Pakistan. La chimera della libertà


I rapimenti e le conversioni forzate di ragazze cristiane e di altre minoranze religiose sono solo la punta dell’iceberg delle violazioni alla libertà religiosa nel Paese asiatico. L’instabilità politica, le leggi anti blasfemia, le formazioni estremiste rendono pericolosa la vita del 4% di popolazione non musulmana.

Huma Younous, Zarvia Pervaiz, Meerab Mohsin, Arzoo Raja. Sono alcune delle ragazze pachistane che in questi anni hanno subito rapimenti, violenze, matrimoni forzati e conversioni all’islam.

Conosciamo i loro nomi perché le loro famiglie hanno avuto il coraggio di denunciare, ma rappresentano solo la punta di un iceberg. Il fenomeno delle ragazze rapite in Pakistan a causa della loro fede è una piaga enorme della quale non si conosce precisamente la dimensione.

Si tratta di giovani cristiane in un Paese in cui il 96 per cento della popolazione è musulmana. A finire in questa spirale di violenze, però, ci sono giovani anche delle altre minoranze religiose.

Una tragedia inascoltata

Secondo un rapporto del Center for social justice (Csj), Ong guidata dal cattolico pachistano Peter Jacob, nel 2021 si sono verificati 78 casi di donne e ragazze (cristiane e indù) rapite, convertite con la forza e sposate da uomini musulmani. Il 76 per cento di queste erano minorenni.

Il numero di casi registrati nel 2021, afferma il Csj, è aumentato dell’80 per cento rispetto all’anno 2020. Ma le famiglie che, per mancanza di soldi o coraggio, vivono nel silenzio questa situazione sono molto più numerose di quelle registrate.

Una tragedia che spesso si consuma nell’indifferenza della comunità internazionale.

C’è voluto il docufilm The losing side, presentato al Festival di Cannes 2022 e vincitore di un premio nella categoria Best human rights film, per fare conoscere al grande pubblico questo dramma.

Protezione legale

A sostenere da anni i diritti di alcune di queste giovani c’è una coraggiosa avvocata cattolica, Tabassum Yousaf. Lei stessa in passato ha ricevuto minacce e ora è schierata per la difesa dei diritti delle minoranze. «Fornisco assistenza legale alle nostre donne vulnerabili e alle ragazze minorenni che sono state vittime di abusi sessuali, discriminazioni, conversioni e matrimoni forzati», cioè soggetti non adeguatamente tutelati «a causa delle lacune nella legge».

Il Pakistan, spiega l’avvocata che porta avanti progetti sui diritti umani anche con la diocesi di Karachi, è «firmatario di trattati internazionali» per cui «abbiamo fatto leggi, ed emendamenti alle leggi, per dare protezione alle minoranze, alle donne e ai bambini», ma, nonostante ciò, «molti di questi provvedimenti sono rimasti sulla carta».

Le minoranze

Se il fenomeno dei rapimenti e delle conversioni forzate delle giovani donne è tra le questioni più gravi, complessivamente in Pakistan si registrano violazioni della libertà di fede tra le maggiori nel mondo.

La popolazione è quasi interamente musulmana, composta principalmente da sunniti (circa l’85 per cento della popolazione) mentre gli sciiti rappresentano il 10 per cento. Le minoranze religiose, prevalentemente cristiane, indù e ahmadi, più alcuni baha’í, sikh, parsi e una comunità ebraica, sono in calo. Tutte le minoranze messe insieme costituiscono complessivamente tra il 3,6 e il 4 per cento della popolazione. Tutte subiscono discriminazioni, quando non vere e proprie persecuzioni.

La comunità ebraica è praticamente in via di estinzione: secondo le statistiche ufficiali conterebbe tra le 2.000 e le 2.500 persone, ma fonti della stessa comunità ritengono che nel Paese ne siano rimaste circa ottocento, sugli oltre 200 milioni di abitanti complessivi.

Per quanto riguarda la persecuzione relativa alla minoranza cristiana, il Pakistan, nella World watch list della ong Open doors, è collocato al settimo posto nel mondo, ovvero tra i Paesi dove meno è rispettata la libertà di fede (dopo Corea del Nord, Somalia, Yemen, Eritrea, Libia e Nigeria).

Le leggi sulla blasfemia

Lo status delle minoranze religiose è ulteriormente influenzato dalle cosiddette «leggi sulla blasfemia», introdotte nel Paese dal generale Zia-ul-Haq tra il 1982 e il 1986. Non si tratta propriamente di leggi, ma di emendamenti al codice penale pachistano che, di fatto, limitano la libertà di religione e di espressione. I reati punibili includono la «profanazione» del Corano e le offese al profeta Maometto, che comportano rispettivamente come pena massima l’ergastolo e la condanna a morte.

Nonostante i richiami, a dire il vero timidi, della comunità internazionale affinché venga abolita questa normativa, essa, dall’inizio del 2023, ha invece visto un’ulteriore stretta.

Se prima veniva condannato chi era accusato di avere insultato il Corano o il profeta Maometto, «ora può essere applicata anche per sanzionare chiunque è accusato di avere insultato persone legate al Profeta. Il giro di vite è stato disposto dal Parlamento per inasprire le già rigide leggi nazionali», denuncia la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).

Quanti vengono accusati di avere «insultato» mogli, compagni o parenti del profeta Maometto rischiano, dall’inizio del 2023, 10 anni di carcere, pena che può essere estesa all’ergastolo, oltre a una multa di un milione di rupie.

L’accusa di blasfemia diventa inoltre un reato per il quale non è possibile la cauzione.

L’inasprimento delle pene scaturisce da un disegno di legge presentato da Abdul Akbar Chitrali, parlamentare appartenente a un partito politico religioso.

«L’approvazione del disegno di legge rappresenta un segnale estremamente preoccupante», commenta Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia. «La normativa finora ha di fatto favorito la persecuzione ai danni delle minoranze religiose, a cominciare da quelle cristiana e induista. Ora la situazione inevitabilmente peggiorerà», aggiunge Monteduro. «Spesso i cristiani vengono accusati strumentalmente di blasfemia da soggetti che vogliono semplicemente perseguire interessi privati. Il risultato è che gli accusati o vengono arrestati o diventano preda della reazione violenta delle folle.

La normativa anti blasfemia viene usata anche come arma contro gli avversari politici e il suo inasprimento creerà maggiori opportunità per un suo uso improprio. Così le minoranze religiose, a cominciare da quella cristiana, sono ancora più minacciate».

AFP PHOTO/ Rizwan TABASSUM (Photo by RIZWAN TABASSUM / AFP)

Il caso di Asia Bibi

Il caso più noto, rispetto all’uso di questa legge sulla blasfemia, è quello di Asia Bibi. Per lei, che ha subito dieci anni di carcere duro per essere stata accusata ingiustamente di blasfemia, e che ha rischiato fino all’ultimo momento la pena di morte, c’è stata una mobilitazione internazionale che ha visto in prima linea l’Italia e la Francia.

Il 31 ottobre del 2018 è stata scagionata dalla Corte suprema del Pakistan, ma la donna e la sua famiglia hanno comunque dovuto lasciare il loro Paese per le minacce degli islamisti. Ora vivono in Canada.

