Egitto: I Copti


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Questo è il terzo dossier che dedichiamo alle minoranze dimenticate ed oppresse. Il primo ha parlato degli Yazidi dell’Iraq (marzo 2017), il secondo dei Rohingya del Myanmar (aprile 2017).

 


Introduzione:
Nonostante tutto

I copti sono i discendenti degli antichi egizi. Attorno alla metà del primo secolo dopo Cristo si convertirono al cristianesimo. Sei secoli dopo in Egitto arrivarono gli arabi e l’islam. Tra invasori e conversioni, la comunità copta si ritrovò minoranza. Oggi i copti sono 10-13 milioni su una popolazione egiziana complessiva di 90. Non hanno mai avuto un’esistenza facile: violenze e attentati contro di loro sono da sempre una costante. In questi anni, in particolare, prima la Fratellanza musulmana, poi l’Isis, ne hanno fatto l’obiettivo preferito.

In Egitto la shari’a è stata ufficialmente introdotta nell’ordinamento con un emendamento costituzionale del 1980, durante la presidenza di Sadat. Da allora sono cambiati i presidenti, ma l’articolo 2 della Costituzione recita sempre: «I principi della shari’a islamica sono la fonte principale della legge». Un macigno sulla testa di chiunque non sia musulmano.

Per ora pare impossibile prevedere un cambio: la shari’a, intollerabile in qualsiasi paese che abbia la democrazia e la laicità come pilastri della propria esistenza, rimarrà a decidere della vita e della libertà delle persone. Shari’a, Fratellanza musulmana, Isis, tutto sembra congiurare contro i copti. Eppure resistono. Nonostante tutto.

 Paolo Moiola


La Chiesa copta ortodossa:
Tra persecuzioni e inattese fioriture

Nata all’ombra delle piramidi attorno al 40 dopo Cristo in seguito alla predicazione dell’evangelista Marco, la Chiesa copta ha una lunga storia di persecuzioni e sofferenze, soprattutto in Egitto, paese islamico. Eppure, con 15 milioni di fedeli sparsi nel mondo, questa Chiesa è fiorente, viva e dinamica oltre ogni aspettativa.

Gli ultimi attentati e la recentissima storica visita in Egitto di papa Francesco hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale le vicende di una Chiesa antica che sconta secoli di discriminazioni e persecuzioni: la Chiesa copta ortodossa. Nata all’ombra delle piramidi dalla predicazione dell’evangelista Marco, rappresenta uno dei più grandi paradossi della Storia. Pur portando, infatti, tutto il peso di una eredità storica antica quanto il cristianesimo appare al contempo viva e dinamica come fosse nel fior fiore della gioventù. «Lo straordinario rinascimento della Chiesa copta ortodossa degli ultimi decenni – scriveva il coptologo tedesco Otto Meinardus – è uno dei grandi eventi storici della cristianità a livello mondiale. Mentre in altre parti del mondo, gli storici diagnosticano una certa stagnazione della testimonianza cristiana, i figli e le figlie dei faraoni sono pieni di un entusiasmo inaudito per il Regno di Dio e per l’evangelizzazione». Una Chiesa in piena fioritura, dunque, la più seguita nei territori dominati dall’islam, che dalla metà del secolo scorso ha scavalcato i suoi confini naturali. La migrazione dei copti, infatti, ha raggiunto praticamente ogni parte del globo. Nelle principali città italiane è ormai possibile conoscere da vicino questa realtà grazie a una comunità coesa e dinamica, capace di convivere e di integrarsi a livello sociale e lavorativo, che offre una testimonianza cristiana sempre discreta ma intensa. È guidata da un metropolita e da un vescovo ed è servita da numerose parrocchie. In Italia si parla, dunque, anche copto.

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Tawadros II, il papa dei copti

Una fioritura, quella dei copti, avvenuta a prezzo di grandi sacrifici. Le cronache degli ultimi anni ci raccontano di cristiani egiziani cacciati dalle loro terre, che vedono le loro chiese distrutte, le loro case date alle fiamme. La stampa mondiale racconta di uomini e di donne pacifici trucidati dalla furia fondamentalista. Come dimenticare i martiri copti di Sirte, in Libia, che, nel 2015, fino al momento di essere sgozzati per la propria fede, non hanno smesso di invocare sui propri nemici il nome di colui «che ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi» (Gal 2,20), Gesù? La storia non è stata di certo clemente con questa Chiesa orientale. Si può dire che – tranne brevi periodi – i cristiani egiziani hanno vissuto grandi sofferenze. Recentemente un monaco del deserto egiziano, un abba, mi ha mostrato un’antica icona in cui era dipinta una croce fiorita. Poi mi ha consegnato una massima che sintetizza la storia di questa comunità: «Solo dall’albero della Croce nascono i fiori!». È tenendo bene in mente il paradosso della Croce che dobbiamo leggere il miracolo di questa Chiesa che fiorisce e cresce mentre, temprata nella fede, viene irrorata dal sangue dei suoi martiri. Non diceva già Tertulliano che «il sangue dei martiri è seme di cristiani»?

Malgrado i media parlino molto spesso delle tragedie dei copti, si fa sempre più urgente la necessità di conoscersi di più. Dopo secoli di estraniamento, è necessario incontrarsi faccia a faccia, ascoltarsi, comprendere le ragioni dell’altro. Basti pensare che non è scontato sapere che in queste terre è nata e si è sviluppata la scuola teologica probabilmente più importante del cristianesimo antico, quella di Alessandria, che ha conosciuto personaggi del calibro di Origene e Clemente. Qui il monachesimo ha mosso i suoi primi passi grazie all’ispirazione dei grandi padri del deserto Antonio, Macario, Pacomio per poi irradiarsi in tutto il Mediterraneo. Qui si prega ancora secondo una delle liturgie più antiche al mondo, quella alessandrina. La Chiesa copta è anche l’unica Chiesa che, insieme a quella romana, chiama il proprio patriarca «papa». L’attuale papa si chiama Tawadros II, un vero «dono di Dio» (questo significa il suo nome) alla Chiesa universale.

Monofisita? Il peso di un’etichetta eretica

Tra i cliché duri a morire c’è quello legato al monofisismo. Spesso si sente purtroppo ancora parlare di «chiesa monofisita». Questa etichetta, affibbiata per secoli ai copti, li ha di fatto bollati come eretici associandoli all’eresia di Eutiche (378-456), monaco di Costantinopoli, anatematizzato al Concilio ecumenico di Calcedonia (451), che paragonava l’umanità di Cristo a una goccia di vino in un oceano di acqua (divinità). Sarebbe quanto meno sorprendente che la Chiesa che ha generato un sant’Atanasio (ca. 296-373), campione del primo concilio ecumenico di Nicea (325) e autore di un’opera intitolata «L’incarnazione del Verbo», abbia potuto in pochi decenni deviare verso un’eresia che nega un mistero cristiano così fondamentale. I copti credono, invece, profondamente sia alla divinità che all’umanità di Gesù e quando parlano di ‘una natura’ riprendono un’espressione usata da Cirillo di Alessandria (ca. 375-444), dottore della Chiesa universale: «Una sola natura del Verbo di Dio incarnato» (mía phýsis, in greco). In Cristo esiste una sola natura composita, al contempo divina e umana, senza confusione (umanità e divinità, seppur unite, sono rimaste distinte) e senza cambiamento (Dio è rimasto Dio pur diventando uomo). Questa formula intende esprimere il mistero dell’unità insita nella persona del «Dio fattosi carne», dell’Emmanuele, mistero che è continuamente cantato dalla spiritualità copta. Data la taccia che è stata attribuita al termine «monofisismo» nel corso della storia, è bene non chiamare mai la Chiesa copta «chiesa monofisita» (da evitare anche l’infelice neologismo «miafisita»), anche perché la Chiesa egiziana non si autodefinisce mai così ma si chiama, semplicemente, «ortodossa». La famiglia ecclesiale della Chiesa copta ortodossa (detta «precalcedonese» o degli «ortodossi orientali») comprende anche la Chiesa siro-occidentale, l’etiopica, l’eritrea, la malankarese e l’armena e conta circa 85 milioni di fedeli.

Copto ovvero cristiano d’Egitto

Cosa significa «copto»? Semplicemente «egiziano». Il termine inizia a comparire in epoca islamica ma la sua origine è più antica ed è connessa a uno dei nomi sacri della città di Menfi, capitale dell’antico regno (dal 2700 a.C. al 2200 a.C.) che si trova a pochi chilometri dall’attuale Cairo: Hikaptah, cioè «la dimora del Ka (principio vitale per la religione egizia) di Ptah». Da questo nome derivò il nome greco Aigyptos da cui Egitto. La parola storpiata in arabo, «qibti», indicava quindi solamente un’origine etnica: «egiziano». Ma fu presto confuso con «cristiano» perché la maggioranza degli egiziani all’epoca dell’invasione islamica del VII secolo era cristiana. Oggi il termine indica un dato religioso ed etnico insieme e cioè «cristiano d’Egitto». Inoltre con «copto» si designano anche la lingua, l’arte e la civiltà dell’Egitto tra la fine dell’epoca tolemaica e l’islamizzazione del paese, cioè dal 30 a.C. fino al VII sec. all’incirca. Non è un caso che, profondamente egiziani e radicati nella cultura del proprio territorio, i copti si considerino discendenti degli antichi egizi e depositari della loro cultura.

Egitto, terra biblica

In principio, dunque, è l’Egitto. Terra misteriosa, ben presente nella storia della salvezza, è da sempre legata alle sorti del popolo di Israele. «Egitto» appare nella traduzione Cei ben 594 volte. Molti dei personaggi dell’Antico Testamento li troviamo di qui. Terra di rifugio per Abramo, Isacco e Giacobbe; terra di schiavitù per Giuseppe e Mosè. Proprio Mosè, prima di diventare capo e simbolo del popolo di Israele, si forma alla scuola della civiltà egizia tanto da venire descritto dalla Scrittura come «istruito in tutta la sapienza degli Egiziani» (At 7,22). Il popolo ebraico, liberato dalla schiavitù egizia in maniera miracolosa, mentre è nel deserto, si lamenta con Mosè di non poter più mangiare i succosi cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l’aglio d’Egitto (cf. Nm 11,5).

Ma l’Egitto non è stato solo il teatro di una storia «non sua». Al contrario, è stato esso stesso oggetto di molte profezie bibliche. Basta citarne soltanto una che i copti hanno sempre letto come profezia dell’evangelizzazione del paese. Si trova in Isaia 19, il cosiddetto «oracolo sull’Egitto»:

«Ecco, il Signore cavalca una nube leggera ed entra in Egitto […]. Il Signore si rivelerà agli Egiziani e gli Egiziani riconosceranno in quel giorno il Signore, lo serviranno con sacrifici e offerte, faranno voti al Signore e li adempiranno […]. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egitto mio popolo, l’Assiria opera delle mie mani e Israele mia eredità».

Quell’Egitto che aveva tenuto come schiavi gli ebrei, divenuto simbolo del male per eccellenza, diventerà «benedetto», diventerà «suo popolo».

Marco arriva ad Alessandria

Stando a Eusebio di Cesarea, pochi anni dopo la Resurrezione di Gesù, verso gli anni 40, san Marco Evangelista va ad annunciare la buona novella ad Alessandria. È in un’Alessandria cosmopolita e multireligiosa che giunge l’apostolo Marco che proveniva da Roma. Centro dell’Oriente ellenistico, Alessandria è testimone di un’intensa attività culturale. Qui esiste un’importante comunità ebraica che è stata protagonista della prima traduzione dell’Antico Testamento in greco, la cosiddetta versione dei Settanta, realizzata tra il III e il I sec. a.C.. Qui Filone, ebreo di Alessandria, nel tentativo di conciliare ellenismo e giudaismo, sviluppa un’esegesi della Bibbia che preferisce, all’interpretazione letterale, una allegorica che influenzerà molto il Didaskaleion, la prima «università» teologica cristiana, nata ad Alessandria verso la fine del II secolo d.C..

In realtà, i copti ritengono che il primo ad evangelizzare l’Egitto non sia san Marco (che pure considerano il «fondatore» della propria Chiesa) ma Gesù stesso. Bisogna risalire ad almeno una quarantina di anni prima quando la Sacra Famiglia scappa in Egitto per sottrarsi all’ira di Erode. Anche qui, una profezia veterotestamentaria sull’Egitto diceva: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1). Diversi testi apocrifi, tra cui il Vangelo arabo dell’infanzia (ca. V sec.), e numerose tradizioni copte, riferiscono i dettagli del soggiorno di Gesù, Maria e Giuseppe che fu ricco di eventi miracolosi e portò molti a credere in Cristo. Ancora oggi esistono delle chiese fondate sui luoghi delle tappe più importanti di questo passaggio. L’Egitto è quindi l’unica terra, oltre a quella di Palestina, ad essere stata calpestata dal Verbo incarnato.

Dall’imperatore Diocleziano alla spaccatura di Calcedonia

I copti chiamano affettuosamente la loro chiesa Umm al-shuhada’, la «Madre dei martiri». Iniziate nel III secolo, le discriminazioni nei confronti dei cristiani copti non si sono praticamente mai arrestate. Con l’arrivo di Diocleziano nel 284 la Chiesa egiziana vive una drammatica persecuzione che miete un gran numero di martiri. Quest’epoca terribile ha avuto un tale effetto che la Chiesa copta fa cominciare il suo calendario il 29 agosto (calendario giuliano) 284, data d’inizio dell’impero di Diocleziano. Il 2017 corrisponde al 1733 del calendario copto. La persecuzione, arrestatasi nel 313 con l’editto di Milano che decreta la libertà religiosa per i cristiani dell’impero romano, riprenderà in altre forme poco più tardi. Inizia l’epoca d’oro di questa Chiesa, IV e V secolo, stroncata dal disastro del 451. Al Concilio di Calcedonia si consuma una delle più dolorose spaccature all’interno dell’ecumene cristiana. Incomprensioni sulla natura di Cristo, mescolate a ragioni di tipo geoecclesiale, portano la Chiesa egiziana a essere estromessa dalla comunione con le altre Chiese. Il risultato è una nuova era di persecuzioni a opera dell’establishment ecclesiale appoggiato dall’imperatore, fino al momento all’avvento dell’islam nel VII secolo.

Il Grande Imam di al-Azhar, Sheikh Ahmed Mohamed al-Tayeb, e Popa Tawadros II di Alessandria.
/ AFP PHOTO / Khaled DESOUKI AND KHALED DESOUKI

Vivere da cristiani in un paese islamico

Isolando i copti dagli altri cristiani, l’islam certifica definitivamente la definizione di «Chiesa di martiri». I nuovi dominatori islamici, infatti, fanno di tutto per favorire la conversione alla loro religione dei cristiani egiziani, spesso con metodi per nulla pacifici.

Considerati cittadini di seconda categoria, i cristiani devono aspettare un millennio, l’epoca moderna, per reclamare e ottenere alcuni diritti civili. Per esempio, è solo nel 1855 che i copti vengono esentati dal pagare la jizya, una pesante tassa pro-capite imposta dallo stato islamico ai non musulmani. Ma il movimento islamico radicale, che si rafforza in Egitto soprattutto a partire dagli anni Settanta, rimette nuovamente in discussione i diritti acquisiti nel XIX e XX secolo e i copti, con l’imposizione di una costituzione che fa della shari‘a la sua fonte legislativa, subiscono un’ondata di persecuzioni che continua a tutt’oggi in un paese profondamente islamizzato.

La visita di papa Francesco, molto amato dai cristiani egiziani, è giunta a infondere coraggio e speranza non solo ai copti ma a tutti gli abitanti di questa terra sofferente che, sequestrata dal fanatismo, cerca con fatica un po’ di pace, condizioni di vita migliori e, soprattutto, maggiore tolleranza. Oggi come ieri, la Chiesa di Alessandria continua a donare ai suoi vicini musulmani e al mondo una delle testimonianze cristiane più fedeli: dall’albero della Croce non possono che nascere fiori di riconciliazione e di pace.

Markos el Makari

Cronaca degli ultimi attacchi:
Egiziani (eppure stranieri in patria)

Dallo stato egiziano ai Fratelli musulmani fino all’Isis. Ai copti non sono mai mancati i nemici, come dimostra la lunga sequela di fatti di sangue. Oggi sostengono il presidente al-Sisi. Più per questioni di sopravvivenza che per reale convinzione.

Un patrimonio culturale immenso, un ruolo cruciale nella storia del cristianesimo, una pietra miliare della spiritualità. Ma non è per nessuna di queste ragioni che oggi i copti sono così in voga.

L’11 dicembre 2016 un attentatore suicida entra nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, e, non conoscendo bene l’anatomia di una chiesa copta (o forse perché la conosce fin troppo bene), si dirige nella navata nord, quella delle donne, e lì, dalle ultime file, si fa esplodere.

Al-Sisi non ha dubbi: l’autore dell’atroce atto sarebbe stato il giovane ventiduenne Mahmoud Shafiq Mohammed Mustafa, carico con 12 kg di tritolo. L’esplosione è fortissima, i morti sono 29, quasi tutte donne e bambine. La chiesa si trova nel complesso della cattedrale di San Marco, a pochi passi da Sua santità papa Tawadros II che rivendica: «Non è un disastro soltanto per la Chiesa, ma per tutta la Nazione». Pochi mesi dopo – nella domenica delle Palme – l’Isis colpisce di nuovo e in maniera devastante: in due attentati rimangono uccise 47 persone.

Tensioni quotidiane

La persecuzione dei copti in Egitto è un fenomeno peculiare e con forti componenti sociali dal carattere strisciante (difficile per un copto, ad esempio, diventare dirigente di una struttura pubblica).

I copti vivono nello strettissimo ghetto che si trova fra il potere militare e la teocrazia underground degli integralisti islamici. Fra l’incudine e il martello, impossibilitati ad avere una vita sociale aperta: amori, contenziosi o anche liti condominiali con la restante popolazione di fede islamica, ma solo cordialità di facciata, timidi e diffidenti rapporti di lavoro.

Un esempio è quello della settantenne di al-Minya che, nel maggio 2016, è stata denudata e portata in processione per le strade del villaggio perché accusata di avere una liaison sentimentale con un uomo musulmano sposato. E questo per non parlare degli esiti di vicende amorose analoghe, ma a parti invertite. Si tratta di un vissuto che però viene meno nel momento in cui attraversiamo il confine del benessere. È molto difficile, infatti, che gli egiziani dei ceti più alti vivano conflitti di questo genere.

Un altro caso simbolo è quello di Nag Hammadi, cittadina a 80 km da Luxor. Il primo dell’ultima serie di attacchi «natalizi» che si sono verificati in questi ultimi anni. È la vigilia di Natale, la notte fra 6 e 7 gennaio 2010, terminata la messa i fedeli si scambiano gli auguri in un clima a dir poco infuocato. Pochi giorni prima, il vescovo Kyrillos aveva già allertato le forze dell’ordine, che gli avevano consigliato di far anticipare la messa di mezzanotte di un’ora. Ma non basta a evitare il massacro. Uomini armati attraversano il cortile della chiesa in macchina sparando sui fedeli. Muoiono in nove, otto cristiani e un musulmano.

Nei giorni successivi viene fuori il movente (per altro già ben noto ai locali): una spedizione punitiva nei confronti della comunità per vendicare una ragazzina dodicenne vittima di abusi sessuali da parte di un copto. Non è né la prima né l’ultima volta che a pagare le spese degli errori e dei crimini (ma anche dei passi falsi e delle passioni) di un solo uomo, sia tutta la comunità dei fedeli.

Il caso di Nag Hammadi è uno dei primissimi ad avere un’ampia copertura mediatica, godendo anche di una diffusione virale sui social network.

Tutto ciò consente agli attivisti di organizzarsi in manifestazioni al Cairo contro l’assordante silenzio delle autorità egiziane. A ben due settimane (oggi impensabile) dall’evento, l’allora presidente Hosni Mubarak si esprimerà condannando per la prima volta il massacro, non senza una cospicua campagna di arresti nei confronti degli attivisti.

“I Cristiani sono Egiziani” è scritto nel cartello di questo manifestante copto durante una manifestazione al Cairo nell’agosto 2016. (Mohamed El Raai / Anadolu Agency)

Sospetto, diffidenza, deferenza

È per tutti questi meccanismi sociali, che agli occhi dei comuni musulmani – quelli che noi definiremmo «moderati» – la popolazione dei copti è un po’ come se facesse vita a sé, sempre pronta a rimarcare il fatto di essere cristiana. A molti musulmani viene quindi da pensare: «Ma perché non si comportano normalmente? Come mai sono così chiusi?». E da qui a «Nascondono forse qualcosa?», il passo non è breve, di più. L’alone di mistero che circonda i copti non è quindi fonte di ammirazione, curiosità o fascino per gli egiziani, ma soltanto di sospetto e diffidenza ulteriore.

Lo stato, d’altro canto, non è mai stato un amico. E questo concetto è ben chiaro a molti copti, nonostante le accoglienze messianiche che hanno sempre riservato ad ogni visita di sua maestà al-Sisi.

Un occhio psicoanalitico sarebbe in grado di rivelare come i copti quasi si compiacciano della propria servilità dimostrata nei confronti del potere militare. Se a livello internazionale c’era da dimostrare che i diritti umani erano rispettati, i militari tiravano in mezzo la pacifica convivenza di cui godono i copti all’interno del paese; se serviva ridimensionare i copti per calmare i bollenti spiriti degli islamisti, venivano ridimensionati; e se serviva mobilitarli in massa per andare a «votare», venivano mobilitati tranquillamente. Il tutto con il soddisfatto consenso dei cristiani d’Egitto, come se questi si sentissero in qualche modo importanti. Una sorta di «sindrome di Stoccolma», ma anche un attaccamento fortissimo alla patria. La storia degli ultimi anni è quanto mai emblematica di tutto questo meccanismo.

Da un attentato all’altro

Siamo nel 2011. Un anno dopo il massacro di Nag Hammadi, più o meno lo stesso periodo dell’anno. È l’inizio dei rivolgimenti per tutta una serie di governi del Nord Africa e del Medio?Oriente sulla cui stabilità ci saremmo giocati tutto: è l’inizio delle cosiddette «Primavere arabe».

Chiesa dei Santi, Alessandria d’Egitto, notte di Capodanno: i fedeli sono tutti in chiesa per celebrare l’arrivo del 2011. Moriranno in ventitré. Si tratta di un attentato preso ad esempio per i successivi, quello del dicembre 2016 e quello della domenica delle Palme 2017. Un attentato suicida che arriva in un paese in fortissima crisi sociale, e c’è chi comincia a insinuare che ci possa essere anche la mano del governo… Sì, è l’inizio della fine.

Muhammad Hosni Mubarak cadrà qualche settimana più tardi in seguito a una rivoluzione popolare dalla portata faraonica.

Nessuno può dire esattamente quale sia stato il movente dell’attentato di Capodanno. Ma c’è uno scandalo (apparentemente davvero irrilevante) che, da qualche tempo, è sulla bocca di tutti: lo strano caso «Camelia Shehata e Wafaa Costantine». È la storia di due donne cristiane che, nel loro tentativo di convertirsi all’islam, sarebbero state rapite da membri del clero copto e tenute prigioniere in un monastero.

Non sapremo mai la verità, ma quello che sappiamo è che su internet sono stati diffusi dei video di queste due donne (velate con velo integrale) che si dichiaravano musulmane, libere e convinte.

Lo ricordiamo per un motivo ben preciso: questo «scandalo» sarà anche il movente che lo Stato islamico citerà nel video ufficiale della decapitazione dei ventuno giovani copti martiri rapiti in Libia nel 2015. Cinque anni dopo.

Le responsabilità della strage di Alessandria rimangono tutt’oggi poco chiare, anche dopo la rivoluzione. Ma esistono indagini molto nebulose che porterebbero addirittura al nome dello stesso ex ministro degli interni Habib Al-Adly, in carica al tempo dei fatti.

Quello di Alessandria è uno dei primissimi attentati ad avere una ripercussione anche in Europa. In particolare, nel 2011 tutte le comunità copte in Italia celebreranno la vigilia di Natale sotto la protezione degli uomini della Digos. Dalla più piccola e sperduta parrocchia, alla più grande cattedrale.

Foto del 2010 del leader supremo dei Fratelli Musulmani Mohammed Badie. (AP Photo/Amr Nabil)

Gli attacchi dei Fratelli musulmani

Caduto Hosni Mubarak, i copti pensano che sia arrivato il momento per chiedere a gran voce la parità dei diritti. In particolare, il dibattito pubblico si sta concentrando sull’abolizione dell’articolo della Costituzione che prevede che la principale fonte per la legislazione sia la shari’a islamica, ma anche sulla semplificazione della procedura di ottenimento dei permessi per la costruzione di nuovi luoghi di culto cristiani.

