?
SUOR SIMONA – Abbiamo diversi tipi di rapporto coi laici… ci sono gli amici, i benefattori, i volontari, e ci sono i «Laici missionari della Consolata», ai quali ci lega un particolare rapporto di fraternità nel carisma. Nel senso che i Lmc condividono con noi suore e con i confratelli missionari il dono dello stesso carisma, vissuto secondo le modalità proprie della vocazione specifica di ciascuno. Il primo aiuto che sicuramente essi ci offrono è quello dell’essere parte di una unica famiglia, con tutte le possibilità di dialogo, confronto e crescita nella comunione che questa appartenenza comune ci dona.
PADRE STEFANO – Prima di parlare dei laici nell’Istituto e della loro importanza, vorrei sottolineare un atteggiamento che, reputo, dovrebbe essere alla base di tutto, e cioè la simpatia per il mondo, per la società in cui viviamo. La nostra missione comporta anche una simpatia con la società alla quale desideriamo portare la bella notizia del Vangelo, una simpatia che ci permette di entrare in dialogo con gli uomini e le donne di oggi per incontrarli e per condividere il Vangelo. La simpatia ci conduce ad avere una visione positiva del contesto e della cultura nella quale siamo immersi, scoprendo nella nostra realtà le opportunità inedite della grazia che il Signore ci offre per la nostra missione. In questo modo la missione sarà un cammino di andata e ritorno che comporterà l’atto di dare, ma anche quello di ricevere, in attitudine di dialogo fecondo e costruttivo. Con questo atteggiamento di simpatia possiamo valorizzare anche la presenza dei laici e l’importanza del loro ruolo e servizio nella Chiesa e nell’Istituto. La presenza dei laici è fondamentale nella missione, essi sono l’espressione di un carisma che non appartiene a un gruppo ma che va condiviso con tutti. Il carisma più è donato e più è credibile, fecondo e visibile. Nella diversità dei ministeri tutti i cristiani sono chiamati a rispondere generosamente al Signore che chiama ad annunciare la Buona Novella ai vicini e ai lontani. Oggi siamo chiamati a promuovere una missione condivisa con i laici, con le altre comunità religiose e con tutte le forze d’impegno per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato. Certamente per arrivare a questo è necessaria una conversione profonda che ci faccia superare la mentalità «clericale» che tuttora ci portiamo dentro, in modo che i laici possano esercitare il loro diritto e dovere di partecipare alla conservazione, all’esercizio e alla professione della fede ricevuta e della missione condivisa.
Animazione missionaria. Come l’Istituto la sta portando avanti e cosa pensa dei nuovi metodi di comunicazione come i social network (Facebook, Twitter)? Potrebbero essere d’aiuto?
SUOR SIMONA – Beh, questa per noi è una domanda che si colloca nell’ambito dei «lavori in corso». Credo che anche nell’animazione missionaria la dimensione della comunione sia essenziale: comunità aperte, accoglienti, spazi di ascolto, di preghiera, di riflessione e di azione concertata (in unità di intenti, direbbe l’Allamano!), dove si veda, si assapori il carisma della Consolata in azione.
Vediamo la necessità di aperture missionarie nel mondo virtuale, nelle reti sociali. Stiamo pensando come fare per esserci di più e meglio, in questo mondo. Non abbiamo ancora risposte, ripeto, siamo nei «lavori in corso».
PADRE STEFANO – Per una buona animazione missionaria sono fondamentali due cose: la testimonianza e la forza del Vangelo. Senza testimonianza evangelica missionaria della nostra vita non c’è un’autentica animazione. Ma la missione è fondata sulla forza del Vangelo. Se il Vangelo non ci riscalda il cuore e non lo conosciamo, le nuove tecniche non potranno fare nulla autonomamente. Personalmente credo che non ci sia cosa migliore del Vangelo come metodologia di animazione missionaria ma considerando il contesto sociale in cui viviamo oggi, ritengo che sia anche importante servirsi dei nuovi mezzi di comunicazione affinché la Parola e la missione arrivino a tutti, anche ai lontani. E su questo abbiamo già un problema, perché oggi noi facciamo fatica a entrare in contatto con i giovani e i lontani, abbiamo bisogno di creatività e fantasia evangelica, abbiamo bisogno di «sporcarci le mani di fango» per condividere con gli ultimi la loro situazione e allora saper narrare il Vangelo dell’esperienza, e non solo quello delle parole. La strada dell’animazione missionaria oggi è quella della vita vissuta e condivisa nelle aeree più difficili e povere del mondo. Come missionari dovremmo rimanere costantemente in contatto con la realtà della nostra gente e sentirci «mendicanti di senso». Ma troppo spesso siamo lontani dalla realtà, chiusi nelle nostre sicurezze, rispondiamo a domande che nessuno pone.
Per rispondere alle esigenze della missione attuale è necessaria una grande sensibilità sociale. In questo modo il contatto con la realtà, letta con gli occhi della fede, indicherà il progetto che il Signore propone per noi. È necessario leggere attentamente i segni dei tempi e dei luoghi, e lasciarsi interpellare da questi. L’impegno nella animazione missionaria comporta una profonda conversione personale, comunitaria e pastorale, altrimenti siamo come «cembali squillanti». La missione è sempre nel segno della speranza: speranza fondata in Cristo e nel Vangelo. Sperando contro ogni speranza. Una speranza d’origine pasquale che certamente avrà futuro perché fondata in Lui. Vivendo e facendo così ci saranno, certamente, ancora giovani generosi che sceglieranno di dare la vita per il Vangelo e per i poveri.
Voglio terminare con un messaggio di san Francesco, a me particolarmente caro in questo tempo, perché lo considero d’ispirazione riguardo la nostra presenza costruttiva nella storia attuale e guida della Chiesa e del nostro Istituto. Egli scriveva ai suoi frati inviati in missione: «Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? Contro i Saraceni non possiamo lottare perché non possediamo armi. E poi che cosa si ottiene combattendo? Non possiamo lottare contro gli eretici perché ci mancano argomenti dialettici e preparazione intellettuale. Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere al servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».
Che questo sia il nostro cammino e la nostra strada!
Romina Remigio
L’Incontro (Nohimayou) – 1
50 anni di Catrimani (1965-2015): Yanomami e Missionari della Consolata.
La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta
Stare al fianco degli indios è come lavorare su un «terreno minato». Nel 2015 come cinquant’anni fa. Eppure, rimanere a Catrimani e con gli Yanomami è un dovere etico.
Come missionari della Consolata celebriamo i nostri primi 50 anni di presenza con il popolo yanomami nella foresta amazzonica brasiliana e con spirito di gratitudine e riconoscenza presento questo dossier speciale a loro dedicato.
Parlare di presenza significa fare riferimento a persone concrete, che in cinque decenni si sono alternate e hanno solcato con i loro piedi e con il loro cuore questa immensa foresta, bacino di vita per l’umanità. Per noi Catrimani è una missione «speciale», un’opera di promozione e accompagnamento di un popolo, volta a ridare ad esso dignità, capacità di espressione e di camminare con le proprie gambe. Diversi e importanti sono gli insegnamenti che questa esperienza ci ha regalato. Provo a elencarne alcuni, con uno sguardo teso al futuro.
Dialogo senza pregiudizio – Gli indios yanomami si presentano al tavolo del dialogo interculturale per ricevere e per dare. Essi non vanno visti soltanto come persone impoverite, ma anche e soprattutto come portatori di valori e beni umanizzanti, a partire dalla loro cultura. Sono un popolo che non ha bisogno di intermediari che parlino per loro: basta ascoltarli. La relazione interculturale ha richiesto ai nostri missionari particolari canali, criteri di spiritualità e pratica dialogica. Il dialogo interculturale ci ha richiesto, prima di tutto, la convinzione del valore della loro cultura senza complessi di superiorità o centralità, l’apertura senza pregiudizio al pensiero altrui, per favorire un ambiente di reciproco coinvolgimento. In questo modo abbiamo riconosciuto il «passaggio di Dio» nella vita di questo popolo. I nostri missionari ci hanno insegnato un cammino di avvicinamento agli altri, nelle loro giornie e speranze, nei loro codici, valori, lingua e spiritualità, affinché l’incontro sia una facilitazione e un rafforzamento delle diverse culture. In un dialogo che non è un mero condividere e comunicare pensieri, ma un essere disponibili al cambiamento e alla scoperta di nuovi spazi di realizzazione.
Uno stile rispettoso– È emerso qui, nel Catrimani, lo stile di una missione che rispetta l’altro riconoscendolo come già illuminato e capace di leggere i segni della presenza di un Dio buono in chi si fa prossimo per offrirgli ogni gesto possibile di solidarietà umana. È il servizio gratuito reso all’altro che fa sussultare, germogliare in esso quello che lo Spirito vi aveva già posto. L’urgenza che porta il cristiano verso l’altro è la sollecitudine, il desiderio di prendersene cura al punto da non frapporre indugio tra l’averne conosciuto il bisogno e la disponibilità a venire incontro a quel bisogno.
Presenza, denuncia, annuncio – Quella dei missionari a Catrimani è una presenza profetica, capace di penetrare profondamente la realtà e indicare, assieme alla gente, i cammini da seguire. Una comunità missionaria cosciente e ben inserita tra le persone che è diventata catalizzatrice di trasformazioni compiute dallo stesso popolo locale. Una comunità che ha fatto sua la sfida ecologica, che si è fatta voce della terra e delle persone con ostinazione e metodo, aggregando forze ed educando la gente all’azione. Una comunità profetica di denuncia e annuncio, capace di spargere la voce ovunque, approfittando con saggezza dei mezzi tecnologici e dei media (come – ad esempio – la rivista che tenete tra le mani). Questa comunità ha reso visibile a molti un piccolo angolo del mondo, ha offerto la sua esperienza locale come possibile modello di azione anche per altri contesti e si è resa disponibile a collaborare con tutti gli alleati che vogliano affrontare le stesse sfide.
Tanti, ma non abbastanza – Mi sembra questo uno dei lasciti più preziosi della testimonianza dataci dai nostri missionari e dal popolo con il quale vivono: l’invito a non scordare mai che, anche quando si compie tanta strada, all’arrivo si troverà sempre «lo Spirito Santo» già presente, si troverà l’altro, verso il quale ci chiniamo, già abitato dalla presenza del Signore, in attesa solo di qualcuno che lo renda consapevole del dono gratuito che Dio offre a ogni essere umano.
Noi come missionari della Consolata vogliamo continuare la nostra missione tra gli Yanomami per aiutarli a vivere degnamente e a recuperare i propri valori. Vogliamo che la loro autonomia e la loro storia, scritte nella memoria e nel territorio, vengano rispettate. Per questo crediamo fermamente che 50 anni siano tanti, ma non abbastanza.
Il dovere «etico» di rimanere – Rimaniamo a Catrimani e continuiamo perché questo popolo ha il diritto di vivere. E come missionari abbiamo sempre il dovere di promuovere la vita. Non sappiamo se riusciremo ad aiutarli perché siamo consapevoli di muoverci su un «terreno minato», ma ci crediamo e andiamo avanti. L’obiettivo è l’autonomia e la libertà degli Yanomami.
Gli indios sono stati manipolati. L’incontro-scontro con il mondo dei «bianchi» li ha resi più poveri e troppi di loro sono stati uccisi per gli interessi egoistici di quel mondo. I governi pensano solo alle elezioni e al potere. Dietro a ogni scelta politica c’è sempre l’aspetto economico dell’accaparramento delle ricchezze. Noi non vogliamo che continui così.
Che vengano pure analizzati e corretti i nostri errori, ma dobbiamo esigere che la differenza di stili di vita e di idee venga accolta. Stiamo aiutando delle persone a ritrovare se stesse, a ridare valore alla loro esistenza. Un cammino, questo, che è possibile solo con gente che, gratuitamente, condivide la propria vita con altri.
Il «rinascimento indigeno» in America latina, avvenuto nelle ultime decadi, è una realtà incoraggiante, ma il suo cammino è quasi ovunque irto di difficoltà e di feroci resistenze, per questo vale la pena e anzi è un «dovere», etico e categorico, rimanere e far sì che la storia continui.
Primitivi, selvaggi, feroci. Un tempo erano questi gli aggettivi affibbiati agli Yanomami (e ai popoli indigeni in generale). Poi le cose sono un po’ cambiate. Ma i problemi sono rimasti. Oggi per gli indios il pericolo maggiore non è la sopravvivenza fisica, ma quella culturale.
Boa Vista. Nella filiale del Banco do Brasil sono presenti molte persone. La banca ha soltanto sportelli automatici. Dopo aver prelevato il denaro, veniamo avvicinati da due uomini dalle fattezze indigene. Ci dicono di averci visti nella sede di Hutukara, l’organizzazione yanomami dove in effetti il giorno prima eravamo stati per incontrare il leader Davi Kopenawa1. I due indigeni ci chiedono se possiamo aiutarli con la loro tessera bancomat, del cui utilizzo non sono esperti. Entriamo nel conto che però risulta vuoto. «I soldi non sono ancora arrivati», sentenzia uno di loro. Ci salutiamo.
Come ci spiegherà in seguito Carlo Zacquini, l’uso del bancomat si è (relativamente) diffuso tra gli Yanomami perché un piccolo numero di loro ha un impiego pubblico. Soprattutto come insegnante o come agente di sanità indigena. Nella mente si fanno spazio tanti dubbi. Il primo, forse banale ma crediamo lecito, recita così: nell’incontro tra indios e bianchi ci sono perdenti e vincitori? La storia, passata e attuale, risponde che sono gli indios ad avere perso. Spesso la vita, oggi probabilmente stili esistenziali e cultura.