«In Pakistan ci sono ancora troppe “Asia Bibi”, nelle prigioni», fa presente Shahid Mobeen, fondatore dell’associazione Pakistani cristiani in Italia e docente di Filosofia presso la Pontificia università urbaniana.

Mobeen contesta il fatto che, in questi anni, quando si è parlato delle minoranze religiose, in Pakistan si è fatto riferimento al «modello della Carta di Medina dei tempi di Maometto» che stabiliva diritti per gli immigrati di altre religioni. «La protezione ben venga ma noi non siamo immigrati sul territorio – sottolinea Shahid Mobeen -, noi abbiamo fondato il Pakistan insieme a Mohammad Ali Jinnah e siamo figli di quella terra. Come cristiani siamo presenti in quel territorio prima ancora che arrivasse l’islam e quindi chiediamo di essere trattati con uguali diritti, con pari dignità e pari opportunità nell’istruzione e nel lavoro perché vogliamo contribuire alla crescita e allo sviluppo del Paese».

Anche nei casi in cui non ci siano veri e propri atti persecutori, i cristiani e gli altri appartenenti a fedi diverse dall’islam sono comunque discriminati nella quotidianità, dall’accesso al lavoro agli aiuti. Nei mesi del Covid sono stati diversi gli appelli alla comunità internazionale affinché venisse condannata anche la discriminazione sanitaria.

I fedeli non appartenenti alla grande comunità musulmana sono a lungo rimasti privi dei dispositivi di protezione o comunque delle condizioni minime che potevano evitare il contagio da coronavirus.

Ahmadi: musulmani, anzi no

In questa situazione nella quale la libertà di fede in Pakistan risulta essere una chimera, c’è il caso particolare degli ahmadi, comunità nata nel 1898 a Qadian, in India, nel periodo in cui vigeva il potere britannico. Il suo fondatore è Mirza Ghulam Ahmad Ahmad.

Alcuni articoli del codice penale pachistano, promulgati nel 1984, hanno reso un reato penale per gli ahmadi definirsi musulmani o chiamare la propria fede islam.

«Dal punto di vista del culto siamo uguali agli altri musulmani: preghiamo cinque volte al giorno, consideriamo Maometto come profeta, abbiamo il Corano come libro sacro. Il ruolo del nostro fondatore non era di dare vita a una nuova religione, bensì di riformare quella del suo tempo», spiegava Ataul Wasih Tariq, imam della comunità ahmadi in Italia nell’ambito di un incontro interreligioso in Vaticano con papa Francesco il 5 settembre del 2022.

Secondo Omar Waraich, responsabile del Dipartimento dell’Asia del Sud di Amnesty international, «ci sono poche comunità in Pakistan che hanno sofferto tanto quanto gli ahmadi».

«Alcune fonti – afferma Aiuto alla Chiesa che soffre nel Rapporto 2020 sulla libertà religiosa nel mondo – riportano che tra il 1984 e il 2019, 262 ahmadi sono stati uccisi a causa della loro fede, 388 hanno subito violenze e 29 moschee ahmadi sono state distrutte. Per legge gli ahmadi non possono avere moschee proprie, né chiamare alla preghiera e, per poter votare, devono essere necessariamente classificati come non musulmani o aderire a una delle correnti principali dell’islam».

Le tensioni politiche, nuovi rischi per i cristiani

Il Pakistan non ha mai goduto di grande stabilità politica e questo ha consentito negli anni la crescita di formazioni estremiste.

I ripetuti attentati nei luoghi di culto e nei quartieri delle minoranze, compresa quella dei musulmani sciiti, non hanno trovato mai una risposta decisa da parte del governo.

Da aprile 2022, con il cambio della guardia, dal governo di Imran Khan a quello del suo principale avversario Shahbaz Sharif, l’instabilità è aumentata. Le sanguinose manifestazioni, sia pro che contro l’ex premier, accusato anche di corruzione, mostrano che la nuova leadership politica è tutt’altro che salda.

L’11 agosto scorso, poi, Sharif ha sciolto l’Assemblea nazionale al termine della legislatura. Il presidente Arif Alvi, al posto di Sharif, ha nominato primo ministro provvisorio Anwaar-ul-haq Kakar per guidare il Pakistan verso le elezioni nazionali.

Il Paese, tra l’altro, ha vissuto in questi ultimi anni anche rovinose alluvioni causate dai cambiamenti climatici.

Per quanto riguarda le minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, questa situazione di incertezza «non aiuta di certo», afferma la ong Open doors. «Negli ultimi anni, con il premier Imran, la radice e i danni del passato sono rimasti intatti, anzi, una certa “narrazione estremista” ha continuato ad essere perpetuata e a far breccia nella popolazione a vari livelli. Quell’estremismo strisciante, spesso sfociato in attacchi alle comunità cristiane oltre [che in] minacce a chiunque difendesse cause [contro le] violazioni dei diritti umani […], non è sparito e purtroppo in momenti di instabilità politica come questo – sottolinea ancora Open doors -, rischia di aumentare la propria influenza».

Presto un giovane santo?

La persecuzione religiosa è talmente radicata in Pakistan che i cristiani di fatto vivono in una perenne trincea. Nella capitale Karachi, la maggior parte dei cristiani vive nel quartiere Essa Nagri (tradotto dall’urdu «il quartiere di Cristo»), dove vivono ammassati e, in qualche modo, trincerati innalzando muri di protezione per sentirsi più sicuri.

Essa Nagri è un quartiere dove le fogne sono a cielo aperto, i collegamenti elettrici precari e anche la sicurezza non è sempre garantita. Nel 2016 qui sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani dai fondamentalisti islamici.

Nella città di Lahore, nel nord del Paese, il quartiere cristiano è invece quello di Youhanabad. Qui vivono circa 130mila cristiani tra cattolici e membri di altre confessioni. Nel quartiere si trovano due chiese, la Saint John, cattolica, e la Christ church, protestante, entrambe attaccate in due attentati contemporanei il 15 marzo del 2015.

In quell’attentato persero la vita molte persone tra le quali il giovane cattolico Akash Bashir, proclamato Servo di Dio (il primo nella storia della Chiesa del Pakistan) il 31 gennaio del 2022, festa di San Giovanni Bosco.

Akash Bashir, nato il 22 giugno 1994 a Risalpur, nella provincia pachistana di Nowshera Khyber Pakhtun Khwa, era uno studente del Don Bosco technical institute di Lahore, ed era tra i giovani attivi nella comunità parrocchiale.

Akash era in servizio al cancello d’ingresso della chiesa, quel 15 marzo del 2015, quando notò un uomo che voleva entrare con una cintura esplosiva sul corpo.

Il giovane ha abbracciato l’uomo, bloccandolo e tenendolo fermo al cancello d’ingresso, facendo sì che il piano del terrorista, quello di fare una strage all’interno della chiesa, fallisse.

L’attentatore si è allora fatto esplodere uccidendo se stesso e il giovane Akash.

Nel 2019, durante un nostro viaggio in Pakistan per documentare la situazione dei cristiani, abbiamo incontrato a Lahore Emmanuel Bashir e Naz Bano, il padre e la madre del giovane. «È morto per salvare la vita degli altri, è un martire della Chiesa e noi ne siamo orgogliosi perché questo è testimoniare il Vangelo», ci hanno detto, auspicando che il Papa potesse riconoscere il loro Akash martire e santo, anche per dare coraggio alla martoriata comunità cristiana locale.