L’illusione svanisce subito. Nell’ottobre 2011, in seguito alla demolizione dell’ennesima chiesa, i copti decidono di scendere in piazza a Maspero, sede della Tv di stato egiziana, per manifestare ancora una volta contro l’assordante silenzio dei media. È un vero massacro: ventotto morti letteralmente schiacciati dai blindati dell’esercito, mentre la cronista della Tv pubblica invita tutti gli «onorevoli cittadini» a proteggere i militari dalla violenza dei copti. All’esercito si aggiungono quindi gruppi di salafiti armati, tutti contro i copti.

Oggi la Chiesa copta ha ufficialmente «perdonato» ai militari questo massacro in nome dell’unità nazionale. Ed è stato proprio in nome dell’unità nazionale che papa Tawadros II ha sostenuto in primissima persona l’ascesa di al-Sisi, e la caduta di Morsi, il primo presidente egiziano democraticamente eletto, che però aveva il difetto di appartenere ai Fratelli musulmani. Una storia davvero tumultuosa che culmina in un golpe e violenze generalizzate.

Agosto 2013: un attacco su vasta scala da parte degli attivisti della Fratellanza prende di mira – immediatamente dopo l’annuncio del golpe – decine di chiese in tutto l’Egitto. Vengono colpiti anche siti archeologici, manoscritti antichi, icone, reliquie… Tutto bruciato.

I militari rispondono con una strage. A Rabi’a muoiono fra i seicento e gli ottocento (ancora non si sa con esattezza) attivisti dei Fratelli musulmani, e l’organizzazione viene ufficialmente definita come «terroristica». Mohammed Morsi è tutt’ora in carcere e sotto processo per accuse gravissime.

Costretti a sostenere al-Sisi

È su questo scenario che si è affacciato papa Francesco, il 28 e 29 aprile scorsi, nella sua prima visita ufficiale in Egitto. Fra la memoria di Giulio Regeni e il bene dei copti e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, costretti a sostenere gli uomini forti per potersi garantire un’esistenza accettabile. Ma – lo abbiamo visto con gli attentati della domenica delle Palme – non scevra da pericoli mortali.

Andrea Boutros

Il presidente dell’Egitto, Abdul Fattah al-Sisi a Washington, D.C. in aprile 2017 (DOD photo by U.S. Army Sgt. Amber I. Smith).


Incontro con esponenti della comunità copta:
Al-Sisi (meglio degli altri)

Per gli oltre dieci milioni di egiziani di fede cristiana è difficile e rischioso vivere in un paese dove «tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».

«Con al-Sisi è cambiato tutto o, forse, non è cambiato nulla». Girgis è perplesso. Lui, cristiano, non riesce a sintetizzare la situazione in cui vive attualmente la Chiesa copta ortodossa in Egitto. «Certo – riprende – se guardiamo alla storia della nostra comunità, qualcosa di diverso c’è. Ed è un qualcosa di positivo. Se guardiamo alla cronaca, che parla di attentati, morti e feriti, non possiamo essere così ottimisti».

Da Mubarak a Morsi

Non si può comprendere l’attuale situazione se non si fa un passo indietro. I copti sono gli eredi degli antichi egizi che si convertirono al cristianesimo, a partire dal primo secolo, grazie alla predicazione di San Marco. La loro Chiesa è quindi antichissima e fino al VII secolo è stata maggioritaria in Egitto. Con l’arrivo degli arabi e dell’islam, per i copti è iniziata una difficile convivenza, fatta di periodi di relativa libertà alternati ad anni di dure repressioni.

La situazione non è migliorata con l’indipendenza dell’Egitto. Sotto i governi di Anwar Sadat e Hosni Mubarak, la Chiesa ha vissuto un periodo particolarmente difficile. «Ai tempi di Mubarak – osserva Awad, giornalista egiziano di fede cristiana -, la state security (un dipartimento speciale della polizia di stato, ndr) dominava la scena politica e religiosa. Per i copti era difficile, se non impossibile, costruire o anche ristrutturare una Chiesa perché era necessario il nullaosta della state security, che non lo rilasciava facilmente. La polizia arrestava i musulmani che si convertivano. Agenti erano coinvolti nei rapimenti di ragazze copte, organizzati per convertirle (andando contro la legge che prevedeva e prevede che qualsiasi conversione possa avvenire solo dopo i 18 anni). I musulmani che attaccavano le chiese rimanevano impuntiti».

Queste violenze contro la minoranza copta erano legate alla politica interna del raiss. Per rimanere al potere, Mubarak aveva bisogno del sostegno anche delle frange islamiche più estremiste. «Il presidente – osserva Girgis – lasciava quindi che i copti subissero le angherie e le discriminazioni più palesi. Sono stati anni molto duri».

La speranza di un cambiamento è arrivata nel 2011 con la caduta del regime. Musulmani e cristiani sono scesi in piazza insieme per invocare la caduta del raiss. «La parte migliore del mondo musulmano e di quello cristiano – ricorda Awad – lottava per un cambiamento reale della società egiziana. Volevano un paese in cui le componenti religiose convivessero senza dissidi, insieme come cittadini di un unico paese, l’Egitto. Ma è arrivata subito la doccia fredda». La strage nel quartiere Maspero, in cui nel 2011 la polizia ha represso con la violenza una manifestazione di cristiani (facendo 26 vittime tra i copti), e il governo della Fratellanza musulmana, guidato dal presidente Mohammed Morsi, hanno subito rimesso in un angolo la comunità cristiana. «Il progetto di riforma costituzionale promosso dalla Fratellanza musulmana – spiega Youssef, ingegnere egiziano di fede cristiana – era inaccettabile per la nostra comunità. Se fosse stato approvato ci avrebbe riportato indietro di secoli. I cristiani sarebbero diventati cittadini di serie B. Ma, va sottolineato, discriminava anche i laici e i musulmani che non si riconoscevano nella visione totalizzante dell’Islam della Fratellanza musulmana. È per questo motivo che la maggioranza degli egiziani è scesa in strada e ha iniziato a contestare Morsi, obbligandolo alle dimissioni».

Il fondamentalismo islamico e al-Sisi

Non è un caso che, quando Abdel Fattah al-Sisi è arrivato al potere nel 2013, è comparso in televisione con al fianco sia Tawadros II, papa dei copti, sia Ahmad Muhammad Ahmad al Tayyib, imam della moschea-università di al-Azhar (massima autorità dell’Islam sunnita). In al-Sisi, militare e musulmano devoto, i copti hanno subito visto un politico in grado di proteggere la comunità cristiana. «Al Sisi – osserva Girgis – ha certamente cambiato in meglio la situazione dei cristiani. Ha varato leggi, decreti e regolamenti per favorire la costruzione di chiese, luoghi di incontro, ecc. Ma, intendiamoci, la libertà religiosa non si impone per decreto. Costruire una chiesa è ancora oggi difficile, professarsi copto anche. Questo perché la società egiziana è fortemente permeata da una visione fondamentalista dell’islam. Tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».

Non è un caso che, solo nel primo anno di governo di al-Sisi, 85 chiese siano state attaccate, bruciate o demolite. L’11 dicembre 2016 un attentato alla cattedrale del Cairo ha fatto 25 morti. Il 9 aprile scorso due attentati, il primo davanti chiesa di Mar Girgis a Tanta e il secondo davanti alla chiesa di San Marco ad Alessandria, hanno provocato 45 vittime. «Ciò dimostra – osserva Awad – che la violenza nei nostri confronti non è sparita. E che, nonostante al-Sisi abbia promesso maggiori controlli e maggiore protezione, noi siamo ancora in balia dei fondamentalisti».

Al-Sisi però non sta lavorando solo sul piano della sicurezza. Sta facendo pressioni affinché gli studiosi dell’Islam recuperino la tradizione pluralista e dialogante della fede musulmana. «Il lavoro sul piano culturale – continua Awad – è fondamentale. Bisogna scardinare dalla società egiziana la visione wahabita dell’islam, che è a noi estranea (proviene dall’Arabia Saudita) ed è portatrice di intolleranza e violenza. Siamo coscienti che il cammino da percorrere per raggiungere una piena libertà religiosa è ancora lungo e la strada è tortuosa. Se non ci incamminiamo su questo sentiero culturale e teologico, però, difficilmente le cose potranno cambiare».

Le scelte di papa Tawadros II

AFP PHOTO/KHALED DESOUKI

La stessa Chiesa copta ortodossa sta cambiando pelle. Negli ultimi anni ha vissuto una profonda trasformazione in parte legata alla figura di papa Tawadros II e in parte alla progressiva secolarizzazione dei fedeli.

Tawadros II ha incarnato per i copti quella rivoluzione che Francesco ha rappresentato per i cattolici. «Il nuovo papa – osserva Girgis – ha portato una ventata di novità. Ha introdotto, in un ambiente un po’ ingessato, un modo informale di porsi. Non si è mai visto un patriarca di Alessandria che ama farsi i selfie con i giovani, che si fa abbracciare, che ha un modo spontaneo di parlare. Il fatto che tra lui e papa Francesco si sia instaurata una solida amicizia non è dovuto solo a una vicinanza teologico-dottrinale, ma anche a uno stile aperto, semplice, cordiale che esprime la serenità e la gioia della fede cristiana. Anche il suo modo di vivere è frugale, essenziale, senza sfarzo».

La vera novità però non è nello stile, ma nel suo modo di lavorare. «Shenouda III, il vecchio papa copto, era un accentratore – continua Girigis -. Non discuto se fosse o meno giusto il suo approccio. Tawadros ha instaurato un sistema diverso. Ama lavorare in gruppo, coinvolgere i collaboratori nel processo decisionale. In Europa, per esempio, ha riorganizzato la Chiesa copta e spesso viene in visita per parlare e confrontarsi con i vescovi che operano nel continente».

Per Tawadros, poi, assume un’importanza fondamentale la dimensione ecumenica. Con i cattolici il rapporto è ottimo, anche per quella sintonia personale con Francesco di cui abbiamo parlato. Ma dal 4 novembre 2012, giorno in cui è stato eletto dal sinodo, Tawadros ha iniziato a tessere rapporti sempre più stretti con le differenti Chiese ortodosse e, in particolare, con quella russa, quella greca e quella ecumenica di Costantinopoli. «Quelle ortodosse – spiega Girgis – sono Chiese “sorelle”, con le quali storicamente abbiamo rapporti. Ma con il nuovo papa queste relazioni sono diventate molto più strette. Tawadros ha avviato un confronto serrato con le Chiese protestanti. Lui crede nella fratellanza con i riformati, anche se una parte dei copti, i più tradizionalisti, hanno fatto numerose resistenze perché vedono i protestanti come i nemici dell’ortodossia».

Il clero e i fedeli

La Chiesa copta, però, sta subendo una profonda trasformazione nei suoi stessi fedeli. Da sempre i copti sono legati alla loro gerarchia (vescovi, monaci, sacerdoti). «È un legame solido, a volte fin troppo – sottolinea Youssef -. In passato, per i credenti, il clero era tutto. Dal clero dipendevano per qualsiasi cosa: chiedevano aiuti materiali, consigli e ascolto nei momenti difficili, direttive in campo politico ed economico. Oggi questo “totale affidamento” sta venendo meno. I copti partecipano ancora in massa alle funzioni religiose, ma molti di essi stanno tagliando il cordone ombelicale con la gerarchia. Soprattutto i giovani non ascoltano più le direttive ecclesiastiche in campo politico ed economico. Si muovono da soli, rivendicando il loro essere cittadini egiziani che lavorano nella società per farla crescere. Si ispirano ai valori cristiani, ma senza legami vincolanti con la chiesa. Stanno seguendo un processo di laicizzazione non dissimile a quello che è avvenuto in molti paesi europei».

Enrico Casale


Scheda 1:
Matta el Meskin

Personaggio dallo straordinario carisma umano e spirituale, padre Matta el Meskin (1919-2006), al secolo Yusuf Iskandar, rappresenta una delle più luminose figure spirituali dei cristiani d’Egitto. È stato il fautore di una importante rinascita spirituale, monastica e culturale, all’interno della Chiesa copta ortodossa.

Farmacista in carriera, Yusuf, si avventura in un viaggio dello spirito che lo porterà in tre monasteri e a una lunga esperienza di vita eremitica. Monaco dal 1948, dal 1969 al 2006 è stato padre spirituale del monastero di San Macario nel deserto di Scete (Wadi el-Natrun). Alla sua morte nel 2006 questo monastero era diventato un piccolo Eden e il numero di monaci che lo abitavano era centotrenta. Oggi il monastero è guidato da un suo discepolo, il vescovo anba* Epiphanius.

L’anelito di questo monaco copto è stato sempre quello di vivere radicalmente il Vangelo. È a partire da ciò che Matta el Meskin ha creato attorno a sé una vera e propria scuola di spiritualità del deserto. Il Signore gli ha donato uno straordinario carisma, quello di parlare con la forza del linguaggio e della spiritualità degli antichi padri del deserto agli uomini contemporanei di ogni latitudine. Prova ne è il fatto che le sue opere sono state tradotte in ben sedici lingue. Il cuore della spiritualità meskiniana è la «grazia» dello Spirito Santo, l’ineffabile azione d’amore di Dio, che in Cristo ha realizzato la riconciliazione tra terra e Cielo. Essa è sempre più grande e più generosa della nostra miseria e pochezza ed è capace sempre di «trasformarci in quella medesima immagine, di gloria in gloria (cf. 2Cor 3,18)». L’azione dell’uomo è primariamente sinergia con lo Spirito Santo.

Instancabile sostenitore dell’unità dei cristiani, abuna* Matta è autore di un centinaio di scritti. La sua opera più conosciuta è certamente La vita di preghiera ortodossa tradotta in italiano con il titolo di L’esperienza di Dio nella preghiera (Qiqajon). È da qui che traiamo alcune parole sulla preghiera incessante.

«La preghiera – scrive Matta el Meskin – è quell’atto essenziale nel quale Dio stesso, senza che noi ce ne rendiamo conto, opera in noi il cambiamento, il rinnovamento e la crescita dell’anima. Né il benessere, né la pace interiore, né l’impressione di essere esauditi, né nessun altro buon sentimento possono eguagliare l’azione segreta dello Spirito Santo sull’anima e renderla degna della vita eterna. La preghiera è apertura all’energia attiva di Dio, forza invisibile, forza intangibile. Secondo la promessa di Cristo (Gv 6,37) l’uomo non può ritirarsi dalla presenza di Dio senza ottenere un cambiamento essenziale, un rinnovamento che non apparirà come improvvisa esplosione, bensì come costruzione minuziosa e lenta, quasi impercettibile.

Colui che persevera davanti a Dio e persiste nel confidare in lui per mezzo della preghiera, riceverà molto più di quanto sperava e molto più di quanto avrebbe meritato. Colui che vive nella preghiera accumula un immenso tesoro di fiducia in Dio. La forza e la certezza di questo sentimento superano l’ordine del visibile e del tangibile, poiché l’anima, in tutto il proprio essere, si impregna profondamente di Dio e l’uomo percepisce la presenza di Dio con grande certezza, tanto da sentirsi più grande e più forte di quanto non sia. Acquisisce allora la convinzione di un’altra esistenza, superiore alla sua vita temporale, pur non ignorando la propria debolezza, né dimenticando i propri limiti.

Dal momento in cui l’anima comincia a elevarsi nel mondo delle «luce vera» (Gv 1,9) che è in lei, comincia a porsi in armonia con Dio attraverso la preghiera continua fino a eliminare ogni divisione, ogni dubbio, ogni inquietudine, allora la Verità dirige il suo movimento e tutti i suoi sentimenti e il fuoco dell’amore divino fonde le sue esperienze passate e presenti, sopprimendo le parzialità e i timori dell’io, gli errori dell’egoismo e i suoi sospetti, cosicché in fondo all’anima non resta altro che la pienezza della sovranità dello Spirito e l’estrema felicità di sottomettersi alla sua volontà».

Markos el Makari

* «Anba» e «abuna» significano «padre». Il primo è usato per papi, vescovi e santi; il secondo per monaci e preti.

  • AA.VV., Matta el Meskin: un padre del deserto contemporaneo, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2017.

Scheda 2:
Anche nel calcio

Tutti gli egiziani amano e seguono il calcio, specie quando a giocare è la leggendaria Nazionale dei Faraoni. Hassan Shehata (nato nel 1949) è stato uno dei Ct più amati in assoluto, capace di portare l’Egitto sulla vetta d’Africa per ben tre volte consecutive, un vero record.

Il mister ha sempre puntato sul gruppo, ma ha sempre avuto una caratteristica controversa che ha spesso suscitato polemiche (in primis fra i musulmani). Il suo criterio principe – diceva – per la selezione dei convocati era la pietas: va benissimo la tecnica, la qualità e la forza, ma se non sei un buon musulmano non farai mai parte del gruppo. Inutile dire che i copti sono esclusi a priori (un fenomeno che si sta sempre più allargando alle basi del calcio egiziano, con una progressiva esclusione delle giovani promesse cristiane dai principali club), così come i calciatori musulmani più laici.

È l’esempio di re Mido (Abdelamid Hossam Ahmed Hussein, nato nel 1983), personaggio al confine fra Bobo Vieri e Mario Balotelli, sia per temperamento che per i molteplici vizi, in eterno conflitto con Hassan Shehata, fino all’esonero definitivo dalla Nazionale.

È una tendenza relativamente nuova, ma degna di nota. Non esiste copto che non conosca Hany Ramzy (nella foto), uno dei più forti difensori dell’Egitto di sempre, classe 1969 e idolo per tutti gli egiziani. Calciatore di fede cristiana, oggi allenatore. All’epoca, nessun problema. Oggi non è più così, e a tante giovani promesse viene chiesto di convertirsi all’Islam, conditio sine qua non per fare carriera nel mondo del pallone.

Andrea Boutros

Scheda 3:
La diaspora copta

La crisi economica persistente (che si è accentuata notevolmente dopo le Primavere arabe) e le discriminazioni subite in patria hanno portato molti copti a emigrare. La maggior parte si è trasferita in Nord America o in Australia. Molti, però, sono arrivati in Europa. In Italia, sono circa 45mila: 25mila nella diocesi di Milano e 15mila in quella di Roma. «Questo dato – osserva Girgis – si riferisce alle persone che frequentano la comunità religiosa. Credo quindi che sia sottostimato, probabilmente sono molti di più».

I copti sono molto bene integrati nel tessuto sociale italiano. Sono professionisti, dirigenti, impiegati, artigiani, commercianti. Molti giovani studiano nelle nostre università e, una volta laureati, entrano con facilità nel nostro sistema produttivo. «D’altra parte – continua Girgis – nulla impedisce ai copti di integrarsi. Non ci sono ostacoli evidenti alla loro integrazione: né la fede, né la cultura».

Dal 2013, in Parlamento siede un deputato di origine egiziana e di fede copta ortodossa. È Girgis Giorgio Sorial (nella foto), bresciano, appartenente al Movimento 5 Stelle. I suoi genitori si sono rifugiati in Italia perché in patria erano stati perseguitati da musulmani radicali.

«Dialogo con i musulmani? – conclude Youssef -. No, in Italia non c’è una relazione istituzionale con i musulmani. Molte famiglie egiziane cristiane e musulmane si frequentano, ma sono relazioni a livello personale. Il professor Farouq Wael Eissa dell’Università Cattolica di Milano ha dato vita a un gruppo di lavoro con ragazzi islamici e copti. Organizzano alcune iniziative insieme. È questa la strada giusta. Credo che per favorire l’integrazione non serva costruire moschee o chiese, ma luoghi di incontro dove sia possibile fare insieme attività culturali o sportive».

Enrico Casale

Scheda 4:
La Chiesa copta cattolica

Esiste anche una Chiesa copta cattolica, il patriarcato cattolico di Alessandria, eretto nel 1824, ristabilito nel 1895 e governato da un patriarca. Comprende 6 diocesi con circa 200.000 fedeli. L’attuale patriarca è Abramo Isacco Sidrak (nella foto). Il 28 e 29 aprile si è incontrato con papa Francesco nella due giorni del pontefice in Egitto.

Scheda 5:
Cronologia essenziale 2010-2017.
Una comunità sotto attacco

2010, 7 gennaio – La notte del Natale copto, a Nag’ Hammadi (vicino a Luxor), fedeli copti vengono attaccati da un gruppo di musulmani: 7 morti.

2011, 1 gennaio – Attentato alla chiesa copta dei Due Santi ad Alessandria: 23 morti e 97 feriti.

2011, 11 febbraio – Caduta di Hosni Mubarak. Era presidente dall’ottobre del 1981.

2011, 9 ottobre – Al Cairo, nella via Maspero, davanti al palazzo della radio e della televisione di stato, reparti dell’esercito egiziano uccidono 28 persone che partecipavano a una marcia di protesta dei cristiani copti.

2012, 18 novembre – Elezione di papa Tawadros II, 118° patriarca di Alessandria.

2013, 3 luglio – Un golpe militare guidato dal generale al-Sisi destituisce il presidente Mohamed Morsi dei Fratelli Musulmani (organizzazione islamista fondata nel 1928). Morsi era stato eletto nel giugno 2012. Il magistrato Mansur viene nominato presidente ad interim.

2013, 23 settembre – Al-Sisi dichiara fuorilegge i Fratelli musulmani.

2014, 8 giugno – Dopo la transizione di Mansur, viene eletto presidente il generale al-Sisi.

2015, 12 febbraio – A inizio gennaio l’Isis sequestra 21 copti che vengono uccisi un mese dopo in Libia. I terroristi islamici mettono in rete il video della decapitazione (foto a sinistra).

2016, 11 dicembre – Un attacco suicida uccide 25 persone nella chiesa copto ortodossa di San Pietro e Paolo al Cairo.

2017, febbraio – Nella penisola del Sinai jihadisti egiziani legati all’Isis attaccano ripetutamente le comunità copte.

2017, 9 aprile – Nella domenica della Palme due attentati dell’Isis contro chiese copte – a Tanta (delta del Nilo) e ad Alessandria – provocano 45 morti e 126 feriti. Il presidente al-Sisi decreta tre mesi di stato d’emergenza.

2017, 28-29 aprile – Viaggio di papa Francesco in Egitto. Incontri con il patriarca Tawadros II, il presidente al-Sisi e il grande imam al-Tayeb.

2017, 26 maggio – Un autobus che trasportava i fedeli copti è stato assalito da un commando di dieci uomini a Menyah, a 250 Km a sud dal Cairo. Bloccato il mezzo e saliti a bordo, hanno aperto il fuoco sui passeggeri. Almeno 28 i morti.

Paolo Moiola

PS:?oggi esiste un portale web – http://eshhad.timep.org/database -, aggiornato in tempo reale, che riporta ogni singolo atto di violenza a significato settario e persecutorio contro i copti in Egitto. Con tanto di data, luogo, vittime, feriti, danni a proprietà, negozi o abitazioni. Un rapido sguardo fornisce un’idea della portata del fenomeno.


Gli autori di questo dossier

  • Markos el Makari – Nato in Italia, bilingue italiano e arabo, attualmente è monaco novizio del monastero di San Macario il Grande a Wadi el-Natrun (l’antica Scetes) e del monastero di Bose (Biella).
  • Andrea Boutros – È nato a Genova da genitori egiziani nel 1993. Laureando in Medicina e Chirurgia, ha collaborato come giornalista per Il Secolo XIX e yallaitalia.it trattando la tematica migratoria e le problematiche sociali riguardanti le seconde generazioni. Parla italiano e arabo. È un membro attivo della comunità copta di Genova.
  • Enrico Casale – Giornalista freelance, si occupa di Africa. Laureato in Scienze politiche presso l’Università cattolica di Milano. È stato redattore del mensile Popoli. Attualmente collabora con Missioni Consolata, Africa, Combonifem, Nigrizia, Radio Vaticana e per le pubblicazioni dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano.
  • Paolo Moiola – giornalista redazione MC, ha curato il tutto.