«Perché disturbare gli indios?», si chiedeva nel lontano 1966 mons. Servilio Conti, allora vescovo di Roraima2. «La domanda è lecita – proseguiva il prelato – e ce la siamo proposta anche noi. Ovviamente verrebbe voglia di ragionare così: se gli indios hanno continuato a vivere indisturbati e felici nel loro regno verde per millenni, perché andare a disturbarli col rischio di infrangere irreparabilmente quell’equilibrio che li ha tenuti in vita fino ai nostri giorni? Perché ostinarsi a penetrare in un ambiente senza essere richiesti, non solo, ma anche col pericolo di rovinare tutto?».
Felicità-infelicità, sviluppo-arretratezza, civilizzato-selvaggio sono concetti in apparenza facilmente definibili, ma in realtà spesso relativi.
«Vado avanti volentieri, pensando all’infelicità di questo popolo, il cui cammino verso la fede e la civiltà è tanto difficile e pieno di incertezze», scriveva Silvano Sabatini nel 1967 a proposito degli Yanomami del fiume Apiaú3 (conosciuti anche come Ninam o Yanam). Già pochi anni dopo il pensiero del missionario però cambia: dà la parola a Gabriel Viriato Raposo, un indio makuxi, e ne sposa le ragioni, molto critiche verso il bianco conquistatore4.
Nei suoi ultimi lavori, Sabatini parla del suo «percorso di trasformazione interiore»5: «Partito per cambiare gli indios – hanno scritto di lui -, è stato da loro cambiato»6.
La missione in riva al Catrimani, sullo sfondo la maloca Yanomami.
Diverso, molto diverso, il percorso di Napoleon Chagnon, antropologo statunitense, che con le sue ricerche tra gli Yanomami (del Venezuela)7 ha costruito la sua fortuna e la sua fama, peraltro assai controversa. Chagnon parla di essi come di un popolo primitivo in stato di guerra perenne («in a state of chronic warfare»); parla di bellicosità, aggressioni, vendette di gruppo. Siamo nel 1968. Nel 2013, 45 anni dopo, l’antropologo manda alle stampe un nuovo libro in cui ribadisce in toto i concetti espressi nella sua prima opera e difende se stesso e il proprio lavoro dalle critiche degli altri antropologi8.
Non si sa quanti siano i popoli indigeni rimasti incontattati. Gli Yanomami sono stati avvicinati per la prima volta dai «bianchi» circa un secolo fa. Oggi alcuni gruppi di loro vivono in «isolamento volontario», altri mantengono con la società circostante relazioni limitate, ma tutti sono in pericolo. Di certo, nel mondo (rimpicciolito) di oggi è quasi impossibile non subire influenze e contaminazioni. Piccole e grandi, spesso nefaste, a volte con effetti contrastanti. Da tempo, sulle terre indigene (non solo del Brasile) si sono posati gli occhi e gli appetiti delle lobbies politiche ed economiche. In questo caso, una risonanza internazionale può trasformarsi in un’inattesa arma di difesa per le popolazioni native. «Gli indios bisogna raccontarli e, raccontandoli, salvarli per imparare come loro a vivere armoniosamente con la natura», ha detto Sebastião Salgado, star della fotografia mondiale, presentando nel 2014 il suo lavoro sugli Yanomami9.
Nelle pagine di questo dossier missionari, volontari, antropologi raccontano del popolo yanomami e della Missione Catrimani. Di quanto sia stato duro difendersi dall’avanzata – fisica e culturale – dei napëpë (cioè dei non-Yanomami e, nello specifico, dei bianchi). Di quanto sia difficile rimanere uno Yanomami (e in generale un indio) nel mondo del 2015. Con o senza bancomat.
Paolo Moiola
Note
(1) Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, Incontro con Davi Kopenawa, Missioni Consolata, novembre 2014.
(2) Servilio Conti, Se potessimo volare!, Missioni Consolata, marzo 1966, pagg. 14-19. Mons. Conti, missionario della Consolata, è andato al riposo eterno nel settembre 2014.
(3) Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apaiú, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967, pag. 79.
(4) Silvano Sabatini (a cura di), Gabriel Viriato Raposo. Ritoo alla maloca, Emi, Bologna, 1972.
(5) Silvano Sabatini, Il prete e l’antropologo, Ediesse, Roma 2011, pag. 65.
(6) Stefano Camerlengo, introduzione a Silvano Sabatini, Yanam. Vita e morte di un popolo, Torino 2008, pag. 4.
(7) Napoleon A. Chagnon, Yanomamö. The Fierce People, Holt, Rinehart and Winston, Usa 1968
(8) Napoleon A. Chagnon, Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö e gli antropologi, il Saggiatore, Milano 2014 (originale: Nobles Savages, 2013).
(9) Sebastião Salgado, The Yanomami: An isolated yet imperiled Amazon tribe, The Washington Post, 25 luglio 2014; Salgado racconta gli Yanomami, La Stampa, 13 luglio 2014.
La maloca
I TESTIMONI
Lo stile nuovo di Catrimani
La cappella non è al centro
di Guglielmo Damioli
Cinquant’anni fa – era l’ottobre del 1965 – i padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri arrivarono tra gli Yanomami del fiume Catrimani. Dopo un periodo di scoperta reciproca, la scelta dei missionari fu quella di costruire una missione con la casa comune degli indigeni, la yano (maloca), al centro. Un cambio di paradigma rivoluzionario. In queste pagine i ricordi di Guglielmo Damioli, che a Catrimani ha trascorso vent’anni.
Da bambino facevo parte di una banda che giocava nei boschi di Cividate Camuno (Brescia), in Val Camonica. La domenica amavamo andare al cinema dell’oratorio a vedere i film di «banditi e indiani». Nel momento in cui la cavalleria irrompeva nel villaggio incendiando le capanne e facendo a pezzi gli indiani con le sciabole, noi gridavamo «arrivano i nostri». Qualche anno dopo, la mia prospettiva cambiò. Quando ero un giovane studente, mi arrivò infatti tra le mani un libro dal titolo Tra gli indios dell’Apiaú. L’autore si chiamava Silvano?Sabatini, un missionario della Consolata. Ricordo la foto di una giovane donna, dentro una canoa, con un bambino in braccio. Aveva un bel volto, capelli neri con frangia, espressione emblematica. Nudità, acqua e foresta. Quel libro rappresentò il mio primo, vero incontro con gli indios. L’immaginario popolato da indiani selvaggi lasciava spazio alla realtà misteriosa degli indios dell’Amazzonia. Mentre frequentavo l’Università Gregoriana tentando di coniugare le verità dei professori con lo spirito rivoluzionario dei documenti conciliari, Silvano Sabatini, già con fama di «indio», venne a invadere il mio mondo. Forse lui aveva solo bisogno di qualcuno che lo ascoltasse, ma io permisi che mi prendesse il cuore. Con la destinazione per Roraima come obiettivo, già focalizzato sull’indigenismo, frequentai la facoltà di missiologia. Con la sete di sapere tutto sugli indios, divorai testi di storia delle religioni, antropologia, dialogo religioso, cultura e simbologia dei popoli delle foreste tropicali, mitologia. In una ricerca affannosa nelle librerie di Roma e nella biblioteca della Gregoriana, venni a conoscenza della mostruosa e vera storia della «scoperta» dell’America.
Damioli Guglielmo che rimase venti anni al Catrimani.
Brandendo la croce e la spada
Solo in Brasile furono massacrati sei milioni di indios, decine di milioni furono sterminati nell’America Latina, fatti a pezzi dalle spade, dai fucili, dalle malattie, dalla fame, dalla schiavitù… sacrificati dal progetto colonialista all’ingordigia insaziabile dei conquistatori, bramosi di metalli preziosi, legni pregiati, terre e perfino di letame. Spagnoli e portoghesi, brandendo la croce e la spada, dopo il diluvio, furono responsabili del maggiore genocidio della storia dell’umanità. Durante i miei anni a Roma, venne pubblicato Ritoo alla maloca (1972) in cui Sabatini raccontava la situazione umiliante e disperata degli indios cristianizzati delle praterie di Roraima. Pochi anni prima (1968) l’antropologo statunitense Napoleon Chagnon, con il suo libro Yanomamö. The Fierce People, aveva rivelato al mondo l’esistenza degli Yanomami, dandone però una descrizione fuorviante: nel cuore dell’Amazzonia esiste un popolo isolato e «primitivo» che racchiude il «gene della guerra». Come non vedere il contrasto tra gli Yanomami di Chagnon e quelli della Missione Catrimani descritti in due filmati – Un giorno tra gli Indios e Indios miei fratelli – di padre Gabriele Soldati, un altro missionario della Consolata? Nel contesto post conciliare, così come la «Commissione Pro Indio» della Prelazia di Roraima già aveva fatto negli anni ‘60, la croce della chiesa missionaria dell’America Latina cercava di svincolarsi dalla spada, dal progetto coloniale e colonialista, tracciando nuove strade per l’evangelizzazione degli indios. In particolare, il Cimi (Consiglio indigenista missionario) fu la locomotiva che condusse la Chiesa cattolica brasiliana in rotta di collisione col potere integrazionista e distruttivo dello stato e con interessi economici e politici a tal punto che la testa di dom Aldo Mongiano, vescovo di Roraima, sarà posta come «premio» in una radio locale di Boa Vista.
«Il Dio dei bianchi è cattivo»
Con questo bagaglio culturale nell’ottobre del 1979 arrivai a Roraima, alla missione di Surumú, un centro di formazione di leader di indios delle praterie e delle montagne. Indigeni che, dopo centinaia di anni di convivenza col mondo «civilizzato», stavano perdendo la lingua, la religione, l’identità e le terre, una realtà che portò Viriato Makuxí, protagonista del libro di Sabatini, a concludere: «… il Dio dei bianchi è cattivo».
Nel gennaio dell’81, dopo un viaggio di 300 chilometri lungo la strada Br 174 (costata la vita a padre Calleri e la decimazione degli indios Waimiris), e la Br 210 (Perimetral Norte), recentemente costruita dal governo militare, attraversando foreste già devastate da coloni e innumerevoli fiumi e fiumiciattoli (igarapé), al tramonto arrivai alla Missione Catrimani, mia nuova casa per i successivi 20 anni. Anche se psicologicamente preparato, fui invaso da stupore, emozione e allegria. Mi vidi accerchiato da volti allegri e ciarlieri, pitturati di rosso, con capelli neri a caschetto, bastoncini e penne variopinte infilate nel setto nasale, nelle orecchie e nelle labbra; da uomini col labbro inferiore gonfio per il tabacco, vestiti con un cordoncino di cotone, in piedi, appoggiati ad archi e frecce oltre misura; da donne, con piccoli perizomi rossi di cotone, sedute per terra con le gambe incrociate, bambini attaccati al seno e sostenuti dalla tipoia (striscia di corteccia messa a tracolla e pitturata di rosso, ndr). Alla sera, partecipai alla prima celebrazione. La cappella, fatta di tavole di legno, ampia 1 x 4 metri, annessa a un deposito, era certamente la più piccola del mondo: una presenza discreta, una semente nel cuore del mondo yanomami. Padre Tullio Martinelli presiedeva con una piccola stola. Era presente anche fratel Carlo Zacquini con minuscoli calzoncini neri, a torso nudo, con la schiena coperta di sangue raggrumato, frutto di migliaia de punzecchiature di insetti.
Non ricordo i testi biblici di quella messa perché nella mia testa martellava l’inizio del Vangelo di Giovanni: «…e la parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi…».
Al mattino seguente visitammo la comunità dei Wakatha-u-theri (che significa armadillo gigante-fiume-abitanti). Entrammo nella loro yano (maloca), la grande casa comune, una enorme struttura conica con copertura di foglie di ubim (una specie di palma, ndr), con pali e liane. All’interno un grande spazio vuoto illuminato dall’alto da una piccola apertura e, alla periferia, il circolo dei fuochi accesi con amache di cotone stese a triangolo. Un bambino di circa sei anni, Xaí, con un sorriso accattivante, mi prense la mano e mi condusse, indicando un fuoco e dicendo «Wakè a», e io risposi sorridendo «Uakeà, fogo». A causa del mio petto carenato (gabbia toracica con protrusione anteriore dello sterno, ndr), in poco tempo mi battezzarono: Hewësi Par+ki, ossia «pipistrello petto», poi abbrevviato in Hewësi. Divenni così membro di quella famiglia, pronto, come ogni «buon yanomami», a morire o uccidere per difendere il gruppo.
Con profonda soddisfazione mi rendevo conto di testimoniare uno stile nuovo di missione: una missione senza la cappella al centro. Il centro della Missione Catrimani era la yano, la maloca, simbolo della sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, un popolo, con lingua, identità e terra. Oggi, guardando indietro, posso dire che tutti i missionari della Consolata che hanno lavorato anni alla missione Catrimani – dai fondatori (Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi) ai successori (Carlo Zacquini, Giovanni Saffirio, Tullio Martinelli, André Ribeiro, Silvano Sabatini, le suore della Consolata, le laiche locali, italiane e del Cimi) fino a noi – battezzati con un nome yanomami e tornati bambini per la voglia di imparare, si sono lasciati condurre per mano sui sentirneri intricati della foresta, sulle spumeggianti rapide dei fiumi, nei segreti della lingua, nel mitico mondo dello sciamanesimo, della spiritualità e della cultura yanomami.