Manuela Tulli




Cambogia. Ancora pochi sorrisi per i Khmer


Raccolta del riso con sorrisi per il fotografo. Foto Piergiorgio Pescali.

Indice

 

 

1985-2022, nulla di nuovo al potere.

Dispotismo (per il bene del popolo)

La monarchia cambogiana è dominata da Hun Sen e dalla sua famiglia. L’economia del paese asiatico cresce, ma i costi sociali e ambientali sono molto alti.

Dopo le elezioni amministrative, svoltesi nel giugno di quest’anno, la Cambogia si prepara ad affrontare la sfida, ben più impegnativa e importante, del rinnovo del parlamento in un clima di tensione e di incertezza.

Hun Sen, da decenni indiscusso padre padrone dell’intero paese assieme alla sua famiglia (approfondimento pp. 40-41), è al potere, pressoché ininterrottamente, dal 1985, e in questi ultimi due anni, con la scusa del Covid-19, ha rafforzato il suo dispotismo limitando ulteriormente i diritti civili e politici. Nel marzo 2020, sulla base delle restrizioni pandemiche, è stata approvata una legge che prevedeva il carcere fino a 20 anni e 5mila dollari di multa per chiunque violasse le regole restrittive. Approfittando di queste disposizioni, il governo ha abusato del suo già enorme potere colpendo la debole struttura sindacale e i diritti dei lavoratori. Tra il marzo e l’ottobre 2021, con l’accusa di violazione delle leggi sul Covid, sono state arrestate circa settecento persone, la maggior parte delle quali scese in sciopero per chiedere maggiori tutele sui luoghi di lavoro1.

È questa una delle tante (e neppure l’ultima) denunce, fatte dagli organismi internazionali, di abusi e violazioni dei diritti umani che hanno colpito tutti i settori della società del paese del Sud Est asiatico. L’ultima ondata di «repulisti» che ha interessato la parte politica più critica verso il dispotismo di Hun Sen e del suo partito, il Partito del popolo cambogiano (Cambodian people’s party, Cpp), è iniziata nel 2012 concentrandosi verso le due principali figure dell’opposizione, Kem Sokha e l’inaffidabile (ma, a quanto pare, inaffondabile) Sam Rainsy.

Vista parziale della residenza reale, a Phnom Penh. Foto Piergiorgio Pescali.

Ascesa e caduta di Kem Sokha

Sokha è forse il politico più rispettato a livello nazionale: dopo aver fondato il Centro cambogiano per i diritti umani, nel 2012 è entrato prepotentemente in politica fondando il Cnrp (Cambodian national rescue party), un partito nato dalla fusione del Human rights party con il Sam Rainsy party. L’alleanza, criticata da molti per la figura poco limpida, ambigua e ondivaga di Sam Rainsy, ha però trovato il consenso degli elettori, tanto che nel 2013, il Cnrp ha sfiorato il sorpasso sul Cpp2. Sokha ha ravvivato la scena politica nazionale portando una ventata di democrazia diretta, invitando la popolazione ad esprimere liberamente il suo pensiero in incontri settimanali a cui lui stesso partecipava nei villaggi della nazione. È stato anche il primo oppositore di Hun Sen a ricoprire una carica istituzio- nale, divenendo nel 2014 vicepresidente del parlamento. La sua popolarità è cresciuta verticalmente, tanto che in Cambogia, dopo il successo ottenuto nelle elezioni amministrative del 2017, si prospettava addirittura un cambio di governo nelle elezioni generali dell’anno seguente3.

Anche il Cpp, dopo anni di indiscusso potere, si sentiva braccato e così ha allestito la più spettacolare e contorta messinscena dopo quella del 1997 per estromettere il diretto rivale. Kem Sokha è stato prima condannato a 5 mesi di galera per sfruttamento della prostituzione (Khem Chandaraty, la principale testimone ha poi ritrattato le accuse affermando di aver avuto forti pressioni da parte degli investigatori del governo per montare il caso contro Kem Sokha)4, poi, il 3 settembre 2017, in una scenografica operazione di sapore hollywoodiano che ha coinvolto più di cento agenti di polizia, è stato arrestato con l’accusa di aver cospirato con gli Stati Uniti per scalzare Hun Sen dal governo e instaurare un regime asservito a Washington. Dopo aver trascorso più di un anno nella prigione di Trapeang Phlong, nell’isolata provincia di Tbong Khmun, al confine con il Vietnam, è stato posto agli arresti domiciliari il 10 settembre 2018 in attesa di processo.

Nel frattempo, nel novembre 2017, la Corte suprema cambogiana, controllata dal partito di governo5, ha sciolto il Cnrp obbligando molti attivisti a fuggire all’estero e ha vietato a 118 dei suoi membri di fare politica per i successivi cinque anni6. Senza alcuna opposizione, le elezioni del 2018 hanno visto la totalità dei seggi parlamentari andare a favore del Cpp7.

Giornali chiusi e repressione

La dissoluzione del Cnrp è stato l’inizio di una repressione più generale e feroce verso Ong, giornali indipendenti, associazioni per i diritti umani e ambientaliste, tanto che Phil Robertson, vicedirettore della sezione asiatica di Human rights watch, ha detto che «i governi stranieri, le Nazioni Unite e i paesi donatori dovrebbero chiedere la fine di questi attacchi verso oppositori politici e a ciò che rimane della democrazia in Cambogia»8.

Nel settembre 2017 lo storico quotidiano Cambodia Daily è stato costretto a chiudere, mentre nel maggio 2018 l’editore dell’altro quotidiano di punta, il Phnom Penh Post, fondato da Michael Hayes e la moglie Kathleen O’Keefe, è stato acquisito da una compagnia malese di proprietà di Sivakumar Ganapthy, un editore strettamente collegato con Hun Sen e che ha diretto l’ufficio stampa e le relazioni pubbliche del governo cambogiano9.

Non contenta, la Corte municipale di Phnom Penh ha condannato il 17 marzo 2022, venti appartenenti al Cnrp a 5-10 anni di prigione. Tra gli accusati figurano personaggi di spicco dell’opposizione cambogiana, come Sam Rainsy che, assieme a Eng Chai Eang e Mu Sochua, dopo essersi autoesiliati all’estero, nel novembre 2019 avevano affermato di avere intenzione di tornare in Cambogia per preparare la loro partecipazione alle elezioni del 2023. Le accuse verso i venti oppositori coprono un ampio ventaglio di imputazioni: dall’aver creato una rete segreta che avrebbe avuto l’obiettivo di destabilizzare il paese, al rovesciamento violento del potere con l’aiuto di militari, per terminare con l’aver utilizzato la pandemia per minare la credibilità del governo e organizzare sommosse popolari.

Ad oggi più di settanta avversari politici di Hun Sen sono detenuti nelle carceri cambogiane10.

Opposizione frastagliata e divisa

Mappa della Cambogia. Immagine CIA.

A rivendicare il posto occupato dall’ormai defunto (o, per meglio dire, soffocato) Cambodia national rescue party è il Candlelight party (Partito della luce della candela, Cp), voluto da Sam Rainsy dopo che con Kem Sokha, nel 2021, si è consumato l’ennesimo brutto divorzio politico dell’opposizione cambogiana, scandito da insulti e recriminazioni che i due leader si sono lanciati a vicenda11,12. Presidente del Cp è Thach Setha, che si è chiaramente definito leader del movimento successore del Cnrp, ma il cui partito ha adottato un logo ereditato dal Sam Rainsy party.

