Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Grazie al comandante

Caro padre, seguo sempre con attenzione la sua rubrica, chi le scrive spesso fa riflettere e le sue risposte sono uniche. Mi fa cosa gradita in questo mio scritto, ringraziare la preziosa opera che un mio caro concittadino, Giovanni De Marchi, ha sempre fatto in Etiopia. Con tenacia e senso di altruismo, dopo aver raggiunto l’età del pensionamento da comandante di stazione dei Carabinieri a Borgo Valsugana, ha dedicato tutte le sue energie ad aiutare padre Paolo Angheben in terra d’Africa (insieme nella foto qui sotto). Un sostegno economico veramente importante che ha raccolto qua in Valsugana e soprattutto l’essere stato presenza attiva con i suoi innumerevoli viaggi in Etiopia in aiuto «al padre» come di suo chiamava padre Angheben, venuto a mancare pochi anni fa per Covid (+18/05/2021).

Il suo aiuto è continuo anche ora e, nel suo piccolo, rimane quella bellissima goccia di solidarietà concreta e spirituale che con costanza trasmette ai suoi fratelli. I bambini che ha aiutato vent’anni fa ora sono uomini, molti hanno studiato e sono cresciuti con dignità e il merito va a persone che hanno sostenuto con belle iniziative.

Grazie Giovanni, sei una di queste persone.

Armando Orsingher, 21/01/2025, Borgo Valsugana (Tn)

Al caro Giovanni, che ha lo stesso nome di padre Giovanni De Marchi (1914-2003), il pioniere del ritorno dei Missionari della Consolata in Etiopia nel 1970, grazie della tua passione contagiosa per quella terra e la sua gente. L’Etiopia è stata il primo amore di san Giuseppe Allamano.


Accolto nella «tierra sin males»

Il padre Antonio Gabrieli, missionario della Consolata, è deceduto a Buenos Aires all’alba del 7 febbraio 2025, all’età di 76 anni. Ha dedicato 56 anni alla vita religiosa e 51 al sacerdozio, lasciando un’eredità di fede, impegno e dedizione missionaria.

L’Argentina, dove arrivò per la prima volta come missionario nel 1983, divenne la sua casa. Durante le sue quattro decadi di missione e servizio pastorale nel Paese, ricoprì numerosi ruoli: parroco, vicario, formatore, maestro dei novizi, superiore di comunità, consigliere e superiore regionale.

Nelle ultime settimane di vita, padre Antonio ebbe accanto non solo i fratelli missionari, ma anche le sue due sorelle che viaggiarono dall’Italia per stargli vicino. L’8 febbraio è stato sepolto nel cimitero «Giardino della Pace» a Luján, in Argentina, lasciando un profondo patrimonio di fede e servizio missionario.

Fratello tra i fratelli

Padre Antonio Gabrieli – testimonia padre José Auletta – è stato «un fratello tra i fratelli, un missionario che ha sempre svolto il suo servizio con moderazione, rispetto e un distinto trattamento umano verso tutti coloro che lo cercavano. […] Mi ha sempre incoraggiato e sostenuto nel lavoro di accompagnamento ai popoli indigeni dell’Argentina, riaffermando così la sua fedeltà al carisma missionario. Mi ha segnato profondamente la sua vicinanza alla gente, in particolare ai fratelli Guaraní, che oggi lo ricordano con affetto e gratitudine».

Padre Antonio Gabrieli a Maralal, giugno 1999

La serenità e la forza del padre Gabrieli – ricorda Auletta – furono evidenti anche negli ultimi giorni della sua vita. «Pochi giorni prima della sua partenza, durante il ritiro annuale di gennaio, mi colpì la sua pace nell’affrontare la malattia che lo affliggeva. Oggi, con profonda gratitudine, facciamo memoria di questo fratello che è partito verso la tierra sin males, il cielo nuovo e la terra nuova. Il nostro caro padre Antonio Gabrieli lascia un’eredità di fede, impegno e amore per gli altri». […]

Breve biografia

Padre Antonio Gabrieli, figlio di Paolo e Patroni Maria, nacque il 13 luglio 1948 a Darfo, Brescia (Italia) e fece il noviziato con i missionari della Consolata, emettendo la sua prima professione religiosa il 2 ottobre 1968. Ordinato sacerdote il 22 dicembre 1973, visse i suoi primi anni di missione in Italia, come formatore nelle case di Gambettola e Bedizzole, e nell’animazione vocazionale a Porto San Giorgio.  Dopo aver raggiunto l’Argentina tutta la sua vita la spese in quel paese eccetto il periodo tra il 1993 e il 1999, quando ricoprì l’incarico di consigliere generale dei Missionari della Consolata per il continente americano.

Quando celebrò i 50 anni di ordinazione disse che l’Argentina «è la mia terra e la porto nel cuore». Tutto il Paese e ognuna delle città dove ha prestato il suo servizio missionario: San Francisco, Martín Coronado, Jujuy, Mendoza, Yuto, Merlo e Buenos Aires.

padre Julio Caldeira, da Consolata.org, 11/02/2025

Padre Antonio è stato un caro amico con cui ho condiviso l’animazione missionaria a cavallo tra gli anni 70 e gli 80: lui nella comunità di Porto San Giorgio (Ap) e io in «Amico», la rivista per gli animatori missionari. Ci siamo poi incontrati durante il capitolo generale del 1999 a Sagana in Kenya. A lui dedico le due foto di quei giorni, in particolare la seconda, quando ha presieduto la messa che i capitolari hanno celebrato nella missione di Maralal e l’avevano vestito come un anziano samburu.


Far rivivere l’ospedale di Wamba

L’associazione Oscar Romero, nata nel 1990 e operante nelle parrocchie, nelle scuole e sul territorio del magentino e del castanese (zona ovest di Milano), […] dal 2004 è attiva nell’aiutare la popolazione del nord del Kenya, con la creazione di posti di lavoro, la fornitura di sistemi per la potabilizzazione dell’acqua che utilizzano impianti a osmosi per la desalinizzazione dei pozzi salati e con la costruzione di impianti fotovoltaici, allo scopo di sfruttare la luce solare per produrre elettricità.

Uno dei punti fermi è far in modo che i progetti, realizzati e sostenuti grazie alle donazioni raccolte, nascano sul posto, siano avallati dal vescovo e dalle autorità civili locali e siano portati avanti dagli abitanti delle popolazioni locali.

Proprio su questi punti si basa l’obiettivo per il quale l’associazione si sta attualmente adoperando: la riapertura dell’ospedale di Wamba, che per la sua organizzazione e localizzazione geografica rappresenta un servizio di fondamentale importanza per la salute della popolazione locale.

Wamba è un villaggio nel distretto del Samburu orientale nella diocesi di Maralal, in Kenya. L’ospedale è stato fondato nel 1969, ed è rimasto attivo per oltre 40 anni, con una capacità di circa 200 posti letto, e in grado di assistere i pazienti da tutto il Kenya, la maggioranza dei quali provenienti dalle diocesi di Maralal, Marsabit, Meru, Wajir, Nanyuki e Nyahururu.

Esteso su 40 ettari di terreno, offriva ricovero e sostegno ad una popolazione di oltre 40mila individui, destinati altrimenti a rimanere isolati da ogni contatto civile, umano e sanitario.

La riapertura e la riattivazione di questa struttura sono fortemente volute sia dall’attuale vescovo, il missionario della Consolata monsignor Hieronymus Joya della diocesi di Maralal, che dall’intera popolazione. Questo perché l’ospedale, è in grado di fornire un servizio di assistenza completo e necessario, con i suoi reparti femminile, maschile, pediatrico, maternità, laboratorio, radiologia, fisioterapia, farmacia, cucina e servizio biancheria. Tra le sue strutture ci sono anche tre sale operatorie, le case per i medici e una scuola di formazione infermieristica che attualmente (a partire dal mese di gennaio 2025) sta formando 50 infermieri e infermiere per inserirli nei reperti dell’ospedale di Wamba e altri centri sanitari dove si richiede questa importante figura professionale.

La riattivazione è pensata come riapertura «modulare», iniziando dai servizi più urgenti di maternità e medicina d’emergenza, per arrivare alla riapertura totale, e si manifesta come un’importante sfida su molteplici fronti:

❤ dare nuova energia: grazie alla costruzione di un impianto fotovoltaico in grado di fornire elettricità all’intera struttura;

❤ dare nuova luce: grazie alla sostituzione delle vecchie lampade obsolete con nuove lampade a led, che permettono di risparmiare;

❤ dare nuovo cibo: grazie all’attivazione di un forno per la panificazione e una panetteria interni, ma che serviranno anche il resto della comunità;

❤ dare nuova speranza: grazie alla formazione e all’addestramento del personale, per un’efficace assistenza sanitaria e creazione di nuove opportunità d’impiego.

Lo scorso mese di gennaio alcuni membri dell’associazione Oscar Romero di Magenta sono stati in visita a Wamba, raccogliendo le necessità e il forte desiderio espresso dalla popolazione locale di avere un centro sanitario quale Wamba Hospital sul loro territorio. Anche la gente del posto si sta muovendo per una raccolta fondi attraverso attività ed eventi. Un’iniziativa che, in modo particolare, sta coinvolgendo tutto il Samburu County è il «Run for Wamba», (vedi foto qui accanto) grazie alla quale la gente, che ha aderito in massa, ha la possibilità di avvicinarsi alla situazione di necessità, donando ciò che può. Tale numerosa partecipazione dimostra la corresponsabilità e comprova l’importanza che la popolazione locale dà alla riapertura dell’ospedale.

In questa situazione di emergenza sanitaria e umana, la riapertura dei reparti diviene un’ impor- tante priorità per la nostra associazione, che assieme ad altri gruppi e associazioni si sta prendendo a cuore questa impellente necessità, contribuendo a dare nuova vita a questo importante centro sanitario.

Il primo passo per la riapertura sarà l’installazione di un impianto fotovoltaico con un sistema di accumulo a batteria per dare energia ai reparti di medicina, maternità e i laboratori per le analisi medico specialistiche. Questo permetterà di avere un notevole abbattimento dei costi dell’energia elettrica, che incide in modo importante sulla gestione dell’ospedale. Le batterie di accumulo garantiranno la continuità energetica per la catena del freddo (ad esempio dei vaccini) e altre necessità. Un secondo passo sarà l’apertura di un forno per la panificazione per uso interno all’ospedale e, a seguire, una rivendita di pane rivolta all’esterno, attraverso un negozio, aperto proprio sulla strada principale della cittadina, e collegato strutturalmente all’ospedale.

L’associazione Oscar Romero di Magenta oltre alla sensibilizzazione verso situazioni di emergenza simili a quella dell’ospedale di Wamba, è impegnata in Italia attraverso eventi pubblici e all’interno delle scuole, nel percorso di educazione civica e dal 2004 organizza viaggi solidali in Kenya. Il viaggio è fatto da piccoli gruppi di 5-6 persone che, ospitate nelle diverse comunità dove i progetti sono attivi o in corso, potranno prendere visione delle diverse problematiche esistenti. Al viaggio non mancherà la visita delle bellezze che il Kenya, con le sue immense distese dei parchi naturali, può offrire attraverso emozionanti safari.

Angelo Riscaldina per associazione Oscar Romero
Magenta, 25/02/2025 – romero.magenta@gmail.com

Pubblichiamo ben volentieri quanto avete scritto su Wamba, un ospedale che conosco bene, dove sono stato curato quando ero nella missione di Maralal: una struttura ricca di vitalità e capace di essere a servizio dei poveri, delle donne, degli orfani, e scuola di eccellenza per tanto personale sanitario. Un centro di cura dove medici come il dottor Silvio Prandoni hanno dato il meglio di sé.