Una breccia mortale: «napë pë mohoti»
Per 7 anni il nostro lavoro principale fu quello di salvare vite. La costruzione della Perimetrale Norte, aveva squarciato la foresta e aperto una breccia fatale nell’isolamento dei gruppi yanomami. Sospesa a metà degli anni ’70, le centinaia di lavoratori se ne andarono lasciando una eredità di malattie mortali per popolazioni con bassa resistenza. Malattie che sfuggivano al potere di cura degli sciamani (xapuripë): morbillo, malaria, raffreddori, infezioni intestinali, verminosi, tubercolosi. Un’epidemia di morbillo, nonostante il pronto intervento di padre Saffirio e fratel Carlo, aveva già decimato i gruppi yanomami dell’alto Catrimani e del fiume Lobo de Almada. Quante volte, dopo una corsa affannata di un giorno o una notte, con bambini arsi dalla febbre, arrivavo all’ospedaletto col piccolo morto… Tra i disperati pianti funebri, accovacciato con la testa sulle ginocchia, piangendo sussurravo: «O mio Dio, non riusciamo a salvarli tutti…».
Nell’87 gruppi isolati di cercatori d’oro illegali (garimpeiros) cominciarono a invadere la terra yanomami. Con un gruppo di indios e agenti della Funai e della polizia federale, partecipai a una spedizione a un affluente del fiume Apiaú allo scopo di localizzare e distruggere un garimpo. Vidi resti di accampamenti di indios, baracche di legno, foresta squarciata, ruscelli sviscerati, grandi buche con acqua stagnante, nugoli di moscerini, uomini seminudi, coperti di fango e con fucili in mano, bottiglie di cachaça, taniche di mercurio.
A metà del 1987, un massacro di indios nella regione del fiume Paapiú (a circa 300 chilometri da Catrimani), divulgato a livello nazionale, rivelò l’esistenza di oro nelle terre yanomami scatenando la corsa al prezioso metallo. Politici e giornali di Roraima avevano nel frattempo iniziato una durissima campagna contro i missionari, accusati di organizzare la resistenza armata degli indios. Così, nell’agosto del 1987, sulla pista in terra battuta della missione, atterrarono due piccoli aerei: 4 agenti della polizia federale armati di mitragliatrici e 2 agenti della Funai portavano l’ordine di espulsione dei missionari. Furono 7 ore di agonia e tensione, dialogando col vescovo via radio sotto il tiro delle armi dei federali, accerchiati da un nugolo di indios inquieti armati di archi e frecce. Col cuore a pezzi, dopo avere tranquillizzato gli indios, salii sull’aereo con la polizia che mi avrebbe portato all’aeroporto di Boa Vista. Infine, dopo 6 giorni, inviammo un aereo alla missione per recuperare l’infermiera suor Florença, ultimo membro dell’equipe missionaria, che arriva a Boa Vista in stato di shock dopo vari giorni in domicilio coatto sotto il tiro delle armi della polizia militare che occupava la missione.
I numeri di quella febbre dell’oro sono spaventosi: 5 anni di furia, 40.000 cercatori d’oro dentro le terre yanomami, 140 piste clandestine dentro la foresta, tonnellate di oro vendute di contrabbando, gruppi di indios yanomami isolati sterminati, 2.000 Yanomami morti, il 20% della popolazione. In esilio forzato, chiamato dalle suore infermiere, incontrai Yanomami di tutte le età e di tutte le tribù negli ospedali di Boa Vista, trasportati da agenti del governo o da piloti misericordiosi, con ferite orribili di armi da fuoco e di coltellacci, con gli occhi spenti, in preda al panico, in terra nemica, senza saper dire una parola. La luce si accendeva quando, sorridendo, sussurravo parole yanomae. Tra singhiozzi, tutti dicevano la stessa cosa «napëpë mohoti»: i bianchi sono irresponsabili, i bianchi sono cattivi.
Sciamano che cura un malato.
Autodifesa: terra, lingua, identità
Alla fine di novembre del 1988 ritornammo alla missione con l’arduo compito di ricomporre l’equilibrio socio-culturale scosso dalla convivenza degli indios con garimpeiros e agenti del governo. Convivemmo mesi con gli agenti del governo. Garimpeiros disperati arrivavano alla missione alla ricerca di medicine, invadevano le maloche alla ricerca di cibo. Nel frattempo (ottobre 1988) la nuova Costituzione brasiliana aveva liberato gli indios dalla integração e dalla tutela esclusiva della Funai, garantendo il diritto degli indigeni sulle terre necessarie per la sopravvivenza fisica e culturale, nonché una salute e una educazione «differenziata».
La missione, rivelata la sua fragilità durante l’evento dell’espulsione, davanti al nuovo scenario costituzionale e alla rottura dell’isolamento col conseguente scontro disuguale di culture, era chiamata a una nuova sfida: preparare gli Yanomami all’autodifesa.
Dal ’90 al 2000, con una equipe missionaria rinvigorita dall’arrivo delle suore della Consolata e di laici del Cimi, per rinforzare la maloca e il progetto yanomami di vita, iniziammo a mettere in pratica tre azioni strategiche: impiantare la etnoalfabetizzazione, insegnando a leggere e a scrivere in lingua yanomae e producendo letteratura bilingue; organizzare assemblee yanomami riunendo tutte le tribù attorno a un obiettivo comune, la difesa della terra e dell’identità; favorire l’alleanza con gli indios delle praterie e delle montagne già organizzati nel Cir («Consiglio indigeno di Roraima»).
In pochi mesi i giovani yanomami si impossessarono dei segreti della scrittura, facendo disegni, registrando la storia, raccontando miti, scrivendo lettere alle autorità, inviti, informazioni… La scrittura permise la formazione di professori e di infermieri che da allora iniziarono a raggiungere ogni villaggio.
L’introduzione della scrittura in un popolo a tradizione esclusivamente orale ha rappresentato un cambio epocale, con un’infinità di effetti collaterali da integrare in sempre nuove sintesi. Il criterio della gradualità ha aiutato Yanomami e missionari a mantenere l’equilibrio etnico e garantire i tre pilastri del progetto di vita e di futuro: terra, lingua, identità. Oggi gli Yanomami stanno sempre più prendendo in mano le redini del proprio destino, costruendo nuovi capitoli della loro storia, tocca a noi, come compagni di viaggio, lasciarci condurre per mano, non piú da un bambino ma da un popolo.
Guglielmo Damioli (Hewësi Par+ki)
Dall’incontro alla condivisione
I nostri primi cinquant’anni
di Corrado Dalmonego
In tanti hanno risalito i fiumi penetrando nei territori indigeni. In pochi non si sono comportati da invasori. Per Yanomami e missionari orizzonti e logiche sono diversi, ma il dialogo e l’incontro sono possibili e fruttiferi. L’importante è la condivisione della quotidianità. Una prassi che soltanto i missionari hanno seguito, come dimostrano i 50 anni della Missione Catrimani.
«Molto tempo fa, quando noi Yanomami non conoscevamo i bianchi, quando io ero un bambino di circa 10 anni, i padri risalirono il fiume Catrimani […]. Loro fecero conoscenza degli Yanomami e divennero amici. […]». Con queste parole, Davi Kopenawa, leader e sciamano yanomami1, inizia a narrare una vicenda di fatti e vite lunga cinquant’anni: la storia della Missione Catrimani.
Padre Corrado Dalmonego.
Esotici, strani, misteriosi
Sfogliando alcuni articoli apparsi su Missioni Consolata negli anni Cinquanta e Sessanta, qualche documento scritto dai primi missionari arrivati tra gli indios e ascoltando le testimonianze di anziani yanomami riguardanti gli incontri con i missionari, si possono notare alcune caratteristiche che contraddistinguono gli inizi di questa missione. Non sono solo elementi di un passato sepolto, ma aspetti che ci comunicano qualcosa dell’oggi della missione e in generale di ogni realtà missionaria.
Primo: l’incontro dei missionari della Consolata con gli Yanomami è stato il risultato di una ricerca reciproca. Il padre Domenico Fiorina – allora superiore generale dell’Istituto – aveva già indicato una direzione ai suoi: «Verso Ovest esistono vaste zone inesplorate, difficili a penetrarsi, dove vivono gli indios bravos – bravos significa selvaggi […]. È alla conversione di questi indios che i nostri missionari dedicheranno le loro migliori energie»2. Nel frattempo, gli Yanomami – che già avevano avuto diversi contatti con non-indigeni – seguivano le tracce lasciate dai vari gruppi di bianchi che risalivano i fiumi addentrandosi nel territorio da loro abitato.
Secondo: questo trovarsi – seppure segnato da concezioni molto diverse – ha richiesto e messo in luce una disponibilità all’incontro. La descrizione che padre Silvestri fa delle sue visite agli Yanomami del fiume Apiaú, all’inizio degli anni Cinquanta3, dimostrano che – nonostante l’iniziale timore reciproco e la difficoltà di comunicazione – il missionario era accolto e i sospetti lasciavano presto spazio a gesti di amicizia. Gesti come il saluto con pacche sul petto, che inizialmente aveva intimorito il missionario; la complicità in uno scherzo, originato da un apparentemente minaccioso arco teso; la condivisione di alimenti o dell’amaca, quando un indigeno non pensa due volte – in una notte di pioggia – a infilarsi nell’amaca occupata dal religioso, che stende la coperta per proteggere dal freddo della notte il suo inatteso ospite. Dodici anni dopo, nel 1965, sul fiume Catrimani, anche padre Calleri si metteva in marcia, per visitare i villaggi yanomami più lontani, ricevendo la stessa accoglienza: un cammino aperto nella foresta, una guida sicura, una comunità che riceve lo straniero.
Terzo: l’incontro lasciava un senso di estraneità. L’altro, diverso, si presentava sempre come esotico, ma questa impressione era lenita, dal lato dei missionari, dalla coscienza che si trattava di una sensazione reciproca: padre Tullio Martinelli scrive che certamente, agli occhi degli indigeni, i missionari dovevano suscitare curiosità, apparendo esotici, strani e misteriosi4. Dal lato degli Yanomami, la loro visione del mondo prevedeva uno spazio che poteva essere occupato dall’altro, dal diverso, che rappresentava sempre la possibilità di arricchimento, seppur conservando un aspetto pericoloso5.
Con questi presupposti, la missione si è configurata come un intreccio di relazioni che hanno cercato di essere diverse da quelle stabilite fra gli indigeni e altre organizzazioni di contatto della società circostante, nonostante non mancassero ambiguità e fossero portate avanti da persone che potevano risentire dello spirito etnocentrico dominante all’epoca.
Padre Bindo Meldolesi in un viaggio dei primi anna Sessanta.
Invasori e missionari
Un aspetto fondamentale che ha caratterizzato la «nuova evangelizzazione», pensata dai missionari che, alla metà degli anni Sessanta, si riunivano nella «Commissione Pro-Indio»6 della Prelazia di Roraima, e che ancora oggi costituisce un aspetto rilevante della Missione Catrimani, è la permanenza. Oggi, continuando le aggressioni del passato, i popoli indigeni sono espropriati delle loro terre e sono forzati (da progetti sostenuti dall’ideologia dello «sviluppo») a popolare le periferie delle città. Contemporaneamente, le organizzazioni indigeniste e missionarie sono costrette – per la esiguità di risorse e la scarsità di personale disposto a condizioni di vita poco confortevoli – a concentrare le loro presenze nei centri urbani e limitarsi alla realizzazione di azioni sporadiche presso le popolazioni indigene. In questo panorama, la presenza stabile della Missione Catrimani si mostra ancora più significativa.
Questa presenza era già stata difesa, con le unghie e coi denti, da padre Calleri, nonostante la maggioranza dei missionari della Prelazia di Roraima, fossero convinti che le esigue forze missionarie e l’estensione del territorio imponessero la pratica della «desobriga» – le visite stagionali per l’amministrazione dei sacramenti – come unica possibile forma di azione evangelizzatrice.
La scelta dei missionari di vivere con loro è stata riconosciuta dagli Yanomami come una differenza fondamentale fra i bianchi che risalivano il fiume, durante l’epoca delle piogge, per estrarre risorse della foresta, e i padri che chiedevano aiuto e collaborazione per aprire una pista di atterraggio, costruire una casa, coltivare un campo, imparare la lingua della gente.
Ancora padre Bindo Meldolesi sul fiume Catrimani.
La prossimitànel quotidiano
La presenza stabile accanto alle comunità Yanomami ha reso possibile ciò che le visite saltuarie o l’attuazione di alcune azioni puntuali non avrebbero potuto permettere. Solo la prossimità nel quotidiano rende possibile la costruzione di relazioni di fiducia e convivialità che – all’inizio della presenza missionaria, come oggi – anelano a essere diverse da quelle stabilite dagli Yanomami con altre istituzioni. Quando parliamo del quotidiano, ci riferiamo a un’interazione che non si limita a momenti sporadici come assemblee di rappresentanti delle comunità indigene cui sono invitati non-indigeni, corsi per maestri yanomami o visite per la realizzazione di azioni di salute.
In vari decenni, missionari e indigeni hanno affrontato insieme fatti tragici come la costruzione di una strada che ha provocato la decimazione delle comunità a causa delle epidemie, il genocidio conseguente all’invasione di migliaia di garimpeiros, l’impatto ambientale e la violenza portati avanti da progetti lontani dalle reali necessità di un popolo. Sebbene tali minacce siano sempre in agguato, il quotidiano della missione è stato anche l’affrontare insieme camminate, cacciare e pescare sul fiume, soccorrere un ammalato, raccogliere frutti in foresta, condividere gli alimenti e partecipare alla danza di entrata degli ospiti in una festa o ad un rituale di cura.
Gli Yanomami hanno accolto nel loro quotidiano i missionari che, per quanto riuscissero, hanno cercato di farsi vicini. La presenza e l’accompagnamento nelle diverse attività, anche se possono sembrare poco efficaci – soprattutto se si tratta di una spedizione di caccia o di una cerimonia rituale – sono molto apprezzate da loro.
Incontri e dialoghi (da orizzonti diversi)
Su questa prossimità e condivisione, la missione si è costruita: anche se le relazioni possono essere segnate da equivoci e mutue incomprensioni, è possibile stabilire un dialogo e arrivare a un incontro partendo ciascuno dai propri orizzonti e dalla propria logica.