La partita si deciderà nei prossimi mesi quando la Corte di giustizia sarà chiamata a decidere sulla sorte dei due leader, uno agli arresti domiciliari in attesa di processo, l’altro in esilio. Probabilmente, come già accaduto in passato per altri rivali del Cpp, a Kem Sokha sarà concessa un’amnistia da parte del re Norodom Sihamoni. Questo gli permetterebbe di partecipare alle elezioni del 2023, sebbene monco del suo partito e della sua dirigenza.

Anche il vecchio contendente del Cpp, il Funcinpec, il cui nome – «Fronte unito nazionale per una Cambogia indipendente, neutrale, pacifica e cooperativa» – è più lungo della lista dei suoi elettori, intende ripresentarsi alle elezioni in veste rinnovata dopo un lungo periodo di ibernazione. Nel febbraio 2022, il principe Norodom Chakravuth, è stato eletto presidente del partito, espressione della monarchia cambogiana e fondato dal suo inconcludente padre Norodom Ranariddh che, negli anni Novanta, aveva conteso al Cpp la direzione del governo13.

Durante il suo primo discorso da presidente, Chakravuth ha detto di avere intenzione di riunire «sihanoukisti e ranariddisti» in un’unica compagine politica così da poter competere alle prossime elezioni nazionali con Hun Sen14. Ma il Funcinpec oggi raccoglie pochissimi voti ed è spesso visto più come compagine d’appoggio al Cpp di Hun Sen che come suo avversario.

Un altro partito dell’opposizione, spin off del Funcinpec, è il Partito di unità nazionale Khmer, guidato dall’ex generale Nhek Bun Chhay, ex fedelissimo di Ranariddh, ma oggi in rotta con suo figlio Chakravuth.

Il Cpp probabilmente permetterà a un’opposizione frastagliata e divisa di partecipare alle elezioni: oltre a non rappresentare una minaccia per il monopolio politico di Hun Sen, la presenza di piccoli movimenti indipendenti permetterebbe al primo ministro di presentarsi come politico democratico e ottenere la fiducia economica delle potenze occidentali.

Sempre per «il bene del popolo»

Per prepararsi al meglio, Hun Sen sfrutta ogni apparizione pubblica e, approfittando delle numerose inaugurazioni di strutture statali e private, monopolizza il dibattito per convincere l’elettorato cambogiano sul motivo per cui dovrebbe votare per il Cpp.

«Il Cpp è il partito al governo. Noi non vogliamo sfruttare elettoralmente le manifestazioni pubbliche, ma abbiamo un ritorno di immagine per i risultati che abbiamo ottenuto con la nostra amministrazione», ha detto Sok Ey San, portavoce del Cpp, aggiungendo che «il presidente del Cpp è anche primo ministro, così il presiedere e partecipare a cerimonie è anche un modo per mostrare ciò che abbiamo fatto per il bene del popolo».

Il 30 marzo 2022 il premier giapponese Fumio
Kishida ha visitato la Cambogia chiedendo a Hun Sen che le prossime elezioni politiche siano libere e regolari ponendo termine a cinque anni di monopolio del partito unico e di repressione da parte del Cpp e dei suoi dirigenti.

Due settimane dopo però, un centinaio di membri dell’opposizione del Candlelight party che avrebbero dovuto partecipare alle elezioni comunali tenutesi il 5 giugno 2022, sono stati banditi dalla consultazione elettorale, mentre altri sono stati arrestati e picchiati.

Con l’opposizione alle corde, divisa al suo interno e il clima di intimidazione, l’interesse delle elezioni del 2023 non sarà tanto su chi le vincerà, ma sulla percentuale con quale il Cpp surclasserà gli altri concorrenti.

Da Hun Sen a Hun Manet?

Hun Sen, ormai settantenne, si prepara a espletare quello che, con tutta probabilità, sarà il suo ultimo mandato, e sfrutterà i prossimi cinque anni per assicurare la successione al figlio primogenito, il quarantacinquenne generale Hun Manet, già da lui presentato come futuro primo ministro15.

Diplomato alla West Point e plurilaureato, Hun Manet sembra essere assai differente dal padre, anche se, sino a oggi, si è tenuto ai margini della politica preferendo la carriera militare.

La serie di battaglie combattute nel 2011 con la Thailandia per il controllo del tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.47-48), è stata il suo battesimo del fuoco ed è servita per proiettarlo ai vertici delle forze armate cambogiane.

Per molti, Hun Manet potrebbe essere il giro di boa per un cambio nella politica nazionale: mentre il padre è cresciuto tra le file dei Khmer Rossi in un clima di guerra e di oppressione portando con sé tutto il fardello di violenza e insicurezza in cui si è sviluppata la sua formazione, il figlio ha speso gli anni della maturità negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Nel 2020 è stato nominato membro permanente del Comitato centrale del Cpp e capo della Commissione giovanile del partito16.

Molti si aspettano che con Hun Manet cambi in meglio l’immagine che il governo cambogiano ha dato di sé sino ad ora.

Con le mani sulla Bibbia in lingua khmer. Foto Tep Ro – Pixabay.

Segnali contrastanti

Negli ultimi anni si sono registrati sviluppi che possono far ben sperare: l’economia nel 2021 è cresciuta del 3% rispetto a una contrazione del 3,1% del 202017. Nel 2022 e nel 2023 ci si aspetta un aumento rispettivamente del 5,3% e del 6,5% nonostante l’invasione russa dell’Ucraina18.

Il Pil pro capite, che nel 2000 era di 288 Usd, nel 2020 era salito a 1.543 Usd. Secondo la Banca mondiale, nel 2030 raggiungerà i 3.896 Usd per balzare a 12.056 Usd nel 2050. Un aumento che proietterà la Cambogia tra i paesi a più alto sviluppo nel Sud Est asiatico19.

I progressi economici non vanno di pari passo con quelli dei diritti umani, di cui la Cambogia non rappresenta certo un modello da seguire, ma l’errore è pensare che il Cpp, Hun Sen e il governo siano i soli responsabili di questi problemi. L’opposizione, in particolare quella che fa a capo a Sam Rainsy, al Funcipec e al Cnrp, ha sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo Khmer in versione antivietnamita e antiislamica per raccogliere consensi tra l’elettorato.

Nel 2010 Sam Rainsy incitò i contadini cambogiani di alcuni villaggi del distretto di Chantrea, nella provincia di Svay Rieng, a spostare i paletti che marcavano il confine con il Vietnam affermando che funzionari del Cpp cambogiano e del Partito comunista vietnamita si erano accordati per rimuovere i picchetti originari all’interno del territorio della Cambogia20.

Nel 2013 i gruppi di opposizione organizzarono proteste fuori l’ambasciata vietnamita a Phnom Penh che sfociarono in violenti attacchi della folla contro cittadini cambogiani di origine vietnamita e attività da loro gestite.

La messa al bando del Cnrp nel 2017, se da una parte ha portato il regime di Hun Sen a spazzare ogni pericolo di competizione e di controllo sul suo operato nel parlamento e nel paese, dall’altro ha avuto come effetto quello di calmare le proteste e i sentimenti xenofobi all’interno della popolazione khmer.