 




Un povero che ha arricchito molti


Nel marzo 2007 ero in Kenya, a Nairobi. Da lì, poco tempo prima, dopo 43 lunghi anni di servizio, era partito per rientrare in Italia un missionario settantasettenne. Scrissi allora un editoriale per la rivista che curavo laggiù, The Seed (Il seme). Il titolo era «Gone poor, having made rich many…» (Partito povero, dopo aver reso ricchi molti). Il missionario in questione era padre Giuseppe Quattrocchio. Un gran lavoratore, un prolifico scrittore, un affascinante cantastorie che aveva dovuto ritirarsi dal lavoro in missione nel Meru per una lesione alla spina dorsale. Era arrivato a Nairobi nel 1973. Da lì aveva servito in maniera incredibile tutte le missioni del Kenya trovando per loro ogni cosa di cui avessero bisogno, dalle puntine da disegno ai pezzi di ricambio di qualsiasi macchinario, dalle medicine agli articoli religiosi. Dal suo botteghino per gli amici e visitatori delle missioni, aveva promosso una bellissima iniziativa per far conoscere il Kenya con le sue serie di diapositive e libretti sui vari gruppi etnici, tradotti in diverse lingue e diffusi in tutti i luoghi turistici del Paese.

Padre Giuseppe, missionario che nel suo servizio aveva maneggiato fior di milioni per il bene di tanti (educazione, salute e sviluppo), era rientrato in Italia con un vecchio vestito, regalo di qualche benefattore, e una grossa valigia strapiena di oggetti di artigianato locale da regalare in Italia ai suoi molti amici, assieme a pochi oggetti personali. Lui che aveva cambiato la vita di tante persone, partiva più leggero di quando era arrivato, lasciando tutto quello che aveva, anche la sua inseparabile bicicletta Graziella con la quale era conosciutissimo in tutta Nairobi. Aveva dato tutto.

In quel testo ricordavo anche i nomi di diversi altri missionari che avevano fatto come lui ed erano rientrati in Italia per i loro ultimi giorni andando via poveri, dopo aver reso ricchi tanti.

Padre Giuseppe. Quattrocchio il 16 febbraio 2022, alla festa di San Giuseppe Allamano

Lo scorso 22 gennaio quello stesso padre Giuseppe ci ha lasciato alla vigilia del suo 95° compleanno. È tornato a casa, quella del Padre, dove è arrivato ricco di tutto l’amore che ha vissuto avendo dato tutto con passione, gioia, competenza e umiltà. Al suo funerale, celebrato nel giorno di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, ho ricordato che è stato anche un fior di giornalista  e che questa rivista, per la quale aveva lavorato dal 1954 fino alla sua partenza per il Kenya a fine 1963, a lui deve molto.

E anche stavolta, per il suo ultimo viaggio, è partito dopo aver dato tutto portando con sé solo il suo grande amore per la Missione. Mi fa specie ricordare lui, e insieme anche tanti altri missionari e missionarie che hanno dato la vita, in questi tempi nei quali chi fa notizia è quel gruppo elitario di miliardari che pensano di essere i padroni del mondo. Questi, per diventare sempre più ricchi, sfruttano senza ritegno le persone e le risorse del pianeta, manipolano l’informazione, fomentano guerre, chiudono gli occhi davanti ai poveri, ai migranti e agli schiavizzati e si fanno belli come salvatori della patria.

La testimonianza di uomini come padre Giuseppe è una realtà bellissima, carica di speranza. Con la loro vita diventano contestazione di un mondo disumano e ci dimostrano come il «dare tutto», come ha fatto Gesù, è l’unica via per costruire vera umanità.

 





Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo

Autonomia e responsabilità

Cari amici,
leggo da quasi 50 anni Missioni Consolata e da tanto tempo cerco di dare una mano a molte vostre iniziative con il «Verbania Center». Quando vedo le foto di tanti amici (molti purtroppo non ci sono più) mi commuovo.

Non entro nel merito della linea editoriale della rivista (che, a volte, non condivido), ma l’apprezzo come fonte documentata e seria.

Mi è spiaciuto leggere che nell’articolo di Francesco Gesualdi sull’«Autonomia dell’egoismo» (MC 11/2024) l’autore non abbia citato un punto essenziale: la responsabilità.

Se è facile scrivere quello che ha scritto, forse dovremmo anche verificare come oggi vengano spesi i soldi in molte regioni soprattutto del Sud che sprecano risorse immani e che – se mai saranno «responsabilizzate» – non miglioreranno mai. È sacrosanta la solidarietà, ma «aiutati che il ciel t’aiuta». Ho fatto il parlamentare per tanti anni e il sindaco della mia città (Verbania) a cui, per abitante, vanno un quarto dei trasferimenti erariali di Catania e un ottavo di quelli di Bolzano.

È giusto continuare così? Un cordiale saluto.

Marco Zacchera
24/12/2024

Non sono in grado di esprimere opinioni circa ciò che dice rispetto alla diversità dei trasferimenti erariali fra Verbania, Catania e Bolzano perché non ho studiato i tre casi. Quanto al richiamo al dovere di responsabilità da parte degli amministratori, sono d’accordo. Va garantita in ogni caso, e il legislatore deve introdurre gli strumenti giuridici affinché chi sbaglia paghi. Ciò che mi premeva mettere a fuoco nell’articolo è il nesso che è stato creato fra autonomia e possibilità, per le regioni ricche, di trattenere il denaro sul loro territorio, a detrimento della solidarietà interregionale e quindi dell’equità. Se qualcuno pensa che ho detto delle falsità rispetto a questo aspetto sono disposto a esaminare le critiche. Altrimenti siamo sul terreno del contenuto sgradito perché non coincidente con le proprie convinzioni politiche e sociali e va annoverato come tale.

Francesco Gesualdi
30/12/2024

Alla risposta di Francesco, mi permetto di aggiungere una notizia apparsa su Avvenire del 28 gennaio, a firma di Cinzia Arena. «L’Italia a due velocità ha redditi e tenori di vita sempre più distanti. A dirlo l’Istat nel suo Report sui conti economici territoriali relativo al 2023. Nelle regioni del Sud il reddito disponibile delle famiglie per abitante è poco più della metà di quello di chi vive nelle regioni più ricche».


Una scelta controcorrente

Spett. Redazione,
colgo l’invito a scrivere alla rubrica «Noi e voi». Da anni apprezzo la rivista MC per la vastità e la profondità dei temi trattati, difficilmente rintracciabili su altri mezzi di informazione. Un aspetto sicuramente unico è la totale assenza della pubblicità e sono convinto che questa scelta stia alla base della libertà di espressione. È una scelta controcorrente. Oggi la quasi totalità delle fonti di informazione (giornali, radio, tv, social, ecc.) afferma che senza i soldi della pubblicità non è possibile sopravvivere. L’argomento è molto più complesso di quanto io possa conoscere, ma sono convinto che dall’abuso della pubblicità ci si debba difendere. È una nostra responsabilità. Gradirei un vostro commento e magari un approfondimento con un servizio dedicato.

Luigi Veronesi
Milano, 27/11/2024

Caro Luigi,
grazie per quanto scrivi, per il tuo apprezzamento e per il tuo incoraggiamento.

Abbiamo fatto la scelta di non avere pubblicità per essere coerenti con il nostro tipo di pubblicazione e per rispetto dei nostri lettori e sostenitori. Questo pur rendendoci conto che la maggior parte delle pubblicazioni possono offrirsi a un prezzo accessibile grazie alle pubblicità che vengono pagate collettivamente dai consumatori dei prodotti pubblicizzati.

La nostra rivista è inviata agli amici e sostenitori delle nostre missioni e dei nostri missionari e si sostiene grazie a voi e alle vostre offerte. Strumento per dire grazie del supporto, vuole anche essere uno spazio per condividere un cammino e un impegno, quello di costruire un mondo secondo le regole dell’amore e non quelle del consumismo, del potere o dello sfruttamento. La nostra rivista non è fine a se stessa, ma esiste per essere voce dei nostri missionari e ancor più di ogni persona con la quale essi vivono. Per esserlo, cerca di informare accuratamente per coinvolgere nella corresponsabilità, aiutando a capire la realtà, a vederla con gli occhi dei poveri, a conoscere la bellezza della vita e della cultura di altri popoli. Lo scopo è quello di partecipare insieme a un mondo interconnesso dove ognuno è soggetto attivo di cambiamento in modo libero e gratuito. Questo rapporto di fiducia, libertà e gratuità è lo stile che caratterizza la nostra rivista fin dalla sua fondazione.

In un mondo dove si va di fretta, dove le notizie si consumano e si svendono ai like o al numero delle visualizzazioni, dove sono spesso talmente mescolate alla pubblicità che fai fatica a distinguere l’una dalle altre, la nostra scelta è quella dell’approfondimento, della documentazione ragionata, della ricerca faticosa delle verità. «Slow pages», pagine lente, ci definiamo, non show pages guarda e fuggi.

Non so quanto ci riusciamo, ma la risposta di voi lettori è sempre di grande incoraggiamento. Grazie.

Non diamo neppure per scontato che le cose saranno sempre così. Ci rendiamo perfettamente conto che le nuove generazioni non sono molto interessate alla carta stampata.

Per noi la solidarietà con i poveri e il sostegno alla missione non sono un’operazione commerciale, ma un gesto bello che nasce da un cuore libero.


Lettere e informazione

Buona giornata a voi.
Mi ricollego alla nota apparsa in queste pagine sul numero di Novembre 2024 inerente alla contrazione significativa di lettere da parte dei lettori di MC per condividervi un pensiero più generale: questa vostra osservazione, a mio modesto avviso, è sintomo di un problema di carattere più ampio, che sintetizzo di seguito.

Da un mondo, di pochi decenni fa, nel quale l’informazione era da scoprire e da ricercare, talvolta anche con fatica, si è passati a uno attuale nel quale l’informazione abbonda, a prescindere dalla affidabilità, qualità e, soprattutto, utilità effettiva della medesima.

Il tempo di ciascuno di noi, da impiegare a discrezione personale e connessa responsabilità, dovrebbe cominciare dalle cose importanti, nell’interesse dell’evoluzione della nostra società, del rispetto della nostra coscienza, dei nostri affetti nonché dei nostri impegni lavorativi o di altre attività socialmente utili: la famiglia, i nostri cari, le necessità primarie nostre e degli altri, nonché tutto ciò che serve per costruire un’attività quotidiana seria, che valorizzi l’umanità.

Dalla concretezza di tali contenuti si passa oggi sovente alla superficialità, in quanto la finezza della tentazione alla comunicazione «spiccia» è sempre più diffusamente legata ai tempi stretti e si manifesta in una pletora di dispositivi e app che l’assecondano: vale a dire che si passa dalla sostanza all’apparenza
(valutata in like e numero di
followers, ndr).

Cosa fare? Ricordare e ricordarci che esiste la sostanza, che passa attraverso il documentarsi, capire a fondo i problemi, sapere e saper fare.

Un contadino dei miei luoghi, comunque a ridosso di una grande città, non molto tempo fa notava in un breve dialogo: «Molti ragazzi (ma anche adulti, dico io) passano oggi il tempo a scriversi cosa fanno e cosa hanno fatto: ma, alla fine, cosa hanno fatto?».

È, dunque, importantissimo il ruolo di MC, giacché scarseggiano anche le guide etiche della società, con l’effimero così saturante la nostra quotidianità, con tanti granelli che lasciano il tempo che trovano: le guide sono le persone devote alla fede – a partire dai religiosi nelle loro varie declinazioni (sacerdoti, frati, diaconi, filosofi etici), ma anche laici – con le loro parole e i loro scritti; ci riportano con i piedi per terra, nei fatti, pur con gli occhi al cielo, negli obiettivi, così da non appiattirci su una moltitudine di messaggi che, come la sabbia, fanno scivolare il nostro tempo tra le dita.