 

 




Popolazioni perseguitate /2: Rohingya


Indice:

Una tessera senza mosaico

I Rohingya, minoranza islamica del?Myanmar

La diaspora degli invisibili

I musulmani del Myanmar

I Rohingya e le radici coloniali del conflitto

Anno 1974: l’inizio della discriminazione

Anno 1982: la legge di cittadinanza

Anno 2010: le aperture democratiche

Buddhisti contro musulmani

Le leggi antislamiche del governo

Una delusione di nome Aung San?Suu Kyi

Movimenti islamici e chiamata al «jihad»

Il Rakhine e il peso della povertà

La diaspora dei Rohingya: in Bangladesh, Thailandia, Malesia e Indonesia

I barconi dei trafficanti d’uomini

Aung San Suu Kyi: dopo le parole, è l’ora dei fatti


Una tessera senza mosaico

Il Myanmar – o Birmania (Burma), secondo la vecchia denominazione coloniale – è sempre stato un paese di forte attrazione turistica. Anche quando – dal 1962 al 2011 – era governato da una dura giunta militare. I visitatori trovavano un paese affascinante abitato da gente gentilissima e sorridente. Ma era una visione parziale perché i loro movimenti erano limitati a zone geografiche circoscritte, per lo più abitate dai Bamar, il gruppo etnico predominante e di religione buddhista. Rimanevano esclusi ampi territori, abitati da altre etnie, che in Myanmar sono centinaia. Non è un modo di dire che il paese sia un mosaico etnico. Un mosaico turbolento: sono ben 18 i gruppi armati che operano sul territorio, tutti con la propria bandiera, il proprio esercito, i propri leader, i propri obiettivi. Insomma, dietro quei sorrisi si celava un paese diviso e in guerra.

Altra immagine che è necessario sfatare è quella dei monaci buddhisti visti come personificazione dell’atarassia. Come sinonimo di tranquillità, pace interiore ed esteriore, vita monasatica. Invece anche loro sono uomini con passioni e pulsioni. Le immagini dei monaci che manifestano in piazza contro la minoranza musulmana dei Rohingya e la comunità internazionale ne sono un’evidente testimonianza. Gli striscioni da loro mostrati parlano chiaramente: «No, Rohingya», «I profughi non sono del Myanmar», «Nazioni Unite, basta inventare storie sui Rohingya», «Non distruggete la storia e l’immagine del Myanmar», «Basta incolpare il Myanmar», «Gli amici dei Rohingya sono nostri nemici». Va ricordato che, nella nuova Costituzione del maggio 2008, il Myanmar riconosce al buddhismo una posizione speciale in quanto – si precisa – essa è la fede professata dalla grande maggioranza dei cittadini (art. 361). Nell’articolo successivo si dice però che lo stato riconosce altresì il cristianesimo, l’islam, l’induismo e l’animismo.

Da un paio d’anni si cerca di mettere ordine al mosaico etnico del Myanmar. Il 15 ottobre del 2015 il governo, al tempo ancora guidato dall’ex generale Thein Sein, ha firmato un accordo per il cessate il fuoco con 8 gruppi armati, tra cui quello dei Karen (Knu), l’organizzazione combattente più vecchia del paese. Dal 31 agosto al 3 settembre 2016, il nuovo governo di Aung San Suu Kyi ha organizzato, nella capitale Nay Pyi Taw, una grande conferenza di pace, convocando i rappresentanti di tutti i gruppi ribelli. Si è presentata anche la forte organizzazione per l’indipendenza dei Kachin (Kio). Nulla di decisivo secondo il Myanmar Times, ma il segnale c’è stato. Tanto che, a fine febbraio 2017, è iniziato un secondo incontro («Second Panglong Peace Summit»).

In questo quadro in divenire i Rohingya non trovano spazio. Sono più di un milione di persone, residenti per la quasi totalità nello stato di Rakhine. La particolarità è che non sono riconosciuti dallo stato birmano: sono considerati immigrati illegali bengalesi, anche se la maggior parte è in Myanmar da generazioni. Nel 2012, nel Rakhine, sono iniziati gli attacchi violenti e distruttivi della popolazione locale ai villaggi abitati dai Rohingya, senza che le forze di polizia intervenissero. Oggi migliaia di essi vivono in campi d’internamento privi dei requisiti minimi di vivibilità. Altre migliaia tentano di lasciare il Myanmar – via mare o via terra, usando mezzi di fortuna, quasi sempre gestiti dai trafficanti di uomini – per raggiungere soprattutto i paesi confinanti: Bangladesh, Malesia, Indonesia. Nonostante si tratti di paesi musulmani, anche qui i Rohingya sono respinti (come fa il Bangladesh da fine 2013) o comunque accettati con difficoltà. Siamo davanti alla tragedia di un popolo senza patria. Una tessera che nessuno vuole nel proprio mosaico.

Paolo Moiola


 


I Rohingya, minoranza islamica del?Myanmar

La diaspora degli invisibili

I Rohingya – oltre un milione di persone – sono una minoranza islamica che vive in Myanmar, nello stato di Rakhine. Esclusi dai censimenti perché non riconosciuti dallo stato, a causa delle discriminazioni e delle violenze patite, i Rohingya hanno cominciato a fuggire, via mare e via terra. Nella fuga molti hanno perso la vita, molti altri sopravvivono in campi profughi totalmente inadeguati per un’esistenza dignitosa. La persecuzione contro di essi ha radici storiche e non è iniziata di recente. Ultimamente però la situazione è precipitata, coinvolgendo più paesi, due a maggioranza buddhista e tre a maggioranza islamica: il Mynamar, la Thailandia, il Bangladesh, la Malesia e l’Indonesia. In questa vicenda le responsabilità di Aung San Suu Kyi, già icona del Myanmar, oggi ministro e consigliere di stato, non vanno taciute.

La luce del sole penetra attraverso le sottili fessure del tempio di Le-myet-hna, a Mrauk-U (stato di Rakhine, già Arakan), illuminando il volto sereno di una delle statue del Buddha. Percorro solitario lo stretto e claustrofobico corridoio lungo il quale i pellegrini buddhisti circumambulano recitando le preghiere. L’ultima volta che avevo visitato Mrauk-U, cinque anni fa, i templi erano affollati di turisti, per lo più birmani. Le cantilene dei fedeli si mescolavano ai commenti dei visitatori e i bagliori dei flash delle macchine fotografiche combattevano contro i raggi del disco solare appiattendo i suggestivi giochi di penombra.

La storia di Mrauk-U è un paradosso religioso: il buddhista Min Saw Mon, fondatore della dinastia, visse per 23 anni presso la corte islamica di Jalahuddin Muhammad Shah prima di riprendersi, con l’aiuto del sultano, il trono usurpatogli nel 1406 dal re di Ava, Minye Kyawswa, correligionario di Min Saw Mon.

Una storia di intreccio religioso che nel 2012 sarebbe diventato anche oggetto di contenzioso storiografico. Allora mi accompagnava nella visita Ma Thiri, studentessa di Museologia all’Università nazionale di arte e cultura di Yangon, la quale amava sottolineare che «i musulmani pretendono di riscrivere la storia chiamando Min Saw Mon col nome islamico di Suleiman Shah». Un’affermazione che prefigurava un conflitto culturale e religioso tra le comunità buddhiste e musulmane già in atto dall’era coloniale, ma che sarebbe scoppiato in tutta la sua violenza solo pochi mesi dopo la mia visita.

I musulmani del Myanmar

Nello stato del Rakhine, al confine con il Bangladesh, dal XIX secolo, vive – accanto a buddhisti di etnia rakhine – la maggioranza dei due milioni di islamici del Myanmar, il 4,3% della popolazione totale.

I musulmani dello stato Rakhine sono a loro volta divisi in due gruppi: i Kaman, discendenti di popolazioni che seguirono il principe Mughal Shah Shuja rifugiatosi nel 1660 a Mrauk-U, e i Rohingya il cui gruppo, a differenza dei Kaman, non è riconosciuto etnicamente dalla Costituzione birmana.

Ufficialmente i Rohingya non esistono e il censimento, effettuato nel 2014, ha registrato solo i 2.100.000 Rakhine nello stato omonimo, relegando altri 1.090.000 abitanti, identificati come «non conteggiati»1, in una postilla. Lo stesso documento precisa che «nel Rakhine una popolazione stimata in 1.090.000 abitanti non è stata conteggiata perché a loro non è stato permesso di autornidentificarsi usando un nome non riconosciuto dal governo»2.

I media generalmente fanno coincidere l’inizio degli scontri con una data precisa, il 28 maggio 2012, delineando erroneamente uno spartiacque cronologico con un periodo di convivenza pacifica che, nella realtà, non c’è mai stata.

Quel giorno l’uccisione da parte di tre musulmani di Thida Htwe, una donna ventisettenne di etnia rakhine, aveva dato avvio a quello che oggi viene comunemente chiamato il genocidio dei Rohingya.

Da quel fatidico giorno «zero» i media internazionali hanno iniziato ad occuparsi di un argomento di cui erano a digiuno, ma non certamente nuovo per il Myanmar.

I Rohingya e le radici coloniali del conflitto

Per comprendere cosa stia accadendo nel Rakhine, occorre risalire alle radici del conflitto che, come la maggior parte delle guerre etniche che affliggono il Myanmar, ha i suoi semi nella colonizzazione britannica.

I numerosi contatti tra l’area birmana e indiana avvenuti nel corso dei secoli, vennero intensificati dall’annessione della Birmania all’India conclusasi nel 1885 a seguito della Terza Guerra anglo-birmana. Tra il 1886 e il 1899, seguendo un copione già in atto nell’Indocina francese, dove funzionari vietnamiti venivano trasferiti negli uffici pubblici della Cambogia, anche nella colonia britannica migliaia di indiani chettyar, in particolare bengalesi, furono distaccati nelle regioni birmane in parte per compensare la mancanza di contadini che coltivassero le risaie, in parte per aiutare i colonizzatori nella gestione dell’amministrazione politica ed economica. In entrambe le regioni, queste decisioni avrebbero provocato negli anni a venire conseguenze catastrofiche.

Molti di loro divennero prestatori di denaro a contadini che, pressati dalle tasse e dal governo coloniale, cercavano nuovi terreni da coltivare, attrezzi e concimi chimici per velocizzare le operazioni di aratura, disboscamento, semina e raccolta del riso. L’apertura del Canale di Suez, infatti, aveva accelerato i commerci e diminuito drasticamente i prezzi dei trasporti provocando un’impennata della richiesta di prodotti esotici in Europa e obbligando i paesi colonialisti ad aumentarne la produzione e l’importazione. La quantità di denaro prestata dai chettyar era accompagnata da interessi esorbitanti che, spesso, i contadini non riuscivano a pagare. In questo modo si creava un meccanismo a spirale alla fine del quale le famiglie si trovavano costrette a cedere gran parte della loro terra, se non tutta, agli usurai. I campi, che tradizionalmente appartenevano ai villaggi e venivano coltivati dalle famiglie in base al loro bisogno e alla loro possibilità, si trasformarono in merce di scambio e venne introdotto, per la prima volta, il concetto di proprietà privata terriera.

L’avanzata giapponese nel Sud Est asiatico, avvenuta tra il 1942 e il 1944, radicalizzò le tensioni già esistenti: i Rakhine, buddhisti come i Bamar (il gruppo etnico più noto con il nome di Birmani e che ancora oggi rappresenta il 68% della popolazione del paese) di Aung San (padre di Aung San Suu Kyi, ndr), si schierarono a fianco delle armate imperiali nipponiche, mentre i musulmani, che sotto il dominio britannico avevano goduto di privilegi economici e territoriali, contraccambiarono il favore collaborando con gli alleati. Gli scontri furono intensi e spietati. Lo stesso Aung San, ministro della Guerra del governo fantoccio birmano instaurato da Tokyo, diede fulgido esempio di insensibilità quando, durante una battaglia contro i Karen – con l’intento di mostrare la sua idea di unità nazionale – uccise a sangue freddo un prigioniero di quella etnia e, sapendo che questi era musulmano, ordinò che il suo corpo venisse mostrato al villaggio su un carro destinato al trasporto di maiali (per questo atto i britannici, dopo la guerra, accusarono di omicidio Aung San tentando di processarlo).

Terrorizzati e sapendo di essere odiati dai Bamar, almeno quattrocentomila indiani abbandonarono il paese via terra per rifugiarsi in India mentre dietro di loro i britannici cercavano di fare terra bruciata, distruggendo ponti, navi e battelli, pozzi petroliferi, equipaggiamenti.

Nel Rakhine, allora chiamato Arakan (cambierà nome nel 1973), i musulmani si rifugiarono nel Nord della regione, nelle municipalità di Taung Po Lat Wae, Maungdaw e Buthidaung dove ancora oggi costituiscono la maggioranza della popolazione.

La fine della guerra e l’indipendenza della Birmania nel 1948 portò una nuova ondata di violenza, specialmente con il varo della nuova Costituzione che identificava 135 «razze indigene della Birmania»3, escludendo, tra queste, i musulmani del Nord dell’Arakan, i Rohingya, ma accettando un’altra comunità musulmana insediatasi nello stato, i Kaman. Fu in questo periodo che cominciò a diffondersi il senso di identità Rohingya, un termine sino ad allora pressoché sconosciuto che identificava quelle popolazioni di religione islamica provenienti dal Bengala Orientale (oggi Bangladesh), con cui il Rakhine condivide 275 chilometri di confine.

Prima degli anni Cinquanta il termine era comparso sporadicamente. Occorre risalire al 1799 per trovare, in un libro di un chirurgo scozzese, Francis Buchanan-Hamilton, il primo accenno a questa cultura: «Ora parlerò di tre dialetti parlati nell’Impero birmano, ma che derivano chiaramente dalla lingua della nazione hindù. Il primo è quello parlato dai maomettani che da lungo risiedono nell’Arakan e che chiamano se stessi Rooinga, o nativi dell’Arakan, chiamati dai veri indigeni dell’Arakan, Kulaw Yakain o stranieri Arakan»4.

Dopo di allora i documenti ufficiali non fanno quasi cenno ai Rohingya fino al 10 marzo 1950, quando un gruppo di musulmani dell’Arakan presentò un documento all’allora primo ministro U Nu, definendosi Anziani Rohingya.

Esiste, dunque, un’etnia Rohingya? Jacques Leider, il maggiore studioso di storia dell’Arakan e membro dell’Efeo (la Scuola francese dell’Estremo Oriente) mi dice che «Rohingya è un vecchio termine reclamato come identità politica che non implica alcun elemento distintivo etnico».

Anno 1974: l’inizio della discriminazione

Gruppo etnico o no, fino agli anni Settanta i Rohingya furono accettati e integrati nella società senza grossi problemi: la radio birmana trasmetteva tre volte la settimana un programma dedicato alla lingua rohingya, e il termine appariva addirittura nei testi scolastici. A Rangoon c’era anche un’associazione studentesca, la «Rangoon University Rohingya Students Association». È altresì vero che fino al 1961 un gruppo di Rohingya aveva lottato affinché le regioni settentrionali dell’Arakan, raggruppate nell’Amministrazione della Frontiera Mayu, aderissero al Pakistan Orientale e che un musulmano, Hla Tun Pru, chiedeva la formazione di uno stato indipendente, l’«Arakanistan»; ma tutti questi movimenti autonomisti erano marginali e lo stesso Pakistan (e in seguito il Bangladesh) non mostrava alcun interesse ad appoggiare i gruppi secessionisti. Le prime avvisaglie di intolleranza verso i Rohingya sorsero nel 1974, quando l’allora presidente birmano, il generale Ne Win, varò l’«Emergency Immigration Act», negando ufficialmente la cittadinanza birmana al gruppo musulmano. Al termine Rohingya, il governo sostituì quello di bengalesi, ad indicare che questa popolazione apparteneva ad un altro stato, il Bangladesh, il quale, a sua volta, non la riconosceva come propria entità. Tre anni più tardi l’operazione «Naga Min» (Re Dragone), il cui scopo era quello di espellere gli immigrati illegali dal paese, costrinse tra i 200 e i 250 mila musulmani del Rakhine (su un totale che allora si aggirava attorno ai 700.000) a guadare il fiume Naf e trovare rifugio nel Bangladesh. Le condizioni di vita nei campi in Bangladesh erano talmente dure che, prima che Arabia Saudita, India e Unhcr riuscissero ad organizzare un programma di rientro (due anni più tardi), 12.000 profughi erano morti d’inedia.

Anno 1982: la legge di cittadinanza

Il varo della legge di cittadinanza del 1982 («Myanmar Citizenship Law»), in vigore ancora oggi, segnò un altro punto di svolta nella vicenda dei Rohingya. La nuova legge, sostituendo la «Union Citizenship Act» del 1948, restringeva ulteriormente i termini di cittadinanza dividendo la popolazione del paese in tre gruppi: cittadini a tutti gli effetti, cittadini associati e cittadini naturalizzati.

Nel primo gruppo rientrano coloro che appartengono alle otto principali nazioni etniche (Kachin, Kayah, Karen, Chin, Birmani o Bamar, Mon, Rakhine e Shan) e chiunque abbia avuto avi che risiedevano in Birmania prima del 1823 (anno dello scoppio della Prima guerra anglo-birmana)5. Al secondo gruppo appartengono coloro che hanno ottenuto la cittadinanza birmana nel 1948 sotto la «Union Citizenship Act»6. Infine, i cittadini naturalizzati sono coloro che possono provare di risiedere in Myanmar da prima del 4 gennaio 1948, data dell’indipendenza nazionale, ma che non avevano inoltrato richiesta di diventare cittadini associati sotto la «Union Citizenship Act»7.

I Rohingya non appartengono ad alcuna di queste categorie e sono, quindi, considerati stranieri a tutti gli effetti.

«Come è possibile provare di risiedere in Myanmar dal 1823?», chiede sarcasticamente Shukur Khan, un quarantenne di Buthidaung, il quale continua: «Prima del 1951 non c’era alcun obbligo di registrare la residenza e comunque molti documenti sono andati perduti, bruciati o eliminati, spesso intenzionalmente, visto che gli archivi sono gestiti da Rakhine e Bamar».

Lo sfogo di Shukur e il risentimento contro i Rakhine, con cui i Rohingya dividono in modo turbolento la coabitazione nello stato, mostrano chiaramente la frattura e la sfiducia reciproca tra le due comunità.

«È vero che abbiamo la carta di scrutinio di cittadinanza che ci permette di votare, ma dato che per il governo noi non esitiamo, non abbiamo alcun diritto, a differenza dei Rakhine e dei Kaman», lamenta Nur Kawim, madre di sei figli, di cui tre emigrati in Arabia Saudita, dove esiste la più numerosa comunità Rohingya fuori dal Myanmar dopo quella del Bangladesh.

La legge di cittadinanza del 1982 sconvolse la società musulmana birmana: la giunta militare, prima indifferente alla presenza della comunità rohingya, cominciò a guardare con attenzione le aree di confine e nel 1991 il «ministero del Progresso delle Aree di confine, delle Etnie nazionali e dello Sviluppo» (conosciuto come NaTaLa) avviò un intenso programma di trasferimento di buddhisti nelle zone abitate prevalentemente dagli islamici offrendo amnistie a prigionieri e nuove sistemazioni abitative con terreni annessi ai senzatetto di Yangon e Mandalay. Nello stesso periodo vennero fondati i famigerati NaSaKa, le «guardie di frontiera» gestite dalle comunità rakhine in modo pressoché autonomo rispetto al potere centrale e che comprendevano 1.200 membri fra polizia, servizi segreti e funzionari di dogana.

L’illegalità dello status cui erano relegati i Rohingya li ingabbiava: da una parte le loro terre venivano confiscate, dall’altra il NaSaKa, abolito nel 2013 da Thein Sein, obbligava chiunque avesse più di 10 anni a lavorare gratuitamente almeno due giorni al mese per i servizi dello stato.

In pochi mesi dal varo del programma di colonizzazione interna 250.000 musulmani fuggirono di nuovo nel Bangladesh, mentre nel capoluogo Sittwe e in altre città del Rakhine, iniziarono a registrarsi i primi scontri tra le comunità buddhiste e islamiche.

Il rientro di 200.000 rifugiati in Myanmar, effettuato a seguito di un accordo tra governo birmano e Unhcr, fu aspramente criticato da numerose organizzazioni non governative. Secondo un sondaggio di Médecins Sans Frontières (Msf), il 63% dei 60.000 Rohingya che, in un primo tempo, accettò di rientrare fu rimpatriato contro la propria volontà8. Entro il 1996 i campi profughi del Bangladesh vennero praticamente svuotati a forza e 200.000 esuli furono costretti a varcare di nuovo il confine e stanziarsi nel Rakhine.

(Zakir Hossain Chowdhury / Anadolu Agency)

Anno 2010: le aperture democratiche

Le aperture democratiche avviate nel 2010 dal governo Thein Sein stravolsero, nel bene e nel male, l’intero sistema sociale del Myanmar. L’unica forza interetnica in grado di garantire l’unità della nazione, il Tatmadaw (l’esercito), cominciò a perdere potere inducendo i gruppi etnici ad accelerare le pressioni centrifughe autonomiste. I governatori dei singoli stati, che fino al 2010 erano stati anche capi militari e che garantivano la stabilità regionale (usando anche il pugno di ferro per reprimere sul nascere ogni conflitto), diventarono funzionari civili e si trasformarono essi stessi in difensori di una delle fazioni coinvolte nella lotta. La libertà di stampa, di parola, di viaggiare all’interno del paese e la possibilità per i giornalisti stranieri di entrare nella nazione portarono alla ribalta internazionale il problema dei Rohingya. Questa volta, però, i Rakhine buddhisti, che fino ad allora avevano combattuto l’amministrazione centrale, trovarono nel governo e nelle stesse forze di polizia un formidabile alleato per le loro rivendicazioni ai danni dei musulmani.

Da parte sua Nay Pyi Taw cercò con successo di ammortizzare il risentimento delle minoranze etniche cercando aiuto tra i buddhisti ed utilizzando la religione come deterrente. Il buddhismo divenne, quindi, uno dei principali veicoli di unione nazionale da contrapporre alle religioni considerate estranee alla tradizione birmana.

In una sessione di addestramento teorico militare, venne presentata una relazione in cui si affermava che «i musulmani bengalesi si infiltrano tra la popolazione per propagandare la loro religione. La popolazione aumenta grazie all’immigrazione illegale»9.

Buddhisti contro musulmani

L’inversione demografica è, ancora oggi, uno dei temi di più facile appiglio per chiunque voglia gettare benzina sul fuoco: «I bengalesi fanno più figli di noi buddhisti, inoltre il Bangladesh ha tre volte la popolazione del Myanmar, ma su un territorio che è più di quattro volte più piccolo del nostro. Logico che il governo del Bangladesh sostenga l’emigrazione clandestina nel Rakhine. Nel giro di pochi anni i Rakhine diventeranno la minoranza e saranno comandati dai musulmani», afferma Kyaw Naing Tun, studente della facoltà di fisica della Technological University di Sittwe.

Persino la «Sangha» (comunità, ndr) buddhista, in particolare i monaci più giovani, è scesa in campo contro gli islamici. Organizzazioni come il «MaBaTha» («Associazione per la protezione della razza e della religione») e il «Movimento 969» hanno lanciato proclami xenofobi definendo i Rohingya «serpenti» o «cani pazzi» ed invitando i Rakhine a non assumere musulmani, non comprare alcun bene nei loro negozi e ai conducenti a non far salire Rohingya sui loro mezzi. In uno dei proclami lanciati dal MaBaTha si legge che «se compri qualcosa in un negozio di musulmani, i tuoi soldi non si fermeranno lì, ma verranno utilizzati per distruggere la tua razza e la tua religione. Quei soldi verranno usati per avere una donna birmana buddhista che molto preso sarà costretta a convertirsi all’islam […]. Una volta che i musulmani diventeranno numerosi, ci sommergeranno e prenderanno il nostro paese per trasformarlo in una satanica nazione islamica»10.

Nge Le Lun, una Rakhine buddhista che appoggia l’idea di un dialogo tra le comunità, mi mostra una email che ha ricevuto dall’Associazione dei monaci di Mrauk U: «I bengalesi sono crudeli per natura; i Rakhine devono capire che loro vogliono distruggere la terra dei Rakhine; i bengalesi mangiano riso coltivato dai Rakhine e al tempo stesso stanno pianificando lo sterminio dei Rakhine e usano i loro soldi per comprare armi al fine di uccidere la gente rakhine»11.

Il risentimento antimusulmano si ripercuote anche contro le organizzazioni umanitarie e non governative che operano sul territorio, viste come alleate dei Rohingya.

«Quello dei bengalesi è un problema interno al Myanmar. Le Nazioni Unite e le organizzazioni occidentali appoggiano i bengalesi che sono immigrati illegali. In ogni altro paese l’illegalità è combattuta, qui, invece, ci voglio imporre persone che, oltre che essere qui illegalmente, portano anche violenza», lamenta Thet Win, un giovane rakhine che incontro in un ristorantino di Maungdaw.