È indubbio che, negli ultimi 20 anni, sotto l’attuale regime la Cambogia abbia fatto grandi progressi nella riduzione della povertà e nello sviluppo umano21.

Tra il 1990 e il 2019, l’Hdi (Human development index, Indice di sviluppo umano) cambogiano è aumentato da 0,368 a 0,594 con un’aspettativa di vita aumentata da 53,6 anni a 69,8 anni e un indice Gini salito da 1,008 a 4,24622,23. Ci si aspetta che, entro il 2023, la Cambogia diventi un paese con uno stipendio medio di livello medio alto24.

Il governo, da parte sua, ha approfittato delle proteste nazionaliste per arrestare e sopprimere movimenti scomodi, sia in ambito politico, che economico. Nel luglio 2020 il presidente della Confederazione dei sindacati cambogiani, Rong Chhun, che si batte da anni per i diritti dei lavoratori tessili, è stato arrestato dopo aver visitato una comunità lungo il confine cambogiano vietnamita e aver criticato, come aveva fatto Sam Rainsy, il governo per aver rivisto il tracciato di confine facendo perdere terra ai contadini cambogiani. È stato rilasciato il 5 novembre 202125.

Templi ad Angkor. Foto Piergiorgio Pescali.

Giornalisti e Ong in pericolo

Oltre alla gente comune, chi fa le spese di questa situazione sono le Ong e le associazioni che si occupano di diritti umani.

Il 10 luglio 2016 Kem Ley, uno dei più acuti giornalisti politici fortemente critico non solo nei confronti di Hun Sen, ma anche dell’opposizione, venne ucciso in una stazione di servizio a Phnom Penh.

Ai suoi funerali parteciparono decine di migliaia di persone che accompagnarono il feretro al tempio buddhista dove venne esposto con una bandiera cambogiana e letteralmente coperto da fiori.

Ancora oggi, mentre l’assassino (Oeuth Ang) è stato arrestato, non si è scoperto il mandante. Come altri attivisti anche loro uccisi (Chea Vichea nel 2004 e Chut Wutty nel 2012), Kem aveva pesantemente criticato Hun Sen e la sua famiglia per la deforestazione del paese e per essere coinvolti in casi di corruzione. Pochi giorni prima, il giornalista aveva firmato quella che per molti fu la sua condanna a morte commentando Hostile Takeover, il dettagliato rapporto di una Ong, la Global Witness, pubblicato tre giorni prima, il quale rivelava tutti gli intrallazzi politici e finanziari della famiglia di Hun Sen, nonché i collegamenti con alcune delle «principali compagnie internazionali inclusa la Apple, Nokia, Visa, Procter & Gamble, Nestlé e Honda»26.

Phay Siphan, portavoce del governo, disse allora che, mentre la gente è libera di onorare la memoria di Kem Ley, non è accettabile accusare il governo o Hun Sen di essere il mandante della sua uccisione: «Se qualcuno ha delle prove concrete, venga e le mostri al governo e al tribunale. Non vogliamo sentire accuse gratuite verso Hun Sen. Se ci sono delle prove, che vengano mostrate».

Proprio qui sta il problema: dal 2015 una legge permette al governo di chiudere e bandire dal paese le Ong che criticano apertamente la politica cambogiana27.

Inoltre, dopo la pubblicazione di Hostile Takeover, chiunque voglia approfondire notizie e valutare dati riguardanti attività pubbliche e ministeri, deve registrarsi sui relativi siti lasciando così tracce che possano ricondurre all’identità della persona e, quindi, all’identità della persona.
Raccogliere prove significa spesso condannarsi e questo rende più difficile la democratizzazione del paese e la lotta alla corruzione.

L’entrata di Anlong Veng, cittadina al confine con la Thailandia, già ultima roccaforte dei Khmer Rossi. Foto Piergiorgio Pescali.

Il problema ambientale

Questo vale anche nel campo ambientale, un tema particolarmente attuale e scottante, tanto da divenire uno dei principali campi su cui si affrontano i diversi schieramenti del paese.

Nel 2021, dieci Ong che operano in Cambogia, impegnate in questioni e progetti idrici, hanno lodato il governo cambogiano per aver affermato, durante la Conferenza sui cambiamenti climatici Cop 26 di Glasgow, di non volersi impegnare in progetti di costruzione di centrali idroelettriche sul Mekong28.

Il coordinatore del Forum delle Ong, Mak Bunthoeurn ha però aggiunto che l’esempio della Cambogia sarà inutile se non verrà seguito dagli altri stati che hanno progetti simili lungo i tratti del Mekong che scorrono sul loro territorio29,30.

Più ambigua è la posizione del governo nella questione della deforestazione. Sebbene sia difficile quantificare la velocità di disboscamento in Cambogia (i dati variano anche di molto a seconda degli studi), una media approssimativa giunge alla conclusione che nel 2010 il 60% del territorio cambogiano era ricoperto da foreste; nel 2020, la percentuale era scesa al 45,7%31.

Tra il 2000 e il 2019 la perdita di foreste cambogiane è stata di 27mila km2, pari al 14,8% della superficie del paese e al 26,4% delle foreste.

La deforestazione è aumentata a partire dalla fine degli anni Novanta quando i Khmer Rossi furono sconfitti definitivamente e il loro movimento sciolto. Da allora le dispute sui terreni sono cresciute anche in modo violento e i litigi, principalmente tra villaggi, sono stati utilizzati da governo e opposizione per loro fini sia elettorali che economici (la deforestazione arricchisce anche gruppi dell’opposizione cambogiana). Il prepotente ingresso di gruppi economici con ramificazioni internazionali e con appoggi politici sia dell’una che dell’altra parte ha aumentato esponenzialmente questo problema.

Secondo Hun Sen, la perdita di foreste in Cambogia è principalmente dovuta all’aumento demografico: «Il 7 gennaio 1979, quando i Khmer Rossi vennero sconfitti, in Cambogia vivevano circa cinque milioni di persone; oggi la popolazione è aumentata a 16 milioni. […] Negli anni Ottanta la Cambogia aveva un milione di ettari coltivati a uso agricolo; oggi, a causa dell’aumento della popolazione la richiesta di terra per coltivazioni è aumentata a quattro milioni di ettari. Da dove credete che venga questa terra? Alcuni si lamentano che le foreste stanno scomparendo. Ma voi potete ben vedere che le foreste scompaiono perché enormi superfici una volta coperte da foreste, oggi sono diventate terre coltivate dai contadini»32.

Le Ong ambientaliste hanno però accusato il governo di non far nulla per contrastare il commercio illegale di legname verso il Vietnam, che già dal 1986 ha iniziato a sfruttarlo. Secondo l’Eia (la Environmental investigation agency), tra il 2016 e il 2018 più di mezzo milione di metri cubi di legname, per un valore di 290 milioni di dollari, è transitato illegalmente attraverso la Cambogia per raggiungere il Vietnam33,34.

E, a differenza di quanto afferma Hun Sen, tra il 2001 e il 2019, il 92% della deforestazione è stato causato dalle compagnie del legname35.

Il governo cede concessioni a multinazionali, compagnie locali o anche a piccoli proprietari terrieri al fine di generare «sviluppo nazionale, creare lavoro nelle aree rurali e sfruttare le aree non utilizzate» per scopi agricoli o, nella maggior parte dei casi, per sviluppare piantagioni a monocoltura.