In sintesi: nulla di nuovo sotto il sole se leggiamo i tempi correnti con le virtù cardinali; si tratta semplicemente di usare la prudenza nella tentazione moderna di leggere e trasmettere l’effimero (spesso via chat) e tenere il timone dritto sugli obiettivi importanti della vita, per i quali naturalmente MC fornisce un ottimo viatico.

Complimenti ed auguri.

Bruno Dalla Chiara
15/01/2025

Grazie Bruno per la tua riflessione che offre un contributo davvero interessante.

P.Giovanni Saffirio illustra le figure di alcuni quaderni ad alcuni indios del Catrimani.


Padre Giovanni Saffirio

Quando arrivò, all’inizio del 1968, ricordo che stava facendo il primo tirocinio a Boa Vista nella sede della Prelazia di Roraima, e poiché ero là, lo invitai a venire con me alla fazenda Santa Adelaide, a sud della città, sulla riva del Rio Branco, per svagarsi un po’ dal lavoro che consisteva specialmente nel produrre certificati di battesimo, di matrimonio, e simili. Per questo consultava libroni usati per questo fine, anche quelli compilati dai Benedettini prima dell’arrivo dei Missionari della Consolata nel 1948. Un tirocinio che anch’io avevo fatto.

Quando arrivammo alla fazenda, ci vennero incontro i familiari del vaqueiro, e padre Giovanni si affrettò a presentarsi dicendo: «Sou o Padre mais noivo da Prelazia». Naturalmente vi fu una risata generale. Confondere noivo (fidanzato) con novo era realmente facile.

Non saprei proprio come parlare di padre Saffirio. Potrei dire che aveva un’innata capacità di fare disegni e scritte che aveva maturato anni prima già nel seminario. La mise in pratica anche nella elaborazione di alcune pubblicazioni ciclostilate della Prelazia di quell’epoca.

Quando mi avvisarono che era stato destinato all’attività con gli Yanomami, suggerii che invece di mandarlo per la prima esperienza al Rio Ajarani, una presenza tra gli indios iniziata da padre Bindo Meldolesi, come avevano pensato, lo mandassero a passare un po’ di giorni al Catrimani, con me, perché avrebbe sofferto di meno, dato che lì avevamo almeno una baracca.

E così fu fatto. Si trattava di inserirvi un nuovo missionario, e con una certa urgenza, perché io ero da solo, padre Bindo non se la sentiva più e padre Giovanni Calleri era assente per via della spedizione di soccorso agli indios minacciati dalla strada Perimetrale Nord che era in costruzione.

Al Rio Ajarani ci andai io, e fu l’ultima volta prima che ci arrivasse la Perimetrale Nord. Mentre ero là, e ci rimasi due mesi, seppi dalla Voz da América che padre Calleri e la sua spedizione tra i Waimiri-Atroari era stata massacrata. Era il primo novembre 1968.

Al Catrimani, tra gli Yanomami, padre Giovanni finì per restarci vari anni, anche se quasi mai eravamo insieme. Ci alternavamo. Naturalmente aveva imparato la lingua yanomae. Era una persona generosa, schietta e amante dell’allegria. Dopo vari anni di dedizione, si gettò nello studio dell’antropologia, nella quale forse sperava di trovare nuove idee e lumi che potessero aiutarlo a risolvere i dubbi che si erano accumulati sulle finalità del suo darsi da fare, apparentemente con pochi risultati pratici. Per questo nel 1977 andò negli Stati Uniti per fare un master e un dottorato in antropologia a Pittsburgh con il famoso professor Napoleon Chagnon (1938-2019).

Ritornò a Roraima nel 1985 e vi rimase fino al 1995, alternando la permanenza al Catrimani con responsabilità di superiore e amministratore dei missionari a Boa Vista. Chiamato in Canada nel 1996, rimase in Nord America fino al 2012, quando tornò a São Manoel nello stato di São Paolo in Brasile, dove rimase fino a che ha ricevuto la sua ultima chiamata l’11 ottobre 2024.

 fratel Carlo Zacquini,
Boa Vista, 14/01/2025

Contiamo di tornare presto a raccontarvi di padre Giovanni Saffirio, che ora riposa in pace a São Paolo, in Brasile.

P.Giovanni Saffirio illustra le figure di un quaderno ad un indio del Catrimani .




Il tocco delle tue mani


Sento ancora il tocco delle tue mani ruvide sui miei piedi. Mani vive, callose, come quelle di mio padre, di mio nonno. Il tuo lavare, asciugare, accarezzare la mia pelle, ha reso più sensibili i miei timpani che vibrano alle tue parole. Tu mi dici di rimanere in te.

Eppure sai che tra poco ti porteranno via, sai che domani a questa stessa ora sarai un corpo morto, disteso nel buio impenetrabile di un sepolcro.

Lo sai, eppure mi chiedi di rimanere in te.
E mi assicuri che tu rimarrai in me.

Io sono qui, tra il calore calmo delle tue mani sui miei piedi
e la visione del tuo sangue sopra un legno.

Come rimanere in te? Come rimani tu in me?

Com’è che io e te non ci perderemo?

Aprirai una strada nella morte?

Buon cammino a piedi nudi verso la Pasqua,

da amico
Luca Lorusso

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In Missione con padre Carlo Biella. Profumi e colori della missione


Colori. Profumi. Sensazioni. Immersi nel calore del Mozambico, dei suoi raggi di sole, tra la sua polvere e la sua gente. Note del viaggio dell’agosto 2024 de «I Bagai di binari» di Cernusco Lombardone (Lc) nella missione di Uncanha, diocesi di Tete.

Tete, capoluogo della regione omonima, nel nord ovest del Paese africano, è una cittadina con poco più di 150mila abitanti. Uncanha, la missione di padre Carlo Biella, missionario della Consolata nativo di Cernusco, si trova a più di 280 km di distanza, nel mezzo di terre aride, alberi di papaia e un gran numero di piccoli villaggi.

Con il fuoristrada, acquistato grazie alla nostra parrocchia nel 2022, in nove ore raggiungiamo la meta: un piccolo villaggio, con vicino la missione con un pozzo e un pannello solare. Attorno la scuola primaria, un piccolo auditorium per le riunioni, la casa della maestra e una per la famiglia del catechista. Scopriremo presto che ogni villaggio ha il suo catechista e responsabile parrocchiale che gestiscono sia la parte spirituale che organizzativa di ogni comunità.

Attorno al pozzo incontriamo alcuni bambini figli di pastori che non frequentano la scuola, ma accudiscono animali, li abbeverano e parlano e capiscono solo la lingua locale. Un chupa-chupa li rende felici. La gioia di un gioco da noi improvvisato durante l’intervallo scolastico ha dato colore al cortile polveroso tra sorrisi, applausi, salti e abbracci, che danno un senso e un significato alla parola missione e perché no, anche alla parola chiesa, termini che anche con le più sofisticate e argute parole non si riescono sempre a spiegare.

L’accoglienza

La missione si estende a Nord-ovest verso Nhanseula e Malowera. Per raggiungere la prima sono necessarie due ore di fuoristrada su un percorso a terra battuta. Calorosa è l’accoglienza per padre Carlo e noi, suoi ospiti.

La celebrazione della messa è il momento focale. Nella chiesetta dalle mura grigie spiccano i colori di canti, balli e dei doni per noi ospiti: pollame, alimenti, farine e offerte per la parrocchia. Da parte nostra doniamo un pallone, gesto simbolico che riperemo in tutte le comunità che visiteremo nei prossimi giorni. La lingua della celebrazione è sia il portoghese che la lingua locale, il chichewa. Dopo la presentazione di ciascuno di noi, stringiamo la mano a ognuno dei presenti.

Tre ore passano veloci, poi il pomeriggio di giochi con i bambini con il pallone e senza, mentre in un campo vicino due squadre di ragazzi giocano una partita di calcio. Visitiamo la famiglia del catechista del villaggio, la cui madre è impossibilitata a muoversi. Le case sono capanne o casette circondate da pali di legno a mo’ di recinzione impedendo l’ingresso ad animali. Pollame e caprette sono libere di pascolare per l’intero villaggio. I bagni sono strutture fuori dall’abitato con un buco e una zona apposita per lavarsi con secchi d’acqua, calda solo se posta sul fuoco.

Visitiamo anche il luogo della missione originale, abbandonata – come tantissime in questo ampio territorio – durante i terribili anni della guerra di indipendenza e poi quella civile tra Frelimo e Renamo.

L’indomani visitiamo Malowera, più a Nord, a un’ora di distanza d’auto. L’accoglienza qui è ancora più calorosa, con la stretta di mano a tutti appena arrivati, un cartello di benvenuto per padre Carlo, canti e balli, e poi un momento personale di riconciliazione per una cinquantina di persone.

Tre ore di celebrazione all’aperto sotto il sole e all’ombra di alcune piante. Alle spalle il cantiere per la costruzione della nuova chiesa per rimpiazzare quella distrutta dalla guerra e dall’abbandono.

Al tramonto di una domenica diversa dalle solite ritorniamo a Uncanha lasciandoci alle spalle abbracci, sorrisi e strette di mano di persone che vivono il valore vero e intenso della comunità e dell’accoglienza.

Con la comunità di Kanyenze

L’incontro di martedì 6 agosto con la comunità di Kanyenze a 20 km circa da Uncanha, ci ha aiutato a capire meglio il compito dei missionari: portare alla gente la parola di Dio, costruendoci attorno valori importanti quali la condivisione e la preghiera, un’opportunità di crescita e vera vita.

Padre Carlo, da oltre 30 anni in Mozambico, incontra per la prima volta questo gruppo di 70 famiglie di recente stanziamento grazie a Dixon, catechista e coordinatore della comunità di Uncanha. Questa comunità è diversa dalle altre, perché qui nessuno è ancora battezzato e quindi va proprio fatta la prima evangelizzazione.

«Qui si inizia dalle basi, a spiegare da zero certi gesti – ci racconta padre Carlo – con concetti semplici come si fa con i bambini. Dire chi è Gesù, cosa si intende per Eucarestia. Per iniziare una comunità cristiana – ha aggiunto – sono indispensabili un catechista che formi e parli alla gente e un coro che anima e che è motivo di aggregazione».

La messa viene accompagnata dal coro di Uncanha e vede i consueti gesti di accoglienza e doni verso la comunità e i sacerdoti celebranti e il dono di due palloni da parte nostra per le comunità locali. L’edificio della chiesa non c’è, tanto che celebriamo la funzione all’aperto sotto una pagoda con tetto di paglia.

Bambini, per due ore fermi e poco rumorosi, e mamme sono raggruppati attorno all’altare improvvisato, con sguardo curioso; una macchia di colori che colpisce. Grazie alla traduzione di Dixon in lingua chichewa si trasmettono così quei valori indispensabili per una comunità cristiana e alcuni avvisi. Allo stesso tempo la comunità esprime la problematicità di non avere un pozzo da cui attingere acqua, indispensabile per un villaggio, in particolare quest’anno nel quale le piogge non sono state abbondanti.

È stata una conoscenza reciproca, che ha avuto il suo fulcro nella preghiera comunitaria, sperando di poter far crescere una comunità di famiglie pronte a iniziare insieme un cammino di fede e di crescita sia materiale che spirituale.

La semplicità, ritrovata novità

Altre opportunità trovano spazio nel cammino qui a Uncanha. Le attività scolastiche si sono concluse per i bambini del primo ciclo della primaria con alcune prove lunedì e martedì 5 e 6 agosto; accompagnati dalla maestra Rosa, hanno appreso i fondamentali della lingua e dell’aritmetica.

Abbiamo così l’occasione di condividere con loro momenti di gioco in aula o nello spazio esterno. Provvisti di palloncini colorati, bolle di sapone e una palla azzurra portati dall’Italia siamo riusciti a far vivere nei loro occhi la meraviglia nel vedere qualcosa di nuovo.