Le leggi antislamiche del governo

Questa insofferenza nei confronti di chi si prodiga a favore di chi necessita di aiuto (sia esso Rohingya che Rakhine) si trasforma in aperta ostilità. Basta un nonnulla, come la rimozione di una bandiera buddhista da un ufficio di rappresentanza internazionale da parte di una cooperante, come avvenuto a marzo 2014, per scatenare il putiferio: una folla rabbiosa di Rakhine ha devastato 33 uffici di Ong e di organizzazioni dell’Onu costringendo 300 cooperanti a lasciare lo stato.

Nel febbraio 2014 il governo ha sospeso le attività di diverse Ong tra cui Msf (nel luglio dello stesso anno l’organizzazione francese è stata invitata a rientrare e dal gennaio 2015 ha ripreso le sue operazioni in Myanmar)12. La «All Rakhine Refugee Committee» ha dichiarato di rifiutare ogni tipo di aiuto da parte delle Ong e dall’Onu13.

In questo clima, per il parlamento birmano è facile approvare, su espressa richiesta di alcuni movimenti buddhisti, una serie di norme volte a contrastare la società islamica nel Myanmar: il «Religious Conversion Bill», l’«Interfaith Marriage Bill», il «Monogamy Bill», il «Population Control Bill», tutte leggi rientranti nel pacchetto della «National Race and Religion Protection».

Il «Programma nazionale di protezione della razza e della religione», approvato nel 2014 e ancora in vigore, ostacola la conversione all’islam e i matrimoni di donne buddhiste con uomini musulmani, obbliga gli uomini musulmani a tagliarsi la barba per le fotografie su passaporti, mentre limita a due il numero di figli per le coppie musulmane, oltre che ad obbligare le donne a lasciare passare un periodo minimo di 36 mesi tra un parto e l’altro14.

Una delusione di nome Aung San?Suu Kyi

( AFP PHOTO / AUNG HTET)

La liberazione di Aung San Suu Kyi, avvenuta nel novembre 2010, aveva portato una ventata di speranza tra i Rohingya.

In una intervista rilasciata nel 2013, la Lady (soprannome di Suu Kyi, ndr) aveva identificato il problema di fondo che divideva le comunità nel Rakhine: «Ciò che è venuto a mancare durante gli anni della dittatura militare, è la capacità del dialogo e del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle proprie richieste e questo porta inevitabilmente ad uno stallo dei negoziati»15.

Purtroppo questa capacità di dialogo non sembra sia stata sviluppata dalla stessa Aung San Suu Kyi. Nay San Lwin, militante Rohingya e autore di un blog su quello che sta avvenendo nella sua comunità, mi confida la sua delusione, condivisa da molti e che si avverte in tutte le comunità etniche e religiose: «Aspettavamo che la Lady prendesse una netta posizione di condanna nei confronti delle violenze nel Rakhine. Purtroppo tutte le sue belle parole spese sui diritti umani, sulla democrazia e a favore delle minoranze etniche si sono dissolte appena lei è entrata in politica».

La ritrosia della Lady nel condannare in modo netto le violenze contro le comunità islamiche, non solo nello stato Rakhine e non solo contro i Rohingya, ha attirato numerose critiche verso quella che, un tempo, era vista come paladina dei diritti umani, così la sua elezione a ministro e consigliere di stato, nel marzo del 2016 non ha generato nella società islamica (e non solo) quella euforia e quelle speranze che ci si sarebbe potuti aspettare soltanto sei o sette anni prima.

La lettera – datata 29 dicembre 2016 – dei tredici premi Nobel16 e dieci personalità del mondo della politica, dell’editoria e della cultura a livello internazionale17, è solo l’ultimo dei tanti giudizi negativi sull’operato di Suu Kyi, anche lei premio Nobel per la pace nel 1991: «Nonostante i ripetuti appelli a Daw Aung San Suu Kyi siamo delusi che non abbia preso alcuna iniziativa per assicurare pieni ed eguali diritti di cittadinanza ai Rohingya. Daw Suu Kyi è la leader (del paese, ndr) ed è sua responsabilità primaria guidarlo e guidarlo con coraggio, umanità e compassione».

La lettera termina con un’esortazione che significativamente ripete le stesse richieste avanzate dalla comunità internazionale dal 2012, segno che le politiche dei governi Thein Sein e Aung San Suu Kyi (foto) nei confronti delle minoranze etniche non si distanziano molto le une dalle altre: «Esortiamo le Nazioni Unite a fare tutto il possibile per incoraggiare il governo del Myanmar ad eliminare ogni restrizione in materia di aiuti umanitari, in modo che le persone possano ricevere beni di prima necessità. L’accesso ai giornalisti e agli osservatori delle agenzie per i diritti umani dovrebbe essere consentito e si dovrebbe formare una commissione internazionale e indipendente per stabilire la verità sulla situazione attuale»18. La negligenza di Aung San Suu Kyi non ha scuse avendo accentrato su di sé tutti gli incarichi chiave del governo. Ha la possibilità di dettare legge e la responsabilità di ciò che accade nel paese. Non potendo candidarsi alla presidenza della nazione, ha aggirato la Costituzione retrocedendo il presidente, il suo consigliere più fidato, Htin Kyaw (foto) a pura figura emblematica19. Ha avocato il ruolo di ministro dell’Ufficio del presidente e di ministro degli Esteri che le permette di sedersi nel potentissimo «Consiglio nazionale di difesa e sicurezza», un organismo di undici membri che si occupa di sicurezza interna. Ha, inoltre, creato ad hoc la figura di «Consigliere di stato» che presiede i due più importanti comitati che si occupano della politica nello stato Rakhine: il neonato «Comitato centrale sull’implementazione di pace, stabilità e sviluppo dello stato Rakhine» (formato il 31 maggio 2016) e il «Comitato di unione, pace e dialogo».

Htin Kyaw e Suu Kyi hanno anche sfruttato l’opportunità conferita loro dalla Costituzione di nominare i capi di governo dei sette stati e delle sette regioni non tenendo conto dei risultati elettorali. Così nonostante nel Rakhine l’«Arakan National Party» abbia ottenuto il 52,6% dei voti contro il 14,5% della «Lega nazionale per la democrazia» (il partito della Lady), il capo del governo è U Nyi Pu, membro di quest’ultima.

Movimenti islamici e chiamata al «jihad»

Il nuovo governatore, insediatosi nell’aprile 2016, si è posto come obiettivo la pace e la stabilità politica. Il suo mandato, però, si è inaugurato con nuovi fatti di violenza repressi col sangue, uccisioni di massa e stupri20. Fin qui nulla di nuovo rispetto agli anni passati, se non che gli attacchi di ottobre e novembre 2016 che hanno coinvolto le guardie di frontiera, sono stati rivendicati da un nuovo attore: l’«Harakah al-Yaqin» (Movimento della fede). Lo stesso gruppo ha postato alcuni video in cui si invitano i musulmani birmani a unirsi alla lotta contro gli infedeli21. Poco si sa di questa organizzazione fondata da una ventina di Rohingya residenti in Arabia Saudita e guidati da Hafiz Tohar, nome di battaglia Ata Ullah, e da Ameer Abu Amar, un pakistano nato da una famiglia Rohingya immigrata a Karachi. Il movimento avrebbe iniziato a reclutare affiliati nel 2013, subito dopo gli scontri del 2012 e, nel 2014, con aiuti sauditi, sarebbero iniziati i primi addestramenti sulle colline del Mayu, al confine con il Bangladesh. Secondo i servizi segreti birmani, l’Harakah al-Yaqin potrebbe contare su una rete di centinaia di collaboratori, responsabili di attacchi a militari e di uccisioni di presunti informatori e collaborazionisti. A differenza di altri gruppi, l’Harakah al-Yaqin non contiene un riferimento ai Rohingya nella sua denominazione: un chiaro segno dell’intenzione di internazionalizzare il conflitto inserendolo nel disegno più ampio del jihad. Non è un caso che, già nel 2012, un altro movimento, il «Tehreek-e-Taliban Pakistan» avesse invocato la guerra santa e che, nel giugno 2015, avesse offerto aiuti per addestrare Rohingya al jihad.

Anni di politiche sbagliate e, in particolare, lo scoramento seguito alla grande delusione verso Aung San Suu Kyi hanno contribuito a far emergere questi gruppi armati d’ispirazione internazionale. Significativo, in questo senso, il video postato da MulMujahidin il quale spiega che «durante il governo della giunta militare in Myanmar, noi Rohingya pensavamo che quando sarebbe arrivata Aung San Suu Kyi avremmo potuto vivere liberi […]. Ci siamo sbagliati […]. Ora dobbiamo unirci al jihad. Se non uccidiamo i kafir (miscredenti, infedeli, ndr) non avranno mai timore di noi»22.

Il Rakhine e il peso della povertà

Una guerriglia organizzata e internazionalizzata è una nuova emergenza per il Myanmar. Essa è stata favorita anche dall’allontanamento dell’esercito (Tatmadaw) dalla vita sociale: senza il controllo capillare del territorio da parte del Tatmadaw, gli scontri tra le due comunità si sono moltiplicati e oggi circa 120 mila Rohingya sono rinchiusi in campi profughi in cui mancano i servizi essenziali (cibo, acqua, servizi igienici, medicine)23.

La sete di terra ha indotto il governo di Nay Pyi Taw a creare i campi per i rifugiati interni in aree depresse e su terreni soggetti ad inondazioni, aggravando la già precaria condizione igienica dei profughi.

Un sondaggio commissionato dall’«Integrated Household Living Conditions Assessment» (Ihlca-2) ha rivelato che il 24,6% della popolazione non ha terra di sua proprietà con punte massime che arrivano al 60% nella zona settentrionale dello stato, dove si concentra la maggioranza dei Rohingya24.

«Il problema non è solo religioso o etnico – mi dice l’economista Wai Shwe Yee -. Il governo da anni sta cercando investitori per innalzare il tenore di vita degli abitanti, ma durante gli anni della dittatura l’intero commercio era in mano ai militari e ai Bamar. La democratizzazione, che ha liberalizzato l’economia, ha portato i Rakhine, impiegati nei posti pubblici, ad accorgersi che il piccolo commercio era dominato dai musulmani».

Il Rakhine è lo stato più penalizzato del Myanmar dal punto di vista economico: un rapporto dell’Unicef fissa l’indice di povertà al 43,5%25, secondo solo allo stato Chin, mentre la Banca mondiale, utilizzando nuovi e più ampi criteri di analisi, innalza lo stesso indice al 77%, superando anche quello del Chin26.

Le condizioni sociali sono le peggiori della nazione: il 16,3% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione, contro una media nazionale del 9,1%27 e il 37,4 dei bambini tra i zero e i 59 mesi sono sottopeso rispetto ad una media nazionale del 22,6%28. Anche il consumo energetico pro capite, indice di benessere e di sviluppo economico e industriale, è il più basso del Myanmar: solo 3 kw/h di elettricità contro i 121 kw/h della media nazionale; questo significa che i Rakhine e le industrie dello stato sono obbligati e far uso di generatori elettrici, il cui costo è proibitivo.

In questa situazione trovare investitori, come spiega Wai Shwe Yee, è un’impresa proibitiva, ma non impossibile. Il 29 gennaio 2015 è stata inaugurato l’oleodotto e il gasdotto che collega il porto di Kyaukpyu, nella parte meridionale del Rakhine, alla cinese Kunming. Un progetto faraonico di 2.400 chilometri i cui 2,5 miliardi dollari sono stati interamente investiti dalla China National Petroleum Company, la quale, per zittire le polemiche e le recriminazioni dei contadini, per la maggioranza rakhine, che protestavano per l’espropriazione dei propri terreni, ha promesso un ritorno di 53 miliardi di dollari in royalties in 30 anni e che il 10% del gas resterà in Myanmar. La protesta popolare, però ha indotto il governo di Nay Pyi Taw a cancellare il progetto ferroviario che avrebbe dovuto costeggiare il gasdotto e congiungere Kyaukpyu a Kunming.

Alla fine del 2015 il governo ha anche approvato il progetto della «Zona ad economia speciale» di Kyaukpyu che porterebbe nella zona investimenti per 100 miliardi di dollari.

Le organizzazioni rakhine locali lamentano che gli investimenti non beneficeranno l’economia locale: «Le compagnie che hanno investito nei progetti nello stato Rakhine, cinesi, indiane, singaporeane, thailandesi, tendono a portare manodopera dei loro paesi o, quando questa non è sufficiente, bamar. Noi Rakhine non traiamo alcun vantaggio da questi investimenti», mi dice Kyal Nyein Han, un abitante del villaggio di Maday.

Senza volerlo Kyal Nyein Han ha toccato un’altra conseguenza del conflitto in atto con i Rohingya. Le compagnie che investono nel Rakhine necessitano di manodopera a basso costo e la disponibilità nello stato non è sufficiente rispetto alla qualità e quantità di domanda. I Rohingya avrebbero potuto rappresentare una soluzione, ma molti di loro sono confinati nei campi profughi in Myanmar o nel Bangladesh, altri sono fuggiti in Malesia, Thailandia o Indonesia, altri ancora sono emigrati nei paesi arabi.

La diaspora dei Rohingya: in Bangladesh, Thailandia, Malesia e Indonesia

La diaspora Rohingya ha come risultato, oltre che privare di preziosa manodopera il paese, di fomentare il malessere delle famiglie musulmane nel Rakhine, molte delle quali sono costrette a dividersi.

Il deterioramento della situazione nel Rakhine e la paura di una destabilizzazione del paese, secondo Aung San Suu Kyi sarebbero da attribuirsi alla facilità con cui i musulmani possono varcare il confine birmano-bengalese. «Io e il mio partito abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia di immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi esterni possano destabilizzare il paese»29.

Myanmar e Bangaldesh si sono sempre rimpallati il «disturbo» dei Rohingya: il governo birmano, definendoli bengalesi, afferma che sono cittadini del vicino stato islamico, mentre Dacca li rispedisce al mittente in quanto, da decenni, residenti nel Rakhine.

Nel Bangladesh vi sono solo due campi ufficialmente riconosciuti dal governo e gestiti dall’Unhcr: quelli di Nayapara (o Noapara) e di Kutupalong che ospitano rispettivamente 19.000 e 14.000 Rohingya. Accanto a questi vi sono altri insediamenti considerati illegali: Shamlapur, in cui vi sarebbero 8.000 rifugiati, Leda, con 15.000 persone e altri 30.000 Rohingya si sarebbero stabiliti nel campo di Kutupalong senza essere registrati. Questo significa che l’Unhcr ha una capacità logistica di gestire la situazione dei profughi inferiore a quella reale.

Dato che il Bangladesh non aderisce alla Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati, questi vivono perennemente in una condizione precaria senza che possano sperare in una veloce e definitiva risoluzione della loro situazione.

Dall’ottobre 2016, inoltre, oltre 50.000 Rohingya avrebbero attraversato il fiume Naf cercando riparo dalla nuova ondata di violenze che ha infiammato il Rakhine.

Il governo bengalese ha redatto, nel settembre 2013, uno Strategy paper, un documento, su rifugiati e indocumentati in Bangladesh in cui si ufficializza per la prima volta che i Rohingya sono cittadini del Myanmar e che «vi sono tra le 300.000 e le 500.000 persone di nazionalità del Myanmar che vivono non registrate fuori dai campi e che sono entrati in Bangladesh in modo irregolare»30.

Il Bangladesh, come già ricordava Kyaw Naing Tun, lo studente di fisica di Sittwe, è uno degli stati più popolati al mondo (163 milioni di abitanti si assiepano su un fazzoletto di terra di 148.000 km2 – circa metà del territorio italiano -, in confronto il Myanmar ha 55 milioni di abitanti con 677.000 km2 di superficie disponibile) e, obiettivamente, fa molta fatica a prendersi cura di così tante bocche da sfamare.

Il ministro della Giustizia Syed Anisul Haque nel luglio 2014 ha proibito matrimoni tra bengalesi e Rohingya: molti di questi, infatti, per ufficializzare la loro posizione, sposavano bengalesi prendendo così la cittadinanza del Bangladesh.

Il principale timore del governo di Dacca, guidato dall’Awami League di Sheikh Hasina Wazed, è che i Rohingya possano divenire strumenti di disturbo in mano ai due principali partiti dell’opposizione, il Jatiya Party di Muhammad Ershad e il Jamaat-e-Islami, il più popolare partito islamico bengalese, che hanno nelle provincie delle Chittagong Hill Tracts e di Cox’s Bazar, confinanti con il Myanmar, i loro principali serbatorni elettorali.

La diaspora rohingya non colpisce solo il Bangladesh, ma anche le nazioni che si affacciano sul Golfo del Bengala e il Mar delle Andamane: la Thailandia, la Malesia e l’Indonesia (si veda la mappa qui sopra, ndr).

(AFP PHOTO / JANUAR / AFP PHOTO / JANUAR)

I barconi dei trafficanti d’uomini

L’allentamento delle misure di sicurezza e di controllo da parte delle autorità del Myanmar dopo il 2010, ha accelerato il flusso di migranti via mare.

Solo dal gennaio 2014 circa 94.000 Rohingya sono fuggiti dal Rakhine e dal Bangladesh a bordo di barconi verso le coste malesi, thailandesi e indonesiane31, ma secondo il ministero degli Esteri del Bangladesh vi sarebbe da calcolare almeno un terzo di emigrati cittadini bengalesi in più32.

La mancanza di scrupoli da parte delle organizzazioni di trafficanti d’uomini che, in maniera del tutto illegale, organizzavano le tratte marittime era giunta a livelli parossistici. Ogni aspirante passeggero doveva sborsare l’equivalente di 1.600-2.400 dollari per un viaggio via mare pericoloso e senza alcuna garanzia di successo. Cifra che aumentava fino a 7.000 dollari per un biglietto aereo verso le capitali dei paesi del Sudest asiatico33.

In nome del principio di non interferenza negli affari interni di ogni stato membro, l’Asean e la comunità internazionale hanno ignorato il problema fino al maggio 2015, quando cinquemila rifugiati e immigrati sono stati abbandonati dai trafficanti nel Mar delle Andamane e nel Golfo del Bengala. Prima che si potesse intervenire un migliaio di essi erano affogati o morti di stenti nelle acque dell’Oceano Indiano34.

Da quella tragedia il controllo delle coste birmane e bengalesi si è fatto più capillare e nel 2015 il numero di partenze da questi due paesi è diminuito a 31.000 persone35.

Thailandia, Malesia e Indonesia ospitano in totale circa 150.000 rifugiati rohingya; nella sola Malesia vi sarebbero 159.000 persone registrate provenienti dal Myanmar, di cui 45.000 Rohingya36. Mentre Bangkok cerca di tenere a bada i richiedenti asilo islamici affinché non alimentino le file del secessionismo nel Sud del paese, Kuala Lumpur utilizza i profughi provenienti dal Rakhine per propri fini propagandistici.

Lo scorso 4 dicembre 2016 il primo ministro malese Najib Razak ha denunciato, durante una manifestazione, il «genocidio Rohingya» e ha lanciato un messaggio alla collega birmana Aung San Suu Kyi: «Quando è troppo è troppo».

Secondo Jacques Leider neppure il termine genocidio sarebbe appropriato: «Ciò che sta accadendo nel Rakhine non è un genocidio semplicemente perché non possiamo parlare di una etnia rohingya. Possiamo parlare di xenofobia, ma non di genocidio o di razzismo nei confronti dei Rohingya».

La prudenza di Leider è confortata anche dal fatto che, sino ad oggi, nessun documento delle Nazioni Unite parla di genocidio anche se secondo l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite è «molto probabile si stiano commettendo crimini contro l’umanità»37.

Genocidio o no, lo sfogo del primo ministro malese Najib Razak non è disinteressato: con le elezioni generali in vista (agosto 2018) e la sua popolarità in calo a picco a causa delle accuse di corruzione, il primo ministro malese ha bisogno di riacquistare voti e credibilità tra l’elettorato musulmano e sviare l’attenzione dai problemi interni che affliggono la Malesia.

Del resto la stessa Malesia non è immune da discriminazioni nei confronti dei Rohingya. Solo coloro che possiedono una carta Unhcr (che li identifica come rifugiati) hanno accesso ai servizi sanitari, alle scuole pubbliche, ai servizi sociali pagando comunque il 50% delle rette e, nonostante il governo di Kuala Lumpur abbia più volte assicurato di voler rilasciare permessi di lavoro temporanei, questi sono consegnati col contagocce. I pochi fortunati che hanno la possibilità di lavorare guadagnano la metà di un loro collega malese38.

Le leggi restrittive malesi verso le Ong internazionali permettono solo a tre di queste di lavorare con i rifugiati: la «Angkatan Belia Islam Malaysia», la «Taiwanese Buddhist Tzu Chi Foundation», che gestisce una clinica gratuita che assiste i Rohingya e la «Myanmar Refugees Activist», che offre corsi di specializzazione professionale ai profughi del Maynmar.

La corruzione dilagante nello stato colpisce anche i profughi: alcuni Rohingya hanno denunciato di essere costretti a pagare somme tra i 5 e i 12 dollari ai poliziotti per evitare il carcere nel caso vengano fermati e trovati senza carta Unhcr.

La stessa Unhcr non è stata esente, in passato, di accuse di corruzione secondo cui funzionari dell’agenzia delle Nazioni Unite avrebbero intascato fino a 400 dollari per rilasciare le carte Unhcr ai rifugiati. Dopo una replica in cui non si negava la possibilità che tali atti fossero accaduti39, l’organizzazione ha cambiato tutte le carte di registrazione e i metodi per ottenerle.

Aung San Suu Kyi: dopo le parole, è l’ora dei fatti

Quella dei Rohingya non è certamente la sola tragedia – culturale, religiosa, etnica, politica, economica – che affligge una minoranza. In Myanmar, specialmente, decine di etnie hanno subito e subiscono ancora oggi, a sette anni dalla fine della dittatura, soprusi da parte delle autorità di un governo colluso con i militari.

Forse è giunta l’ora, per Aung San Suu Kyi e la sua Lega nazionale per la democrazia, di dimostrare che i discorsi di democrazia, giustizia, autonomia lanciati durante gli anni della dittatura militare, non erano solo parole di propaganda.

Gli scontri con i Kachin, i Karen e le altre nazioni etniche, così come le proteste dei contadini di Monywa, sfrattati per far sposto agli investitori di miniere cinesi (per l’estrazione di rame, ndr), dimostrano che il nuovo governo – su cui così tanti avevano risposto le loro speranze – è ancora lungi dal dimostrare che il paese ha imboccato la strada che per tanti anni Aung San Suu Kyi e gli altri ministri avevano richiesto ai militari.

Piergiorgio?Pescali

 




Popolazioni perseguitate: Yazidi


Sommario

Introduzione. Guerre e colpi di spugna.

Yazidi, una minoranza in pericolo. Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio.

Racconto di un massacro. Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

Incontro con Nadia Murad. Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice.

Scheda 1. Genocidio.

Scheda 2. Le guide e le caste.

Scheda 3. La diaspora.

Infodossier

 

Abstract

Questo è il primo di due dossier che dedicheremo alle minoranze dimenticate ed oppresse. In esso Simone Zoppellaro parla degli YAZIDI dell’Iraq. Il prossimo, a firma di Piergiorgio Pescali, sarà centrato sui ROHINGYA, la minoranza musulmana perseguitata nel Myanmar buddhista di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace. (pa.mo.)

Introduzione

Guerre e colpi di spugna

Secondo il dizionario Treccani, genocidio è un termine coniato, in forma inglese (genocide), dal giurista polacco Raphael Lemkin nel 1944 e pubblicamente usato nel processo di Norimberga (1946). «Grave crimine – continua il Treccani -, di cui possono rendersi colpevoli singoli individui oppure organismi statali, consistente nella metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui, la dissociazione e dispersione dei gruppi familiari, l’imposizione della sterilizzazione e della prevenzione delle nascite, lo scardinamento di tutte le istituzioni sociali, politiche, religiose, culturali, la distruzione di monumenti storici e di documenti d’archivio, ecc.».

Alla luce di questa definizione, è facile rendersi conto che la storia annovera molti genocidi (anche se alcuni non sono unanimemente riconosciuti come tali): lo sterminio dei popoli amerindi durante la conquista delle Americhe, il genocidio armeno ad opera della Turchia ottomana (1915-16), lo sterminio degli ebrei e dei rom durante l’epoca nazista, quello perpetrato dai Khmer rossi in Cambogia (1977-79), quello dei musulmani di Bosnia nella guerra della ex Jugoslavia (1995), quello dei Tutsi in Rwanda nel 1994.

Senza dimenticare, ai giorni nostri, i molti popoli indigeni – alcuni formati da poche decine di individui – che sono a rischio d’estinzione a causa dei «bianchi».