Tutte le aree soggette a taglio devono essere all’interno delle Concessioni economiche terriere (Economic land concessions, Elc) e le Concessioni sociali terriere (Social land concessions, Slc) che legalmente non dovrebbero superare i 10mila ettari per ciascuna, limite che spesso viene superato.

È compito del ministero dell’Ambiente identificare le Elc, ma sempre più spesso i funzionari del ministero tracciano i confini anche dentro le aree protette. Fino al 2018 il ministero dell’Ambiente aveva concesso 227 Elc per un totale di 1.225.254 ettari, pari al 6,8% dell’intera superficie cambogiana a cui si devono aggiungere 28 piantagioni di caucciù private per un totale di 176.297 ettari.

Una nuova «tigre asiatica»

La Cambogia si sta avviando verso un ambizioso programma di sviluppo economico. Gli indicatori socioeconomici indicano che il paese sarà la prossima «tigre asiatica». Saranno in molti a beneficiarne, ma se non si pone un limite al degrado ambientale e non si pensa anche agli strati più deboli ed emarginati della società, il progresso rischierà di trasformarsi in instabilità.
E negli anni Settanta la Cambogia ha già sperimentato questa strada.

Piergiorgio Pescali

Bambine cambogiane cercando l’oro. Foto Piergiorgio Pescali.


Note:

  1. Phorn Bopha, Cambodia “bleeding” as space for civil society shrinks, Al Jazeera, 3 novembre 2021.
  2. Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 28 luglio 2013. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 48,83% dei voti, mentre il Cnrp raggiunse il 44,46% dei consensi.
  3. Amaël Vier e Karel Jiaan Galang, The 2017 International Election Observation Mission (Ieom) of the Asian Network for Free Elections (Anfrel) to the Kingdom of Cambodia’s Commune and Sangkat Council Elections – Final Report, §Voter Turnout and Election Results, Asian network for free elections (Anfrel), Bangkok, luglio 2017, p. 25. Il Cpp, che ottenne in totale il 50,76% dei voti, si aggiudicò 6.503 seggi consigliari e la guida di 1.156 comuni. Il Cnrp, con il 43,83% dei voti, ottenne 5.007 seggi consigliari e la guida di 489 comuni.
  4. Khmer Times, Adhoc on Defensive after Accusations, 26 aprile 2016 e Human rights watch (Hrw), Cambodia: Drop Fabricated Charges against “Adhoc 5”, 26 agosto 2018.
  5. Alec Thomson, A fork in the road: a civil rights case study of Cambodia and Somaliland – §Modern Law, Cambridge University – Law Society.
  6.  Human rights watch (Hrw), Cambodia: Supreme Court Dissolves Democracy, 17 novembre 2017.
  7.  Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 29 luglio 2018. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 76,78% dei voti e tutti i 125 seggi parlamentari.
  8. Human rights watch (Hrw), Cambodia, Opposition Politicians Convicted in Mass Trial, 17 marzo 2022.
  9. The Phnom Penh Post, Post senior staff out in dispute over article, 8 maggio 2018.
  10.  Human rights watch (Hrw), Political Prisoners Cambodia, 10 marzo 2022
  11. Ben Sokhean, Sokha slams Rainsy for accusing him of being under threat from PM, Khmer Times, 2 dicembre 2021.
  12. Ananth Baliga e Ouch Sony, Cnrp Rift Out in the Open as Kem Sokha Distances Himself from Rainsy, Vod, 29 novembre 2021.
  13. Khmer Times, Prince Norodom Chakravuth elected as Funcinpec party president, 9 febbraio 2022.
  14. (Yin Soeum, Prince Norodom Chakravuth unanimously elected Funcinpec president, Khmer Times, 10 febbraio 2022.
  15. Sorn Sarath, Hun Manet could be PM as soon as next mandate, Hun Sen, CamboJA News, 20 dicembre 2021.
  16. Mao Sopha e Torn Chanritheara, Hun Manet Appointed Head of CPP’s Youth Wing, Cambodianess, 9 giugno 2020.
  17. Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic performance, 2021, p. 1.
  18. Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic prospects, 2021, p. 2.
  19. The World Bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
  20. Meas Sokchea, PM dismisses possible pardon for Sam Rainsy over VN border charges, The Phnom Penh Post, 6 gennaio 2010.
  21. Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, Aprile 2021, p.1.
  22. Undp, Human Development Report 2020 – The Next Frontier: Human Development and the Anthopocene – Briefing note for countries on the 2020 Human Development Report – Cambodia, § 2.1- Cambodia’s Hdi value and rank, p. 2.
  23. L’indice Gini misura la disuguaglianza di reddito della popolazione: maggiore è l’indice Gini meno equamente distribuito è il reddito. Secondo uno studio del World Institute for Development Economics Research, l’indice Gini ottimale è compreso tra 0,25 (paesi del Nord Europa) e 0,40 (Cina, Usa).
  24. Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, aprile 2021, p.1.
  25. Front Line Defenders, Cambodian human rights defenders released after more than one year in prison, 16 novembre 2021
  26. Global witness, Hostile Takeover, luglio 2016, p. 13.
  27. Licadho, New Draft Law Reaffirms Culture of Control , 11 giugno 2015
  28.  Le 10 Ong sono Culture and Environment Preservation Association (Cepa); Fisheries Action Coalition Team (Fact); North-eastern Rural Development (Nrd); Nak Akphivath Sahakum (Nas); Ngo Forum on Cambodia (Ngof); Mlup Promviheathor Center Organization (Mpc); My Village Organization (Mvi); Oxfam in Cambodia, Women’s Community Voices (Wvc); 3S Rivers Protection Network (3Spn).
  29. La Cina ha già costruito undici dighe sul corso del Mekong (Wunonglong, Lidi, Huangdeng, Dahuaqiao, Miaowei, Gongguoqiao, Xiaowan, Manwan, Dachaoshan, Nuozhadu e Jinghong), il Laos due (Xayaburi e Don Sahong). La Cina ha in progetto la costruzione di altre tre dighe (Toba, Ganlanba e Mengsong) e il Laos di altre sette (Pak Beng, Luang Prabang, Pak Lay, Sanakham, Pak Chom, Ban Koum, Phou Ngoy). La Cambogia ha cancellato le previste dighe di Stung Treng e Sambor.
  30. Lo sviluppo del bacino del Mekong è deciso dalla cooperazione di 13 organismi appartenenti a sei paesi – Cina, Laos, Myanmar, Thailandia, Cambogia, Vietnam -, che operano in vari campi.
  31. The world bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
  32. Kouth Sophak Chakrya, Hun Sen blames forest loss on population rise, Phnom Penh Post, 7 giugno 2018.
  33. Environmental investigation agency (Eia), Repeat offender: Vietnam’s persistent trade in illegal timber, maggio 2017.
  34. Environmental investigation agency, Eia responds to Vietnam wood industry over criticism of timber crime exposé, 17 luglio 2018.
  35. Global forest watch, Primary forest loss in Cambodia, 2 maggio 2022.

La chiesa flottante di San Paolo, sul lago di Tonlé Sap (Siem Reap), prima nel villaggio flottante di Chong Khneas, poi a Prek Toal. Foto da siemreapcatholic.com.