Vista la temperatura si può anche giocare, divisi in tre squadre, con qualche gavettone in cortile. Tutto si chiude con un momento in cerchio, sorrisi gioiosi e un lungo applauso finale. Divertiti torniamo in aula e lasciamo un chupachupa a ognuno.

Nulla di speciale per noi, una giornata divertente per loro. La riscoperta della semplicità di alcuni gesti aiuta a capire che ogni tanto fa bene «fermarci» per non farci trascinare dalla frenesia dei nostri tempi.

A Zumbo e Miruru

Il viaggio si addentra nel vivo e sabato 10 agosto si parte per un viaggio di quattro ore per Zumbo, villaggio alla confluenza del fiume Luangwa con lo Zambesi, vicino al confine con lo Zambia (è il villaggio dove i primi cinque missionari della Consolata arrivarono il 5 marzo 1926, ndr). L’occasione è la celebrazione di sei battesimi.

Con padre Carlo celebra anche don Alfredo che consegna alla comunità un ostensorio per l’adorazione dell’Eucarestia, donato dalla sua attuale parrocchia. Canti e balli animano come sempre la Messa, celebrata la domenica solo quando è presente uno dei sacerdoti.

Il giorno dopo attraversiamo il fiume per raggiungere la comunità di Bawa, fotografando lungo il fiume ippopotami e un alligatore. La comunità è in fermento perché si sta preparando ad accogliere il festival dei cori delle parrocchie nei prossimi giorni di agosto.

A Zumbo c’è grande attesa per l’arrivo del vescovo di Tete Diamantino Antunes. Martedì 13 infatti grande festa in paese: bambini e fedeli accolgono l’arrivo del vescovo tra petali e stuoie lungo la strada. Nel pomeriggio sono celebrate le cresime di 57 persone nello spazio davanti alla chiesa coperto da tetti di paglia.  Non sono mancati i doni al termine della messa e i ringraziamenti.

In questa realtà vivono le suore della Consolata (dove erano già arrivate il il 30 agosto 1927, ndr), presenti: Ana Paola, Betania e Ivonne, provvisoriamente alloggiate vicino al piccolo ospedale della cittadina. La loro ospitalità e dolcezza ha rallegrato il nostro soggiorno. È in costruzione una casa per loro in centro paese e accanto si pensa di edificare un asilo nido.

Il viaggio non è terminato

Mercoledì 14 andiamo con il vescovo nel villaggio di Miruru, isolato, distante due ore da Zumbo, nei pressi di un’antica chiesa abbandonata in stile gotico attorno alla quale si sta costruendo un villaggio, nella speranza di accogliere delle famiglie e formare una parrocchia. Si riparte da zero e si ricostruisce. Forza e volontà non mancano, si vuole riportare alla vita numerosi edifici, ormai ridotti ruderi, un tempo missione dei Gesuiti di inizio 1900, poi abbandonata per le vicissitudini storico politiche.

A pochi metri il cimitero con le tombe dei padri fondatori, purtroppo profanato di recente: per questo si è deciso di far partire da qui la processione fino all’ingresso della chiesa, ora senza tetto, dove sono state celebrate dal vescovo le cresime. Sette i cresimati con i rispettivi padrini e madrine e la richiesta da parte di dom Diamantino di tornare ad animare questo villaggio per poter così dare un senso alla costruzione di diverse strutture come una scuola, laboratori, case. Sicuramente entro Natale verrà ricostruito il tetto della chiesa.

La sera cala dopo la festa, in un’atmosfera suggestiva, sotto un cielo aperto e stellato.

L’indomani mattina un risveglio altrettanto incantevole al sorgere del sole per tornare alla base.

Ciò che resta

«In questa stupenda esperienza ciò che mi ha colpito maggiormente è stata la semplicità con cui i bambini, ma non solo, trovavano il sorriso non appena ci vedevano, specialmente quando passavamo tra i villaggi con il fuoristrada. Ci seguivano con lo sguardo, notavano noi bianchi tutti assieme e ci ricambiavano il saluto con un bellissimo sorriso e tutti pieni di gioia e anche sorpresa – ci ha raccontato Matteo, nipote di padre Carlo e uno dei responsabili in oratorio della comunità giovanile cernuschese -. Sicuramente ho portato a casa la consapevolezza di essere estremamente fortunato ad avere privilegi e comodità che prima di questo viaggio davo per scontato. Ad esempio, la mancanza di acqua corrente, principalmente durante la doccia, si è fatta sentire notevolmente, ma anche la sporadicità con cui si presentavano le varie case di cura e i rarissimi ospedali, che per fortuna non ci sono serviti, l’assenza quasi totale di strade asfaltate che hanno aumentato le ore di spostamento tra una parrocchia e l’altra. Sicuramente in queste tre settimane ho capito perfettamente perché gente come padre Carlo viene chiamata missionario: hanno da compiere una vera e propria missione, che non consiste solamente nel diffondere il più possibile il Vangelo tramite le celebrazioni e le catechesi, ma anche stare dietro a tutto quello che ci gira attorno, quindi gestire le contabilità di tutte le parrocchie, ascoltare i bisogni dei parrocchiani, costruire chiese, asili, abitazioni, pozzi, risolvere le problematiche che saltano fuori ogni giorno e adattarsi a una vita che è totalmente diversa da quella che viviamo qui».

«Scegliere un momento significativo di questa esperienza, è difficile. Condividere con queste comunità, la vita di tutti i giorni, giocare a “Giro giro tondo” con i bambini e vedere la felicità nei loro occhi, fa riflettere – è il pensiero di Nadia, del direttivo de I bagai di binari (i ragazzi dei binari), l’associazione missionaria di Cernusco -. A loro non serve molto per essere felici e sorridere, nonostante abbiano poco o quasi nulla. Per questo, continuiamo a sostenere quei progetti che, con eventi, sottoscrizioni a premi e altro, ci permettono di raccogliere fondi per sostenere queste realtà».

«Questa piccola esperienza mi ha confermato quanto sia importante aiutare chi ha bisogno, meglio sul posto, nel loro Paese d’origine – ha aggiunto Dario Vanoli, presidente de I bagai di binari -. L’aiuto concreto di chi veramente ha voglia di soccorrere chi ha bisogno è quello che serve; è bene che, chi lo fa, faccia rete e coinvolga chi ha intorno. Sono piccoli semi, segni che possono però dare tanto: un sorriso, una chiacchierata e, perché no, anche una vita che cambia. Tutto ciò è uno splendido frutto. Sono esperienze che consiglio caldamente ai giovani, perché aiutano a crescere. Grazie ancora una volta a chi ci è stato vicino e ha sostenuto concretamente le donazioni fatte a padre Carlo. Per questo è importante seguire e sostenere i nostri progetti: un aiuto concreto e diretto per queste realtà missionarie o del territorio».

Proprio perché la missione continua, ci saranno in futuro nuove avventure simili.

I bagai di binari
(ibagaidibinari@libero.it)




Taiwan. Modernità e missione


Hsinchu è una delle diocesi più giovani del Paese. I cattolici sono una minoranza, ma le opere sociali della Chiesa sono riconosciute. Come le attività di aiuto ai tanti migranti. Il suo pastore è attivo e lungimirante. Lo abbiamo incontrato.

Hsinchu. C’è una certa frenesia questa mattina in Ximen street, via centrale della città di Hsinchu, a un centinaio di chilometri a sud di Taipei, la capitale di Taiwan. Nonostante il caldo umido asfissiante – si toccano i 38 gradi nelle ore centrali del giorno -, fervono i preparativi nella bella chiesa del Sacro Cuore di Gesù per la celebrazione dei dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata nel Paese. Costruita dai missionari gesuiti nei primi anni Cinquanta, la sua originale architettura ripropone tre pagode, una attaccata all’altra, rotonde, di diametro decrescente, con il tipico tetto orientale, che nulla ha da invidiare a quello del tempio alla dea Matzu (la signora del mare), che guarda la chiesa dall’altra parte della via.

Fin dalle prime ore di questo 21 settembre, i fedeli hanno iniziato ad arrivare nella pagoda principale della chiesa, mentre delegazioni di religiosi e amicim di svariate nazionalità, sono passate per un saluto ai padroni di casa.

La parrocchia è stata affidata ai Missionari della Consolata nel 2017, e vi lavorano padre Jasper Kirimi e padre Caius Moindi, entrambi keniani. Ma oggi la festa non è solo dei missionari di san Giuseppe Allamano (attualmente in sette a Taiwan, di cinque nazionalità), o della parrocchia ma, si può dire, è dell’intera diocesi di Hsinchu.

Il vescovo, John Baptist Lee Keh-mien, presiede la messa di anniversario, concelebrata da alcune decine di sacerdoti, di svariata provenienza. Molti vengono da Taipei per l’occasione, come padre Edi Foschiatto, saveriano, tra i primi ad aver aiutato i missionari della Consolata nelle loro iniziali perlustrazioni sull’isola.

Una diocesi giovane

Monsignor Lee, classe 1958, è vescovo di Hsinchu dal 2006. Dal 2020 è anche presidente della Conferenza episcopale regionale cinese, ovvero di Taiwan, ma il nome ufficiale è questo per non solleticare l’irritabilità dei dirigenti della Cina continentale. Le diocesi taiwanesi sono in tutto sei, più l’arcidiocesi di Taipei.

Alcuni giorni prima della festa, andiamo a incontrare monsignor Lee nel suo ufficio, nel palazzo a fianco alla bella cattedrale di Hsinchu. Disponibile e simpatico, durante la nostra chiacchierata intervalla il suo discorso con pacate risate.

«Taiwan è una società mediamente anziana. E tra i cattolici questa tendenza si accentua ancora di più. Nelle parrocchie i due terzi delle persone sono pensionati, e i ragazzi sono rari». La diocesi, per contro, è tra le più giovani del Paese, essendo stata eretta nel 1961: «L’evangelizzazione a Taiwan, iniziata da Sud, dalla città di Kaoshung dove arrivarono i primi missionari nel XVI secolo, è giunta fino al centro, a Taochung, da dove ha “saltato” la nostra zona, ed è passata a Nord, a Taipei. Possiamo dire che abbiamo due generazioni di cattolici qui, mentre in altre diocesi, già centenarie, le famiglie “cattoliche” sono più forti perché hanno una storia più lunga».

Bisogno di missionari

La diocesi di Hsinchu comprende la contea omonima, la contea di Miaoli e il comune speciale di Taoyuan (area dell’aeroporto internazionale), per un totale di 4.750 km2. I cattolici censiti sono circa 40mila.

«In questa zona – continua il prelato – fino a dopo la Seconda guerra mondiale non c’erano quasi cattolici. Poi, quando nel 1949 Chan Kai-shek, persa la guerra contro i comunisti di Mao, insieme al suo apparato militare e statale, ha invaso l’isola, in quest’area sono stati insediati alcuni accampamenti militari. Diversi soldati erano cattolici, da qui l’esigenza di avere dei sacerdoti. Le prime parrocchie nacquero proprio nei pressi degli accampamenti. Fino agli anni Settanta c’è stato un periodo di forte evangelizzazione, che poi si è stabilizzata». Era iniziata la crescita economica, e molti giovani andavano all’estero a studiare, «così il numero dei cattolici non è più aumentato. Oggi abbiamo dei battesimi, ma si equilibrano con i funerali».

Il vescovo mette poi l’accento sulle risorse umane a sua disposizione. Questa zona è stata, fino dai primi anni Cinquanta appannaggio dei gesuiti, come altre erano dei francescani, o di altre congregazioni. «Anni fa in diocesi c’erano in tutto duecento sacerdoti, dei quali cento erano gesuiti. Oggi posso contare su settanta preti in totale. Di questi poi, solo due sono taiwanesi, e sono professori all’università, per cui non seguono neppure una parrocchia». E continua: «I preti della diocesi sono stranieri, sia quelli missionari che quelli incardinati qui. Prevalgono i coreani, poi vietnamiti, filippini, e, più recentemente, africani di svariati paesi. Ma non abbiamo quasi vocazioni locali».