Se i missionari erano interessati alla «cultura materiale» degli indigeni e osservavano con curiosità gli utensili da loro confezionati, allo stesso tempo padre Calleri era commosso dalla fatica che gli Yanomami facevano nello svolgere le attività produttive: sofferenza che egli cercava di alleviare foendo generosamente oggetti industriali (attrezzi da taglio, ami da pesca, e altro).
Se per i missionari era questione di emergenza prendersi cura della salute degli indigeni, quando l’invasione del loro territorio era accompagnata da epidemie letali, per gli Yanomami il religioso che affrontava le rapide dei fiumi e l’asprezza dei sentirneri nella foresta per soccorrere i malati e sfamare i sopravvissuti resi fragili dalle malattie, si comportava come un curatore e un parente: un papà.
Se l’infermiera della missione dedicava il massimo sforzo alla cura efficace di un paziente, l’ammalato che si ristabiliva dava più importanza alle attenzioni ricevute e al fatto di essere stato accolto e sfamato all’interno della casa «di assi», che non alla patologia da cui era stato curato.
Se la demarcazione del territorio indigeno, per i missionari, era la condizione di sopravvivenza fisica e culturale degli Yanomami, per questi ultimi rappresentava la conservazione dell’equilibrio di un socio-cosmo abitato da molti esseri visibili o invisibili.
Se per i missionari il progetto di «educazione globale» e lo studio della lingua portoghese erano gli strumenti che dovevano essere messi nelle mani degli Yanomami affinché potessero difendersi dalle minacce sempre più pressanti della società circostante, per gli Yanomami l’apprendistato dei modi di vita dei bianchi e la convivenza costituivano un ampliamento delle possibilità di esistenza e un sistema di relazioni desiderato.
Nonostante le prospettive siano distanti e le letture degli avvenimenti siano diverse, la condivisione della storia ha reso e rende possibile un dialogo nella pratica quotidianità. I missionari sono stati riconosciuti come «quasi parenti», il cui comportamento, in alcuni casi, si approssima ai criteri adeguati di socievolezza. Sono persone che possono essere istruite nella lingua e nei costumi, che sanno prendersi cura, accompagnano, piangono i defunti senza pronunciarne il nome – per non risvegliare la tristezza e il risentimento per la perdita recente – o festeggiano una nascita.
Padre Silvano Sabatini che ha dedicato la vita alla causa degli Yanomami.
Il segreto sta nella condivisione
Il cammino della missione è stato percorso con grande dispendio di energia. Dai due lati. Non essendoci l’imposizione di un programma predefinito, si configura come il sentiero tracciato dal Signore, lungo il quale siamo guidati dallo Spirito a prestare attenzione, aprendo gli occhi e entrando – quando accolti – in un mondo differente, con atteggiamenti di condivisione:
– togliendo le scarpe per camminare in sentieri sconosciuti – fra spine, zone allagate, liane – per incontrare la destinazione indicata da Dio nella storia di questo popolo;
– imparando un’altra lingua – che questo popolo ci insegna con grande disponibilità e allegria – per poter ascoltare gli appelli e i sogni e tentare di balbettare qualche risposta;
– cercando di conoscere – condotti dalle nostre guide – la foresta, i fiumi, le montagne e tutti gli esseri che vi abitano, perché questo è il mondo in cui vivono i nostri fratelli e perché ogni messaggio – anche se trascendente – ha senso solo se dice qualcosa a partire da un mondo conosciuto;
– apprezzando cibi diversi, perché è consumando insieme un abbondante frullato di banana – alle volte… troppo abbondante -, un pezzo di focaccia di manioca cotta sulla brace e una porzione di tapiro affumicato, che si costruisce la familiarità e lentamente la fiducia;
– imparando a stendersi nell’amaca, a caricarsela sulle spalle per accompagnare le persone nei loro lunghi spostamenti e appenderla, un’altra volta, fra due alberi o in un’abitazione comunitaria dove gli Yanomami si riuniscono per celebrare, piangere un morto o discutere sulle decisioni prese lontano, da estranei che minacciano la loro vita.
È attraverso questi gesti di completa condivisione che si costruisce la missione. Le persone vengono cambiate dall’incontro. Si conciliano speranze, sogni e aspettative, con un messaggio che i missionari – fragili messaggeri – scoprono insieme agli Yanomami: un messaggio che è vita contro i progetti di morte.
Suor Florënça Lindey Águida
Avvicinarsi e rimanere
Concludiamo con alcune parole che Davi Kopenawa diceva ai missionari della Consolata riuniti in assemblea nel luglio 2012: «Io capisco che – essendo voi religiosi e conoscendo Dio – Lui vi ha mandati per difendere la vita del nostro popolo e del pianeta. So che, da molti anni, la Chiesa si è posta lungo il sentiero dell’incontro con i popoli indigeni. La Chiesa sa che l’indigeno non è un “animale” [mentre settori della società lo trattano come fosse tale, ndr], sa che è persona, che è stato creato dall’autorità del cielo, così come sono stati creati i non-indigeni. Il compito della Chiesa è di non lasciare far guerre, di portare la pace, mentre, dall’altro lato, esistono nemici molto forti, alleati a politici, che vogliono impossessarsi delle ricchezze della Terra. La Chiesa deve essere differente, pensare come pensa Dio: desiderare la nostra vita! Voi avvicinatevi, con attitudine di amicizia e simpatia, senza la diffidenza di chi dice che l’indio deve rimanere lontano, al suo posto!».
Queste parole ci sembrano in sintonia con l’ultima enciclica di papa Francesco e ci danno lo stimolo a continuare la missione per… altri cinquant’anni o, come ci diceva proprio quest’anno lo stesso Davi, sottolineando l’importanza del lavoro svolto alla Missione Catrimani, «rimanendo là fino alla fine del mondo: io non so quando questo mondo terminerà, ma so che per noi questo è importante».
Corrado Dalmonego
(Hewësi Ihurupë)
Note
(1) Su Davi Kopenawa si legga: Paolo Moiola, Dalla montagna del vento, in Missioni Consolata, novembre 2014.
(2) Domenico Fiorina, Le Missioni del Rio Branco, in Missioni Consolata, n. 19, p. 282-285, 1951.
(3) Tullio Martinelli, Ho visto gli indios Jaranís, in Missioni Consolata, p. 14-20, febbraio 1964.
(4) Riccardo Silvestri, Una spedizione tra gli Indios nelle foreste del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 19, p. 224-234, 1953; Il padre Silvestri ritorna fra gli Indios del Rio Apiaù, in Missioni Consolata, n. 5, p. 58-63, marzo 1954.
(5) Bindo Meldolesi, Tra gli Apiaù, in Missioni Consolata, n. 15, p. 35-42, agosto 1960; Il campo è pronto, in Missioni Consolata, n. 7-8, p. 35-42, luglio-agosto 1966.
(6) La Commissione fu una pastorale indigenista ante-litteram. Durò soltanto pochi anni e radunava alcuni missionari della Consolata che lavoravano con i popoli indigeni. Fu molto significativa perché all’epoca ancora non esistevano né il Cimi né altre organizzazioni della Chiesa o della società civile.
La parola agli Yanomami | Esiste una strada per la convivenza? di Silvia Zaccaria | Sopravviveranno alle contaminazioni? di Daniele Romeo | Gli amici (il Co.Ro.) di Carlo Miglietta
Dieci anni tra gli Yanomami
Circondati dal mondo
di Laurindo Lazzaretti
Catrimani è stato un centro di resistenza contro gli invasori e contro le politiche governative. Negli anni alcune cose sono cambiate: presso alcuni gruppi di Yanomami sono arrivati vestiti, fucili, barche a motore, soldi. Cambiamenti grandi, rapidi e profondi stanno avvenendo senza lasciare il tempo agli indigeni di discernere ciò che è meglio. Ricordi, riflessioni e preoccupazioni del primo brasiliano che ha lavorato nella Missione Catrimani. Per dieci intensissimi anni.
Prima dell’arrivo a Roraima il mio contatto con i popoli indigeni era stato minimo1. Porto con me un’immagine dell’infanzia in cui i Kaingang2 del Rio Grande do Sul (il mio stato di nascita) passavano per la strada in gruppi, recandosi in città a vendere i loro prodotti artigianali. Al ritorno si accampavano ai bordo del torrente e da lontano si ascoltavano i loro canti e le conversazioni. Il più delle volte, ubriachi, finivano per litigare e per fare a botte. Non sapevo né capivo che la loro terra era stata invasa e presa in mano da coloni venuti da diverse regioni. In pochissimi anni questo gruppo scomparve e la sua terra, che era ricca di un legno tipico della regione, fu completamente disboscata e occupata da 1.200 famiglie. Parecchi anni dopo, durante il noviziato in Colombia, ebbi l’opportunità di conoscere da vicino il lavoro dell’equipe missionaria di Toribio e tramite essa la realtà indigena della regione del Cauca (che non è diversa da quella della maggior parte dei popoli indigeni delle Americhe).
A favore della vita
L’arrivo a Catrimani e l’incontro con gli Yanomami fu un punto di svolta nella mia vita. Tutto ciò che avevo studiato, udito e visto fino ad allora venne azzerato, mostrandomi la necessità di ricominciare da capo. E, in effetti, iniziò un processo di conversione che mi ricordò l’esperienza della caduta da cavallo di san Paolo: diventare cieco, guarire e infine vedere le cose con occhi diversi, con un altro cuore e con motivazioni molto più profonde che non fossero soltanto quelle emotive. Come, per esempio, era quella di vedere «l’indigeno come buon selvaggio». Quello che più mi ha colpito durante i dieci anni – dal 2001 al 2011 – trascorsi nella Missione Catrimani è stato sperimentare il Dio della vita accanto a un popolo con lingua, costumi, tradizioni, spiritualità, mistica e organizzazione sociale completamente diversi da quelli che avevo vissuto fino ad allora.
Ricevetti un’enorme eredità dai missionari, la maggior parte di loro italiani, rimasti per molti anni tra gli Yanomami che essi avevano fatto conoscere al mondo, a dispetto delle molte polemiche – all’interno della chiesa e dell’istituto – per un impegno più a favore della vita che della dottrina e della evangelizzazione.
Primo missionario brasiliano a rimanere così a lungo tra gli?Yanomami di quella missione, con una nuova equipe e meno risorse finanziarie rispetto a coloro che ci avevano preceduto, nei dieci anni trascorsi a Catrimani assistetti alle grandi sfide cui la missione fu chiamata. Qui di seguito ne ricorderò qualcuna.
Catrimani, centro di resistenza
Verso la metà degli anni Settanta i governi brasiliani promossero la costruzione della Perimetral norte o Br-210, che causò molti disastri nelle popolazioni indigene e tra gli Yanomami in particolare. Così facendo favorirono l’ingresso di migliaia di minatori (garimpeiros) nei territori degli Yanomami e promossero lo sfruttamento delle ricchezze minerarie provocando un genocidio degli indigeni, attraverso epidemie e scontri di ogni genere. Inoltre, a causa della strada, sempre più agricoltori iniziarono ad avanzare sulle terre indigene. In questo contesto, insieme con gli Yanomami la Missione Catrimani divenne un centro di resistenza alle invasioni e di critica alle politiche poste in essere dalle autorità brasiliane.
Vari anni dopo, proprio nel periodo in cui ero a Catrimani, Brasilia cambiò strategia chiedendo alla nostra missione di seguire l’attuazione di alcuni programmi di salute. Il governo esigeva però risultati immediati: tempestiva esecuzione di tutti i programmi, riduzione della mortalità, soprattutto di quella infantile. Non dava seguito ai suoi obblighi, ma tuttavia esigeva e faceva pressioni. Attraverso questi programmi la missione venne «invasa» da tecnici sanitari che però non provavano alcun interesse per la causa indigena e nessuna comunione d’intenti con la chiesa e con l’equipe missionaria. A causa del cambio delle equipe di lavoro e del trasporto di indigeni in città triplicò il viavai sia per la strada (finché essa funzionò) che per via aerea. I gerenti di questo progetto, che stavano a Boa Vista, dialogavano poco con l’equipe e i missionari erano chiamati in causa per cose che non competevano loro o per le quali non erano preparati. I missionari stavano lì per la formazione sanitaria, l’istruzione, l’accompagnamento, per stabilire un dialogo interreligioso e interculturale con le comunità yanomami. Non erano lì per soddisfare le esigenze strutturali e logistiche del programma di governo e dei tecnici che si tornavano a brevi intervalli. L’equipe missionaria era vista come «manodopera a basso costo», e ovviamente questo causò molti conflitti, malessere nelle persone e di conseguenza nel lavoro missionario.
Il denaro e le sue conseguenze
Al primo incontro a cui partecipai alla missione rimasi scioccato. Alcuni giovani che erano stati preparati in microscopia e come agenti di salute e che fornivano un servizio gratuito alle loro comunità si confrontavano con i missionari affermando che, se non fossero stati pagati, non avrebbero più svolto questi servizi. Molto era stato investito nella loro preparazione e, soprattutto, sulla prospettiva della gratuità. Ma ora veniva prevista una remunerazione per questi giovani e in seguito essi avrebbero lavorato con un contratto formale. Più tardi lo stesso sarebbe accaduto con gli insegnanti. Il significato e il mutamento che i soldi nelle mani di questi giovani produssero furono (sono) molto profondi. Iniziarono a prendere il posto degli anziani nelle relazioni con i non indigeni e nel cercare di soddisfare alcuni bisogni fondamentali della comunità (machete, asce, reti, nasse, tabacco, sale, …); non era (è) più necessario essere un buon cacciatore, pescatore e raccoglitore per sposarsi, ma avere un salario. Non accettavano più di andare in città con gli stessi pantaloncini rossi, di serie, foiti dalla missione. Ora volevano comprare jeans e scarpe firmate. Con il denaro arrivò il motore di coda sulle barche che facilitava la vita sul fiume e permetteva di andare a pescare più lontano. Entrò il fucile a sostituire l’arco e le frecce3, le reti da pesca al posto dei metodi tradizionali.