Scheda Cambogia (Kampuchea)

Piccole minoranze in un paese buddhista

  • Superficie: 181mila Km2;
  • Popolazione: 16,7 milioni (2020);
  • Capitale: Phnom Penh (2,2 milioni di abitanti);
  • Orografia: pianura alluvionale attraversata dal Mekong da Nord a Sud; bacino idrografico del Tonlé Sap (lago e fiume);
  • Sistema politico: monarchia parlamentare;
  • Re e primo ministro: re Norodom Sihamoni (dal 2004); primo ministro Hun Sen (dal 1985, Partito del popolo cambogiano);
  • Date essenziali: 802-1431, Impero khmer; 1953 (novembre), indipendenza dalla Francia; 1970-’75, Repubblica khmer; 1975-’79, regime dei Khmer rRossi; 1979-’89, occupazione da parte del Vietnam; 1997, Tribunale speciale per i Khmer Rossi;
  • Principali gruppi demografici: khmer 87% (lingua khmer, religione buddhista theravada), vietnamiti, laotiani, thailandesi;
  • Religioni principali: buddhisti 95% (corrente theravada); musulmani 2% (in particolare, i Cham); cristiani 2% (0,5% cattolici);
  • Economia: principalmente rurale e agricola, la produzione più importante è quella del riso; industria tessile e turistica (in particolare, per Siem Reap che ospita il sito archeologico di Angkor);
  • Regioni contese: la zona del tempio di Preah Vihear contesa con la Thailandia;
  • Problemi principali: grado di corruzione molto elevato; presenza di lavoro minorile e schiavo; traffico di droga; l’organizzazione Freedom House definisce la Cambogia un paese «non libero».

(a cura di Paolo Moiola)

Il primo ministro Hun Sen e la moglie Bun Rany pregano durante una cerimonia buddhista in un tempio di Angkor Wat, a Siem Reap (2 dicembre 2017). Foto Charly Two-AFP.

Il ritratto

Hun Sen e famiglia, i padroni

Il 5 agosto 1952, in un piccolo villaggio della provincia di Kompong Cham, nacque Hun Bunal. Suo padre, Hun Neang, era un monaco di un piccolo tempio locale prima di aderire alla resistenza anticoloniale. La famiglia Hun era una Khmer Kat Chen, cioè di origini cinesi. Ricca, proprietaria terriera, fu costretta a trasferirsi a Phnom Penh a causa di un tracollo economico. Qui Hun Bunal cominciò a frequentare la scuola buddhista cambiando il nome in Ritthi Sen.

Dopo il colpo di stato di Lon Nol, nel 1970, Bunal si unì ai Khmer Rossi facendosi chiamare Hun Samrach e poi, dal 1972, Hun Sen.

Comandante militare della Regione orientale durante il periodo di Kampuchea Democratica, nel 1977 fuggì in Vietnam per scappare dalle purghe che stavano decimando i quadri del partito ostili a Pol Pot.

Assieme ad altri leader militari e politici che disertarono le fila dei Khmer Rossi, partecipò all’invasione vietnamita della Cambogia nel 1979 divenendo vice primo ministro e ministro degli Esteri sotto il governo di Heng Samrin.

Nel lontano 1985

Il primo ministro Hun Sen parla all’inaugurazione di un tratto della strada nazionale 7 (provincia di Kratie) finanziato dalla Cina (7 febbraio 2022). Foto Ly Lay-Xinhua-AFP.

La svolta politica avvenne nel 1985 quando fu eletto primo ministro. Da allora Hun Sen non ha mai smesso di ordire trame e intrallazzi per mantenere il potere, anche quando i risultati elettorali lo vedevano sconfitto, e disporre le sue pedine nei posti chiave delle istituzioni cambogiane.

Già due anni dopo essere stato nominato primo ministro, Amnesty International espresse «preoccupazione per rapporti di torture di prigionieri politici imprigionati senza accuse o processi»1.

Nel 1997, dopo che le elezioni di quattro anni prima avevano consentito al Funcipec di Ranarridh Sihanouk di raggiungere la maggioranza e di dividere la poltrona di primo ministro con Hun Sen, quest’ultimo inscenò un colpo di stato in cui vennero giustiziate almeno cento persone a lui ostili. Recentemente una corte francese2 ha emanato un mandato di arresto per Hun Sen e altri due generali, Huy Piseth e Hing Bun Heang, con l’accusa di aver pianificato, organizzato ed essere mandanti di un attentato compiuto il 30 marzo 1997 durante un raduno del partito di opposizione Khmer nation party di Sam Rainsy che costò la vita a 16 manifestanti e il ferimento di altri 150, tra cui lo stesso leader del movimento3.

Immense ricchezze familiari

La copertina di «Hostile Takeover», duro report di Global Witness sulla Cambogia di Hun Sen (luglio 2016).

La carica di capo del governo, però, garantisce a Hun Sen l’immunità, rendendo impossibile ogni attuazione del procedimento internazionale, come hanno chiaramente fatto sapere sia il ministero degli Esteri che il ministero per l’Europa francese. Fino al 2016, quando la Ong Global Witness pubblicò un dettagliato rapporto, Hostile Takeover, nessuno era riuscito a stabilire con esattezza l’estensione dei gangli della famiglia Hun nell’economia cambogiana e internazionale. A causa di questa inchiesta, il ministero del Commercio cambogiano, ha ristretto ogni accesso alle informazioni delle aziende, nazionali ed estere, che operano sul territorio.

Secondo il rapporto della Global Witness, la famiglia di Hun Sen deterrebbe una ricchezza stimata tra i 500 milioni e 1 miliardo di dollari4.

I ventuno membri della famiglia hanno interessi in 114 compagnie nazionali con un capitale di 200 milioni di Usd5 e detengono il monopolio della produzione di caucciù, la seconda voce agricola del paese dopo il riso, di sei compagnie minerarie, di sette compagnie di costruzioni edilizie, di cinque compagnie energetiche (settore di enorme sviluppo in Cambogia).

Moglie, figli, nipoti in ruoli chiave

La moglie di Hun Sen, Bun Rany, è presidente della Croce Rossa cambogiana ed è stata accusata da più parti di usare la sua posizione per promuovere la politica del Partito popolare cambogiano (Cpp).

Due dei tre figli maschi di Hun Sen, Hun Manet e Hun Manith, sono ufficiali delle Forze armate cambogiane e hanno frequentato l’Accademia di West Point. Hun Manet ha avuto un ruolo prominente nella vicenda di Preah Vihear che nel 2011 ha visto l’esercito cambogiano fronteggiare quello thailandese per il controllo di un’area di 4,6 km2 in cui sorge il tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.46-47). Il terzo figlio, Hun Many, il più giovane, è parlamentare, mentre le due figlie, Hun Mana e Hun Maly, si sono spartite il controllo dei media nazionali (Hun Mana) e dei servizi, come i settori medico-farmaceutico, energetico e del commercio (Hun Maly).

I fratelli di Hun Sen, Hun Neng (morto il 5 maggio 2022) e Hun San controllano le maggiori compagnie nel settore del commercio e dei trasporti, mentre la sorella Hun Seng Ny è direttamente coinvolta nella direzione di compagnie accusate di causare i disboscamenti nel paese e nella repressione degli scioperi nelle industrie tessili.