«Io sto invitando preti dall’estero e quelli che arrivano sono giovani. Questo, secondo me, ha l’effetto di attirare più ragazzi nelle parrocchie. Recentemente abbiamo due seminaristi taiwanesi. Forse riusciamo a innescare un circolo virtuoso».

Un altro tema che ha preoccupato monsignor Lee dall’inizio del suo episcopato è stato quello finanziario. Una legge di Taiwan, promulgata all’inizio del suo episcopato, aveva infatti ridotto alcune entrate economiche per la diocesi: «Ho dovuto lavorare per stabilizzare la parte finanziaria, ma adesso ci sono riuscito», dice con orgoglio.

Migranti asiatici

La Chiesa cattolica, pur essendo una minoranza tra le minoranze (vedi oltre), è riconosciuta nella società taiwanese, soprattutto grazie alle attività sociali: educazione, salute, lavoro con la disabilità e, recentemente, le attività con i migranti.

Negli ultimi anni stanno arrivando a Taiwan molti immigrati, in particolare da Indonesia, Vietnam, Filippine e Thailandia. Sono attratti dal lavoro nell’industria (in particolare quella per la produzione di semiconduttori, di cui il Paese è grande esportatore), nelle costruzioni (si vedono in città molti cantieri per nuovi palazzi), e nell’accudimento degli anziani.

La diocesi di Hsinchu gestisce tre centri per migranti, nei quali fornisce aiuto per abitazione, questioni legali, sanitarie, per imparare la lingua cinese e assistenza spirituale.

Tra chi arriva ci sono pure i migranti senza documenti in regola per stare a Taiwan. Monsignor Lee ci dice che «ce ne sarebbero più di 10mila. Talvolta la polizia viene a cercarli in chiesa durante le messe, ma noi chiediamo di non intervenire».

La maggioranza dei migranti filippini e vietnamiti sono cattolici, mentre gli indonesiani sono in prevalenza musulmani. «Anche dopo le funzioni della domenica cerchiamo di dare loro assistenza, in particolare grazie a molti volontari. Alcuni di questi sono migranti di più lunga data, che si mettono a disposizione per aiutare. Inoltre, con i sacerdoti loro connazionali (in particolare filippini e vietnamiti), riusciamo a seguirli più efficacemente».

Parlarsi tra religioni

Il vescovo ci racconta che esiste un buon rapporto con le altre religioni presenti nel Paese, abitato da 23 milioni di persone. Buddhismo e taoismo contano le percentuali più alte di fedeli, circa 20 e 19% rispettivamente, poi ci sono le religioni popolari, le cosiddette folk religions (28%), anch’esse molto diffuse e, infine, cristiani evangelici (5,5%) e cattolici (1,3%; dati Academia sinica 2021).

«Con i pastori protestanti abbiamo un incontro ogni mese, a cui partecipano alcuni nostri preti e laici. Siamo in comunicazione con loro a livello della contea di Hsinchu. Per quanto riguarda le altre religioni, durante le feste ci invitiamo vicendevolmente. Ad esempio, alla festa della luce, che noi cattolici facciamo a Natale, invitiamo tutti i leader. Inoltre, io vengo invitato da loro, in particolare ho frequentato alcune feste taoiste. Sia loro, sia i buddhisti, va ricordato, sono di tante correnti diverse».

Fede consapevole

Come presidente della conferenza episcopale, chiediamo a monsignor Lee un commento su come i fedeli taiwanesi vivono la loro fede. «Oggi a Taiwan tutti hanno la possibilità di andare all’università, almeno per il primo livello (bachelor, laurea breve, ndr), mentre un tempo era diverso. Quando ero giovane io, solo il 20% dei miei coetanei potevano seguire gli studi.

Allo stesso modo, adesso la formazione dei cattolici è diventata un fattore importante. Prima essi non conoscevano la Chiesa, non avevano i fondamenti della Bibbia, ma non c’era molta attenzione a questo. Dal 2012 abbiamo una scuola di Bibbia, frequentata da laici. La partecipazione è in crescita e da allora sono stati formati circa 4mila fedeli in tutto il Paese.

Adesso, posso dire, i cattolici conoscono la loro religione e le basi della loro fede. La situazione della diocesi di Hsinchu è simile a quella delle altre: anche qui i credenti iniziano ad avere maggiore conoscenza della dottrina cattolica e della Bibbia».

Questo vuole anche dire che adesso, per un parroco, è più facile trovare dei laici formati che possano aiutarlo. È un grosso cambiamento dell’ultimo decennio.

«In secondo luogo – riprende il vescovo – se la fede diventa più consapevole, ho speranze che nei prossimi anni crescano le vocazioni locali. Sia per i sacerdoti che per le suore».

Contatti cinesi

Chiediamo a monsignor Lee che contatti ha la chiesa di Taiwan con quella del continente, ovvero della Repubblica popolare di Cina (Rpc).

«Molti vescovi della precedente generazione erano originari della Cina continentale, per cui avevano lì parenti e molti conoscenti. Si può dire che erano come un ponte verso il continente e le relazioni erano buone. Ma adesso non è più così. Noi siamo nati e cresciuti a Taiwan e abbiamo meno legami. Inoltre ci sono difficoltà anche dovute alla situazione politica».

Il vescovo ci ricorda che preti e suore della Rpc possono venire a studiare teologia a Taiwan: «Noi forniamo una borsa di studio ogni anno a trenta persone della Cina continentale. Da qualche tempo però, è aumentato il controllo sui religiosi da parte del governo cinese, e ne vengono circa la metà».

Ci sono poi restrizioni del governo taiwanese per lavorare nel Paese: «Possono studiare qui ma non fermarsi. Ci sono cittadini della Rpc che hanno assunto altre nazionalità, in questo caso è loro consentito di integrare le nostre diocesi».

Approfittiamo per chiedere al vescovo un commento sulle tensioni tra Taiwan e Rpc, e anche se i taiwanesi temano un’invasione da parte dei comunisti: «Sono i militari a essere coinvolti ogni giorno su questo tema. Per ora la gente non ha ancora paura. Penso anche che alcuni uomini d’affari taiwanesi siano influenzati dalla situazione, diversi di loro stanno trasferendo le imprese e business dalla Cina ad altri paesi. Non tanto perché pensino a un’invasione, ma perché mentre prima era facile fare buoni affari con la Cina continentale, oggi sta diventando sempre più difficile».

«Lavorano bene»

Torniamo ai dieci anni di presenza dei missionari della Consolata a Hsinchu.

La parrocchia di Ximen street era la base dei gesuiti per tutta la diocesi. «Quando, nel 2017, visto il ridotto numero di sacerdoti, non sono più riusciti a gestirla mi hanno chiesto di mandarvi qualcuno con una buona esperienza. Alcuni missionari della Consolata erano già in diocesi dal 2014. Stavano studiando la lingua e la cultura. Io avevo sentito dire che lavorano molto bene, hanno buone vocazioni e gestiscono tante parrocchie, quindi sanno come prendersene cura. Per questo motivo ho proposto loro la gestione del Sacro Cuore di Gesù».

Monsignor Lee si alza in piedi e ci mostra un quadro della Madonna. Maria tiene tra le mani Gesù e sembra che lo porga a un bambino in piedi di fronte a lei: «È nostra Signora di Hsinchu», ci dice con il suo gran sorriso.

Marco Bello


A casa di Peter e Jennifer

Il cattolico buddhista

Peter e Jennifer sono due parrocchiani del Sacro Cuore di Gesù, in centro a Hsinchu. Mi invitano nel pomeriggio a casa loro per bere il tè. È una casa semplice e decorosa, al piano terra di un basso edificio. Nel cortiletto antistante, vi sono molte piante tra le quali diversi bonsai. Peter è un appassionato di tè e utilizza tutto un rituale preciso per consumare la bevanda, da solo o con amici. Ci sediamo uno di fronte all’altro, tra noi un tavolo ricolmo di dolci di ogni tipo. Davanti a lui, ha una tavoletta di legno sulla quale è appoggiata una piccola teiera. A destra, fuori dal tavolo, c’è un bollitore sempre pronto.

Peter, parla un po’ di inglese, e questo facilita la comunicazione. Mi racconta la sua storia.

Peter ha lavorato per trent’anni nell’esercito di Taiwan, poi, congedato, ha cercato un altro lavoro ed è attualmente alla Tsmc (Taiwan semiconductor manufacturing company, la maggiore società di produzione di circuiti integrati del Paese) nell’ambito della sicurezza.

«Ho 67 anni. Circa 15 anni fa, al mio capo, tornato da una permanenza nella Cina continentale, è venuto un tumore ed è morto in pochi mesi. Aveva due anni meno di me. È stato un duro colpo. Ho lasciato la fede cattolica e ho iniziato a seguire le pratiche buddhiste». Sua moglie Jennifer, invece, ha continuato a frequentare la parrocchia.

Alcuni anni dopo al Sacro Cuore arriva un nuovo prete, è un africano. Jennifer lo presenta a Peter. I due diventano amici e prendono spesso il tè insieme, come facciamo noi oggi. Finché qualcosa cambia in Peter: «Decisi di tornare alla Chiesa, e domandai al missionario di confessarmi. Penso che lui sia stato mandato dal Signore per salvarmi».

«La religione che seguiamo è una specie di destino – ci dice solennemente -. In famiglia siamo in sei, tra fratelli e sorelle, e solo una sorella è cattolica».

Gli chiediamo cosa gli è rimasto del buddhismo: «Ho praticato per dieci anni. Alcuni insegnamenti del Buddha mi sono entrati dentro, ma penso che la cosa più importante sia la misericordia del Signore. Ti aiuta a discernere cosa è meglio per te».

Peter fa un confronto: «Gesù ha avuto solo tre anni per insegnare il suo pensiero, il Buddha, invece, ne ha avuti 59. Gesù ci ha insegnato a sacrificarci per gli altri, e questo non è facile. Un insegnamento molto forte». E continua: «Il missionario africano mi ha dato l’esempio con il suo comportamento». Quel sacerdote era il kenyano padre Mathews Odhiambo.

«Quando ero nell’esercito ho subito alcuni incidenti e me la sono cavata: ho sentito la protezione di Dio. Quando cercavo un lavoro, ho pregato il Signore che mi aiutasse. Sovente, mentre prego sento la sua presenza». Dicendo queste parole, Peter, il cui viso ha tratti duri, che fanno intravedere il suo passato di militare, si commuove e i suoi occhi si inumidiscono.

Cerchiamo di toglierlo dall’imbarazzo chiedendo chi è raffigurato nella statua sullo scaffale alla sua destra. Pare un guerriero con una lunga barba, al cui collo è appeso un rosario. «È il generale Guan Ye, una figura della Cina antica. Rappresenta giustizia, coraggio e lealtà. Mi ricorda in particolare di essere leale e di non avere mai paura degli altri». Non lontano dal generale, si trova una statua della Madonna, e subito sopra un bel crocefisso di legno appeso al muro in posizione dominate.

«Lo stesso fatto che noi due ci siamo incontrati, pur abitando così lontani, è un disegno del Signore – sentenzia Peter -. Anche i missionari vengono da lontano e da culture distanti tra loro, ma hanno la stessa fede. Questo è un segno importante».

Ma.Bel.

 




La santità che scuote


Il 20 ottobre scorso Giuseppe Allamano è diventato ufficialmente santo. Pellegrini da 35 paesi hanno raggiunto Roma per l’evento. Missionarie e missionari della Consolata di tante nazionalità erano presenti. È stata una grande festa di famiglia. Reportage.