In Siria (nella parte settentrionale, denominata Rojava) e Iraq i Curdi sono in prima fila nella guerra contro il Daesh (Isis). Ma sono osteggiati – per questioni politiche – da tutti gli stati della regione, a iniziare dalla Turchia del dittatore Erdogan. Gli Yazidi sono una piccola popolazione kurdofona – le stime più alte parlano di 700 mila persone – a sua volta perseguitata e oggi vittima dei miliziani del Daesh. Nella regione natale, nel Nord Ovest dell’Iraq, attorno alla città di Sinjar, migliaia dei loro uomini sono stati uccisi, mentre un numero imprecisato delle loro donne sono state fatte schiave sessuali dagli uomini del Califfo nero. Nel 2016 due di esse, Nadia Murad Basee Taha e Lamiya Aji Bashar, fuggite in Germania, sono state insignite del «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», assegnato dal Parlamento europeo (dal 1988). Lamiya (nella foto) porta sul viso e sul corpo i segni delle sofferenze patite. Sappiamo che il traffico di esseri umani e la riduzione in schiavitù è un affare mondiale. Il Daesh è un passo avanti: utilizza il Corano per giustificare questo trattamento. In Dabiq, la sua rivista (dalla grafica ricercata), sono stati pubblicati articoli per spiegare la correttezza del comportamento dei propri miliziani stupratori. Per credere leggere Dabiq n. 4 e n. 9.

Terrorismo, guerre non dichiarate, conflitti cosiddetti a bassa intensità: le definizioni non mancano. Probabilmente la sintesi più efficace è da attribuire a papa Francesco che, nell’agosto del 2014, disse: «Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli».

Ci sono popolazioni che si vorrebbe cancellare con un colpo di spugna. Ma che, in un modo o nell’altro, riescono a resistere e a sopravvivere. Anche, una volta tanto, grazie all’informazione. Quella poca che rimane nell’epoca del post-giornalismo e della post-verità.

Paolo Moiola


Yazidi, una minoranza in pericolo

Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio

La storia di ieri e di oggi è piena di minoranze perseguitate. Con una religione e una cultura poco conosciute gli?Yazidi sono spesso fraintesi e diventano un facile bersaglio. Il rischio è che la loro diaspora porti all’assimilazione e quindi alla loro scomparsa. Rendendo il mondo più povero.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, l’islam non ha mai cercato di estirpare con la spada le altre religioni. Pur marginalizzando, penalizzando e, in alcuni periodi, anche perseguitando i membri di altre fedi, la dominazione musulmana ha permesso di mantenere in vita per oltre un millennio, nei vasti territori conquistati, una sorprendente pluralità religiosa, impensabile nell’Europa pre-illuminista.

Cristiani, ebrei e zoroastriani – fra gli altri – hanno potuto così godere per secoli, sotto la mezzaluna, di una libertà che solo il colonialismo, l’emergere del nazionalismo e il conflitto arabo-israeliano hanno purtroppo spezzato. Questo discorso vale anche per gli Yazidi, piccola minoranza religiosa nella sua quasi totalità di lingua curda che, abbarbicata alle sue montagne nell’odierno Iraq Nord occidentale, ha potuto tramandare di generazione in generazione – pur fra mille difficoltà e privazioni – la sua cultura e la sua fede. Un contesto per nulla affatto casuale, quello montuoso, se si pensa ad esempio alla sopravvivenza millenaria di insediamenti a maggioranza cristiana come Ma‘lula in Siria, dove ancora oggi si parla una variante dell’aramaico, una moderna derivazione della lingua parlata da Gesù. O ancora al Caucaso, che gli arabi chiamavano jabal al-alsun, la «Montagna delle lingue», per la sua sorprendente varietà linguistica e culturale, ma anche religiosa. E proprio l’isolamento e la protezione fornita da questo contesto geografico arduo e impervio hanno permesso agli Yazidi di mantenere una fede che, seppur influenzata dall’islam per molti aspetti e ad esso in parte riconducibile fin dalle sue origini, si è sviluppata in seguito in modo irrimediabilmente «altro». Una religione – spesso definita in modo dispregiativo come setta – che, se fosse nata nell’Europa medievale anziché nel mondo musulmano, sarebbe stata indubbiamente bollata come «eresia».

Se non che, questa tradizione di tolleranza, sancita anche dal Corano nell’invito alla protezione e al rispetto per ebrei e cristiani, è entrata in crisi al tempo del colonialismo, per essere poi spazzata via, nel modo più violento, nei luoghi caratterizzati di recente in vario modo dall’insorgere del fondamentalismo islamico. Certo, non in tutti i paesi musulmani ciò è vero, come d’altronde non in tutti i governi islamici le cose funzionano allo stesso modo: la Repubblica islamica nata in Iran nel 1979 grazie alla guida carismatica dell’ayatollah Khomeini, per non fare che un esempio, ha mantenuto intatta – con la sola dolorosa eccezione dei bahai – la pluralità religiosa che ha caratterizzato da sempre questo grande paese. Altrove, invece, e soprattutto nei territori segnati dall’influenza del wahabismo propagandato a suon di petroldollari dalle monarchie del Golfo, la storia ha preso purtroppo un’altra piega. E le conseguenze sono ben note, almeno per chi presti attenzione in modo non estemporaneo a quanto succeda lontano da noi.

E così, a un secolo dal Medz Yeghern, il genocidio armeno del 1915, e a oltre settant’anni dalla Shoah, la pagina ignominiosa dei genocidi sembra non trovare fine. Gli Yazidi lottano oggi per la loro sopravvivenza, sterminati, cacciati dai loro villaggi e ridotti in schiavitù nei territori conquistati in Iraq dal Daesh. Ieri come oggi, l’indifferenza del mondo è grande, e sul destino di questo piccolo popolo – composto (forse) da 700 mila persone – si consumano i grandi giochi della geopolitica e dell’economia. Una lotta, quella degli Yazidi, che si svolge in una solitudine disperata e che ha luogo senza che nulla si voglia fare sia da parte di chi muove le leve del potere, che a livello locale e della società civile. Persino i Curdi, con i quali condividono una lingua comune (nella variante settentrionale detta «Kurmanji») e molti aspetti della loro cultura, il più delle volte di fronte alle loro sofferenze si sono limitati a guardare da un’altra parte, quando non a cercare il proprio vantaggio. Una denuncia, questa, sentita più volte ripetere dai rappresentanti yazidi, a partire dalla più famosa di tutte: la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad.

Privi di una chiesa o uno stato che li protegga, anche la diaspora – a differenza di quanto avvenuto in passato in altri casi – è troppo frammentata e recente per essere in grado di incidere, o anche solo di fornire qualche conforto ai profughi che oggi si trovano, privi di una cornordinazione, dispersi per il mondo. E così, anche per la maggioranza di coloro che riescono (spesso in circostanze rocambolesche) a fuggire dalla schiavitù e dalla guerra, il destino che li attende sono i campi profughi della Turchia o di altri paesi, dove mancano spesso i beni più basilari. Nessuno stato al mondo (con la sola eccezione della Germania, che ha ospitato e fornito assistenza medica e psicologica a diverse migliaia di Yazidi e, più di recente, del Canada) ha infatti voluto finora assumersi l’onere di accogliere i sopravvissuti, facendosi carico dei loro traumi e delle storie di violenza e orrore che essi, inevitabilmente, portano con sé. Inutile ricordare come, per questi sopravvissuti a un genocidio – che poi in molti casi sono donne, vittime di abusi sessuali e ridotte in schiavitù dagli uomini dell’Isis – non bastino solo un pezzo di pane e un tetto per alleviarne il dolore e ridare loro dignità.

Questa assenza di sostegno da parte della comunità internazionale costituisce un paradosso. Infatti, sebbene sia unanime la condanna del terrorismo islamista e tutte le forze politiche di ogni paese siano oggi parimenti concordi nel riconoscimento della violenza perpetrata dai miliziani dell’Isis contro le minoranze religiose, la campagna portata avanti dagli attivisti per il riconoscimento del genocidio yazida non ha finora raccolto i risultati sperati. Eppure, un raffronto con il passato, con l’Olocausto degli armeni e degli ebrei, innanzitutto, dovrebbe gettare luce sul destino di questa gente. Si è di fronte ancora una volta al sistematico tentativo di annientamento non solo fisico, ma anche culturale e spirituale di un intero popolo, portato avanti da un manipolo di fanatici, ma con la complicità e la collaborazione di una parte delle popolazioni sottoposte al dominio del Califfo al-Baghdadi. La persecuzione e lo sterminio avvenuti dall’agosto 2014 a oggi non sono – come raccontano i rappresentanti stessi della comunità yazida – che l’ultimo e più sanguinoso epilogo di una persecuzione in atto sin dall’Ottocento, che periodicamente riaffiora. «Gli eventi del 2014 rappresentano per loro – ha scritto Vicken Cheterian su Le Monde Diplomatique (gennaio 2017) – il settantatreesimo massacro».

Il monoteismo degli Yazidi

I fondamentalisti di oggi trovano nella fede e cultura yazida la ragione principale per perseguitare e cercare di eliminare quella popolazione. Una diffidenza e un pregiudizio ormai radicati per una fede sentita come estranea, chiusa, sincretistica, e perciò difficilmente classificabile. Eppure, a ben guardare, lo Yazidismo è anch’esso, al pari delle tre religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e islam), una religione monoteistica, seppure con alcuni tratti originali.

I suoi seguaci fanno risalire le loro origini indietro di migliaia di anni, e lo sviluppo di riti e credenze fu senza dubbio il frutto di un lungo processo di commistioni religiose e di acculturazione. Ma fu solo in epoca islamica, ci dicono gli specialisti, che gli Yazidi acquisirono un’identità precisa e distinta sia in termini etnici che religiosi. In particolare, vi è un personaggio che ricorre come fondamentale nell’etnogenesi di questa minoranza. Ci riferiamo alla carismatica figura del mistico sufi Shaikh Adi ibn Mussafir (morto nel 1162) che predicò nella regione divenendo, dopo la sua dipartita, oggetto di grande venerazione. «È il loro profeta, il loro grande santo, adorato quasi come Dio», scriveva lo storico delle religioni Giuseppe Furlani, «la cui tomba, nel tempio che hanno a Nord Est di Mossul, essi riguardano come loro santuario nazionale».

Di questo loro pellegrinaggio al santuario di Lalish ci ha lasciato un racconto suggestivo, in un articolo pubblicato sul portale Treccani, Gianfilippo Terribili, docente all’Università La Sapienza di Roma. Terribili ha preso parte di persona nel 2015, ovvero a un anno esatto dalla data di inizio del genocidio yazida, alle festività stagionali estive che raccolgono ogni anno pellegrini provenienti dalla regione, ma anche ogni angolo del mondo. Il pellegrinaggio, infatti – come ricorda Terribili – «è tra i principali doveri del fedele yazida ed è un evento che struttura i legami sociali interni ad una comunità spesso emarginata e chiusa alle influenze esterne». Un evento ricco di tradizioni, rituali e suggestioni che rimandano, spesso, a pratiche analoghe tipiche dell’islam e del cristianesimo, altre volte a pratiche ancora più remote. «L’intera valle», prosegue lo studioso, «è un microcosmo sacro che include i santuari costruiti intorno alle tombe dei principali sette personaggi santi venerati dalla tradizione, con luoghi o edifici connessi che costituiscono il circuito attraverso il quale è scandito il pellegrinaggio e i suoi atti rituali».

L’accusa: «Adoratori del diavolo»

La paura e la diffidenza – ma in parte anche il grande fascino – che circondano gli Yazidi ruotano attorno alla leggenda, diffusa in terra di islam come anche fra viaggiatori e fonti orientalistiche occidentali, che li identifica come «adoratori del diavolo». Un pregiudizio del tutto infondato, come ricorda Furlani: «Tanto sono lontani anzi da tale adorazione che non hanno affatto nella loro religione il diavolo: essi negano addirittura l’esistenza del male». Un epiteto, e insieme uno stigma, che traggono origine da una delle caratteristiche fondamentali del monoteismo yazida, che affianca, a un unico Dio creatore, sette entità angeliche, chiamate i Sette Misteri (haft surr), che nel corso della storia si sono periodicamente reincarnate in forma umana. Dio ha affidato loro il governo del mondo, sotto la guida dell’Angelo Pavone (Malak Tawus), emanazione divina posta come intermediario fra il cielo e gli uomini. Suggestivo a questo proposito l’incipit di uno dei due testi sacri degli Yazidi, il Libro nero, redatto in lingua curda, che riportiamo nella traduzione di Giuseppe Furlani:

«In principio Dio creò la perla bianca dal suo prezioso seno e creò un uccello di nome Anfar. Egli pose la perla sopra la sua schiena e dimorò sopra di essa quarantamila anni. Il primo giorno in cui Dio creò fu una domenica. Egli creò in essa un angelo dal nome ‘Azra’il: esso è il Pavone Angelo, il capo di tutti».

Il racconto prosegue con la descrizione di come Dio creò i sette angeli che a loro volta partecipano alla creazione dell’uomo (ascritta all’ultimo di loro, Nura’il) e di tutte le altre creature. Dopo l’opera della creazione, il mondo, come detto, fu affidato da Dio proprio alle sette entità angeliche, che agiscono come protezione e guida.

L’Angelo Pavone – questa l’origine del «mito satanista» sugli Yazidi – corrisponde poi per alcuni aspetti a Iblis, il Satana della religione musulmana, con tratti che sembrano filtrati in particolare dalla rielaborazione della tradizione mistica sufi, di cui resta abbondante traccia anche nella letteratura persiana medievale. Un Satana, quindi, che dopo la sua ribellione si è pentito ed è stato accolto di nuovo da Dio. Ma gli Yazidi negano con forza questa identificazione fra le due figure, al punto – come scrive l’orientalista Christine Allison – di arrivare a proibire la pronuncia stessa della parola Satana (Shaitan), e persino di alcune parole che la richiamano da un punto di vista fonetico.

Il divieto dei matrimoni misti

A contribuire al pregiudizio e alla paura nei confronti degli Yazidi furono anche la naturale chiusura di questo gruppo religioso, che non accetta conversioni da altre fedi e vede in modo negativo – ma è così per molte minoranze in Medio Oriente, soprattutto se esigue da un punto di vista numerico – i matrimoni misti. Pratiche e tabù particolarmente severi riguardano molti aspetti della vita dei fedeli, dal cibo, fino alla proibizione di pronunciare un certo numero di parole. Un’altra peculiarità yazida è il fatto di credere di essere discendenti del seme di Adamo ma – a differenza del resto dell’umanità – non di Eva. Questo a ulteriore testimonianza di come gli Yazidi si autorappresentino come un popolo «altro» rispetto al resto del mondo. A contribuire al mistero che circonda questa religione sono anche i suoi testi esoterici, tramandati oralmente di generazione in generazione, e perciò assai poco noti ieri come oggi al di fuori dei circoli dei correligionari. Come già nell’islam, l’«ortoprassi» ha un ruolo preponderante rispetto all’«ortodossia», il che vuol dire che rituali e pratiche hanno più importanza nella vita del fedele rispetto alle disquisizioni teologiche, viste come secondarie e accessorie. Fondamentale nello yazidismo anche la suddivisione sociale in tre caste (si veda il riquadro alla pagina 46, ndr), nettamente divise, aspetto che si interseca a un’altra importante caratteristica della loro fede: la credenza nella metempsicosi, cioè nella reincarnazione. Le due caste superiori rappresenterebbero infatti niente di meno che la discendenza delle più recenti reincarnazioni delle entità angeliche, i Sette Misteri che, come detto, tornano periodicamente a rivestire forma umana. Come nelle religioni abramitiche, anche nello yazidismo esistono paradiso e inferno, ma altri aspetti della loro cosmogonia rimandano invece alle antiche religioni iraniche, come ad esempio allo zoroastrismo.

Il pericolo

Un patrimonio religioso e culturale, quello da noi qui tratteggiato con un breve schizzo, che rischia di venire annullato da qui a pochi anni, se non avverrà presto un’inversione di tendenza: una presa di coscienza del mondo nei confronti di questa tragedia. Dispersi per il pianeta, gli ultimi figli di questo antico popolo sopravvissuti alle persecuzioni di ieri e di oggi, rischiano l’assimilazione e la scomparsa definitiva dei loro usi, costumi e credenze. Questo il significato più profondo e drammatico della parola genocidio: il tentativo posto in atto sistematicamente di eliminare non solo un intero popolo, ma anche la sua cultura materiale e immateriale, insieme al suo lascito spirituale. L’orrore del sangue, e insieme la maledizione di aver reso il nostro mondo più povero, senza possibilità di appello, destinando a definitiva scomparsa persino la memoria di una minoranza, e non solo la sua esistenza fisica.

Simone Zoppellaro


Racconto di un massacro

Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

I miliziani dello Stato islamico considerano gli Yazidi degli «infedeli». Nell’agosto del 2014 arrivati nella loro regione hanno compiuto una strage. E costretto alla schiavitù sessuale migliaia di donne e bambine.

Chi scrive ha incontrato sopravvissuti Yazidi ed è rimasto impressionato dai loro racconti, soprattutto se paragonati ai resoconti di ebrei e armeni. Un’analogia che lascia senza fiato. È come se il tempo, vinto da una maledizione, fosse condannato a ripetersi in tutto e per tutto, con schemi fissi e immutabili, e producendosi solo in minime varianti. Stessa la furia cieca dei carnefici, così come egualmente scientifica, gelida e ben ponderata è l’organizzazione che sta alla base di tutto. Stesso il dolore delle vittime, un dolore tanto forte a tratti da spogliare chi vi viene investito di ogni dignità umana e amore di sé e del prossimo. Stesso l’opportunismo, e in molti casi la complicità, delle popolazioni sottoposte al terrore, pronte a girarsi dall’altra parte, ma anche a cercare di massimizzare il profitto che deriva dalle altrui disgrazie e dalla morte. Stessa anche l’indifferenza del mondo, che finge di non vedere e di non sapere, un po’ per noia o apatia, o per pigrizia mentale, ma anche perché il dolore – quando è così grande e lontano – ci lascia impotenti e confusi. Stessa infine anche l’azione solitaria di alcuni giusti: pochi uomini, forse pochissimi che – andando in controtendenza rispetto a tutti e anche alla storia – rischiano la loro vita, i loro beni e il proprio status, per dimostrarci che neppure il male più feroce è capace di cancellare le ultime tracce di bene e di umanità che affiorano anche qui, dove la Terra sembra aver già toccato l’inferno.

Durante la dominazione ottomana

Come si è arrivati alla riduzione in schiavitù di donne e bambini, alla persecuzione sistematica e ai massacri del 2014 che gli Yazidi rivendicano ostinatamente come un genocidio? Si tratta di una storia che parte da lontano. Anzi, a sentire quanto raccontano i stessi membri di questa comunità, gli Yazidi avrebbero già subito addirittura 72 genocidi nel corso della loro storia. Si tratta forse di un’iperbole, diranno in molti, eppure è un’affermazione significativa almeno per capire due cose. In primis, che la questione yazida non è nata con i miliziani dell’Isis, ma ha radici assai più profonde e, per questa ragione, molto più difficili da estirpare. In secondo luogo che, esattamente come per gli armeni e gli ebrei, la memoria delle persecuzioni subite è ormai divenuta parte fondamentale della identità propria degli Yazidi, del loro modo di autorappresentarsi come gruppo. E in effetti si può ben dire che, fin dall’inizio, l’identità yazida sia stata forgiata anche dal sangue e dalla violenza subita nel corso di un millennio.

Già fra XII e XV secolo, infatti, questa popolazione si trovò a subire continui attacchi da parte di chi non tollerava la sua fede e la sua identità. Le cose andarono peggiorando ulteriormente in epoca ottomana. Nel 1892 – negli stessi anni in cui avvenivano i primi massacri degli armeni che sfociarono a inizio novecento in un vero e proprio progetto di genocidio – ebbe luogo una spedizione guidata dal governatore di Mossul che portò a numerose uccisioni e a conversioni forzate. All’inizio del nuovo secolo, poi, nel 1904, il sacro tempio di Lalish venne trasformato in moschea.

Da Saddam al Daesh

In epoca più recente, durante il regime di Saddam Hussein gli Yazidi si trovano di nuovo a essere, al pari dei curdi, bersaglio di persecuzioni e attacchi. Migliaia di loro in quegli anni lasciarono l’Iraq per cercare scampo e fortuna in Europa. Dopo la caduta di Saddam, nel vuoto di potere creatosi in seguito all’invasione americana e all’incauto smantellamento delle forze di sicurezza ereditate dal precedente regime, gli Yazidi si trovarono in una situazione, se possibile, ancora più difficile. Il 14 agosto del 2007, quattro attacchi suicidi cornordinati fra loro colpirono gli Yazidi a Kahtaniya e Jazeera, nei pressi di Mossul. Sconvolgente il bilancio delle vittime, come riportato dalla Mezzaluna Rossa irachena: almeno 500 morti e 1.500 feriti. Una macabra anticipazione di quanto sarebbe avvenuto, con numeri ancora maggiori, pochi anni dopo, quando, siamo nel 2014, un nuovo e temibile attore arriva a sconvolgere – a suon di vittorie repentine, massacri e propaganda – l’Iraq, la Siria e l’intero Medio Oriente. Ci riferiamo allo Stato islamico guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Il contesto da cui ha origine il genocidio degli Yazidi è delineato con precisione da Patrick Cockburn, giornalista del quotidiano   Independent e testimone diretto fra i più autorevoli di questa guerra:

«Nel corso dell’estate, lo Stato islamico aveva sconfitto con campagne fulminee prima l’esercito iracheno, poi quello siriano, i ribelli siriani e i peshmerga curdo-iracheni, creando un dominio che si estende da Baghdad ad Aleppo, e dal confine siriano con la Turchia al deserto dell’Iraq occidentale. Gruppi etnici e religiosi di cui il mondo non aveva mai sentito parlare prima o di cui si sapeva pochissimo, come gli Yazidi di Sinjar o i cristiani caldei di Mossul, sono caduti vittime della crudeltà e del fanatismo settario dell’Isis».

Ma, anche stando a quanto afferma un’investigazione condotta dalle Nazioni Unite e pubblicata nel giugno 2016, si tratterebbe di più di semplici atti di crudeltà e fanatismo. Nel rapporto pubblicato con il titolo di «Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi» (They Came to Destroy: Isis Crimes against the Yazidis), l’indagine condotta dall’Onu utilizza ben 97 volte in 40 pagine la parola genocidio. Un riconoscimento inequivocabile e significativo, dato anche che, per la prima volta, un riconoscimento viene fatto prima da un attore non-statale che da parte di un singolo paese. Ed ecco una breve descrizione di quanto avvenuto, per come la leggiamo nel rapporto dell’Onu:

«Nelle prime ore del 3 agosto 2014, i combattenti del gruppo terroristico chiamato Stato Islamico dell’Iraq e al-Sham (Isis), si riversano fuori dalle loro basi in Siria e in Iraq, e si dirigono rapidamente verso il Sinjar. La regione del Sinjar nel nord dell’Iraq è, nel suo punto più prossimo, a meno di 15 chilometri dal confine con la Siria. È la sede della maggioranza degli Yazidi nel mondo, una comunità religiosa distinta le cui credenze e pratiche risalgono a migliaia di anni, e i cui aderenti l’Isis taccia pubblicamente di essere infedeli. Pochi giorni dopo l’attacco, emergono i primi resoconti delle atrocità inimmaginabili commesse dall’Isis contro la comunità yazida: uomini uccisi o costretti a convertirsi; donne e ragazze, alcune giovani fino a nove anni, vendute al mercato e tenute in uno stato di schiavitù sessuale dai combattenti dell’Isis; ragazzi strappati dalle loro famiglie e costretti ad andare in campi di addestramento dell’Isis. È stato da subito evidente che gli orrori commessi sugli Yazidi catturati si verificavano sistematicamente anche in tutti territori controllati dall’Isis in Siria e Iraq».

Un altro testo, utile ad abbozzare il quadro dei crimini commessi, e soprattutto del piano genocidario messo in atto dai fondamentalisti, lo riprendiamo invece da un rapporto pubblicato dall’Ong Yazda e dalla Fondazione Free Yazidi, redatto in collaborazione con le autorità del governo regionale del Kurdistan iracheno:

«Rimuovendo l’intera popolazione yazida dalla loro patria, infliggendo il danno psicologico e fisico della violenza sessuale contro le donne e le ragazze, l’Isis si è assicurato che questi non sarebbero più stati in grado di tornare alle loro comunità. Forzando i giovani maschi a cambiare la loro religione e a diventare combattenti nelle loro stesse fila, l’Isis ha cercato di annientare l’identità religiosa, le tradizioni e l’esistenza stessa degli Yazidi. Durante l’attacco alla piana di Ninive, l’Isis ha anche distrutto 19 santuari religiosi».