Strade, alcol e lavoro schiavo
Il 31 dicembre 2002 ci fu l’ultimo viaggio lungo un tratto di strada che dalla missione proseguiva per 110 chilometri. Poi la foresta riprese il sopravvento. Lungo questo tratto c’erano almeno quattro villaggi (come le aldeias Ajarai I e II) che erano seguiti, se non in modo permanente, almeno quando i missionari in transito si fermavano per uno scambio e un accompagnamento. Con l’abbandono della strada divenne impossibile l’accompagnamento da Catrimani e d’altra parte non si riuscì a formare un gruppo permanente che potesse seguire quelle comunità. Esse così si avvicinarono al villaggio di Sao José e alla città di Caracaraí. Vari fazendeiros occuparono illegalmente la terra indigena. Per quelle comunità fu un periodo davvero disastroso. Si intensificarono le incursioni nei centri urbani e si moltiplicarono i problemi a causa dell’alcol che era venduto dai mercanti della regione e del lavoro semischiavo praticato nelle aziende agricole che erano sorte all’interno della terra indigena.
Le «cose» come fattore disgregante
Al centro della missione c’era una piccola casa che per lungo tempo servì come luogo di scambio con gli Yanomami. Artigianato e prodotti coltivati dagli Yanomami erano scambiati con manufatti dei missionari, ottenuti questi tramite la vendita di prodotti artigianali o come aiuti (avuti per i progetti o da amici e familiari). Questa piccola attività commerciale non era però del tutto benefica per la comunità influenzando i comportamenti di missionari e indigeni. La nuova conformazione della équipe della missione, la diminuzione dei progetti, il costo del viaggio aereo e gli scambi disparati ne causarono la cessazione. Poi il desiderio di comprare cose che non erano nelle opzioni della missione fece sì che gli indigeni scegliessero di acquistare i loro prodotti in città, pagando il trasporto.
Sembra banale, ma questo fatto cambiò molto le relazioni tra gli indigeni, dato che alcuni avevano la possibilità di acquistare beni e distribuirli, mentre altri non potevano. Ma cambiò anche l’atteggiamento verso i membri dell’équipe missionaria.
Il fattore economico era dunque divenuto il nuovo modo di «integrare gli indigeni nella società nazionale» dimenticando specificità e differenze. Pertanto, grandi, rapidi e profondi cambiamenti stavano avvenendo senza dare agli indigeni il tempo di discernere ciò che fosse meglio. Negli anni questa tendenza si è accentuata, con l’entrata di altri programmi del governo, in futuro i cambiamenti potrebbero essere ancora più grandi e probabilmente più disastrosi.
Attrazioni fatali?
Al termine dei primi 40 anni di missione tra gli Yanomami vedemmo come la città stesse incantando gli Yanomami. Oggi, dopo 50 anni, possiamo vedere come molti di essi vivono nei centri urbani, chiedono di studiare e laurearsi.
La politica economica del paese sta costringendo allo spopolamento delle zone intee per fare spazio alla produzione di materie prime per l’esportazione. I popoli indigeni e le loro terre sono nel mirino di questa politica e il primo obiettivo è quello di smantellare i loro diritti costituzionalmente garantiti.
Laurindo Lazzaretti
Note
(1) Su Laurindo Lazzaretti si legga: Paolo Moiola, Labiodiversità è indigena, dossier MC, maggio 2015.
(2) Oggi gli indigeni kaingang vivono in condizioni precarie in quattro stati brasiliani. Si stimano essere circa 32.000 persone.
(3) Secondo le stime di padre Dalmonego, nelle comunità yanomami del Catrimani ci sarebbero una dozzina di fucili su una popolazione di circa 900 persone.
Incontro con Carlo Zacquini
«Io sono Hokosi»
di Daniele Romeo
Una vita trascorsa tra gli Yanomami, fratel Carlo Zacquini (Hokosi, per gli indigeni) racconta nascita, storia e problemi della Missione Catrimani. Con un’avvertenza finale: per gli indios i pericoli sono più che mai attuali.
Incontro fratel Carlo Zacquini1 al Centro di documentazione indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista. Siamo in gennaio, piena estate a Roraima, e le giornate nella casa regionale dei missionari iniziano molto presto: celebrazione della messa, colazione e poi ognuno alle proprie mansioni quotidiane. Con fratel Carlo Zacquini trascorro due giorni nelle stanze che, in via provvisoria, racchiudono le testimonianze e i materiali raccolti da lui e da numerosi confratelli in cinque decenni di vita passata tra gli indigeni yanomami. Seduto davanti al suo computer, sul quale ha digitalizzato migliaia di immagini e documenti, mi racconta i primi anni della presenza dei missionari a Catrimani.
Anni Cinquanta: i primi viaggi
«Padre Riccardo Silvestri è stato il primo missionario della Consolata ad avere contatti con gli Yanomami lungo il fiume Apiaú. Morì tragicamente nelle acque del Rio Branco nel 1957. Padre Bindo Meldolesi seguì le orme di Silvestri e fece parecchi viaggi verso il Rio Apiaú e il Rio Ajaraní. L’accesso era sempre fluviale, con un piccolo motore fuoribordo e i remi. Padre Meldolesi voleva fermarsi più a lungo e per questo cominciò subito a realizzare una piccola piantagione con a fianco una tettornia di foglie di palma. Qui coltivava alcune piante per poter alimentarsi: manioca, banani, papaya e trascorreva in foresta un paio di mesi per poi tornare a Boa Vista».
«Quando tornava dopo qualche mese, la foresta aveva già invaso la piantagione, gli animali avevano mangiato i tuberi di manioca e, a volte, riusciva ancora a trovare qualche banana o papaia. Doveva ricominciare quasi tutto da capo».
«Questa modalità di presenza era proseguita per diversi anni senza passi decisivi: andando una o due volte all’anno per poche settimane era difficile fare di più. Padre Bindo doveva lavorare molto duramente per avere qualcosa da mangiare e magari da offrire agli indios quando lo visitavano. Tuttavia preferiva fare così piuttosto che andare nei villaggi, perché questi erano lontani dal fiume navigabile. Gli Yanomami erano indios di terra ferma e stavano lontani dai grandi fiumi a causa della presenza degli insetti e di altri popoli indigeni che, in passato, occupavano le rive dei fiumi navigabili. Per loro era più facile vivere vicino ai piccoli corsi d’acqua, in più soltanto pochi di loro sapevano nuotare».
Requisito essenziale: una pista di atterraggio
Fratel Carlo Zacquini incontrò per la prima volta gli Yanomami nel maggio del 1965 alla foce del Rio Apiaú, «Quando ero molto giovane, un difetto che ho perso con gli anni», precisa con simpatica autornironia. Fu un momento sconvolgente per la sua vita. «Vivevamo vicino agli indigeni, cercando di osservare cosa facessero e di comunicare con loro, pur con molta difficoltà. La cosa che più mi colpì furono i loro sorrisi, dolci, sereni».
Sul finire del 1965 i padri Calleri e Meldolesi organizzarono una spedizione per fondare una missione sul Rio Catrimani. Essa doveva avere una caratteristica fondamentale: essere raggiungibile da un piccolo aereo. I due padri risalirono il fiume fino a quando, all’altezza di una delle molte rapide incontrate lungo il cammino, trovarono dei sentieri da entrambe le parti del fiume. Erano molto stanchi e poiché quest’area si dimostrava adatta per una pista di atterraggio, cominciarono ad abbattere la foresta per preparare il terreno. Lavorarono alcuni mesi riuscendo ad aprire la prima parte della pista: era lunga 500 metri e larga 30. Nel marzo del 1966 vi atterrò il primo aereo2.
«Quando arrivai a Catrimani – racconta fratel Carlo – padre Bindo aveva già costruito quasi tutto il tetto dell’abitazione. La casa era però senza pareti e, quando pioveva, il vento portava acqua all’interno. Non c’era un metro quadrato sicuro dall’acqua. Io quindi costruii gli spioventi per far passare l’aria e il vento ma non la pioggia. Poi realizzammo un recinto per evitare l’entrata dei cani e un po’ alla volta iniziammo ad allevare animali».
La lingua yanomae
«Appena arrivato, il rapporto con gli Yanomami risultò molto complicato. A cominciare dalle difficoltà linguistiche. Appresi una cinquantina di parole da padre Bindo, ma non avevo nemmeno la carta per scriverle. Ogni parola, la stessa parola, veniva usata con significati diversi, a seconda del contesto».
«Una volta andai dall’altra parte del fiume con uno Yanomami a fare un giro nelle foresta. Avevamo un cane con noi. A un certo momento notammo delle grosse impronte sul terreno. Non avevo alcuna idea a quale animale esse appartenessero. Io e lo Yanomami iniziammo un dialogo surreale e comico (a posteriori). Io chiedevo, in portoghese, “Como chama?”. Egli rispondeva: “Chama”! E io ancora: “Como chama?”. E lui: “Chama!” Dopo un po’ il cane iniziò a correre con lo Yanomami. Io avevo con me una carabina calibro 22, mentre l’indio era disarmato».
«Mi misi a correre anch’io, ma pur correndo (con molta fatica) non riuscivo a raggiungere l’animale. Pensavo di averlo perso. Il cane invece di abbaiare ci veniva incontro scodinzolando. Andammo avanti ancora un po’ finché l’indio mi indicò un punto davanti a noi. In quel momento vidi un animale nero, fermo in una pozzanghera di un ruscello. Aveva le zampe in acqua. Sparai 2 o 3 volte finché lo Yanomami mise la mano sul fucile per abbassarlo, come per dire basta. Dopo un po’ l’animale si accasciò nell’acqua, colpito a morte. Lo tagliammo a pezzi e ne portammo una parte con noi alla missione. Poi tornammo con un gruppo di uomini per prendere il resto. La caccia fortunata fu occasione per fare una festa con carne per tutti. E io scoprii anche il motivo delle incomprensioni linguistiche: l’animale catturato era un tapiro che, in lingua yanomae, si chiama… chama!».
«Durante il mio primo mese a Catrimani andavo a cacciare o pescare quasi tutti i giorni. Dovevo provvedere la carne per i lavoratori e per quelli che venivano con me. Praticavo la caccia con la carabina, mentre si pescava in riva al fiume, ma era molto difficile senza barca. A dire il vero gli Yanomami ci vedevano con simpatia perché attraverso noi potevano ottenere manufatti a cui prima non avevano accesso: coltelli di acciaio, machete, scuri, ami, lenze, fiammiferi e altro ancora».
Indios, «caboclos», «civilizados»
«Nel 1975 arrivò un nuovo vescovo, dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata, che conosceva poco la realtà locale, poiché proveniva dal Mozambico e non aveva alcuna esperienza di Brasile. All’inizio non riusciva a comprendere la situazione e noi missionari cercavamo di fare pressione su certe sue decisioni. Il vescovo insisteva sul dialogo, ma il potere locale non aveva nessuna intenzione di dialogare: il solo obiettivo era di continuare a lasciare immutata la situazione degli indigeni. Dopo circa due anni cominciò a partecipare ad alcune riunioni nei villaggi indigeni e ad ascoltare quello che gli indios dicevano. Cose che noi cercavamo di fargli capire da tempo. Allora si rese conto che veniva usato dal potere locale e cambiò il suo modo di agire prendendo decisioni coraggiose insieme a noi».
«A Roraima, i gradini della “civiltà” erano sostanzialmente tre. Su quello più basso c’erano gli indios: erano quelli che non usavano vestiti e che vivevano nella foresta. Erano definiti “bravos” (selvaggi, insomma). Quelli della savana, che usavano qualche capo di vestiario e a volte parlavano un po’ di portoghese, erano chiamati caboclos. Gli altri erano i civilizados. Questi ultimi facevano quello che volevano con modalità più o meno eleganti. Alcuni divennero poi nemici della Chiesa perché questa iniziò a prendere decisioni forti, arrivando a parlare in maniera chiara in difesa della causa indigena».
«I civilizados facevano apparire il mondo indigeno come un’isola fortunata dove tutti stavano bene. In realtà gli indios e i caboclos non avevano alcun diritto. Varie volte ho visto giovani indigeni che lavoravano senza stipendio per il proprio padrone in cambio di cose di pochissimo valore o di bevande alcoliche. Gli indios erano completamente soggiogati, a tal punto che sovente i civilizados erano invitati a fare da padrini di battesimo. La cosa era andata avanti per generazioni e una parte degli indios si era abituata e difendeva gli invasori a tal punto che, quando ci fu la lotta vera per la definizione del territorio, una parte di loro era contraria. Ritenevano che, se gli invasori fossero andati via, gli indios sarebbero rimasti privi degli “aiuti” che costoro davano loro. Una volta parlai con un gruppo di Yanomami la cui terra era stata invasa da fazendeiros e, mentre spiegavo loro che i bianchi non avevano diritto di rimanere nella loro terra, dicevano che andando via loro avrebbero fatto la fame. “Chi ci darà il riso?”, domandavano. I fazendeiros davano loro riso in cambio di lavoro e servizi. Non si rendevano conto che in passato non avevano mai avuto bisogno del riso. Soltanto col tempo esso era diventato una necessità».