Roma, 19 ottobre. È già buio quando fuori dalla Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella, a pochi passi da piazza Navona, incontriamo un brulicare di gente. A guardare bene, e ad ascoltare la cacofonia di voci, ci sono persone da diverse parti del mondo. Si abbracciano, parlano, cercano qualcuno di conosciuto, prima di entrare alla veglia che inizierà tra poco. È il popolo di Giuseppe Allamano, che si è riunito da 35 paesi di quattro continenti, perché il 20 ottobre, il sacerdote torinese fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, sarà canonizzato da papa Francesco, ovvero, diventerà ufficialmente santo.

Intanto la chiesa si riempie, è stracolma e molti sono in piedi o seduti per terra nell’area davanti all’altare. I cori Tatanzambe di Nervesa (Tv) e Massawe di Bevera (Lc), uniti per l’occasione, suonano e cantano in kiswahili.

Verso le 20 suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, prende la parola per spiegare il programma della serata. Con lei, condurrà padre Edwin Osaleh, missionario in Marocco.

 

La veglia abbia inizio

Il benvenuto è di suor Lucia Bortolomasi, madre generale delle missionarie della Consolata, anche a nome di padre James Lengarin, superiore generale dei missionari. Di colpo la chiassosa e variopinta assembela si zittisce. «Che gioia indescrivibile, quanti sentimenti abitano il nostro cuore. […]

Alcuni di noi hanno varcato oceani, attraversato continenti, viaggiato giorni per arrivare qui. […] è necessario fermarci tutti insieme a preparare il cuore. per sintonizzarci a quanto sta accadendo sotto i nostri occhi e coglierne il senso più profondo».

Suor Lucia ricorda la beatificazione di Allamano, nel 1990 e riflette sul significato di essere riconosciuto santo: «Questo riconoscimento ufficiale varca i confini della nostra famiglia, diventando un modello rivolto ai fedeli della Chiesa tutta. Da domani Allamano è un po’ meno nostro e sempre più di tutti».

Suor Lucia richiama la santità che il fondatore chiedeva ai suoi: «Non miracoli, ma fare tutto bene. Farci santi nella via ordinaria» e ricorda i tanti missionari e missionarie che sono rimasti ai loro posti, in missione, e quelli che non sono potuti venire perché impediti dall’età o dalla malattia. Suor Lucia fa, infine, un richiamo alla responsabilità: «siamo tutti chiamati a operare con sempre maggiore dedizione».

Dopo di lei, parla monsignor Giacomo Martinacci, rettore del santuario della Consolata doi Torino, che ricorda i 47 anni a guida di Giuseppe Allamano.

Per ogni intervento lei due guide della veglia, fanno sintesi in inglese, spagnolo, portoghese.

Raccontare il miracolo

Viene il momento di parlare del miracolo che ha portato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. La guarigione di Sorino Yanomami, nella missione di Catrimani, a Roraima, in Brasile, nel 1996. Sorino, a caccia nella foresta, era stato aggredito da un giaguaro, che aveva causato gravi ferite alla scatola cranica.

La dottoressa Roberta Barbero ha seguito dal punto di vista medico la vicenda. Racconta come abbia vissuto il contrasto tra il ruolo di medico, che ha bisogno di osservare, misurare, e il suo essere donna di fede, alla quale bastano le testimonianze.

Racconta, ad esempio, come a volte si sia sentita isolata dalla comunità scientifica, quando raccontava il caso, perché lo scienziato fa fatica ad andare oltre a quello che si può misurare: «Le guarigioni inspiegabili avvengono, e l’atteggiamento della medicina è quasi come quello di chi subisce un affronto». Ma «la fede può fare la differenza. Questa guarigione ha cambiato il mio modo di vedere le cose, e anche di testimoniare la mia fede all’interno di un ambiente che non sempre permette questa apertura».

Si alza poi suor Felicita Muthoni Nyaga, la testimone più diretta dell’evento occorso nel febbraio 1996 a Roraima. Prende il microfono e va verso la gente. Tra le centinaia di persone, adesso, cala un silenzio assoluto: sono tutti con il fiato sospeso per ascoltare la sua storia (vedi dossier MC ottobre 2024). Quando conclude dicendo che Sorino «è un uomo che non è registrato all’anagrafe, né nei nostri registri di battesimo, ma c’è, Dio lo ha visto», scoppia un lungo applauso. L’atmosfera è diventata caldissima.

Parlano ancora i vescovi di Roraima: quello attuale, monsignor Evaristo Spleger, e alcuni predecessori e vicari, monsignor Roche Paloschi, e monsignor Raimundo Vanthay Neto.

Gli interventi sono intervallati da canti del coro in diverse lingue.

Testimonianze

Dopo un breve saluto di monsignor Alessandro Giraudo, vescovo ausiliario dell’arcidiocesi di Torino, si susseguono alcune testimonianze di laici e laiche.

Toccante è quella di Nadia, ragazza marocchina musulmana di Oujda, dove è operativo il centro per migranti coordinato da padre Edwin.

Una preghiera del cardinale Giorgio Marengo conclude la serata.

Sono le dieci passate, i pellegrini chiassosi defluiscono lentamente dalla Chiesa Nuova. Si vede la stanchezza di chi è arrivato da lontano, ma si sente l’entusiasmo, e molta attesa per quello che avverrà domani.

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Piazza san Pietro, 20 ottobre

È festa grande

Fino dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia necessari per entrare nella piazza.

Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma c’è anche l’Asia, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.

Su alcune asticelle viene issata l’immagine di Giuseppe Allamano, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.

Oggi saranno, infatti, «canonizzati» anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni). Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con il volto di Allamano e l’immagine della Consolata. L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato specificamente per questo giorno.

Entriamo tra i primi, dopo il controllo con il metal detector. La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.

I pellegrini sono assonnati, ma nei volti si nota la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.

Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.

È un momento di attesa, e si approfitta per farsi foto, video, scambiarsi un contatto o un sorriso. Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio. A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte alcune migranti subsahariane.

Vediamo il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità. Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.

Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.

Francesco accolto dai suoi

Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcuni canti diffuse con i potenti altoparlanti. L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone venute da tutto il pianeta, spaccato di umanità.

Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «papa Francisco», per culminare con un grande applauso. Nel frattempo è comparso un pallido sole.

Scorgiamo evidente, in prima fila nel gruppo delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.

La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.

«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno (Mc 10,35-45).

«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere». E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».

Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.

«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.

Allamano e gli Yanomami

All’Angelus il pontefice mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».

Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo santo.

Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si accalcano alle transenne per salutare il Santo Padre.

Dopodiché, inizia il lento deflusso di migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della basilica di san Pietro sulla cui facciata spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.

Chiediamo a padre James Lengarin, superiore dei missionari della Consolata, le sue impressioni: «È stata una bellissima giornata. Quando si nominava san Giuseppe Allamano, dalla piazza si alzava un urlo di gioia. Il Papa ha ancora parlato di lui all’Angelus, sottolineando il suo spirito missionario: oggi è anche la Giornata missionaria mondiale».

«Poi ci siamo trovati tutti al Teresianum (la Pontificia università teologica), per festeggiare. Eravamo più di 1.300 persone da tutto il mondo. Questo ci fa vedere come il cuore della Consolata sia vivo». Gli chiediamo come si sente a essere il successore di un santo: «Mi sento come uno dei suoi figli, ma anche come frutto della missione. Io vengo da una popolazione di pastori nomadi. Vuole dire che Allamano aveva questa attenzione per le persone che di solito sono emarginate, alla periferia del mondo. Io adesso mi sento animatore dei miei fratelli».

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Roma, 21 ottobre

«Coraggio, avanti»

Lunedì pomeriggio i pellegrini di san Giuseppe Allamano si trovano nuovamente tutti insieme per una celebrazione di ringraziamento nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura.

La messa inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Giorgio Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione. Mi ha colpito, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».

Continua il cardinale: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.

Tra questi spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili da una maglietta fatta per l’occasione, con la scritta in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard della canonizzazione.

Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera soave: «Popoli tutti, lodate il Signore».

Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musici – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma praticamente balla. Una danza contagiosa, che in pochi secondi prende tutti i presenti e, chi più chi meno, inizia a muoversi a ritmo di musica. E parte l’entusiasmo della grande festa.

Un punto di partenza

Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco. La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo che i giovani non siano più costretti a partire.

Durante la cerimonia di ringraziamento, come nei giorni precedenti, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».

Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si è soffermato sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».

«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».

Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».

La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa per il nuovo santo.

Marco Bello

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Noi e voi, dialogo lettori e missionari


Una nuova Tac per Ikonda

Caspita, 316mila euro non sono noccioline. Anche se, per chi sfreccia con i bolidi di «Formula uno», o chi batte e ribatte le palline gialle da tennis, o chi rincorre il variopinto pallone da calcio, 316mila euro sono quasi quisquilie. Ma quisquilie non sono né noccioline per il Consolata hospital Ikonda in Tanzania.

L’ospedale conta 404 posti letto, sei sale operatorie e cura le principali patologie con la presenza di 349 persone: medici, farmacisti, infermieri, tecnici di laboratorio, addetti alle pulizie, ecc. Gli ammalati provengono soprattutto da Morogoro, Iringa, Njombe, Songea, Mbeya, Rukwa, Katavi, ma qualcuno viene anche da più lontano, persino dall’isola di Zanzibar. I bambini del distretto di Makete fino ai 10 anni vengono curati gratuitamente, mentre i pazienti Hiv ricevono alcune prestazioni gratuite, così come le partorienti del distretto.

Il centro sanitario è dei Missionari della Consolata. Fu costruito nel 1962, e successivamente ampliato. Venne inaugurato ufficialmente un anno dopo l’indipendenza del Tanzania con Julius Nyerere presidente, il quale affermava: «I nemici del nostro paese sono la povertà, l’ignoranza e la malattia».

Il Consolata hospital Ikonda affrontò subito «il nemico» malattia.

L’ospedale sorge fra le montagne dell’Ukinga a 2.050 metri di altitudine. Dista circa 800 chilometri da Dar Es Salaam, la capitale del Tanzania. Fino a tre anni fa, gli ultimi 90 chilometri da Njombe a Ikonda erano in terra battuta, una salita scivolosa durante le piogge, rasente precipizi. Oggi da Mbeya giunge ogni giorno un autobus stracolmo di ammalati: affronta nebbie fitte, pantani traditori, pietre massacranti, buche da sprofondare. Il tutto per 7-8 ore, se non capitano guasti meccanici.

Quante volte i missionari della Consolata si sono detti: «Ah, se avessimo costruito l’ospedale altrove, i pazienti l’avrebbero raggiunto più facilmente, e la gestione sarebbe stata più economica». Già. Ma non sarebbe stato l’ospedale dei poveri di Ikonda e dintorni, sferzati dal vento e dal freddo, tagliati fuori dal mondo. È vero, tuttavia, che la lontananza da insediamenti urbani rende più costosa la conduzione della struttura. Alcuni medici e tecnici di laboratorio, dopo aver acquisito una buona esperienza, abbadonano Ikonda; sono attratti da una vita più agiata altrove. L’ospedale cerca di fronteggiare l’esodo con stipendi migliori, mentre investe sulla specializzazione di medici locali in radiologia, medicina interna e medicina d’urgenza. Così è nata pure l’Unità di emergenza.

Un aiuto significativo è la presenza di medici stranieri: italiani, soprattutto, ma anche spagnoli e di altre nazionalità. Sono volontari che si pagano persino il viaggio. Frequentano Ikonda nonostante due «tristezze». La prima tristezza è la povertà di molte persone che non hanno denari per una degenza in ospedale. Seconda tristezza: non raramente i pazienti arrivano «fuori tempo massimo», quando non c’è più nulla da fare.

Ma proprio per tali tristezze i medici volontari ritornano, perché hanno il Tanzania nel cuore. «Tanzania nel Cuore» è anche un’associazione di medici italiani, animati da solidarietà e generosità.