Il 3 agosto 2014 i miliziani dell’Isis non incontrarono quasi nessuna resistenza. I peshmerga curdi, come riportano fonti yazide e lo stesso documento delle Nazioni Unite, decisero di ritirarsi lasciando la popolazione, non preventivamente avvertita, in balia della violenza. Nel giro di poche ore, vinta con facilità la resistenza improvvisata da alcuni uomini nei villaggi, gli uomini dello Stato islamico assunsero il pieno controllo della regione. Nella confusione di quelle ore, che videro migliaia di civili darsi alla fuga senza neppure il tempo di raccogliere il minimo indispensabile dalle loro case, un episodio particolarmente drammatico investì coloro che cercarono di trovare scampo sul monte Sinjar.

Leggiamo ancora dal rapporto delle Nazioni Unite:

«Coloro che sono fuggiti in tempo per raggiungere l’altopiano superiore del monte Sinjar vengono assediati dall’Isis. Una crisi umanitaria ha luogo non appena l’Isis intrappola decine di migliaia di uomini, donne e bambini Yazidi, in un luogo dove le temperature superano i 50 gradi e impedendo loro l’accesso all’acqua, al cibo o all’assistenza medica. Il 7 agosto 2014, su richiesta del governo iracheno, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncia un’azione militare americana per aiutare gli Yazidi intrappolati sul monte Sinjar. Forze americane, irachene, inglesi, francesi, australiane vengono coinvolte in lanci di acqua e altre forniture agli Yazidi assediati. Il tutto mentre i combattenti dell’Isis sparano contro gli aerei impegnati nel lancio di aiuti, e contro gli elicotteri che tentano di evacuare gli Yazidi più vulnerabili. Centinaia di Yazidi – inclusi neonati e bambini – trovano la morte sul monte Sinjar prima che le forze curde siriane, il Ypg (nome dell’esercito kurdo della regione siriana di Rajava, ndr), siano in grado di aprire un corridoio dalla Siria al Monte Sinjar, consentendo agli assediati sul monte di essere spostati in sicurezza».

Uccisi, schiavizzati, dimenticati

Lontano dal monte Sinjar, il progetto di sterminio viene portato avanti con uno stesso schema, villaggio per villaggio, con rapidità sistematica. Una ripetizione di atti e violenze che non lascia nulla al caso e che rende evidente come quello commesso (e in parte ancora in atto) contro gli Yazidi sia un genocidio e non una serie di massacri verificatisi in modo spontaneo. In ogni luogo della regione, vengono divisi uomini, donne e bambini. I primi – che includono anche gli adolescenti dai dodici anni in su – vengono uccisi seduta stante o costretti a convertirsi all’islam, mentre le seconde, insieme ai loro bambini, vengono vendute come schiave. Non lascia adito ad ambiguità la conclusione del rapporto dell’Onu già citato: «L’Isis ha commesso e continua a macchiarsi del crimine di genocidio, ma anche di diversi crimini contro l’umanità e crimini di guerra, contro gli Yazidi».

Un riconoscimento importante, che però non è finora riuscito a scongiurare o a alleviare il dramma in corso. Private di un passato e di un futuro, molte migliaia di Yazidi sono tuttora ridotte in stato di schiavitù nei territori dello Stato islamico, o accampate nei campi profughi di Siria, Turchia e Grecia. Qui, troppo spesso, i rifugiati si trovano privi dei servizi essenziali, senza che venga fornita loro l’assistenza medica e psicologica che potrebbe contribuire a ridare loro un minimo di dignità e coraggio.

Simone Zoppellaro


Incontro con Nadia Murad

Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice

Rapita, venduta, violentata dagli stupratori dell’Isis, Nadia Murad, oggi 23enne, è la donna simbolo della lotta degli Yazidi. Divenuta mondialmente conosciuta, riempita di riconoscimenti, lei chiede che questa attenzione si trasformi in aiuti concreti per il suo popolo ferito e disperso.

Stoccarda. È una ragazza semplice, la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, appena 23 anni, ma già donna simbolo della lotta degli Yazidi per la sopravvivenza. Nel condominio dove la incontro ad agosto, subito fuori Stoccarda, insiste per accompagnarmi giù dalle scale fino in strada per salutarmi, come si usa fare in Medio Oriente. Veste in modo semplice, di nero, come semplici sono le passioni di cui parla, dal calcio all’Italia, che ha visitato da poco. Ed umile è anche il palazzo popolare in cui ci incontriamo, un alloggio per rifugiati dove risuonano di continuo le grida festanti dei bimbi yazidi arrivati da poco dall’Iraq. Proprio non sembra di avere di fronte una delle 100 persone più influenti al mondo, secondo la classifica della rivista Time (aprile 2016). Eppure, fra i tanti incontri fatti in questi anni, quello con Nadia Murad è stato di gran lunga quello che più mi ha colpito. Dettagli: il tono della voce, calmo e ieratico, con cui mi racconta in lingua kurda l’epopea di orrore che ha investito la sua famiglia e la sua gente. E poi quegli occhi profondi di chi ha guardato in faccia il male e la morte, di chi all’inferno è già stata salvo riuscire a riemergervi e a tornare fra noi. Miracolosamente.

Quell’estate del 2014

Sulla sua pelle si scorgono piccole cicatrici, bruciature di sigaretta inflitte al tempo della schiavitù cui l’avevano ridotta gli uomini dell’Isis. Anche la postura chiusa del suo corpo racconta in modo inequivocabile delle violenze subite. Eppure, mentre si lascia fotografare, sorride serena, quasi pacificata. Ho davanti a me una ragazza con una calma e una forza fuori dal comune, dolce e insieme inflessibile, con qualcosa di oscuro, ma anche di caldo e materno. «Non ho mai pensato di uccidermi, ma ho sperato che fossero altri a farlo», racconta, rievocando l’orrore della sua lunga prigionia. Sì, perché Nadia Murad in quei giorni dell’agosto 2014 ha visto morire davanti a lei sei suoi fratelli, diciotto familiari, e larga parte degli abitanti del suo villaggio, Kocho, stretto d’assedio dai miliziani dell’Isis.

Nei due anni e mezzo trascorsi da quell’estate del 2014, l’attivista yazida è stata coperta di onori per il suo coraggio e la sua determinazione. Candidata al Nobel per la pace, ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e ancora vincitrice del Premio Václav Havel per i diritti umani, conferitole dal Consiglio d’Europa, e del Premio Sakharov per i diritti umani, assegnatole dall’Europarlamento, insieme a Lamiya Aji Bashar.

Donne e bambine in balia dei miliziani

Grandi onori e attenzioni da parte dei media di tutto il mondo. Eppure, con una lucidità e una fermezza sorprendente, mi racconta tutta la sua solitudine, l’impotenza e la disperazione di fronte al dramma della sua gente.

«Non ho alcuna speranza», confessa Nadia, a due anni esatti dal genocidio. «La mia comunità è in via di estinzione. Il 90% dei nostri sopravvissuti vivono dispersi in campi profughi. Abbiamo ancora migliaia di bambini tenuti come schiavi dall’Isis, e quanto ai pochi che sono riusciti a fuggire, nessuno se ne occupa. Oggi siamo dispersi in giro per il mondo, e i nostri villaggi – anche quelli liberati – sono distrutti e non possiamo farci ritorno. La nostra sola, piccola speranza è la comunità internazionale. Senza il loro aiuto, per noi non c’è futuro».

Secondo le cifre fornite da Yazda, l’ong yazida, sono 5.000 gli Yazidi che hanno perso la vita per mano dell’Isis, mentre altri 7.000 sono stati rapiti. Un computo ancora incerto, purtroppo, come grandi sono le incertezze circa il possibile ritorno in patria dei sopravvissuti, anche una volta che il Daesh sia stato debellato. Nadia Murad era una ragazza di 19 anni, una studentessa, il giorno in cui la storia ha fatto irruzione nella sua vita, stravolgendola per sempre.

«Dopo che hanno preso noi donne dal villaggio – racconta Nadia -, ci hanno raccolte e messe insieme a centinaia di altre ragazze provenienti da altri villaggi del Sinjar. Abbiamo chiesto loro cosa ci facessero lì e cosa fosse successo loro. Ci hanno risposto che venivano picchiate ogni giorno e che ogni giorno venivano a scegliere alcune di loro per abusarne in diversi modi, inclusi stupri di gruppo. Poi ci prendevano per portarci in stanze dove i militanti dell’Isis venivano, ci guardavano e sceglievano le ragazze che volevano portarsi via. Questo capitava a bambine e donne dai 9 ai 60 anni. E così è capitato a me. Ci prendevano e ci obbligavano a convertirci, portandoci alla Corte islamica di Mossul. Lì venivamo registrate come schiave, senza alcun diritto, a differenza delle loro madri, mogli e figlie. Ci spartivano fra loro e abusavano di noi. Inoltre, dovevamo servirli».

All’origine del suo salvataggio, avvenuto dopo un primo tentativo di fuga fallito – cui era seguita una punizione crudele – è l’opera di una famiglia di giusti che le offre aiuto e protezione, a rischio della loro stessa vita. Questi forniscono infatti alla Nadia documenti falsi, in cui risulterebbe essere una loro parente, moglie di loro figlio. Con un velo e una veste integrale islamica riesce così a fuggire e a rifugiarsi in Kurdistan, al sicuro.

Finiscono così i tre mesi di prigionia e tortura a cui, a differenza di tante altre donne yazide, è riuscita a sottrarsi. Da lì, poi, muoverà in Germania, a Stoccarda, dove riceverà aiuto e assistenza e dove avrà inizio il suo impegno politico per il riconoscimento del genocidio yazida. Certo, aveva altri sogni nella vita, Nadia, prima di quell’agosto: diventare un’insegnante di storia o una truccatrice, racconta.

Tanti premi, nessun impegno concreto

Ne siamo certi, non esiste premio al mondo, per quanto prestigioso, che possa consolarla della perdita della sua vita di un tempo, scomparsa nel giro di pochissimi giorni.

Quella vita semplice di cui racconta, pur segnata da povertà e stenti, resta impressa nella sua memoria come simbolo di una felicità perduta, quasi un idillio. Oggi l’indifferenza del mondo sembra non darle pace. Un muro di gomma, quello che si trova ad affrontare ogni giorno, fatto di grandi eventi e onori, di premi, immagini e marketing, ma di nessun impegno e sostanza politica. La verità – e Nadia lo sa benissimo – è che nessuno li vuole, i sopravvissuti yazidi. Nessuno vuole prendersi l’onere e l’onore di aiutare questa gente. In un’Europa che – pur di tenersi lontani i profughi – è persino disposta a finanziare lautamente regimi liberticidi, dalla Turchia alla Libia. Degli Yazidi non importa nulla a nessuno. O quasi a nessuno.

E non sarà un caso allora, come mi ha raccontato la stessa attivista yazida, che una felice eccezione sia costituita dal Land tedesco del Baden-Württemberg, guidato dal governatore verde Winfried Kretschmann.

Cattolico praticante, proveniente lui stesso da una famiglia di profughi rifugiatisi nel Sud della Germania al tempo della seconda guerra mondiale, Kretschmann ha voluto impegnarsi di persona non solo per accogliere, ma anche per fornire assistenza medica e psicologica alle vittime yazide. Certo si tratta solo di un timido barlume in un mare di tenebra. Eppure, per questo piccolo popolo, anche i 2.500 bambini e donne traumatizzati accolti e curati in questo Land rappresentano una grande conquista, e una speranza per il domani. O, forse, molto di più: il sogno di un domani ancora possibile che si concretizza per gli adoratori dell’Angelo Pavone e per i loro figli, là dove solo morte e orrore sembravano possibili. E qui, in questo piccolo segnale di un’umanità ritrovata, scopro forse il segreto di Nadia Murad, della sua ineluttabile forza.

Simone Zoppellaro


Scheda 1: Genocidio

Chissà che cosa avrebbe pensato Raphael Lemkin, il giurista polacco che inventò e definì la parola «genocidio», se avesse potuto guardare avanti fino al nostro presente. La sua grande intuizione, che legava in modo indissolubile in un solo lemma il dramma degli armeni nel 1915 e quello della Shoah – di cui lui aveva ben colto, prima di ogni altro, le profonde analogie – guardava certo al passato e al presente insieme ma, in modo profetico, anche al nostro oggi. Chissà cosa avrebbe pensato Lemkin, dunque, se avesse potuto vedere il genocidio compiuto dai Khmer rossi in Cambogia, il Rwanda, Srebrenica, e ora anche il dramma in corso di cui sono vittime gli Yazidi. Come dimostra il suo acume nello scoprire e denunciare – oltre ai casi già menzionati dell’Olocausto degli armeni e degli ebrei – anche l’Holodomor degli anni Trenta, «la distruzione della nazione ucraina», come lui l’aveva definita, non abbiamo dubbi che nei nostri anni avrebbe trovato un ennesimo, terribile riscontro alla sua intuizione, che ora è parte della coscienza e del vocabolario di tutti noi, e di ogni lingua del mondo. Il suo termine, inventato perché neppure la parola «atrocità» era più sufficiente per esprimere l’orrore di Auschwitz, e adottato dalla convenzione delle Nazioni Unite nel 1948, arriva così a investire nuovi contesti e aree geografiche assai vaste, e un’epoca diversa e lontana da quella in cui Lemkin stesso si trovò ad operare. «Genocidio – ha scritto lo storico Boris Barth – è quando un gran numero di persone vengono uccise per motivi razziali, etnici o religiosi. Come regola generale, l’esecutore è uno stato che ha l’intenzione dichiarata di annientare alcuni gruppi etnici o religiosi. Così viene anche definito nella Convenzione delle Nazioni Unite».

Si.Zo.

Scheda 2: Le guide e le caste

In cima alla scala sociale e alla divisione per caste che caratterizzano la vita della minoranza yazida troviamo due figure chiave, il Mir e il Baba Sheikh. Il primo, il cui titolo potremmo tradurre come «principe», assomma in sé il potere temporale e quello spirituale. L’attuale Mir degli Yazidi è Tahsin Said (nella foto), posto a guida del Consiglio spirituale degli Yazidi, il Majlesi Rohani. Una figura che, secondo gli Yazidi, discende dalle sette entità angeliche presiedute dall’Angelo Pavone. Con funzioni di guida spirituale, ma in realtà subordinato al Mir anche da questo punto di vista è la figura del Baba Sheikh. A rivestire questo ruolo attualmente è Khurto Hajji Ismail. Questi presiede a tutte le cerimonie più importanti della vita spirituale della comunità, e in particolar modo a quelle che avvengono presso il sacro tempio di Lalish. Entrambe le figure sono parte della più importante delle tre caste yazide, quella degli Sheikh. Sempre elevata, anche se per alcuni aspetti in subordine rispetto alla prima, è la casta dei Pir, gli «anziani». Anche questi, come gli Sheikh, ricevono un’elemosina in forma di una tassa dall’ultimo gruppo: i Morid, i «discepoli», che sono tenuti a scegliere come loro guida una figura per ciascuna delle due caste superiori. Questi rappresentano la larga maggioranza della popolazione e non rivestono alcuna particolare funzione rappresentativa. Le caste degli yazidi – che conoscono al loro interno ulteriori, complesse, sottoclassificazioni – sono perlopiù endogame, e vietano cioè il matrimonio fra gli appartenenti ai diversi gruppi sociali.

Si.Zo.

Scheda 3: La diaspora

Uno dei pericoli maggiori che si trova oggi ad affrontare la comunità yazida è quello della sua dispersione. Un fenomeno non nato in questi ultimi anni, ma che ha conosciuto di recente una spaventosa accelerazione. Questa, unita al numero esiguo dei suoi membri, e all’assenza pressoché totale di centri di potere economico, politico o religioso che possano supportarla, rischia di condannare la minoranza in questione a una rapida scomparsa. Difficile, anche a causa della situazione in divenire e della dispersione, avere un’idea chiara di quanti siano effettivamente gli Yazidi. Si stima che, prima dell’invasione dell’Isis, se ne trovassero in Iraq fino a un massimo di mezzo milione. Altri insediamenti storici di questa minoranza, con numeri assai più ridotti, si trovano in Siria, in Turchia, in Russia e nel Caucaso del Sud, ovvero in Georgia e Armenia. In quest’ultimo paese, dato il notevole numero di profughi e la buona integrazione nella società che li accoglie, è in via di costruzione – caso unico al mondo – un tempio yazida. Il paese europeo che più ha aperto le porte ai membri di questa minoranza perseguitata è stato senza dubbio la Germania, dove si trovano oggi oltre 100.000 Yazidi. Qui, prima e in maggior misura che altrove, è stato possibile avviare programmi di riabilitazione anche psicologica per i sopravvissuti allo sterminio e per le donne yazide che hanno subito violenze. Oltre alla Germania, altri paesi europei che li hanno accolti sono, per esempio, Francia, Gran Bretagna e Olanda. Al di fuori del nostro continente, il Canada sembra aver deciso di recente di seguire l’esempio della Germania nel fornire asilo e assistenza ai profughi yazidi.

Si.Zo.


Infodossier:

Fonti e bibliografia

  • Patrick Cockburn, L’ascesa dello stato islamico. ISIS, il ritorno del jihadismo, edizioni Stampa Alternativa, 2015.
  • Christine Allison, Yazidis, voce dell’Encyclopædia Iranica pubblicata dalla Columbia University e disponibile online, 2004.
  • Gianfilippo Terribili, Via della seta. In pellegrinaggio con gli Yazidi, 2 settembre 2015, Atlante, rivista del portale Treccani.
  • Giuseppe Furlani, Gli adoratori del pavone. I yezidi: i testi sacri di una religione perseguitata, ed. Jouvence, 2016.
  • Simone Zoppellaro, La guerra agli yazidi sul corpo delle donne, 9 agosto 2016, il Manifesto.
  • Claudia Ryan, Hana la Yazida. L’inferno è sulla Terra, Edizioni San Paolo, 2016.

Sitografia

  • www.yazda.org -Il sito dell’omonima organizzazione degli Yazidi.
  • www.nadiamurad.org -Il sito ufficiale di Nadia Murad.

Autori

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016) e Armenia (ottobre 2016).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.



Stati Uniti: nelle Americhe di Donald Trump


Da gennaio 2017 il 45.mo presidente degli Stati Uniti d’America è Donald Trump. È arrivato alla guida della maggiore potenza mondiale nonostante la sua fama di finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore. Cosa ha spinto gli statunitensi a questa scelta dirompente? Come cambierà la politica estera degli Usa? Come si comporterà la Chiesa cattolica statunitense (molto silente durante l’intera campagna elettorale)?

L’America ha parlato, e ha eletto Donald Trump presidente. A qualche settimana dal risultato del voto questo è ancora un paese sotto shock. Durante una campagna elettorale lunga quasi un anno e mezzo, che ha sfiancato la psiche e l’anima degli Stati Uniti, pochi pensavano che il finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore potesse raccogliere la maggioranza degli «electoral votes» (rappresentano i cosiddetti «grandi elettori» eletti su base statale, chi vince in uno stato – anche per un solo voto – prende tutto, ad esempio vincendo in Florida Trump ha preso tutti i 29 grandi elettori di quello stato, ndr) dell’arcaico sistema che ancora governa le elezioni presidenziali. Per la maggioranza degli americani che non hanno votato per lui è come non riuscire a svegliarsi da un incubo.

Il Partito repubblicano soggiogato e conquistato da Trump si trova ora a dover esercitare il potere nel governo federale che da anni ormai odia in modo quasi teologico, come incarnazione del male. Le elezioni dell’8 novembre 2016 non solo hanno portato Trump alla presidenza, ma hanno prodotto anche una solida maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato, e in molti stati. La maggioranza della Corte Suprema federale sarà plasmata per decenni dalle nomine che farà l’amministrazione Trump. È un terremoto politico che ha sconvolto le aspettative: con un Partito repubblicano risorto dalle proprie ceneri, asservitosi al pirata che lo ha scalato e umiliato, e un Partito democratico senza una leadership e senza un messaggio se non quello perdente della «identity politics» (suddivisione della popolazione in base a elementi identificativi: nazionalità, genere, religione, lingua, ecc., ndr) in cui si sperava che la demografia di un paese sempre più multiculturale risolvesse il problema della mancanza di una visione.

Le spiegazioni

In un paese diviso lungo linee diverse che si sovrappongono – disparità sociali e di reddito, salti generazionali, identità culturali ed etniche-razziali, ubicazioni geografiche ed esistenziali, livelli di educazione scolastica – i messaggi lanciati e ricevuti con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sono vari. Ci sono due tentativi principali di spiegare quanto accaduto. La prima spiegazione è di tipo materialistico: Trump è stato eletto dai dimenticati e perdenti del sistema economico e finanziario, dagli snobbati del sistema informativo, dagli esclusi dal sistema educativo. La seconda spiegazione è di tipo identitario: Trump è stato eletto da quanti si sono ritrovati nel messaggio non solo anti-immigrazione e anti-musulmano (non sconosciuto all’Europa di oggi), ma nativista e razzista, chiaramente «white supremacist» e sottilmente antisemita, isolazionista e violento del candidato anti-establishment. Sono due spiegazioni che devono entrambe far parte del tentativo di spiegare quanto accaduto. Comprendere è un’altra questione, se con comprendere vogliamo intendere di mettersi nei panni di coloro che, l’8 novembre 2016, hanno accettato e normalizzato l’immaginario trumpiano, molto vicino a quello nativista (l’idea di un’America in cui sia ancora politicamente, socialmente e culturalmente dominante la parte della popolazione composta da bianchi e protestanti) e schiavista di metà Ottocento. Non tutti, né molti degli elettori di Trump sono razzisti, ma non tutti lo hanno votato per esprimere un disagio economico. È impossibile spiegare l’America solo con i meccanismi di classe, senza ricorrere alla storia dei rapporti tra razze e religioni, e senza una presa di coscienza di come le identità si intersecano e sovrappongono.

Il neo presidente Donal Trump visita il presidente uscente Obama alla Casa Bianca il 10/11/2016 / AFP PHOTO / JIM WATSON

Contro Obama

Il risultato dell’elezione non può essere spiegato senza ricordare che la campagna per la presidenza Trump l’ha, in un certo senso, iniziata anni fa, poco dopo l’elezione di Barack Obama nel 2008, accusando il nuovo presidente di non essere cittadino americano («Voglio che mostri il suo certificato di nascita», disse più volte) e quindi di essere stato eletto illegittimamente. Il mandato del primo presidente afroamericano ha incontrato da parte del Partito repubblicano una resistenza tesa non soltanto a ostacolae l’agenda, ma a delegittimae la funzione. Dal 2008 in poi negli stati governati dai repubblicani ci sono stati sistematici tentativi (in molti casi coronati da successo) di impedire il voto degli americani non bianchi, e degli afroamericani in particolare: in aiuto a questo tentativo di revocare le conquiste del civil rights movement, la Corte Suprema federale (guidata da un chief justice cattolico, John Roberts) ha cassato una parte della legislazione degli anni Sessanta promulgata per difendere il diritto di voto delle minoranze in quegli stati con una storia di tentativi di privare una parte della popolazione della possibilità concreta di esercitare il diritto di voto.

Contro Obama non vi è stata solo la resistenza politica da parte del Partito repubblicano. Anche la Chiesa cattolica, i sindacati di polizia, il sistema giudiziario hanno agito per delegittimare la sua presidenza e non hanno fatto molto per mascherare la loro convinzione di avere a che fare con la presidenza di un alieno rispetto al sistema.

L’elezione di Donald Trump è anche la reazione di un paese spaventato, specialmente nella sua componente bianca, da un futuro più multietnico e multiculturale. I silenzi della gran parte dei vescovi della Chiesa cattolica (che è la chiesa più grande del paese) durante i passaggi più foschi della campagna elettorale di Trump non verranno giudicati in modo benevolo dagli storici. È uno dei frutti di una politica cattolica tutta giocata sulla questione dell’aborto, peraltro in modo ideologico: è noto che le politiche dei repubblicani, tese a tagliare lo stato sociale indiscriminatamente (fino quasi ad azzerarlo), conducono di norma a un numero maggiore di aborti.