La devastante corsa all’oro
«Quel che andava per la maggiore, a Roraima, erano i giacimenti di diamanti nelle regioni della savana o di montagna abitate da altri indios. C’erano molte leggende sul fatto che le persone più ricche e più importanti fossero quelle che commerciavano in pietre preziose. Si parlava molto di un tale che aveva un piatto pieno di diamanti sul tavolo da pranzo… Non so cosa ne facesse, ma immagino che li usasse per pavoneggiarsi. Successivamente i diamanti iniziarono a passare in secondo piano, sia perché l’oro cominciò ad avere un prezzo più conveniente sia perché furono scoperti molti giacimenti auriferi». «Nell’area degli Yanomami i primi giacimenti furono trovati nei primi anni Settanta. Negli anni Ottanta i cercatori d’oro furono facilitati da un programma finanziato dal governo brasiliano che voleva avere una mappatura e un controllo del territorio amazzonico al Nord del Rio delle Amazzoni e del Rio Solimões. Si trattava del progetto “Calha Norte”. Un progetto che stava molto a cuore ai militari, che infatti arrivarono in gran numero».
«Nel 1987 ci fu una vera e propria invasione di cercatori d’oro. La Funai pensò bene di cacciare via i missionari e l’equipe medica che svolgeva azioni di medicina preventiva, lasciando gli Yanomami totalmente in balia di questi cercatori che provocarono livelli di mortalità altissima a causa delle malattie da loro portate. Fu un genocidio».
«Nel 1988 i missionari ritornarono alla Missione Catrimani, sistemarono le strutture danneggiate e fecero ripartire le attività di appoggio cercando di utilizzare uno schema diverso perché la realtà era cambiata molto nel frattempo. Iniziarono ad aiutare gli Yanomami nell’organizzazione di assemblee indigene, a preparare corsi scolastici per portare i propri giovani ad avere conoscenze sufficienti per non essere annientati dai bianchi. I leader yanomami volevano che i giovani imparassero a leggere e scrivere non per diventare bianchi, ma per difendersi dai bianchi che, ormai lo avevano capito, erano molto pericolosi per loro».
Anno 2015: ancora invasioni
Nel 1992, anche grazie al lavoro dei missionari della Consolata, la terra yanomami viene ufficialmente riconosciuta e protetta. Si tratta però di una protezione più teorica che reale. «Ancora nel 2015 – conclude con evidente rammarico fratel Carlo3 – centinaia o forse migliaia di cercatori d’oro continuano a invadere illegalmente il territorio indigeno, a distruggere la natura, a contaminare l’acqua con il mercurio, a causare epidemie e danni irreparabili alla cultura yanomami».
Daniele Romeo
Note
(1) Su Carlo Zacquini si legga anche: Paolo Moiola, Il bianco che si fece Yanomami, MC, ottobre 2013.
(2) Sulla scelta del luogo e sulla costruzione della pista di atterraggio si legga: Bindo Meldonesi, Il campo è pronto!, MC, luglio-agosto 1966.
(3) La conversazione di queste pagine è tratta dall’intervista inserita nel documentario sulla Missione Catrimani realizzato da Daniele Romeo e Yuri Lavecchia.
Ritornare in Tanzania con appena 62 anni di missione sulle spalle.
Ottantasette anni compiuti il 5 febbraio scorso, padre Giovanni Giorda, originario di Piossasco (To), missionario della Consolata, ci conduce in un duplice viaggio: nella storia della Chiesa tanzaniana e nella sua esperienza missionaria iniziata 62 anni fa.
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«Nel 2000 in diocesi vi fu un pellegrinaggio della croce. Nella parrocchia di Tosamaganga era programmato per 14 giorni. Un giovane, come risposta a un mio commento sulla fatica di accompagnare la Croce di Gesù per due settimane attraverso tutte le 17 succursali della parrocchia (avevo 73 anni), mi disse: “Punda afe, mzigo ufike”, “l’asino muoia, ma il carico giunga a destinazione”. Anche la gente aveva capito che quell’asino ero io, e il carico era la Croce di Gesù da portare a destinazione, cioè ai poveri, agli ammalati, agli orfani, ai catecumeni».
La sua voce ci accompagna in luoghi e tempi lontani. Ci pare di essere di fronte non a una singola persona, ma a un’intera nazione, la Tanzania, e a un’intera Chiesa, quella locale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento. Ci sembra di stare di fronte alle generazioni che si sono avvicendate - anche a quelle vissute prima del suo arrivo - nelle terre in cui padre Giovanni Giorda ha speso più di 60 anni di sacerdozio.
Abbiamo la netta impressione che tutte le esperienze vissute in più di mezzo secolo stiano lì, vivide dietro le sue palpebre, scalpitanti dietro le sue labbra, ansiose di lasciarsi conoscere. Forse per questo padre Giovanni tende ad aggirare le nostre domande per seguire un suo filo. Il suo racconto è irrefrenabile, con un suo formulario ben definito, un suo percorso sicuro, affinato da una probabile consuetudine a proporlo e riproporlo con il medesimo intreccio narrativo. La storia in questo modo assume una dimensione quasi epica, che viene suffragata dal volto solcato da rughe profonde, dagli occhi consumati e brillanti allo stesso tempo, da una gestualità insolitamente contenuta per un italiano.
Quello che padre Giovanni Giorda ci trasmette è l’esperienza di un Dio che accompagna il suo popolo, i poveri, gli ammalati, i giovani della Tanzania, nel susseguirsi dei decenni, delle storie personali e famigliari, comunitarie e nazionali.
Padre Giovanni, puoi dirci qualcosa di te?
«Sono stato ordinato sacerdote diocesano il 29 giugno 1950 nel duomo di Torino dal cardinal Fossati insieme ad altri ventidue compagni. Oggi siamo rimasti in cinque, gli altri sono in paradiso che pregano per noi. In seminario ho sempre preso parte ai circoli missionari. Dopo l’ordinazione, com’era consuetudine per i preti giovani, sono andato a stare nel Convitto della Consolata. È stato in quel periodo che mi sono deciso, e il 16 luglio 1951, con altri due preti, uno di Mondovì che è poi diventato vescovo in Colombia, mons. Cuniberti, e padre Franco Cravero, originario di Torino, siamo andati alla Certosa di Pesio (Cn) per fare il noviziato dai missionari della Consolata. Il 16 luglio 1952 abbiamo fatto i voti, e quel giorno padre Cravero e io abbiamo ricevuto la lettera con la destinazione: Tanganika (l’attuale Tanzania). Il 9 dicembre 1952 siamo partiti. In treno fino a Venezia, poi in motonave per 14 giorni fino a Dar es Salaam. Sbarcati la vigilia di Natale, abbiamo proseguito via terra per Tosamaganga, a 500 km. Qui abbiamo cominciato la missione».
Quindi Tosamaganga, che è la missione in cui tutt’ora lavori, è stata la tua prima destinazione?
«No. Appena arrivato lì, sono partito per la missione di Malangali, Itengule, a 150 km a Sud, per tre mesi. Poi un padre della missione di Ujewa si è ammalato, e sono andato lì a sostituirlo: era la Pasqua del 1953. Per visitare i villaggi inizialmente andavo a piedi, poi in bicicletta. La zona di Ujewa appartiene alla tribù dei Wasangu. Si trova a un’altitudine di mille metri, ma fa molto caldo, a differenza della zona di Tosamaganga, che è a 1500 metri. La zona del Tanganika del Sud dove ho trascorso tutta la mia vita missionaria si chiama Southe Mainland Province, la zona degli altipiani del Sud, in cui clima e agricoltura sono molto buoni. Ciò che viene coltivato lì serve anche per le altre regioni che sono più secche.
Alla fine del 1953 il vescovo mi ha chiesto di andare a insegnare in seminario. Così sono tornato a Tosamaganga. Questa volta per rimanerci diversi anni insegnando filosofia e teologia. Parecchi miei studenti sono diventati sacerdoti e vescovi. Alcuni sono già in paradiso e pregano anche per me».
Puoi raccontarci qualcosa della chiesa locale?
«Per il Tanzania del Sud, Tosamaganga è stata la base dell’evangelizzazione. La chiesa cattolica in Tanganika è entrata nel 1868 con i padri missionari dello Spirito Santo che, arrivando dalle isole Réunion e passando da Zanzibar, sono sbarcati a Bagamoyo. A loro era stata affidata la parte Nord del paese - ricordo che nel 1968, quando ero a Kilolo, una missione nella regione di Iringa a circa 1800 metri di altitudine, al freddo, abbiamo festeggiato i 100 anni della chiesa cattolica Tanzaniana -. Dieci anni dopo, nel 1878, sono arrivati dall’Uganda i missionari d’Africa, i cosiddetti padri Bianchi. A loro era stato affidato tutto il Tanganika dell’Ovest. Rimaneva scoperto il Tanganika del Sud. Così nel 1888, dalla Germania, sono arrivati i missionari benedettini. La loro prima missione è finita male: arrivati a Dar es Salaam si sono messi a liberare gli schiavi, e gli arabi che facevano affari con il commercio degli schiavi sono saltati loro addosso uccidendone diversi. La seconda spedizione è avvenuta nel 1891. Questa volta è andata meglio, e nel 1896 sono arrivati a Tosamaganga i primi due missionari. Per quella regione del paese il governo colonizzatore tedesco aveva messo il proprio quartier generale a Iringa, che è attualmente la capitale della regione omonima di Iringa. Lì, ai tempi, c’era il sultano dei Wahehe. I due benedettini, arrivati nella zona proprio per evangelizzare i Wahehe si sono stabiliti su una collina, non troppo vicini e nemmeno troppo lontani dal quartier generale dei tedeschi, distante circa 12 km. Il 1° gennaio 1897 la stazione missionaria di Tosamaganga è stata inaugurata.
In quello stesso anno ci sono stati i primi otto battesimi - nell’ufficio parrocchiale conserviamo ancora i registri di quei tempi -, e i benedettini hanno anche fondato un’altra missione per evangelizzare i Wasangu a Madibira, a 150 km a Sud. Nel 1898-99 sono arrivate le suore benedettine. Delle prime quattro, morte giovanissime, si conservano ancora le tombe nel cimitero di Tosamaganga. In seguito i benedettini hanno fondato diverse altre missioni anche a Nord e a Est».
E i Missionari della Consolata quando sono arrivati?
«Poi è iniziata la prima guerra mondiale. Dal Kenya, colonia britannica, gli inglesi sono scesi in Tanganika per attaccare i tedeschi, e li hanno vinti. I missionari dello Spirito Santo e i padri Bianchi non sono stati toccati, perché non erano tedeschi, ma i benedettini nel 1918 sono stati radunati a Dar es Salaam ed espulsi.
Il vescovo del vicariato apostolico di Dar es Salaam, che a quei tempi comprendeva anche il territorio di Iringa, sapeva che in Kenya c’erano dei missionari italiani, e ha scritto una lettera a mons. Filippo Perlo, missionario della Consolata, per chiedergli un “prestito” di personale. È stato così che i primi quattro missionari della Consolata sono partiti per il Tanganika, e sono arrivati a Tosamaganga il 26 maggio 1919.
Mons. Perlo li aveva mandati senza interpellare il beato Allamano, e nemmeno il papa. Solo a cose fatte ha scritto una lettera in cui diceva: “In genere, quando uno ha bisogno di aiuto, si rivolge ai ricchi, non ai poveri. Si sono rivolti a noi poveri, per un aiuto. E noi abbiamo risposto di sì, cercando di fare un’opera di carità”».
Si commuove padre Giorda ricordando la lettera di mons. Filippo Perlo. La voce gli trema. Quelle parole lo toccano. Le sente sue.
«Noi missionari della Consolata siamo arrivati in Tanzania in prestito. E ci siamo ancora. Ora siamo una sessantina senza contare le suore, e siamo presenti in diverse diocesi. Sparsi per il mondo ci sono anche una quarantina di missionari della Consolata nativi del Tanzania.
La prefettura apostolica di Iringa è stata eretta nel 1922, separandone il territorio dalla prefettura di Dar es Salaam, e in quell’anno è partita la prima spedizione di missionari della Consolata direttamente dall’Italia, non più dal Kenya: preti, fratelli e suore, arrivati a fine gennaio 1923. Il superiore di quella spedizione era mons. Francesco Cagliero, di Castelnuovo don Bosco, che ha retto quella prefettura dal ’23 al ’35, fondando diverse stazioni missionarie. Morto per incidente stradale, gli è subentrato nel ’36 mons. Attilio Beltramino, che ho assistito all’ultima sua messa il 3 ottobre 1965, quando è morto per infarto. Beltramino in 30 anni ha avviato quasi 30 stazioni di missione. Nel frattempo la diocesi di Iringa è stata divisa in due, con la nascita della diocesi di Njombe. Zone in cui la popolazione era pagana e dove il cristianesimo è stato accolto.
Dai missionari della Consolata sono nati anche altri istituti religiosi: mons. Cagliero nel 1931 ha fondato l’istituto delle suore africane di Santa Teresa del Bambino Gesù. Oggi sono circa 400 consacrate. Alcune sono missionarie in Sicilia, altre in Haiti. Mons. Beltramino durante la seconda guerra mondiale ha dato inizio, assieme a padre Ghiotti, alla congregazione dei fratelli africani Servi del Cuore Immacolato di Maria. Oggi una congregazione fiorente presente in diverse zone del Tanzania».
Tornando a te. Dopo Itengule e Ujewa nel 1953, sei andato a insegnare al seminario di Tosamaganga. Quanto sei rimasto lì, e cosa hai fatto dopo?
«Dopo la morte di mons. Beltramino nel 1965, ho lasciato Tosamaganga per andare in una missione appena aperta, Kilolo, dove sono stato fino alla fine del 1969, incaricato della parrocchia e dei fratelli africani. Dal ‘70 sono stato parroco a Tosamaganga. Dopo 10 anni sono ritornato nella zona di Ujewa in cui ero stato all’inizio, nella parrocchia di Chosi, 265 Km a Sud di Iringa, dall’80 all’89. Lì ho patito il caldo come mai in vita mia. Nell’89 sono tornato a Tosamaganga, dove sono stato parroco fino al 2007, quando ho compiuto 80 anni! Da allora sono coadiutore del nuovo parroco, p. Giacomo Rabino».