La strumentazione del Consolata hospital Ikonda è apprezzabile. Da anni opera la Risonanza magnetica, mentre dal 2014 è in funzione la Tac, benemerita ma oggi obsoleta. Non si trovano più i pezzi di ricambio. Di qui l’urgenza di un nuovo impianto.

Ed eccola la nuova Tac, fiammante e moderna. L’inaugurazione è avvenuta il 20 settembre 2024 con la presenza dei missionari della Consolata, del direttivo dell’ospedale, del dottor Gian Paolo Zara (di «Tanzania nel Cuore») e del Nunzio apostolico, l’arcivescovo Angelo Accattino (foto qui sotto).

La presenza del Nunzio non è stata una formalità, bensì la testimonianza che i 316mila euro, per acquistare la Tac sono un dono della Conferenza episcopale italiana: euro raccolti attraverso l’8 per mille degli italiani. Ebbene, manciate e manciate di «noccioline» di tante persone, divenute «un ricco raccolto». Perché l’unione fa la forza.

Dante Alighieri direbbe: «Poca favilla gran fiamma seconda». E Gesù: «Il minuscolo granello di senapa diventa un albero imponente».

Grazie, vescovi e amici italiani, della vostra straordinaria generosità.

padre Francesco Bernardi,
Torino 27/09/2024


A proposito di IA

Ho letto con interesse l’articolo di Chiara Giovetti sull’intelligenza artificiale (IA) pubblicato nel numero di ottobre 2024.

Vi sono molte considerazioni importanti, tra le quali in particolare ho colto la domanda se l’intelligenza artificiale ci aiuterà a trovare soluzioni o se sarà parte dei problemi che si vogliono affrontare.

Resta per me, comunque, un argomento di fondo, non affrontato nell’articolo, il fatto che la cosiddetta «intelligenza» artificiale non è in effetti «intelligenza», ma una serie di algoritmi e istruzioni date alle macchine per conferire loro capacità di analizzare enormi quantità di dati per elaborare documenti (testi, tabelle, progetti, immagini e altro) in tempi brevissimi, a partire da questi dati e da domande poste dagli utenti in modo discorsivo. E fin qui mi è chiaro e l’ho provato anche personalmente.

Ma per far sì che le macchine facciano queste elaborazioni è necessario che abbiano a disposizione i dati necessari.

Mi sono soffermato quindi sulla lista ricavata dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni, che include servizi di telemedicina, ottimizzazione dell’uso dell’acqua in agricoltura, riduzione della corruzione negli appalti pubblici, miglioramento della salute e del benessere degli animali in allevamenti, prevenzione di incendi e altro.

Per nessuno di questi esempi nell’articolo si spiega «come» possano essere ottenuti questi risultati.

Riesco da una parte ad immaginare come l’intelligenza artificiale possa essere d’aiuto ad esempio nel caso specifico della telemedicina, dove l’analisi di enormi quantità di cartelle cliniche e/o immagini radiologiche raccolte per tanti anni in tanti archivi medici del mondo certamente può dare informazioni importanti e in tempo immediato e, laddove una ricerca senza intelligenza artificiale richiederebbe tempi lunghi incompatibili con le esigenze di intervento sanitario.

Ma in nessuno degli altri casi portati ad esempio mi pare che si possa fare a meno di dati rilevati in tempo reale, con strumenti anche tecnologicamente avanzati e anche collegati direttamente alle macchine di «intelligenza» artificiale che li possano elaborare, e non a partire da dati storici, per quanto ampi e dettaglianti possano essere.

Tantomeno in casi che riguardano comportamenti umani, come l’esempio della corruzione in appalti pubblici.

Non sono un addetto ai lavori, quindi queste mie osservazioni possono forse essere inadeguate o addirittura fuori luogo.

Ma avendo letto questo articolo in una rivista come Missioni Consolata, che si rivolge a un pubblico come me non preparato su questi argomenti, mi sarei aspettato qualche spiegazione su «come» possa funzionare l’intelligenza artificiale, per non lasciare l’impressione che sia soltanto un business nelle mani di pochi soggetti che sostengono di migliorare il mondo, ma senza far capire come e con quale attendibilità intendano farlo.

Sarei quindi molto grato se fosse possibile avere qualche spiegazione in merito.

Resto in attesa e ringrazio.

Filippo Pongiglione
03/10/2024

 

Le domande del lettore sono molto interessanti, ma se non ho approfondito i punti che lui fa presenti è solo per mancanza di spazio.

In realtà, non ho fornito più informazioni su che cos’è l’intelligenza artificiale perché sul numero precedente della rivista c’era a pagina 11 un box di Paolo Moiola dal titolo: «IA, di che cosa parliamo». Includere un rimando a quello sarebbe stato in effetti una buona idea.

Quanto ai casi d’uso dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni@, fornisco la traduzione e sintesi di alcuni passaggi del rapporto che possono aiutare a capire meglio.

Sul benessere degli animali negli allevamenti in Rwanda.
Posizionando strategicamente negli allevamenti dei sensori per monitorare parametri ambientali chiave come temperatura, umidità e livelli di gas di ammoniaca, oltre a catturare i suoni dei polli, gli allevatori possono adottare misure basate sulle previsioni ricavate dai dati per proteggere la salute e il benessere degli animali, facilitando inoltre il rilevamento precoce di potenziali problemi.

Sulla lotta alla corruzione in Tanzania. Le soluzioni attuali, basate principalmente sui tradizionali meccanismi legali e di audit, faticano a far fronte alla portata e alla complessità delle pratiche corrotte. Il sistema di IA proposto […] dovrebbe elaborare i dati sugli appalti, inclusi documenti di gara, valutazioni e casi di corruzione, per rilevare irregolarità e assegnare una percentuale di probabilità di corruzione […]. Offrire uno strumento anticipatorio consente al Prevention and combating of corruption bureau (Pccb) di adottare misure preventive contro le attività corrotte, migliorando così la trasparenza e garantendo la conformità durante tutto il ciclo di vita degli appalti. […] I vantaggi di questo approccio riguardano il potenziale per il rilevamento della corruzione in tempo reale, l’analisi automatizzata dei documenti e una migliore allocazione delle risorse investigative. Gli svantaggi riguardano invece la difficoltà nella raccolta dati iniziale, possibili pregiudizi nei modelli di intelligenza artificiale e la necessità di competenze tecniche continue e aggiornate.

Sulla prevenzione degli incendi in Malaysia. Il Fire weather index (Fwi), o Indice meteorologico di pericolo d’incendio, è utilizzato in tutto il mondo per stimare il pericolo di incendi@. Nel caso d’uso della Malaysia, invece di usare i dati su temperatura e piogge, come fa il modello esistente, si stima il Fwi – in particolare uno dei sotto indici che lo compongono, il drought code (Dc, indice di siccità) – usando i dati raccolti da strumenti dell’«Internet delle cose» (come sensori, stazioni meteo) su un altro parametro, il livello delle acque sotterranee (Ground water level, Gwl), per poi elaborare i dati attraverso l’apprendimento automatico (machine learning, cioè quella branca dell’intelligenza artificiale in cui – con tutte le virgolette che abbiamo a disposizione – le macchine imparano dalla loro stessa esperienza). Il risultato mostra una correlazione molto alta con i dati osservati dal sistema meteorologico nazionale, rivelandosi quindi piuttosto accurato.

Lieta, comunque, di ricevere domande così circostanziate e stimolanti, che danno anche a me una bella occasione per approfondire ancora.

Chiara Giovetti
07/10/2024


Pdre Fernando Paladini a Pawa, Isiro, allora Zaire, gennaio 1983 (Gigi Anataloni)

Ad-dio, padre Fernando Paladini

Non dimenticate mai
di salutare bene le persone.
Non fatevi travolgere dal tempo che inghiotte ogni relazione.
Ho lasciato che succedesse a me,
e non dovrà capitare più.

Io e padre Fernando Paladini ci conoscevamo da 34 anni: avevo 14 anni ed è stato il primo dei tanti missionari che ho incontrato nella mia vita. Quello che ha acceso il fuoco della missione nel cuore di una ragazza che cercava un senso per la sua vita.

Ci siamo scritti a lungo quando era in Congo, quando ancora non c’erano i cellulari o whatsapp e si usavano la carta e la penna. Ogni sua lettera era una festa per me: odorava di Africa, aveva l’ennesimo francobollo per la collezione del mio caro papà. Poi, è rientrato in Italia. E io intanto crescevo e mi alimentavo di sogni e di amore per l’umanità. Persone speciali come lui hanno contribuito a farmi diventare quella che sono, mi hanno dato le ali per volare al di sopra di tutto ciò che, di fronte alla povertà e alla passione, diventava sempre più piccolo. Grazie a lui e a chi credeva fortemente in Dio e nei grandi ideali, ho trovato sempre più la mia strada, dove non sono mai stata sola.

Padre Fernando mi chiamava ogni anno il 10 dicembre, per farmi gli auguri per l’onomastico. Non si ricordava quasi nessuno della Madonna di Loreto, ma la sua telefonata arrivava puntuale e fedele come un regalo, con benedizione finale e il classico saluto («Arrivederci ad ogni Eucarestia»).

Quest’anno non mi chiamerà neanche lui. Se ne è andato senza che io lo sapessi. Avrei dovuto essere più presente anch’io.

E invece ho lasciato che gli impegni, le corse, gli affanni quotidiani decidessero per me e per il nostro non saluto.

Ad-Dio, padre Fernando. Ricorderò sempre la tua risata, il tuo entusiasmo, il tuo legame profondo con l’Africa e con il tuo Istituto.

Eri fiero e felice di essere un missionario della Consolata, e sono sicura che domenica 20 ottobre, dal Cielo, ci hai sorriso quando Giuseppe Allamano, il tuo fondatore, è stato proclamato santo.

Grazie infinite per tutto.

Spero che le mie figlie, così come tutti i ragazzi di oggi possano fare incontri come il mio. Di quelli che ti cambiano l’esistenza e le visioni. Di quelli che ti aprono le braccia, gli occhi, la mente.

La maggior parte degli YouTuber e degli influencer non ha niente da dirci. Tu, semplicemente, mi hai toccato il cuore.

Loredana Brigante
19/10/2024

Padre Fernando Paladini, nato a Leverano (Lc) il 25/01/1944, ordinato sacerdote missionario della Consolata il 14/08/1974, nel 1978 parte per il Nord dello Zaire (nella foto è a Pawa nel 1983) dove rimane con breve intervallo, fino al 2016. Rientrato in Italia, ha concluso il suo viaggio missionario il 22/09/2024.




Senza confini


Nel settembre scorso i missionari della Consolata hanno festeggiato i primi dieci anni di presenza a Taiwan, in particolare nella diocesi di Hsinchu. Il vescovo John Baptist Lee ha celebrato una messa molto partecipata nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù a Hsinchu (vedi pag. 5). Oggi l’istituto è presente con sette missionari di cinque diverse nazionalità (Kenya, Tanzania, Corea del Sud, Brasile e Argentina) e ha la gestione di tre parrocchie nella stessa diocesi, oltre a Hsinchu, animata dal 2017, anche Xinpu e Xinfong.

Un primo decimo anniversario, che pare poca cosa, ma rivela una presenza discreta, continua e con prospettive di crescita.

Ho avuto la possibilità di partecipare all’evento al Sacro Cuore e di visitare le altre due parrocchie. Ho potuto vedere e ascoltare persone impegnate nella vita della comunità, ma anche molto accoglienti verso chi viene da fuori. Peter e sua moglie Jennifer, Carmen, Lucia, Cathy, solo per citarne alcune, senza volere fare torto alle altre.

Taiwan, ufficialmente Repubblica di Cina, viene più volte citata anche sui nostri media come centro di tensioni tra la Repubblica popolare di Cina (la Cina comunista continentale) e gli Stati Uniti. Ma è ben più di questo. Vorrei dare qualche elemento della società nella quale stanno operando i missionari da dieci anni.