Un razzismo sistemico

Ad alcuni italiani l’elezione di Trump ha riportato alla memoria la sorpresa, ovvero lo sconcerto, per la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Nonostante gli evidenti paralleli tra la carriera e lo stile dei due personaggi, ci sono alcune fondamentali differenze, a parte quella ovvia di importanza sulla scena globale tra due paesi come l’Italia e gli Stati Uniti. La prima differenza è di ordine storico globale. Nel 1994 Berlusconi arrivava sulla scena come l’eccezione all’interno dello scenario europeo e occidentale del primo dopo guerra fredda; Trump è invece il punto più estremo di una serie di rivolgimenti all’interno delle democrazie occidentali (soprattutto il voto per «Brexit» di qualche mese fa, ma anche la decennale crisi dell’Unione Europea; le pulsioni autoritarie in Polonia e Ungheria) e nello scenario euro-asiatico (la fine della democrazia in Turchia e in Russia) che fanno temere per la pace e la stabilità, e soprattutto per la capacità della democrazia in Occidente di resistere ai populismi. La seconda differenza ha a che fare con la storia della democrazia e dei diritti negli Stati Uniti d’America. Nell’Italia di Berlusconi non c’era, come c’è negli Stati Uniti, una parte importante della popolazione con una memoria diretta e personale del razzismo legalmente sancito contro molti milioni di cittadini: la segregazione razziale, specialmente nel Sud degli Stati Uniti, fino alla metà degli anni Sessanta (per non parlare della memoria dei campi di inteamento per i giapponesi americani durante la Seconda guerra mondiale) non è storia dimenticata, e soprattutto non è qualcosa che appartenga solo al passato. Gli Stati Uniti sono ancora pervasi da un razzismo sistemico – nella politica, nell’economia, nella giustizia, nelle scuole – che, per continuare a produrre ineguaglianze radicali, non ha bisogno di persuasioni convintamente razziste dei singoli.

Queste due differenze spiegano la paura con cui molti americani hanno accolto l’elezione di Trump: una paura per il futuro del paese, specialmente dei propri figli, con un ruolo particolare per la questione ambientale visto il rifiuto sia di Trump che dei repubblicani di prendere seriamente le sfide della sostenibilità. Ma c’è anche una paura fisica, per la propria incolumità personale specialmente negli americani non bianchi (afroamericani, latinos, asiatici) e nelle minoranze sessuali. Di fronte al nativismo i documenti in regola rappresentano in molti casi una protezione tardiva. Dopo le elezioni si sono moltiplicate le notizie di incidenti a sfondo razziale nei campus universitari e contro chiese afroamericane. L’America non sembra essere accogliente come prima verso studenti e lavoratori stranieri. Potrebbe esserci un effetto Brexit anche su certi settori dell’economia americana, come l’educazione superiore.

L’anima religiosa (e le assenze della Chiesa)

Il Cardinal Daniel DiNardo. ( Brett Coomer / Houston Chronicle )

L’anima religiosa del paese non esce indenne da questa stagione politica che peraltro sembra essere appena iniziata. La prima domenica dopo le elezioni ha visto gli americani andare in chiesa con uno spirito molto diverso dal solito e diverso tra le varie chiese: alcune chiese hanno celebrato (tra cui quelle evangelicali bianche), altre hanno invocato coraggio e perseveranza nella prova (quelle afroamericane). La Chiesa cattolica ha faticato a nascondere l’imbarazzo che deriva dall’essere una chiesa più divisa di altre e più sprovveduta di altre a cogliere i segni dei tempi: è una chiesa che soffre di una divisione tra quelle realtà che operano sul terreno e la dirigenza, nonostante le buone nomine episcopali e cardinalizie di papa Francesco.

La Conferenza episcopale è stata una voce del tutto assente nell’assistere i cattolici a disceere l’importanza dell’elezione, e la sua neghittosità è stata confermata dall’assemblea dei vescovi tenutasi la settimana dopo le elezioni presidenziali. Il 15 novembre 2016 i vescovi hanno infatti eletto le nuove cariche tra cui il nuovo presidente (il cardinale Daniel DiNardo, uno dei tredici firmatari della lettera contro papa Francesco durante il Sinodo del 2015), il nuovo vicepresidente e quindi futuro presidente (l’arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez, chierico vicino all’Opus Dei, nato in Messico e difensore degli immigrati) e altre cariche (tra cui il presidente della Commissione giustizia e pace, il vescovo Timothy Broglio, ordinario militare e non esattamente interprete della forte cultura «justice and peace» della chiesa americana di base). I vescovi americani stanno tentando di impostare il rapporto con Trump sulla base delle policies del suo governo, evitando di confrontarsi con la campagna di odio e di razzismo interpretata e scatenata dal suo movimento. Il timore è che l’episcopato americano non sia intellettualmente e moralmente in grado, tranne alcune eccezioni, di fare fronte all’emergenza morale e culturale della presidenza Trump (e del vicepresidente Mike Pence, un ex cattolico ora evangelicale che potrebbe essere il vero ideologo dell’amministrazione).

La politica estera

L’elezione di Trump apre una pagina tutta da scrivere per la politica estera americana. Ci sono in gioco questioni geopolitiche complesse e tragiche – Siria, Turchia, e il Medio Oriente; il ruolo della Russia; la nuclearizzazione dell’Asia orientale, Giappone e Cina; l’America Latina «cortile di casa» degli Usa; l’Unione Europea e Brexit – su cui la politica estera americana ha inanellato negli ultimi quindici anni una serie impressionante di sconfitte. I proclami di Trump per un nuovo isolazionismo dovranno fare i conti con il prezzo che il nazionalismo americano deve pagare per una supremazia globale che non è più incontrastata. Il rapporto con la Russia di Putin e il suo impatto sul risultato delle elezioni americane è una delle questioni che restano da indagare.

La politica vaticana, così come chiunque abbia a cuore la pace, la giustizia e la cooperazione, hanno molto da temere da un’amministrazione Trump. C’è da attendersi più vigilanza dal Vaticano di papa Francesco e del cardinal segretario di Stato Parolin che dall’episcopato negli Usa, tranne alcuni vescovi. Il cattolicesimo americano interessato alla politica si divide tra neo-conservatori (che cercheranno di trovare un accordo di desistenza con Trump sulle questioni bioetiche e biopolitiche) e cattolici radicali postmodeisti (per i quali la politica è terreno da evitare, se non da etichettare come devozione all’idolatria nazionalista americana). In mezzo tra questi due estremi il common ground cattolico americano è ridotto ai minimi termini sociologicamente e intellettualmente. Una delle questioni che l’elezione di Trump solleva per la chiesa americana è come possa risolvere le tensioni sempre più evidenti tra la sua cattolicità e il suo americanismo.

Massimo Faggioli

È docente ordinario nel dipartimento di teologia e scienze religiose della Villanova University (Philadelphia). Ha lavorato come ricercatore presso la «Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII» di Bologna dal 1996 al 2008 e ha conseguito il dottorato in Storia religiosa all’Università di Torino nel 2002. Collabora con varie riviste italiane e non, tra cui Il Regno, Jesus, Commonweal, e La Croix Inteational. Le sue pubblicazioni scientifiche si occupano di Vaticano II, di ecclesiologia, e di nuovi movimenti cattolici. Questo articolo è il suo esordio su Missioni Consolata.

  • www1.villanova.edu
    Il sito della Villanova University, istituto fondato nel 1842 dagli Agostiniani.

 


Approfondimento

Gli Usa di Trump e Cuba senza Fidel,
«El bloqueo» al tempo di Donald 

Con papa Francesco e Barack Obama l’Avana e Washington si stavano avviando – pian piano – a una normalizzazione delle relazioni. Dopo gli ultimi avvenimenti, tutto torna in forse.

Avevamo visto Fidel Castro, con il volto smunto ed emaciato e una voce fioca ed impastata, nell’intervista concessa a Gianni Minà – ultimo giornalista a incontrarlo – per il suo recentissimo documentario, «Papa Francesco, Cuba e Fidel». Il vecchio leader aveva parlato di Cuba, degli Stati Uniti e della chiesa cattolica, soprattutto del suo incontro privato con papa Francesco.

Il 25 novembre, subito dopo la morte di Fidel, da tempo malato e ritirato dalla politica attiva, sono iniziate le manifestazioni di giubilo dei cosiddetti esuli cubani di Miami, da sempre spina dorsale del partito repubblicano statunitense e dei suoi candidati in Florida (nonché ideatori ed esecutori di quasi tutte le attività illegali – terrorismo compreso – contro l’isola). Il Miami Herald, quotidiano ferocemente anticastrista, titolava: «La morte di Castro porta speranza, sollievo a Miami». È stato triste, perché giornire della morte altrui è sempre un atto di viltà.

Il neopresidente Donald Trump ha postato i suoi tweet – nuova ed «esaltante» frontiera della comunicazione modea – prima per dire che Castro era stato «un brutale dittatore che aveva oppresso il suo popolo per quasi sessant’anni», poi per affermare che adesso Cuba dovrà concedere di più altrimenti lui porrà fine agli accordi («I will terminate deal») siglati da Barack Obama.

Da miliardario (peraltro, molto controverso anche in questa sua veste) forse Trump pensa di riuscire – finalmente – a comprare quella dignità, morale e materiale, fino ad oggi salvaguardata dalla gente cubana con coraggio, fatica e rinunce, nonostante 55 anni di inflessibile embargo (el bloqueo) statunitense.

Qualsiasi cosa si pensi di Fidel – eroe o dittatore sono le due definizioni che vanno per la maggiore – la dignità della Cuba castrista rimarrà una testimonianza che nessuno (sia politico, editorialista, professore o blogger) riuscirà mai a cancellare.

Paolo Moiola




Pigmei piccolo uomo fratello mio


Negli ultimi mesi c’è stata una recrudescenza dei massacri nell’Est del Congo. Qui gli interessi di potenze straniere e del governo centrale creano una situazione esplosiva. In questo contesto un missionario italiano lotta per la difesa dell’etnia più oppressa: i pigmei.

«Il mio pensiero va agli abitanti del Nord Kivu recentemente colpiti da nuovi massacri che da tempo vengono perpetuati nel silenzio vergognoso, senza attirare neanche la nostra attenzione. Fanno parte purtroppo dei tanti innocenti che non hanno peso sulla opinione mondiale».

Questo l’emblematico, coraggioso e condivisibile messaggio lanciato lo scorso mese di agosto da papa Francesco durante l’Angelus per la festa dell’Assunta, a seguito del massacro di civili avvenuto nella Repubblica democratica del Congo, per opera di un commando armato. Le vittime degli eccidi, nella zona Butembo-Beni (Nord Kivu), non sono quantificabili in modo esatto, ma fonti locali parlano addirittura di 500 morti, tra questi anche donne e bambini.

Un’annosa questione

Nell’Est Congo Rd la situazione è complessa. È in atto una guerra che ha le sue radici nella conquista del potere da parte di Paul Kagame in Rwanda, nel 1994. Da allora decine di milizie si combattono nel Sud e nel Nord Kivu, spesso appoggiate dai governi di Uganda, Rwanda e Burundi, talvolta in contrapposizione. I tre stati confinanti, da oltre 20 anni approfittano della guerra per sfruttare le ricchezze minerarie e forestali del Congo (vedi MC giugno 2016). Le milizie, molto sanguinarie, alcune composte da poche centinaia di uomini armati, si scontrano tra loro, talvolta contro le Forze armate congolesi (Fardc), ma sempre commettendo atrocità nei confronti dei civili.

«Nel Nord Kivu – afferma padre Antonio Mazzucato, classe 1938, sacerdote fidei donum della diocesi di Bolzano, e missionario nella diocesi di Butembo-Beni – sono in atto cruenti attacchi a danno della popolazione da parte di diversi gruppi armati. In particolare Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (costituita da hutu contro il regime tutsi di Kigali, ndr) e le Forze democratice alleate (ugandesi di fede islamica contro il governo di Uganda e Rdc, ndr).  In questo scenario la Monusco, la missione Onu per la stabilizzazione della Rdc, non riesce a proteggere la popolazione. I soldati Onu non fanno nulla per bloccare i massacri, intervengono troppo in ritardo. Si limitano a operazioni umanitarie. Inoltre, non contrastano, né denunciano, il traffico di minerali, come diamanti e coltan. Ed è proprio il quest’ultimo uno dei fattori che alimenta l’instabilità politica e i massacri» .

A causa del saccheggio delle risorse naturali, nel Nord Kivu continuano i massacri, nella più totale impunità. Secondo padre Gaston Mumbere, della congregazione degli Agostiniani dell’assunzione, soltanto in questa regione della Rdc si conterebbero 8 milioni di vittime negli ultimi vent’anni (si veda il rapporto Rapport du Projet Mapping, dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani). Un genocidio denunciato da padre Mumbere tramite una lettera appello, indirizzata lo scorso maggio a Joseph Kabila, in cui si legge: «A questo ritmo, voi potreste essere ricordato come il presidente dei morti, dei cimiteri, delle fosse comuni».

La missione Etabe

Padre Antonio opera in Nord Kivu dal 1989. Una regione difficile e al contempo straordinaria dal punto di vista naturalistico e culturale. Padre Antonio ha deciso di aiutare gli ultimi tra gli ultimi, i pigmei, con la creazione di un progetto concreto a loro favore. Chiamato inizialmente «Progetto pigmei Teturi», questo programma fu sottoscritto e sostenuto dall’allora vescovo di Butembo-Beni, monsignor Emmanuel Kataliko. Il progetto, nell’arco di pochi anni, pur con limitati mezzi a disposizione, si è radicato, tanto da coinvolgere diversi clan (o famiglie allargate) di pigmei nella partecipazione al suo sviluppo. Intanto, il nome è stato modificato in «Progetto pigmei Etabe». Etabe deriva dall’appellativo dell’originaria missione istituita nella prima metà del ´900 dai Piccoli fratelli di Charles De Foucauld, i quali stavano cercando di emancipare i pigmei. Anche per questo motivo, nel 1964, alcuni preti di questa comunità missionaria vennero uccisi dai ribelli Simba istigati, secondo padre Antonio, dal gruppo dei Babila. Questi ultimi erano e rimangono i principali oppositori di chiunque tenti di aiutare il popolo della foresta.

L’obiettivo del progetto è quello di offrire ai pigmei gli strumenti per sottrarsi al dominio-sfruttamento da parte  degli altri congolesi, e degli stranieri. L’emancipazione avviene a più livelli. Sul piano economico, con l’acquisizione di conoscenze legate all’agricoltura, come forma di integrazione delle fonti di sussistenza tradizionali quali caccia, pesca e raccolta. A ciò si aggiungono l’apprendimento di competenze legate all’artigianato del legno, alla meccanica, alla sartoria.

Sul piano politico, sostenendo una forma di autonomia giuridica e amministrativa delle popolazioni pigmee, all’interno dell’ordinamento dello stato. Sul piano culturale, appoggiando l’istruzione dei pigmei attraverso scuole gestite da loro stessi, per proteggere e valorizzare le varie forme espressive e artistiche originali. Sul piano religioso, l’annuncio evangelico viene inserito rispettando la religiosità dei pigmei.

Padre Antonio, appoggiato dal fratello Benito, insegnante in pensione, da Alexandre Muhongya, già collaboratore dei Piccoli fratelli di De Foucauld, e da padre Piero Lombardo (poi spostatosi verso Sud, oltre Byakato), ha continuato a consolidare il progetto Etabe. A ciò hanno contribuito alcuni gruppi pigmei, i quali hanno aiutato a costruire le capanne in legno e fango, ricevendo in cambio assistenza sanitaria e beni di prima necessità, come cibo e vestiario.

I diritti dei pigmei

Il progetto Etabe si è sviluppato a partire dal 1994, quando venne edificata la missione a Mikelo-Kadodo, poi chiamata semplicemente Kadodo. Sempre con l’aiuto dei pigmei, sono state realizzate diverse opere, tra cui una cappella in legno, bambù e lamiere ondulate; un laboratorio di falegnameria; un magazzino; un ufficio; un piccolo refettorio; una cucina con l’alloggio per il personale della cucina; un piccolo dispensario con camera da letto per le infermiere; un laboratorio di sartoria.

Nell’arco di quasi 30 anni molto è stato fatto, sia per proteggere la cultura e le attività tradizionali dei Pigmei, sia per fornire loro conoscenze teorico-pratiche al fine di alfabetizzarli e insegnare utili saperi artigianali.

«Con il progetto aiutiamo i pigmei a convivere con la modeità, e allo stesso tempo manteniamo viva la loro cultura e la loro civiltà. Per esempio, quando inizia il periodo dedicato alla caccia tradizionale, i bambini al mattino non frequentano la scuola, ma sono liberi di andare in foresta coi genitori per imparare a cacciare. Gli scolari sono accompagnati anche dai maestri che insegnano loro le caratteristiche e i nomi delle piante e degli animali. È una conoscenza diretta della natura che li circonda e da cui traggono sostentamento. I maestri, dopo l’esperienza sul campo, danno loro dei compiti da svolgere».

Continua il missionario: «Questo metodo è importante per valorizzare la loro cultura, per permettere ai pigmei di capirla a fondo, documentarla. In questo modo non rischia di andare perduta. Vivendola e praticandola viene conservata. Ma l’economia di caccia non è più sufficiente per permettere loro di sopravvivere. Decenni fa, nella foresta, vivevano poche centinaia di persone, e i clan di pigmei si suddividevano le zone. Con l’arrivo degli stranieri, delle multinazionali del legno, dei cacciatori e dei bracconieri, la selvaggina e le altre risorse naturali sono sempre più scarse. In passato i pigmei cacciavano secondo i bisogni quotidiani, rispettando il ciclo ecologico. Ma ormai anche questa attività non sempre da risultati.

Inoltre è sempre più pericoloso andare a caccia o raccogliere erbe e frutti, a causa della presenza di mine antiuomo.

Ecco che insegnando non solo a leggere e a scrivere, ma anche conoscenze di meccanica e di falegnameria, i pigmei imparano un mestiere. Da qui la decisione di creare gli atelier artigianali. Quando hanno appreso bene le tecniche, foiamo ai pigmei l’attrezzatura per lavorare. Così vanno al villaggio più vicino e riparano le bici o le motociclette».

Un progetto scomodo

Proprio perché difende i diritti di questo popolo, padre Antonio ha subito minacce. Più volte la missione e la sede del progetto Etabe sono state prese di mira da ribelli e da chi è contrario a una possibile emancipazione dei pigmei. «Nel 2003 – ci racconta padre Antonio – i soldati governativi hanno distrutto e saccheggiato la missione che avevamo a Etabe. Hanno portato via attrezzi di meccanica, falegnameria e strumenti elettrici. Nel fango e in mezzo all’erba hanno lasciato brandelli di abiti, quadei e libri della scuola». Secondo padre Antonio quel saccheggio nascondeva la volontà di attuare un genocidio programmato contro la popolazione dei pigmei. Questi si sono salvati miracolosamente grazie alla pronta fuga e poi all’intervento degli osservatori Onu, all’epoca guidati dal generale italiano Roberto Martinelli.

Ci spiega padre Antonio: «Per farmi paura i soldati governativi hanno persino divelto materassi e sollevato i mattoni del pavimento di casa, perché pensavano avessi nascosto qualcosa di prezioso. Mi hanno distrutto tutto alla missione. Per ben due volte ho ricominciato da zero.

Nel 2015 sono dovuto fuggire con mio fratello, perché i gruppi ribelli erano arrivati vicino a casa nostra. Nella missione a Etabe, in piena foresta, non possiamo più andare perché è circondata da milizie. A Mangina (località a 65 km dalla missione, ndr) sono state saccheggiate numerose case. Il parroco locale ci aveva esortato ad andarcene. Anche lui è stato costretto a scappare. A Beni vengono ammazzate in media due persone al giorno. L’Onu è un semplice osservatore. I caschi blu distribuisce la carità. Non intervengono. Si spostano protetti nei loro fuoristrada».

Voglia di continuare

Tante amici in Italia hanno implorato padre Antonio di abbandonare il progetto, di non rischiare più andando in una zona così pericolosa. Ma lui non si perde d’animo, nonostante sia stato minacciato più volte dal capo locale dei Babila: «Questo gruppo è contrario al progetto per varie ragioni», ci dice padre Antonio. «La più importante è razziale. I pigmei non sono considerati uomini e la loro etnia non viene riconosciuta a livello ufficiale. Questo accade da sempre, sin da prima del colonialismo. Poi con Mobuto la situazione è peggiorata. I pigmei durante il mobutismo venivano costretti a sposarsi e a mescolarsi con le altre etnie, per far sì che, progressivamente, la loro scomparisse. Ma la discriminazione verso i pigmei la si può vedere anche in coloro che apparentemente fanno del bene. Per esempio, chi va in Africa con l’idea che si debba “civilizzare” gli africani è spinto da un principio razzista, a scopo di bene, certo, ma è comunque mosso da atteggiamenti patealistici e di superiorità. Tante volte, quando faccio notare questa subdola forma di razzismo, mi si obietta: “Ma come? Tu non civilizzi quella gente”? E io immancabilmente rispondo che “No, io mi sono fatto civilizzare dai pigmei, perché ho imparato il rispetto delle culture proprio stando con loro”».

A padre Antonio e a suo fratello le autorità non hanno concesso una scorta per la protezione nei loro spostamenti. «Noi abbiamo richiesto la scorta a Beni – ricorda padre Antonio – e ci hanno risposto che dovevamo rivolgerci agli uffici della sicurezza di Kinshasa. I funzionari a Kinshasa ci hanno detto che dovevamo munirci di determinati documenti. E così è iniziato il girone infinito della burocrazia congolese. Rimane il fatto che non abbiamo ancora la scorta. Negli ultimi anni, anche da parte dell’Onu non ho trovato appoggi. Solo alcuni amici locali ci aiutano».

Nonostante la mancanza di sicurezza, padre Antonio, in Italia per vacanza “forzata”, sta già pianificando il ritorno nel Nord Kivu. «È da tempo che non riesco a raggiungere la mia missione a causa dei massacri. Sono stato costretto più volte a fermarmi a Mangina, perché la strada era taglieggiata dai soldati e dai banditi. Anche se cammino col bastone devo tornare. I pigmei mi aspettano, hanno bisogno che continui la mia opera».

Silvia C. Turrin


Archivio MC

Abbiamo parlato di pigmei in: Marco Bello, Echi dalla foresta, ottobre 2012.




Trincee dimenticate


Senza sbocchi sul mare, in prevalenza montagnoso, teoricamente parte dell’Azerbaigian, di fatto occupato dall’Armenia, il Nagoo-Karabakh (o Artsakh) è uno stato non riconosciuto da alcun paese al mondo. Quasi scomparsi gli azeri musulmani (appoggiati dall’Azerbaigian), l’attuale popolazione è armeno cristiana. Ignorato da tutti, in questa enclave il conflitto non è però mai terminato. Come testimoniano gli scontri e i morti del 2016.

Alle frontiere dell’Europa, dimenticato da tutti, c’è un luogo dove migliaia di giovani bruciano le loro esistenze nel fango e nel gelo delle trincee, mese dopo mese, anno dopo anno. Un luogo dove il tempo sembra sospeso da più di vent’anni all’epoca della Grande Guerra, come in un’oscura maledizione da cui nessuno riesce più a liberarsi. Ma anche un luogo da favola, fatto di paesaggi incontaminati, gente dal cuore antico, splendidi monasteri e ottimo cibo prodotto in loco da mani sapienti. È il Nagoo-Karabakh: un luogo dal nome che evoca, ai pochi che lo conoscono, uno dei conflitti più dimenticati del nostro tempo, a cui tutti – anche la comunità internazionale – sembrano essersi oggi arresi con un odioso fatalismo, quasi fosse un evento naturale e inevitabile.

Ma questo territorio, ricco di poesia e contraddizioni, è molto di più. Il Nagoo-Karabakh – per chi lo conosce in prima persona – non è soltanto una guerra: dai suoi tanti villaggi, dove si aprono squarci di grande umanità ma anche di vera disperazione, alla sua capitale de facto, Stepanakert – sonnolenta eppure ridente città di provincia -, fino alla natura che sembra avere la meglio – a tratti – sulla follia dell’uomo e sulle sue bandiere di morte. E non mancano anche moschee e minareti, in questo fazzoletto di terra, a ricordarci che – prima del drammatico spartiacque della guerra tra Armenia e Azerbaigian, scoppiata con la dissoluzione dell’Urss nel 1991 – questa era una terra plurale da un punto di vista etnico e religioso. Il Nagoo-Karabakh porta con sé storie di fughe e abbandoni, di rancore e nostalgia, di molti che questa terra amara e dolce – dove ci sarebbe posto per tutti – l’hanno dovuta lasciare per sempre. Ci riferiamo alle centinaia di migliaia di azeri che, da un giorno all’altro – con l’esplosione del conflitto – hanno dovuto abbandonare le loro case e i loro beni a rischio della vita.