Ci puoi parlare dell’aspetto spirituale della tua esperienza missionaria?
«Ormai sono più di 60 anni che vivo in Tanzania. Sono più tanzaniano che italiano. In questi anni ci sono stati alcuni punti forti nella mia vita spirituale. Ne vorrei elencare quattro.
Il primo è il motto del beato Giovanni XXIII: “Obbedienza e pace”. Con l’obbedienza si acquista la pace del cuore.
Un secondo punto l’ho scoperto nel 1987. Ero venuto in Italia per la mia mamma ammalata. Ritornando in Tanzania ho fatto tappa un paio di giorni ad Addis Abeba. La provvidenza ha voluto che in quei giorni Madre Teresa di Calcutta fosse lì. Ricordo ancora l’incontro che ho avuto con lei. Abbiamo parlato un quarto d’ora. Poi lei mi ha dato un’immagine che raffigurava Gesù flagellato, con le parole del Salmo 69: “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati”. E di suo pugno ha scritto: “Be the one”, “Sii tu quello” (che consola Gesù).
Terzo punto, nel 1996. Sulla rivista Jesus ho letto il teologo Hans Urs von Balthasar che spiegava la messa: “Abbiamo ridotto il ‘fate questo in memoria di me’ all’invito a ripetere un rito, ma l’eucaristia presenta Gesù che dà la vita, e quindi quando dice ‘fate questo in memoria di me’, dice ‘fatelo anche voi’, ‘date la vita per i vostri fratelli come io l’ho data’”.
Con il quarto punto arriviamo al 2000: ero parroco a Tosamaganga, che allora contava 17 succursali distanti anche 15-20 km. La diocesi di Iringa aveva programmato il pellegrinaggio della croce, che a Tosamaganga è durato 14 giorni. Io ho detto ai giovani che per me sarebbe stata una grande fatica girare per due settimane in tutte le succursali, e un ragazzo mi ha risposto: “Padre, non avere paura”. E poi ha aggiunto: “Punda afe, mzigo ufike”, cioè “l’asino muoia, il carico giunga a destinazione”. L’asino ero io. E il carico era la croce di Gesù. Un proverbio africano che non avevo mai sentito. Anche Gesù dice: “Se il chicco di grano muore porta frutto”. Però io non sono ancora morto, nonostante in questi 60 anni ne abbia corso diverse volte il pericolo. Nel 1982, ad esempio, mi hanno portato all’ospedale di Tosamaganga per la malaria. Una suora mi ha assistito per tutta la notte perché era convinta che io “partissi”. Un’altra volta, nel 1958, sono caduto in un burrone con un camion, ma non mi sono fatto niente… Quello che è importante per me, e per tutti i missionari, è far sì che il carico, cioè Gesù, la sua grazia, il suo perdono, la sua misericordia, la sua bontà giungano alla gente. Facendo quello che faceva Gesù stesso: predicare il Vangelo, curare gli ammalati, insegnare».
Qual è lo stato attuale della Tanzania?
«Abbiamo moltissimi orfani. Alcuni di questi sono sieropositivi. Noi cerchiamo di aiutarli con il cibo, con le spese per la scuola. A Tosamaganga seguiamo almeno una ventina di scuole attraverso i nostri catechisti diffusi sul territorio che ci segnalano le situazioni di difficoltà. Riguardo al cibo, aiutiamo attraverso le nostre piantagioni: abbiamo mais, fagioli, girasoli. Dobbiamo dire grazie ai benefattori italiani che, nonostante la crisi, continuano a dare le loro offerte. Pochi giorni fa un giovane tanzaniano che ora è a Dodoma per studiare all’università mi ha scritto una mail. È un ragazzo orfano che riceve un contributo dal governo, ma che deve pagare una parte delle spese. Mi ha chiesto aiuto, e io gliel’ho promesso».
Che differenze ci sono tra la Tanzania del ‘52 e quella di oggi?
«I ragazzi di allora erano addormentati. Oggi sono vivaci quasi come i nostri italiani. Dal punto di vista politico, oggi c’è un sistema con più partiti, nonostante ci sia al potere sempre il vecchio partito, quello di Julius Nyerere che ha portato all’indipendenza nel 1961 e che, dopo l’unione del Tanganika con Zanzibar nel 1964, ha preso il nome di Ccm (Partito della rivoluzione). Questo è ancora al governo nonostante sia pieno di corruzione. Vedremo cosa succederà quando nel 2015 ci saranno le elezioni.
La gente del Tanzania è gente calma, che sopporta e sta in silenzio. Negli ultimi anni però non sopporta più. C’è una nuova generazione che ha studiato. Le università sono piene di giovani che capiscono la situazione e iniziano a dimostrare».
Ci sono problemi di radicalismi religiosi.
«Non molti, ma dobbiamo stare all’erta perché, specialmente a Zanzibar, dove la popolazione è quasi tutta musulmana, c’è un gruppo di estremisti denominato Uamsho (Risveglio) che due anni fa ha ucciso un prete cattolico. Ogni tanto si sente di questi gruppi che bruciano le chiese. Un anno fa nella zona di Arusha c’è stato un attentato contro il vescovo e il nunzio apostolico che dovevano inaugurare una chiesa: è passato un uomo in moto e ha gettato una bomba. Ci sono stati tre morti. Dall’ultimo censimento sembra che in Tanzania vivano tra i 42 e i 45 milioni di persone. Tutte le denominazioni cristiane: cattolica, luterana, anglicana, ecc. contano più del 50% della popolazione. I cattolici sono poco meno del 30%.
In seguito ai fatti di violenza religiosa che da almeno un anno destabilizzano il Tanzania, tutte le chiese cristiane si sono incontrate per riflettere su cosa fare».
Quindi il dialogo con le altre chiese cristiane è positivo. Ma con i musulmani come va?
«I musulmani sono al massimo il 30%. Sono concentrati soprattutto sulla costa, verso la quale da molti anni c’è una continua migrazione di cristiani dall’interno del paese: Dar es Salaam oramai ha almeno 50-60 parrocchie. Le relazioni tra i fedeli delle due religioni sono buone. Il problema sono gli estremisti che vogliono coinvolgere sempre più persone. Nel territorio di Tosamaganga c’è qualche gruppo di musulmani, ma sono tranquilli. A Iringa ci sono diversi musulmani, e alcuni di questi vanno all’università cattolica».
Come viene percepito il nuovo pontefice nella chiesa tanzaniana?
«Noi missionari siamo molto contenti. Lo Spirito santo ha lavorato per l’elezione di papa Francesco. Qualcuno è preoccupato perché va troppo in mezzo alla gente, e così facendo si prende dei rischi. Ma sopra eventuali malfattori con cattive intenzioni c’è il Signore, c’è lo Spirito Santo che li tiene a bada, e che aiuteranno il papa a portare avanti tutte le riforme che presenta. Noi siamo contenti perché Francesco mostra uno stile di chiesa che noi missionari un pochino avevamo già: andare in mezzo ai poveri, agli ammalati, aiutarli».
Parlando del papa e dei poveri padre Giorda si commuove di nuovo. È bello ascoltare la sua voce rotta dall’emozione di un’intera vita dedicata alla missione.
Luca Lorusso
CRONOLOGIA:
9 dicembre 1952: partenza da Venezia
24 dicembre 1952: arrivo a Dar es Salaam e partenza per Tosamaganga
Fine 1952-Pasqua 1953: missione di Malangali, Itengule
Pasqua 1953-fine 1953: Ujewa
1954-1965: Tosamaganga seminario
1965-1969: a Kilolo parroco
1970-1980: parroco a Tosamaganga
1981-1988: a Chosi
1989-2007: parroco a Tosamaganga
2007-oggi: coadiutore a Tosamaganga.
MUKIRI: Uomo dell’acqua e costruttore di chiese
Fratel Giuseppe Argese, detto Mukiri: 50 anni a servizio della chiesa e degli africani
Lo scorso settembre ha celebrato senza rumore 50 anni di lavoro in Kenya: non per nulla la gente
lo chiama «Mukiri» (il silenzioso). Al suo posto parlano tante chiese costruite nella diocesi di Meru e, soprattutto, l’acquedotto di Tuuru, un’opera d’ingegneria idraulica che non cessa di stupire. Ma il più bello deve ancora venire, a Dio piacendo.
Porto di Mombasa, 27 settembre 1957. Un uomo scruta i volti di tutti i passeggeri che sbarcano dalla nave appena attraccata. «Tre preti e una suora» grida. Li trova finalmente: due preti, un fratello laico e una suora. «Haraka!» (sbrigatevi). Non c’è tempo per il benvenuto; il treno sta aspettando. Il tempo di arrivare alla stazione, prendere il biglietto del treno notturno per Nairobi e… benvenuti in Kenya!
Il giorno dopo, un missionario veterano li attende alla stazione di Nairobi. Rapidi saluti, una sbrigativa sosta all’ufficio immigrazione per le formalità, un cambio di macchina alla procura a Muthaiga, un «arrivederci» ai tre compagni di viaggio in mare e il giovane fratello, appena 25enne, comincia a prendere confidenza con le polverose strade verso il nord, destinazione: la città di Meru. Ci arriva il 29 settembre, dopo una nottata a Kyeni e un interminabile viaggio, serpeggiando su e giù per le colline nella rovente calura della stagione secca.
Giuseppe Argese, nato nel 1932, missionario della Consolata, è arrivato nella diocesi che segnerà per sempre la sua vita. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone è in Italia; a dargli il benvenuto è fratel Francesco Costardi, non ancora 33enne, arrivato in Kenya all’inizio dello stesso anno, con l’incarico di costruire la cattedrale di Meru, che spunta appena dalle fondamenta. Per dicembre è previsto l’arrivo di altri tre fratelli: Giovanni Comaron, Dino Bottaro e Bruno Bessani; ma saranno destinati a costruire un santuario dedicato alla Consolata a Karatina, per ringraziarla del ritorno in Kenya dei missionari che, durante la seconda guerra mondiale, erano stati portati in campo di concentramento in Sudafrica. Progetto mai decollato e poi costruito a Nairobi.
Il giorno dopo, 30 settembre, fratel Costardi si ammala ed è portato all’ospedale. Fratel Argese si trova solo a dirigere la costruzione della cattedrale: 80 lavoratori aspettano pazientemente le sue direttive.
È troppo! Due settimane prima era ancora in Italia e, all’improvviso, eccolo là, con una cattedrale tutta da costruire. Si rifugia nella sua camera e si siede sconsolato sul baule. Dopo pranzo prende la decisione: se una cosa va fatta, è meglio affrontarla subito. Esce e comincia a lavorare con gli 80 uomini.
La cattedrale cresce; artigiani e muratori si abituano al nuovo capo che non sa una parola della loro lingua (il kemeru), ma migliora di giorno in giorno nella comunicazione non verbale.?Tre anni dopo, il 10 settembre 1960, la cattedrale viene ufficialmente inaugurata.
COSTRUTTORE DI CHIESE
Quando mons. Bessone si stabilì a Meru, gli unici edifici in pietra nella diocesi erano l’abitazione dei missionari e la chiesa a Kyeni. La casa era stata costruita in pietra per motivi di sicurezza durante il periodo dell’emergenza mau-mau; ma la chiesa era in condizioni tali che poteva crollare da un momento all’altro.
A quei tempi, i fratelli abitavano a Meru, insieme al vescovo, ma operavano su tutto l’immenso territorio della diocesi, oggi suddiviso nelle diocesi di Meru, Embu, Garissa, parte di Malindi e vicariato di Isiolo.
La cattedrale di Meru è una delle tante chiese costruite dal gruppo dei missionari fratelli. Ma quasi tutte le chiese della diocesi di Meru portano l’impronta di fratel Argese: quella di Chuka, costruita nello stesso periodo della cattedrale, quella di Muthambe con colonne in calcestruzzo, e poi Egoji, Mkabone, Kianjai e Mujwa.
Anche a Isiolo la prima chiesa fu opera sua, provvisoria anch’essa, perché mancava l’autorizzazione per costruire strutture permanenti.
Correva l’anno 1963. Don Luigi Locati era giunto a Meru per aprire una missione affidata ai preti fidei donum della diocesi di Vercelli. Fratel Argese, su incarico del vescovo, portò il prete vercellese in lungo e in largo attraverso la diocesi, dal Tharaka a Garissa, da Wajir a Chuka, da Embu a Isiolo: qui don Luigi decise di fondare la nuova missione e il fratello gli costruì la prima chiesa e prima casa.
Quante volte fratel Argese, da solo, si recò a Merti, per portare acqua e viveri ai costruttori di una scuola-cappella. Sono quasi 300 km da Isiolo, in una regione desertica in cui incontrava solo la pattuglia della polizia, che si recava da quelle parti una volta la settimana.
Dopo 11 anni, nel 1968, fratel Argese toò in Italia. Fece appena in tempo a godersi le vacanze, che fu chiamato a risolvere i problemi della costruzione del santuario della Consolata a Nairobi: le fondamenta erano state fatte male, mettendo a rischio la stabilità di tutta la struttura in cemento armato.?Vi restò per sei mesi, quindi toò a Meru, ma si ammalò e dovette stare per qualche mese in ospedale.
Intanto crescevano altre chiese a Tuuru, Laare, Maua, Kirwa, Adero… L’ultima la sta costruendo con pazienza nel campo base dell’acquedotto di Mukululu.
ACQUA, PER FAVORE!