Si tratta di una società moderna, anzi una società che definirei «tecnologica», dove cioè la tecnologia ha un peso rilevante. Con le relative problematiche: secolarizzazione, i giovani in particolare sentono poco il richiamo della spiritualità di tipo convenzionale, quindi delle religioni, la bassa crescita demografica e l’alto livello di invecchiamento della popolazione che comporta le criticità conosciute anche da noi, le migrazioni da paesi vicini più poveri (in particolare da Filippine, Vietnam, Indonesia, Thailandia).

A Taiwan, inoltre, la Chiesa cattolica è una minoranza tra le minoranze, interessando l’1,3% della popolazione (i fedeli sono circa 300mila su 23 milioni di taiwanesi).

Il vescovo di Hsinchu, monsignor Lee, mi diceva che su settanta sacerdoti della sua diocesi solo due sono originari del Paese. Gli altri sono missionari. Molti sono coreani, poi vietnamiti, filippini e, recentemente, africani. Tutto questo denota la necessità e l’urgenza della missione ad gentes.

Guardando sul planisfero le presenze dei missionari e missionarie della Consolata nel mondo, la missione a Taiwan è forse quella nella società più moderna.

Per contrasto, il mio pensiero va a un’altra missione, che ho avuto la possibilità di visitare molti anni fa. Quella di Catrimani, nello stato di Roraima in Brasile. Una presenza nel mezzo della foresta amazzonica, dove si può arrivare solo a piedi o con piccoli aerei. Un cammino, quello a fianco del popolo Yanomami, che la Consolata porta avanti oramai da 59 anni.

Se penso alla società yanomami, a lungo studiata da generazioni di missionari della Consolata, con la sua lingua (anzi, quattro), le sue credenze, la sua cultura, credo che sia quella meno tecnologica, quella che vive maggiormente in simbiosi con la natura, con la quale i missionari della Consolata si siano confrontati da decenni. In un certo senso, una struttura sociale delicata, che rischia in ogni momento di essere sopraffatta dalla società dominante, quella dei «bianchi», come dicono in Brasile, quella moderna, dico io.

Due ambienti sociali che sembrano, o forse sono, in antitesi. Due culture entrambe distanti da quelle dei missionari che le affrontano, difficili da comprendere e far proprie con un processo di inculturazione, a partire dalle lingue, dai costumi e dalla spiritualità.

Eppure due contesti nei quali i missionari della Consolata sono presenti con il loro approccio ad gentes, ma anche di promozione umana, sociale e dei diritti che da sempre li contraddistingue.

Questo mi fa credere che la missione pensata e maturata da san Giuseppe Allamano prima, e dai suoi missionari e missionarie poi, sia a tutti gli effetti universale e senza confini.





Noi e voi, lettori e missionari in dialogo

 


Taiwan 10 anni di presenza

Il 21 settembre 2024 è stata celebrata la festa per i dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata a Taiwan. Le celebrazioni si sono svolte con una messa nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù, a Hsinchu, gestita dai missionari dal 2017.

L’inizio

Era il 12 settembre del 2014, quando tre missionari atterravano all’aeroporto Taoyuan di Taipei. Iniziava così l’avventura dell’istituto fondato da Giuseppe Allamano a Taiwan. I tre erano i padri Eugenio Boatella (Spagna), Mathews Owuor Odhiambo (Kenya) e Piero Demaria (Italia).

Oggi i missionari sono sette. Alcuni sono partiti e altri sono arrivati. Padre Jasper Kirimi, keniano, arrivato nel 2016, è l’attuale coordinatore dei missionari della Consolata a Taiwan. Con lui a Hsinchu, lavora padre Caius Moindi, anch’esso keniano.

I padri Bernado Kim (Corea) e Antony Chomba (Kenya) hanno preso in carico la parrocchia san Joseph di Xinpu, una città vicina a Hsinchu, mentre il padre Emanuel Temu (Tanzania) segue da alcuni mesi la parrocchia di Xinfong, la terza gestita dai missionari della Consolata a Taiwan. I padri Thiago Jacinto da Silva (Brasile) e Pablo Soza Martin (Argentina) stanno attualmente studiando la lingua cinese.

La voce del vescovo

La celebrazione dei dieci anni ha visto la partecipazione del vescovo di Hsinchu, monsignor John Baptist Lee e del pro-chargé d’affaires della Nuziatura apostolica di Cina, Taipei, monsignor Stefano Mazzotti.

Nella lunga omelia, il vescovo Lee ha esordito dicendo: «Oggi è un giorno di gioia nel quale celebriamo dieci anni di contributi e sacrifici dei Missionari della Consolata nella diocesi di Hsinchu. Non si tratta di un periodo lungo nella storia della Chiesa di Taiwan, ma una volta arrivati in questa terra ci si scontra con grandi sfide e difficoltà e la Consolata, affrontandole, ci ha manifestato la grazia di Dio. Carente di vocazioni, la diocesi di Hsinchu è molto grata alla generosità della Consolata nell’aiuto al lavoro pastorale».

Il vescovo ha poi sottolineato come sia cambiata l’origine dei missionari: «Il Dicastero per l’evangelizzazione in Vaticano ha visto un grande numero di missionari africani lavorare in Europa, invertendo la regola per cui i missionari arrivati dal vecchio continente andavano a predicare in Africa. Adesso la buona notizia è che li vediamo arrivare in direzione di Taiwan, nella diocesi di Hsinchu».

Monsignor Lee ha chiesto ai cristiani locali di «lavorare con i missionari, supportarli e aiutarli nei bisogni della missione». Perché, ha detto rivolgendosi a loro: «Dopotutto, ognuno di voi è un missionario ed è vostro dovere partecipare all’evangelizzazione, vivendo a pieno la sinodalità».

La Consolata a Taiwan

Padre Jasper Kirimi dopo la celebrazione e la festa di condivisione ci dice: «È stato emozionante. In primo luogo, perché ho visto questi video con le testimonianze dei missionari che hanno lavorato qui (video di saluto e augurio sono stati mostrati dopo la messa, nda). Ho lavorato con tutti loro ed è passato un bel po’ di tempo. Quando io sono arrivato, non pensavo di stare tanto così, perché era davvero dura. Imparare questa lingua e la cultura così diversa. Invece sono ancora qui. In secondo luogo, la partecipazione oggi è stata davvero importante. Io penso che la gente sia venuta anche per la Consolata. Questo vuol dire che c’è un nuovo riferimento che aggrega i cristiani di Taiwan ed è proprio la Consolata. Giuseppe Allamano, che sta per diventare santo, penso che non abbia mai immaginato di arrivare fino a questa terra».

Padre Jasper conclude: «Taiwan è molto diversa da Africa e America Latina. Noi siamo qui per imparare un nuovo modo di fare missione».

Dall’Asia

Una delegazione dei missionari della Consolata dalla Mongolia, con padre Dieudonné Mukadi Mukadi (congolese), e dalla Corea del Sud, con i padri Pedro Han Kyeong Ho (coreano) e Clement Kinyua Gachoka, superiore della Regione Asia, è venuta a Taiwan per l’occasione.

Secondo padre Clement: «Siamo la presenza più recente nella diocesi. Dal 2014 a Taiwan sono passati undici missionari della Consolata, che voglio ringraziare per l’apporto che hanno dato.  È una presenza giovane, che ha affrontato tante sfide: la lingua, la cultura, la fatica di adattarsi. Dall’altra parte c’è stata la perseveranza che hanno avuto e la collaborazione con la Chiesa di Hsinchu, a tutti i livelli. La celebrazione dei primi dieci anni ci dà la speranza, che nonostante le sfide, le difficoltà e le paure, il cammino andrà avanti e la presenza sarà significativa».

Pensando al santo Giuseppe Allamano, Clement ci dice: «Siamo a un mese dalla canonizzazione e poco più di un anno dai cento anni della sua scomparsa. Penso che sia contento e ci guardi con orgoglio e stima, perché vede che stiamo camminando nella via dei sogni che lui aveva per la missione. Questo ci incoraggia a dare delle risposte alle sfide attuali della chiesa di Hsinchu».

Dopo la celebrazione la festa è continuata ed erano presenti anche i parrocchiani di Xinpu e Xinfong, oltre che diversi amici e membri di congregazioni venute anche dalla capitale Taipei.

 Marco Bello, da Hsinchu
(Taiwan) con l’aiuto di Lucia Ku (per le traduzioni), 21/09/2024 da consolata.org


E vissero felici al contrario

Alla redazione MC,
vorrei sottoporre alla vostra attenzione un fatto di cronaca accadutomi pochi giorni fa. Forse può essere di interesse generale, soprattutto in questo periodo di forti contrasti xenofobi.

Cronaca di un contropiede con gol da fuori area

Arrivo, di fretta, alla stazione alle 7:45 am, giusto il tempo di comprare il biglietto dal distributore automatico e prendere il treno per Lecce delle 8:00. Ma, disgraziatamente, per piccoli importi (2,5 euro) il distributore riceve solo monete o banconote da 5 e da 10 e io ne avevo solo una da 20. Cavolo, che fare? Piano A, cercare un bar vicino, ma, ahimè, nessuno aperto in zona. Piano B: salire sul treno senza biglietto. «No dai, prima piano C, se non va in porto torno al piano B»: chiedere se qualcuno mi cambia la banconota.

Tra gli astanti, una decina in tutto, molti bianchi e qualche africano. Chiedo a un africano, il quale, in un discreto italiano, mi risponde che non ha da cambiare e, senza aspettare ulteriori domande, mi chiede se devo andare a Lecce. Annuisco. Allora mi fa segno di avvicinarci al distributore e, senza dire nulla, digita la destinazione, tira fuori il suo portafogli e mette le monete necessarie alla compera. Mi ha pagato il biglietto! Sinceramente io sono rimasto di stucco, sorpreso, meravigliato. Ovviamente contento, ma allo stesso tempo pensavo, «Chi lo avrebbe mai detto, chi lo avrebbe pensato? Cosa sta succedendo in questo momento?». L’ho ringraziato ampiamente, ci siamo stretti la mano forte, gli ho detto che a Lecce avrei cambiato la banconota per restituirgli i soldi. E lui, pacatamente, sguardo gentile, sorriso sereno, ha detto educatamente di no, che non ce n’era bisogno.

Un africano semplice, sui 35 anni, vestito in forma decorosa, chissà se stava andando a Lecce per vendere ciò che aveva in un mini-trolley bianco un po’ malandato.

Il treno è arrivato. È arrivato anche un suo connazionale e si sono messi a chiacchierare mentre tutti salivamo sul treno. L’ho perso di vista.

Arrivati a Lecce lo ritrovo sulla banchina, gli dico «andiamo al bar a prendere un caffè», e lui, sempre molto decorosamente, declina l’invito. Insisto, lui pure. Mi dice «non c’è bisogno», con occhi gentili e direi felici.

Felice perché? Ha fatto la sua buona azione quotidiana? Ha messo il suo positivo granello di arena nel calderone dell’integrazione? Ci ha insegnato che nero non è uguale a male? (Tanto di moda ultimamente…).

Chissà se qualcuno dei miei compaesani avrebbe avuto lo stesso atteggiamento alla mia richiesta; chissà se, a parti invertite, io mi sarei comportato allo stesso modo. Sta di fatto che lui ha segnato un piccolo grande spartiacque nella nostra ideologia contemporanea.

La gentilezza, l’educazione, la generosità non hanno colore. Se le coltivi, puoi avere la faccia nera, bianca o gialla ed è la stessa cosa. Se non le coltivi, puoi essere bianco, giallo, nero o meticcio e comunque non averle quelle qualità.

Anche perché per coltivare tutte quelle qualità che ci rendono veramente umani, basta avere il cuore e il cuore, si sa, è rosso per tutti.

Carmine Masciullo
Galatina, 01/09/2024