Il Nagoo-Karabakh è oggi uno stato non riconosciuto da alcun paese al mondo, ed è tuttora ufficialmente parte della repubblica dell’Azerbaigian. Ma è anche un crogiuolo di storie che si incrociano, storie di chi, vent’anni fa, è stato costretto a partire senza poter più ritornare e di chi ci è arrivato partendo da lontano. Perché in questo lembo di terra si trovano anche migliaia di profughi che sono dovuti fuggire dall’Azerbaigian in quei drammatici anni, insieme – più di recente – ad alcune decine di famiglie di cristiani armeni (in molti casi, figli e nipoti dei sopravvissuti al genocidio armeno del 1915), fuggiti dalla guerra in Siria.

Anno 1991: lo scoppio

La questione del Nagoo-Karabakh è nata col tramonto del sistema sovietico che – pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni – era riuscito a tenere a bada antiche tensioni più volte riesplose fra cristiani armeni e musulmani azeri, due popolazioni che per lungo tempo avevano condiviso nel bene e nel male i frutti di questa terra. «Nel nero velluto della notte sovietica», come la definiva il poeta russo Osip Mandelstam, le questioni di nazionalità – come ogni altro tema politico – erano semplicemente bandite, o tuttalpiù materia da discutere di nascosto, fra le quattro mura di casa. Con la Perestrojka di Gorbaciov, quel silenzio ha avuto finalmente fine. Senonché, come una pentola a pressione tenuta coperta per troppo tempo, lo scoppio è arrivato ancora più forte e fragoroso, provocando una improvvisa e irrefrenabile violenza. Il Nagoo-Karabakh è un piccolo territorio, grande poco più della Basilicata o dell’Abruzzo, situato nel Caucaso del Sud, una regione stretta fra tre giganti: la Turchia, la Russia e l’Iran. Oggi vi si trovano poco meno di 150.000 abitanti. Il genio criminale di Stalin decise, per ragioni di opportunità politica, di assegnarlo negli anni venti alla Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian, nonostante vi si trovasse già all’epoca una larga preponderanza di armeni. Una maggioranza non omogenea, allora, in una terra – il Caucaso – da sempre declinata al plurale. Cosa che si evince anche dal nome di questo stato non riconosciuto: Nagoo-Karabakh, tre lingue che si fondono in un solo toponimo. Il «giardino nero di montagna», così potremmo tradurlo in italiano, è un’espressione che coniuga russo («nagoo», che vale per montagnoso), turco («kara», ovvero di colore nero) e persiano («bakh» significa giardino). I suoi abitanti, invece, preferiscono chiamarlo con il toponimo esclusivamente armeno di Artsakh.

Ebbene, con l’entrata in crisi dell’Urss alla fine degli anni Ottanta, la maggioranza armena del Karabakh si attiva per rivendicare l’indipendenza dall’Azerbaigian e ricongiungersi con l’Armenia. Lo fa con un referendum, nel 1991. Una cosa inaccettabile, per gli azeri, tant’è vero che ne nascerà un conflitto destinato a durare per un quarto di secolo, arrivando fino ad oggi.

Bilancio di una guerra lontana dai riflettori

Trentamila morti, oltre un milione fra profughi e sfollati (vedi riquadro), interi villaggi rasi al suolo, una corsa agli armamenti che produce povertà e insicurezza: questo il tragico bilancio di un conflitto che in molti, per lungo tempo, si sono ostinati a considerare congelato. Questo almeno fino all’inizio di aprile, di quest’anno, quando la tensione è tornata a esplodere incontrollata. Oltre trecento morti in quattro giorni di scontri, fra carri armati ed elicotteri abbattuti, e ancora interi villaggi da cui la popolazione civile è stata costretta a sfollare. Quest’improvvisa esplosione di violenza ha riportato a galla una questione – quella del Karabakh – a lungo sepolta, sempre lontana dai riflettori. Ma non si è sparato soltanto ad aprile. Morti lungo quella lunghissima frontiera si hanno praticamente ogni mese, se non ogni settimana, da tantissimi anni. Il cessate il fuoco raggiunto nel maggio del 1994 ha prodotto uno stallo diplomatico a cui non è seguito alcun accordo di pace. Ogni iniziativa diplomatica è naufragata, e così – nonostante periodi di calma apparente – non si è mai finito di morire.

Per gli armeni, che la guerra l’hanno vinta conquistando per intero il territorio, questa terra è loro, tant’è vero che l’hanno proclamata repubblica indipendente, pur senza riuscire a giungere ad alcun riconoscimento internazionale. Il Karabakh si è provvisto di un presidente, un parlamento e istituzioni, ed elegge con votazioni democratiche i suoi rappresentanti. Per gli azeri, invece, che non si sono rassegnati alla sconfitta, questa terra non può essere che loro, e puntano a riavere indietro tutto il territorio conteso.

Benvenuti a Stepanakert

Ma come si presenta il Nagoo-Karabakh, e come ci si arriva? Si tratta di una regione quasi inaccessibile, senza alcun aeroporto attivo, che si raggiunge solo via terra attraverso un’unica, tortuosissima strada, che parte dall’Armenia. Tutte le altre vie e frontiere sono chiuse e inaccessibili. Giunti al confine di questo stato che non c’è, per entrare alla fine basta un visto – curiosamente scritto a mano – rilasciato a una piccola dogana, ma anche presso un ufficio di rappresentanza a Yerevan.

Dopo circa sei ore di viaggio dalla capitale armena, in macchina o in autobus, si arriva a Stepanakert, il centro maggiore della regione. Si tratta di una cittadina di oltre 50.000 abitanti che, a differenza di tutti gli altri centri urbani del Karabakh, si trova in un ottimo stato. Qui hanno sede il parlamento e le varie istituzioni dell’autoproclamata repubblica, ma anche molti negozi, ottimi ristoranti, e persino un pub dove si può assaggiare una birra prodotta in loco. Nonostante la tensione resti alta, si è persino riusciti a sviluppare, pur senza toccare grandi numeri, il settore turistico. Vi si trovano così diversi ottimi alberghi, e persino un piccolo ufficio turistico nel centro di Stepanakert.

Ma onnipresente è la guerra, almeno nel pensiero. Qui tutti hanno combattuto, tutti hanno parenti o amici che hanno perso la vita. Sotto l’apparenza di normalità, scorrono vene profonde di dolore, per quanto non subito percettibili. Eppure, in superficie, l’atmosfera di provincia è quella che si respira in ogni altra parte del mondo. In piazza della Repubblica, che costituisce il cuore di questa cittadina, fra una macchina e l’altra si può sentire il frinire dei grilli anche in pieno giorno. Gli sforzi per tirare a lucido la città – anch’essa distrutta dalla guerra – sono stati notevoli, e il risultato è tutt’altro che sgradevole.

Benvenuti a Shushi

Ben diverso il caso di Shushi (chiamata ?u?a in lingua azera). Nonostante gli sforzi del governo, la cittadina non si è più ripresa dal conflitto. Benché sia solo a pochi chilometri da Stepanakert, i prezzi delle case sono molto più bassi. Facile capire il perché: molti gli edifici abbandonati, e ancor più numerosi quelli che portano segni di proiettili o esplosioni. Tutto qui odora di macerie. Le nuove costruzioni, molto curate – un ufficio del turismo, il mercato coperto e un albergo di proprietà di un armeno libanese – non fanno che mettere in risalto ancor più la desolazione circostante, in contrasto stridente. Qui i bambini giocano alla guerra fra gli edifici sventrati dalle bombe, mentre gli adulti – in molti casi profughi che hanno lasciato l’Azerbaigian negli anni Novanta – trasudano disperazione.

Tanti anche i monumenti che raccontano il passato multietnico della città, ormai perduto, e la storia di questo conflitto: due moschee e una scuola coranica, alcune case di chiara impronta islamica. La cittadina di Shushi – situata su un’altura da cui le truppe azere bombardavano notte e giorno Stepanakert – fu al centro della battaglia più importante della guerra del Nagoo-Karabakh. La sua presa nel 1992 da parte degli armeni rappresentò una svolta del conflitto, e tutti qui ancora la ricordano con emozione. Prima dell’entrata nella città, provenendo dalla capitale, un carro armato T-72 – usato dagli armeni e divenuto simbolo della vittoria – è lì a ricordarlo.

Freddo, fango e filo spinato

La strada che congiunge la capitale de facto, Stepanakert, alla cittadina di Martakert è un vero pugno allo stomaco. Uno dopo l’altro scorrono, accanto a chi la percorre, villaggi distrutti e in rovina. Il caso più celebre è quello di Aghdam, chiamata l’Hiroshima del Caucaso, dato che è completamente rasa al suolo. Terribile anche la situazione in cui versa il villaggio di Talish, dove si è combattuto casa per casa ad aprile, e la popolazione è oggi interamente sfollata.

A pochissimi chilometri dalla strada e da questo villaggio, scorre l’infinita frontiera con l’Azerbaigian dove, da una parte e dall’altra, i giovani del Caucaso trascorrono il loro tempo chiusi in trincea. Uno spettacolo agghiacciante: ragazzi con un kalashnikov in mano che, nel freddo e nel fango, prigionieri di una noia e di una solitudine impossibili da combattere, passano le loro giornate in condizioni di estrema povertà e privazioni. Lungo il filo spinato, pendono barattoli di latta, usati – insieme ai cani lupo alla catena – per prevenire possibili incursioni. La tecnologia pare completamente assente, in un paesaggio in tutto e per tutto simile a quello della prima guerra mondiale.

Una waste land che è un fallimento di tutti, e non solo dei governi locali. Tutti i tentativi – invero neanche troppo convinti – dell’Ue, della Russia e degli Stati Uniti per arrivare a una soluzione diplomatica sono naufragati. Il risultato è paradossale, assurdo. Una terra a bassissima densità abitativa, verde, boschiva e dall’enorme potenziale per allevamento e agricoltura, resta così imprigionata in un limbo che ha l’amaro sapore dell’inferno. Entrambi membri del Consiglio d’Europa, Azerbaigian e Armenia mandano a morire i loro figli, compromettendo il loro stesso futuro, ormai da un quarto di secolo per contendersi questo fazzoletto di terra privo di risorse quali petrolio o gas. Un grido, il loro, troppo a lungo dimenticato, qui ed altrove.

Simone Zoppellaro*

 

* Simone Zoppellaro, giornalista freelance, per 7 anni ha lavorato fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. È corrispondente per l’Osservatorio Balcani e Caucaso. Scrive tra gli altri per il Manifesto e La Stampa. Autore del libro «Armenia oggi» (Guerini e Associati). Roberto Travan, giornalista professionista. Come fotografo indipendente ha seguito le missioni militari italiane in Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Kosovo. Ha documentato la guerra in Ucraina e le recenti tensioni in Tunisia. Per i servizi realizzati in Nagoo-Karabakh, non potrà entrare in?Azerbaigian per i prossimi 5 anni. I suoi servizi sono stati pubblicati da La Stampa – giornale in cui lavora dal 1989 – e tradotti in diverse lingue.

 




I dolori di Pristina


Dallo scorso febbraio il presidente della piccola repubblica è Hashim Thaçi, già leader del (controverso) Esercito di liberazione (Uçk). Sopito (ma tutt’altro che superato) il conflitto etnico con la minoranza serba, oggi il Kosovo rimane un paese in gravi difficoltà e con vari leader accusati di crimini di guerra e contro l’umanità.

26 febbraio 2016. Il parlamento di Pristina, capitale del Kosovo, elegge il nuovo presidente della giovane repubblica. Al terzo scrutinio, con 71 voti su 120,  viene nominato Hashim Thaçi, leader del «Partito democratico del Kosovo» (Pdk).

L’elezione di Thaçi, frutto di accordi politici tra il Pdk e il partner di governo, la «Lega democratica del Kosovo» (Ldk), non arriva a sorpresa: il segretario del Partito democratico è da tempo uno degli uomini politici kosovari più in vista. Nel 1999, durante la guerra combattuta – col supporto decisivo dell’aviazione Nato – per ottenere l’indipendenza dalla Serbia di Slobodan Miloševi?, Thaçi ha vestito i panni di leader politico e militare della guerriglia albanese-kosovara, «eroe» dell’«Esercito di Liberazione del Kosovo» (Uçk).

Il 17 febbraio 2008, stavolta come primo ministro, Thaçi era stato l’uomo che aveva pronunciato la sospirata dichiarazione di indipendenza del Kosovo, accolta con giubilo dalla folla festante nelle strade e piazze di Pristina.

A prima vista, l’investitura di Thaçi avrebbe dovuto quindi segnare non solo il coronamento della sua carriera politica, ma anche un momento di unione e celebrazione dell’intera società kosovara. Le cose, però, non sono filate così lisce.

Il dibattito che ha preceduto il voto è stato interrotto più volte dall’opposizione che – come già successo a più riprese nei mesi precedenti – ha tentato di bloccare la procedura lanciando fumogeni nell’aula parlamentare: protesta che ha portato all’espulsione di numerosi deputati.

Nelle strade del centro di Pristina, intanto, sono andate in scena pesanti scontri tra polizia e manifestanti, soprattutto sostenitori del movimento radicale Vetevendosje («Autodeterminazione») scesi in piazza al grido «Thaçi corrotto!», e terminati con un pesante bilancio di arresti e feriti.

Le parole solenni di Thaçi dopo la sua investitura – «Mi impegno a costruire un nuovo Kosovo, un Kosovo europeo» – non sono bastate a calmare gli animi: l’opposizione ha infatti annunciato ricorsi sulla regolarità del voto alla Corte costituzionale.

E come se non bastasse, il nuovo presidente rischia ora un’incriminazione da parte della nuova Corte speciale, che dal 2016 indagherà sui presunti crimini di guerra dell’Uçk durante e dopo il conflitto armato.

Dal parlamento alle piazze

Lo scontro cruento sull’elezione di Thaçi è la fotografia più efficace delle divisioni e fratture che oggi spaccano «il paese più giovane d’Europa», figlio della dissoluzione della Jugoslavia, del conflitto inter-etnico tra la comunità albanese e quella serba, di una guerra sanguinosa e della contestatissima dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia (oggi riconosciuta da più di 100 paesi, ma non dalla stessa Serbia, né da Russia, Cina e cinque paesi dell’Ue) del 2008.

La prima faglia si trova nelle difficoltà del sistema politico di dare vita a una democrazia sostanziale. Le ultime elezioni (giugno 2014), hanno disegnato un parlamento diviso, con il Pdk di Thaçi da una parte e una coalizione di partiti d’opposizione decisi a detronizzarlo dall’altra. Incapaci di trovare una soluzione mediata, i leader kosovari hanno dato vita a un autistico muro contro muro, che ha lasciato il paese senza governo per quasi sei mesi.

La crisi è stata risolta solo con il pesante intervento della comunità internazionale, che ha portato a un «patto innaturale» tra il Pdk e il principale partito d’opposizione, la Ldk, che ha voltato le spalle al patto anti Thaçi.

L’esito di quello scontro ha sciolto il nodo del governo, ma ha esacerbato la vita politica kosovara, portandola ad un livello parossistico di costante tensione, con l’opposizione ormai convinta di non avere alcuna possibilità di arrivare al potere tramite le ue.

Il confronto si è spostato quindi sempre di più nelle piazze, e qui ha incontrato una seconda faglia, quella che ancora divide il Kosovo lungo linee etniche.

La protesta si concentra infatti su alcuni aspetti dello storico accordo sulla normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia raggiunto nell’aprile 2013. L’intesa, primo accordo formale firmato dai due avversari, prevede un faticoso scambio: Belgrado si impegna a non interferire negli «affari interni» del Kosovo, smantellando le sue strutture di sicurezza ancora presenti sul territorio dell’ex provincia, Pristina acconsente alla creazione di una «Associazione delle municipalità serbe in Kosovo», che dovrebbe garantire ai serbi rimasti di godere di un’ampia autonomia locale.

Il vero obiettivo dell’intesa è «normalizzare» la situazione nel Nord del Kosovo, area a grande maggioranza serba che, dalla guerra del ‘99, rifiuta ogni tipo di integrazione nelle istituzioni di Pristina (leggere riquadro).

Quella che per il governo kosovaro è una concessione dolorosa, ma necessaria, per l’opposizione è un patto scellerato che rischia di creare un’ingestibile «entità serba» in Kosovo, sul modello della «Republika Srpska» (Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina) in Bosnia.

Una prospettiva da contrastare a tutti i costi, sia nell’aula parlamentare, trasformata in una curva di stadio, che nelle strade e piazze del Kosovo.

Fuga dalla povertà

Se la politica arranca, ampie fasce della società attraversano acque estremamente agitate. Il Kosovo resta una delle aree più povere del continente europeo, con un’economia basata soprattutto sulle rimesse della diaspora e sul consumo privato, mentre la produzione resta quasi assente.

Dopo anni relativamente positivi, il 2014 ha segnato lo stallo dei principali indicatori, con una debole crescita del Pil (0,9%), l’aumento del deficit nella bilancia dei pagamenti (-8%) e un calo negli investimenti diretti dall’estero (-2,3% del Pil).

Il dato più preoccupante riguarda però la mancanza di lavoro. Se il tasso di disoccupazione generale è al 35,3% (oltre il 38% tra le donne) quello giovanile registra il 61%.

Secondo i report della Commissione europea, il Kosovo è oggi in Europa il paese con i più bassi tassi di occupazione e partecipazione attiva alla vita economica.

Una situazione ormai incancrenita, che negli ultimi anni ha spinto decine di migliaia di persone a cercare opportunità di vita migliore nei paesi ricchi dell’Europa centro-settentrionale, utilizzando lo strumento della richiesta di asilo politico.

Un escamotage reso necessario dal fatto che il Kosovo – unico tra i paesi della regione – rimane ancora escluso dalla politica di liberalizzazione dei visti con l’area Schengen. Dalle 20mila richieste depositate da cittadini kosovari in stati Ue nel 2013, si è passati alle 37mila dell’anno successivo, fino ad arrivare a una vera esplosione nel corso del primo semestre 2015: ben 62.860 richieste.

Un vero e proprio esodo (la popolazione totale del paese è circa due milioni di abitanti), che è stato tamponato con una forte stretta sui controlli alle frontiere e con migliaia di rimpatri, volontari o forzati. Le cause profonde alla base della fuga non sono però state risolte. Accanto a difficoltà economiche e disoccupazione, ad affossare le speranze nate con la dichiarazione d’indipendenza del 2008 sono anche la corruzione diffusa, l’emarginazione di gruppi sociali ed etnici (come ad esempio i rom), la scarsa qualità dei servizi foiti dallo stato.

Tutti fattori che contribuiscono all’infiammabilità della situazione sociale e politica e, secondo molti osservatori, costituiscono terreno fertile per la tentazione jihadista. Secondo varie stime, circa 300 giovani kosovari si sono arruolati negli ultimi anni nelle fazioni più radicali impegnate nei conflitti in Siria e Iraq, come il fronte al-Nusra e il sedicente Stato islamico.

Numeri preoccupanti, che oggi fanno del Kosovo il paese europeo col maggior numero di foreign fighters pro capite, nonostante le frequenti operazioni di polizia e forze di sicurezza contro il fenomeno.

Accuse di crimini

Nonostante la prossima entrata in vigore dell’«Accordo di stabilità e associazione» con l’Ue, primo ed importante passo sulla strada dell’integrazione, il Kosovo resta oggi il paese balcanico più lontano da una futura membership europea.

Al tempo stesso, però, dal febbraio 2008 il paese ospita Eulex (European Union Rule of Law Mission) – la più grande missione Ue all’estero – schierata da Bruxelles per aiutare Pristina a consolidare le proprie istituzioni, soprattutto nel campo giudiziario e nella lotta a criminalità organizzata e corruzione.

Forte di 1.600 membri e di un budget annuale intorno ai 110 milioni di euro, Eulex – attualmente guidata dal diplomatico italiano Gabriele Meucci – è partita con grandi aspettative, ma si è scontrata sul terreno con la resistenza di parte della società kosovara e con una capacità limitata di incidere nel cambiamento, soprattutto sull’obiettivo centrale delle sue attività: la lotta a corruzione e criminalità organizzata. Già nel 2012 un report della Corte dei conti europea metteva in risalto che l’attività di supporto di Eulex era stata generalmente inefficace, mentre la corruzione rimaneva «endemica» in Kosovo.

A intaccare ulteriormente la credibilità della missione, nel 2014 è poi arrivato un grave scandalo: Maria Bamieh, procuratore britannico, ha accusato pubblicamente Eulex di aver coperto un caso di corruzione giudiziaria al proprio interno. Le accuse hanno spinto Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, a chiedere un rapporto sullo stato della missione, affidato a Jean-Paul Jacqué, professore di diritto francese.

Il rapporto, pur smentendo le accuse di corruzione, ha gettato però una certa luce sulle gravi carenze strutturali della missione, che è parsa incapace, o disinteressata, a combattere fino in fondo l’élite criminale che, in Kosovo, si sovrappone significativamente all’élite politica.

Nel frattempo, una nuova iniziativa europea ha fatto irruzione sullo scenario kosovaro, in risposta al rapporto prodotto nel 2010 per il Consiglio d’Europa dal senatore svizzero Dick Marty. In quel rapporto venivano accusati vari leader di spicco dell’Uçk, oggi leader politici, di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, soprattutto nei confronti delle comunità serba e rom. Secondo Marty, tra i crimini commessi c’è anche quello – infamante – dell’espianto di organi a prigionieri a fini di lucro.

Per indagare su accuse così pesanti, l’Ue ha creato una Special Investigative Task Force (Sitf), che nel 2014 ha confermato la fondatezza del «rapporto Marty». Ora le prove e le imputazioni raccolte dalla Sift aspettano di essere presentate di fronte a una «Corte speciale», che dovrebbe aprire i battenti entro il 2016.

Ufficialmente la Corte fa parte del sistema giudiziario kosovaro, ma avrà sede all’Aja, per proteggere i testimoni da pressioni e minacce, problema che ha minato molti dei processi a ex leader Uçk già tenuti dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, terminati in gran parte in contestate assoluzioni.

Tra i nomi dei possibili imputati, il più discusso è proprio quello del neo presidente Hashim Thaçi, citato più volte nel rapporto Marty come «esponente di spicco del mondo criminale kosovaro», ma anche numerosi leader, sia della compagine governativa che dell’opposizione.

Difficile prevedere l’impatto della Corte sulla vita politica del Kosovo: potenzialmente, il nuovo tribunale potrebbe però causare un vero terremoto a Pristina e dintorni.

Giovani con voglia di futuro

Nonostante la situazione socio-economica e politica, segnata più da ombre che da luci, tanti kosovari, soprattutto tra i giovani, non si rassegnano al presente e cercano con determinazione di costruire la propria strada verso il futuro. Un esempio importante è quello del gruppo di lavoro – cornordinato dal fondatore e amministratore delegato Mergim Cahani – di «Gijrafa.com», piattaforma e motore di ricerca tutto dedicato alle informazioni online in lingua albanese. Un progetto coltivato per anni e che, recentemente, ha attirato investimenti per oltre due milioni di dollari, cifra ragguardevole per il Kosovo.

Anche nel cinema le idee e le proposte non mancano. Nato nel 2002 per iniziativa di un gruppo di amici, il DokuFest di Prizren, città nel Kosovo Sud occidentale, è diventato negli anni uno dei punti di riferimento per il cinema documentario a livello sia europeo che internazionale e, nel 2014, ha registrato non meno di 18mila presenze. Più recentemente, nel 2015, è stata invece una produzione anglo kosovara a far parlare di sé: il cortometraggio Shok («Amico»), diretto dalla regista inglese Jamie Donoughue, ma con un cast tutto kosovaro che, dopo aver vinto numerosi riconoscimenti, è stato nominato agli Oscar 2015 nella categoria «film brevi».

Se c’è una storia che più di ogni altra rappresenta la voglia di farcela nonostante tutto, è però quella di Majlinda Kelmendi. Nata nel 1991 a Peja/Pe?, Majlinda si è imposta negli ultimi anni come uno dei talenti più puri del judo internazionale vincendo quasi tutto quello che si può vincere – campionato del mondo incluso – nonostante tutte le difficoltà dovute allo status incerto della federazione kosovara.

Ai giochi olimpici di Londra 2012 Majlinda ha dovuto partecipare con la squadra dell’Albania, visto che all’epoca il Kosovo non era stato ancora ammesso al Comitato olimpico internazionale. Oggi, però, dopo l’ingresso a pieno titolo del paese (2014), Majlinda può realizzare il suo sogno ed entrare nella storia: portabandiera designato, durante la cerimonia di apertura dei giochi di Rio de Janeiro di questa estate sarà la prima a far sventolare alle Olimpiadi i colori del Kosovo.

Francesco Martino