La passione di costruire chiese non lo ha mai lasciato, ma ciò che accadde nel 1967 cambiò per sempre la sua vita. Padre Franco Soldati aveva aperto, nella missione di Tuuru, un centro per bambini colpiti da poliomielite, una malattia epidemica nella zona di Igembe per la scarsità di acqua e igiene. La missione di Tuuru, come tutta l’area dell’Igembe, si stende su uno spesso strato di detriti vulcanici, privo di acqua potabile, fiumi o sorgenti. Il centro si trovò quasi subito a dovere affrontare il problema dell’acqua. Padre Franco lanciò la sfida a fratel Argese: «Hai trovato acqua per altri, trovala anche per noi!».
In altre località, come Chuka, Mujwa, Egoji, Mikinduri, grazie all’abbondanza di acqua, erano state costruite scuole, chiese e altre opere sociali. Nell’Igembe, invece, per la scarsità di acqua, era tutto in situazione di stallo, evangelizzazione compresa.
«Dateci l’acqua, per favore!». Più facile a dirsi che a farsi. Gli anziani del luogo avevano rivelato con riluttanza a padre Franco che nel profondo della foresta del monte Nyambene c’era una sorgente perenne, dove erano soliti recarsi per fare i loro sacrifici e celebrazioni. La foresta era a 25 km di distanza. Come fare per portare l’acqua fino a Tuuru?
Per fratel Argese era un grande rompicapo, finché entrò nella foresta, fece misurazioni varie, tracciò schizzi, disegnò mappe, studiò testi che trattavano di tubature, dighe, cistee, pressione… ed ecco scaturire il progetto da presentare al vescovo.
– Monsignore, sfruttando la legge di gravità, è possibile portare l’acqua dalla montagna fino a Tuuru.
– Va bene, ma dove troviamo i soldi?
– Monsignore, lei mi ha chiesto se fosse possibile ottenere l’acqua; ora, l’acqua è là, il progetto è qui; ci sono problemi, certo, ma se la cosa deve essere fatta, i soldi arriveranno.
«Non ho soldi» era un ritornello sentito tante volte, quando si trattava di costruire le chiese. «Mi faceva innervosire che monsignore buttasse tutto all’aria per questione di soldi -racconta fratel Argese -. Ci furono anche momenti di tensione. A volte, a Meru, quando ci incontravamo, facevamo percorsi diversi nella casa. Però, non smettemmo mai di cornoperare lealmente, alla ricerca di ciò che era meglio per la gente e la diocesi. Non lo adulavo mai; ma quando morì, piansi e piansi molto! E poi, il denaro necessario arrivava sempre».
Zappe Sì, caterpillar no
Uscito dall’ospedale, nel 1969, fratel Argese ebbe una bella notizia: Misereor, l’organizzazione della Conferenza episcopale tedesca, aveva approvato la prima fase del progetto idrico: 700 mila marchi. E si mise subito all’opera per allestire il campo base a Mukululu, vicino a una cappella fatta di pali, fango e tetto di paglia.
Dalla Germania, i sostenitori del progetto volevano che si comprasse un caterpillar per accelerare lo spostamento della terra e completare l’opera in pochi mesi. Ma fratel Argese non ne volle sapere. Un caterpillar avrebbe distrutto le piccole shambas (campi coltivati) dove doveva passare la conduttura principale. Inoltre, con il costo di una tale macchina avrebbe potuto pagare per più di tre anni il salario di 100 lavoratori, armati di zappe, pale e carriole. Il progetto risultò essere una gran benedizione per la popolazione locale: lavoro e acqua, oltre alla riduzione al minimo dell’impatto ambientale.
Nel gennaio del 1970 si iniziò a scavare. Il tempo non costituiva un problema. Per gente abituata da secoli a disporre di poca acqua, un giorno o un anno in più non avrebbero fatto tanta differenza. Il fattore tempo, però, una differenza l’ha fatta, e grossa pure: il fatto che nell’arco di quasi 40 anni siano state impegnate centinaia, anzi, migliaia di persone, ha fatto sì che il progetto arrivasse nel profondo del cuore della popolazione locale: non era un’opera calata dall’alto da un’efficiente Ong straniera, che arriva e se ne va; ma un progetto fatto con la gente, dalla gente e per la gente.
Goccia a goccia
Nonostante i timori di monsignore, il denaro arrivò fin dall’inizio del Tuuru Water Scheme (Progetto acquedotto di Tuuru) da donatori stranieri e harambee locali. Sono stati investiti milioni di dollari provenienti da vari paesi. Fratel Argese rimane sbalordito quando pensa al sostegno straordinario proveniente da ogni parte.
Come avviene nella foresta, dove l’acqua è raccolta goccia a goccia, formando milioni di litri per rispondere al fabbisogno quotidiano della gente, allo stesso modo, il danaro necessario è stillato goccia a goccia: un marco sull’altro, una peseta sull’altra, una lira sull’altra, un fiorino sull’altro, un euro sull’altro, un dollaro sull’altro… e persino uno scellino sull’altro!
Ed ecco i risultati. Un progetto nato su scala ridotta, è diventato una rete di oltre 250 km di condutture, decine di cistee e migliaia di punti di distribuzione: ogni giorno vengono distribuiti quasi 4 milioni di litri d’acqua a oltre 250 mila persone, più di 40 mila capi di bestiame, 20 mila pecore e capre. E il progetto continua, per rispondere alle necessità della gente nelle zone più remote.
L’acqua ha cambiato la vita alla regione: la poliomielite è quasi scomparsa, villaggi e commerci sono spuntati come funghi intorno ai punti di erogazione, le scuole sono progredite, la popolazione è cresciuta, le donne sono state liberate dalla schiavitù di dover attingere acqua in luoghi lontani e pericolosi, l’igiene personale è diventata più agevole, tanti uomini possono avere un lavoro fisso, molti hanno imparato nuovi mestieri, i problemi di salute si sono ridotti (anche se ne sono sorti altri, come quelli legati al consumo delle foglie narcotiche della miraa).
Si dice che una goccia fa traboccare il vaso; ma in questo caso le gocce d’acqua raccolte con pazienza nella foresta del Nyambene hanno messo in moto un lento ma solido processo di cambiamenti di un distretto che, negli anni ’60, era uno dei più poveri ed emarginati del Kenya.
Mukiri
Dietro a tutto ciò, ecco il nostro uomo, il costruttore di chiese, l’uomo dell’acqua, come è chiamato dalla gente del posto. Il Tuuru Water Scheme ha impegnato gli anni migliori della sua vita. A 75 anni (compiuti il giorno di san Martino), l’uomo ha perduto l’agilità e vigore fisico che aveva quel pomeriggio del 30 settembre 1957, quando iniziò a lavorare alla cattedrale di Meru; la sua mente, però, è più lucida che mai, non solo nel seguire la miriade di progetti intrapresi, ma anche nel pensare a qualcosa di nuovo e imprevedibile.
Per conoscere quest’uomo un po’ più da vicino, curiosiamo fra i suoi libri! Entrando nella sua casetta di tronchi d’albero, a sinistra troviamo scaffali zeppi di libri messi alla rinfusa. Ci sono, naturalmente, libri relativi all’acqua: prese, pompe, dighe, depurazione, tubature, foreste pluviali e così via.?Testi su arte muraria, edilizia e architettura, carpenteria e falegnameria, disegno tecnico e di rilevamento. C’è una nutrita selezione di testi religiosi, sulla sua famiglia, i missionari della Consolata, sulla chiesa in Kenya, spiritualità, vite di santi, sacra scrittura, storia della chiesa.
La storia dell’evangelizzazione lo appassiona: conosce a memoria gli episodi più significativi dell’evangelizzazione dell’Africa e del Kenya in particolare. E poi libri su geografia, popoli e culture del paese di adozione. Infine, e non ci sorprende conoscendo l’uomo, libri su agricoltura, frutteti, fiori, insetti e uccelli, colture resistenti alla siccità e una sezione speciale su ulivi e vigneti. In più, libri su cure con erbe medicinali e metodi naturali.
Su un altro scaffale, libri scelti di cucina, su come preparare marmellate e, perché no, su come fare del buon formaggio. Ci sono pure libri fotografici, sulla sua bella città natale, Martina Franca, sull’Africa, il Kenya e il suo acquedotto… Anch’esso è stato fotografato dentro e fuori, descritto in libri e in video. Non troviamo molti romanzi; quei pochi, si può arguire, sono regali di amici che hanno goduto della sua squisita ospitalità.
Prima di arrivare in Africa, fratel Argese aveva frequentato un corso di edilizia per corrispondenza presso un istituto professionale di Luino, ma non lo aveva terminato. Lo ha completato sul campo, con la costruzione della cattedrale di Meru, fino a diventare, a livello mondiale, un esperto nel raccogliere l’acqua nella foresta equatoriale e un grande ambientalista. Le due realtà, infatti, sono strettamente connesse: la foresta può fornire acqua solo se rimane nelle condizioni originarie.
Difendere la foresta del Nyambene da disboscamento e speculazione edilizia è stata una priorità, portata avanti dalla gestione dell’acquedotto di Tuuru da parte della diocesi di Meru.?Tale impresa, però, è aperta a molte iniziative: dalla cooperazione con università locali e straniere al coinvolgimento di entomologi, botanici, oitologi, zoologi per scoprire biodiversità e peculiarità di una foresta speciale come quella del Nyambene; da campagne educative nelle scuole a dibattiti con le comunità circostanti; da attività di promozione agro-turistica a istruttive visite guidate; da documentari filmati a pubblicazioni.
La gente del luogo lo chiama «mukiri», il silenzioso. Fratel Argese è, infatti, un uomo di azione più che di parole; la sua comunicazione, essenziale, misurata e diretta, è scevra di inutili giri di parole. I suoi operai hanno imparato ad ascoltarlo attentamente, perché non ama ripetere le cose. Insegnamento di base, comunicazione chiara e fiducia sono il fondamento su cui ha costruito il rapporto con i suoi lavoratori.
È questo il segreto delle molte attività che porta avanti da Mukululu. Un lavoro su quattro fronti: progetto idrico, fattoria e vigneto di Liliaba, costruzione del santuario della Consolata, attività di consulenza in tutti i progetti di sviluppo diocesani.
Il Missionario
Quando aprì il campo di Mukululu, Mukiri poteva condividere la sua fede con una manciata di cattolici nella cappella di fango. Non ha avuto tempo di fare catechesi o altre attività di evangelizzazione diretta; eppure oggi la comunità conta più di 2.500 fedeli. La capanna originaria è rimpiazzata da una bellissima chiesa, consacrata nel 1986, 75º anniversario dell’evangelizzazione del Meru, dal vescovo Silas Njiru, che l’ha dichiarata santuario diocesano dedicato alla Madonna Consolata. E la chiesa è diventata troppo piccola per accogliere tutti la domenica. Così, dal 1996, ha iniziato ad ampliarla.
Il santuario è cresciuto insieme alla comunità e in base ai ritmi di lavoro imposti dalla costruzione dell’acquedotto; si è innalzato pietra su pietra, in un’armoniosa combinazione di colori diversi: pietre marroni, rosse, rosa, gialle, nere, bianche… tagliate dagli scalpellini, come nella costruzione delle cattedrali medievali, ciascuna con la sua forma particolare, secondo la posizione specifica da occupare nell’edificio: eloquente immagine della chiesa vivente, dove ogni singola persona è una pietra viva, posta sulle fondamenta della pietra angolare che è Gesù Cristo.
Il santuario è la sintesi dello stile di evangelizzazione di Mukiri: costruisci la persona nella sua pienezza e ne farai un cristiano che dà gloria a Dio; e potrebbe essere il paradigma della relazione tra evangelizzazione e promozione umana: due facce della stessa azione salvifica di Dio. È lo stile dell’Allamano, che ai suoi missionari partenti per la missione tra gli africani raccomandava: «Fateli prima uomini e poi cristiani».
SOGNI SENZA Tramonto
A 75 anni, Mukiri è consapevole che non può essere attivo come ai vecchi tempi, ma va avanti, riposando un po’ di più e spronando altri ad assumere le responsabilità. Nel luglio scorso si è realizzato un altro sogno: dopo 7 anni di duro lavoro, ha visto riempirsi la seconda diga sul fiume Ura, che ha una capacità di 55 mila metri cubi. Ad agosto l’ha vista tracimare, così pure all’inizio di ottobre: ormai l’acquedotto di Tuuru può affrontare le siccità più spaventose.
E Mukiri può dedicare più tempo alla costruzione del santuario, alla vigna piantata a Liliaba, dove una volta c’era un campo di prigionia mau-mau. Gli amici lo aiutano a piantare nuovi vitigni e migliorare la qualità del vino. I vescovi lo incoraggiano a produrre vino da messa di qualità. Ma la sua più grande soddisfazione è vedere che circa 200 famiglie hanno piantato le viti nelle proprie shambas e sono in grado di vendere 20-50-100 kg di uva. Non è molto, ma aiuta i magri introiti familiari.
Eppure, di fronte alla crescente domanda d’acqua in altre aree del Nyambene, Mukiri ha un ultimo grande sogno: una terza diga nella foresta, capace di quasi 1 milione di metri cubi! Un’impresa ciclopica, che solo un uomo di fede come lui è in grado di sognare. Costerà milioni di ore di lavoro e miliardi di scellini… La gente lo vuole e ha bisogno di lavorare; di tempo ce n’è in abbondanza; il progetto è quasi pronto e i donatori sono interessati; presto sarà contattato il governo per le necessarie autorizzazioni. Riuscirà a vedere anche questa diga tracimare? Mukiri non lo sa e non gli importa di saperlo. Se deve essere fatta (cioè, se Dio lo vuole), sarà fatta, perché Dio provvederà!