Hun Seang Heng, figlio di Hun Neng e nipote di Hun Sen, è padrone della compagnia che importa e rivende nel territorio cambogiano i prodotti della Apple. L’altro figlio di Hun Neng, Hun To, oltre a presiedere la compagnia petrolifera Lhp Asean Import Export e la Lhp Asean Investment, proprietaria di catene di stazioni di servizio in Cambogia, è implicato nel traffico di eroina in Australia per un miliardo di dollari. Una delle due figlie di Hun Neng, Hun Kimleng, ha importanti partecipazioni nella Hard Rock Cafè e nella Gloria Jeans Coffee.

Praticamente ogni membro della famiglia Hun Sen ha interessi finanziari, politici, economici, militari con istituzioni cambogiane e, spesso, anche internazionali.

Piergiorgio Pescali

Note

  1. Amnesty International, 1987 Report – Kampuchea (Cambodia), 1987, p. 241.
  2. Il caso è stato portato alla corte francese da Sam Rainsy, che ha doppia cittadinanza (francese e cambogiana).
  3. Human rights watch, Cambodia: French Court Indicts Hun Sen Cronies, 29 marzo 2022.
  4. Global Witness, Hostile Takeover – Executive Summary, luglio 2016, p. 3.
  5. Global Witness, Hostile Takeover – Annex 1 – Our finding in full, luglio 2016, pp. 33-37.

Pescatori sul Mekong. Foto Piergiorgio Pescali.


Storia e religioni

L’islam dei Cham

Dopo il buddhismo, la seconda religione in Cambogia è l’islam. Il 2% della popolazione, secondo il censimento effettuato nel 2019, è musulmano1 e vive principalmente nelle province di Tbong Khmun (11,8% della popolazione), Kratie (6,6%), Kompong Chhnang (5,8%), Stung Treng (4,7%), Koh Kong (4,6%) e Mondulkiri (4,4%)2.

La componente etnica maggioritaria, sebbene non unica, dei fedeli islamici è composta da popolazioni di etnia cham di origine maleo-polinesiana che parlano una propria lingua (il cham). Dopo essere migrati verso le coste vietnamite a partire dal II secolo d.C., i Cham si installarono nel regno induista di Champa, nell’attuale regione centrale del Vietnam per poi convertirsi all’islam nell’XI secolo quando mercanti arabi e indiani del Gujarat, assieme alle loro mercanzie, portarono anche il loro credo e copie del Corano. Nel XII secolo, i Cham riuscirono anche a conquistare Angkor, seppur per soli quattro anni, la capitale dell’Impero khmer (il tempio di Bayon ha pregevoli bassorilievi che illustrano battaglie tra Khmer e Cham). La presenza stabile delle prime popolazioni cham in Cambogia risale proprio a questo periodo e venne rafforzata nel XV secolo dopo la sconfitta del loro regno a favore dei Viet provenienti dal Tonchino. All’interno del gruppo, si distinguono i Chvea che, pur condividendo la provenienza etnica, provengono dalla Malesia e hanno adottato la lingua khmer, e i Jahed, di lingua cham, ma giunti in Cambogia tra il XVIII e il XIX secolo, dopo la completa dissoluzione del regno di Champa da parte di Minh Mang.

Infine, una componente aristocratica si installò nella vecchia capitale khmer, Oudong, dove ancora oggi risiedono i discendenti (circa 20mila) che hanno adottato una forma di sincretismo religioso che ingloba elementi induisti e, a differenza dei loro correligionari, oltre a non usare l’arabo come lingua religiosa, hanno mantenuto la forma scritta della lingua cham.

Sotto i Khmer Rossi

Durante la Seconda guerra del Sud Est asiatico le forze militari in lotta in Cambogia cercarono di accaparrarsi l’appoggio della comunità cham: sia Sihanouk che Lon Nol garantirono la cittadinanza cambogiana ai Cham a differenza dei cambogiani di origine vietnamita e cinese, a cui invece venne negata. I Khmer Rossi, dal canto loro, accettarono i Cham anche perché Sos Man e suo figlio Mat Ly, erano due dei membri più autorevoli del Partito comunista di Kampuchea. Per assimilare i Cham al movimento khmer e nascondere la discendenza Champa, troppo legata al Vietnam, vennero chiamati Khmer islamici.

A partire dal 1972 i Khmer Rossi iniziarono a deportare i Cham in diverse province con l’intento di dividere e indebolire la comunità causando diverse sommosse represse con purghe ed esecuzioni.

Dopo la conquista del potere da parte dei Khmer Rossi e, ancora più, dopo l’ascesa di Pol Pot nel 1976, l’introduzione di cooperative agricole e mense comuni furono oggetto di nuove ribellioni da parte dei musulmani, costretti a mangiare cibo a loro proibito e a seguire tradizioni estranee alla loro cultura e religione.

La moschea di Al-Serkal, a Phnom Penh, la più grande della Cambogia. Foto Piergiorgio Pescali.

L’opportunismo di Hun Sen

Oggi i Cham possono praticare la loro fede anche se i movimenti d’opposizione lamentano un aumento dell’influenza economica della comunità musulmana all’interno del paese, in particolare per i cospicui finanziamenti che le organizzazioni islamiche ricevono da istituzioni e paesi arabi,
Malaysia e, ultimamente, anche da parte della Turchia.

Proprio per attirare investimenti da Ankara, Hun Sen ha recentemente chiesto che, in ogni provincia, vi sia almeno un vicegovernatore cham3.

E proprio il Cpp è il principale sostenitore dei musulmani cambogiani, garantendo loro appannaggi economici e licenze negate ad altre comunità. Il mufti del paese è un okhna4, Kamaruddin bin Yusof che è stato posto dallo stesso Hun Sen a guida degli islamici cambogiani nel lontano 1996. Kamaruddin, oltre a controllare le scuole islamiche madhhabi all’estero, ha anche influenti amicizie politiche ed economiche in Malaysia.

La totalità dei musulmani cambogiani è sunnita; il 90% segue la scuola madhhab, la scuola Shafi’i, mentre il restante, concentrato nella comunità di Oudong, appartiene alla Comunità di imam San (Krom Kan Imam San) che si rifà all’imam Sen, un religioso vissuto nel XIX secolo e particolarmente venerato nella regione. La tradizione islamica malese, introdotta a partire dalla seconda metà del XIX secolo, è quella più seguita e di conseguenza anche i testi religiosi (sia letterari che di istruzione) sono in lingua malay. I fedeli della Comunità di Imam San, guidati da Ong Gnur Mat Sa, si distinguono dai loro confratelli per seguire regole che inseriscono nelle pratiche religiose e rituali islamiche elementi cham e animisti. Nella preghiera del venerdì hanno inserito elementi di possessione degli spiriti ancestrali che prendono origine da testi cham, indiani e arabi.

P.Pes.

Note

  1. Kingdom of Cambodia, Ministry of Planning, National Institute of Statistics, General Population Census of the Kingdom of Cambodia 2019 – Capitolo 2, Population Size, Growth and Distribution, §2.5 Population and religion, Ottobre 2020, p.23.
  2. Idem, §Tabella 2.5.1 Percentage distribution of population by religion, area, and province, Cambodia, 2008-2019, Ottobre 2020, p.24.
  3. UcaNews, Hun Sen wants to appoint Cambodian Muslims to higher office, 24 febbraio 2022.
  4. Titolo onorifico dato a chi si distingue come benefattore o mecenate. Oggi può essere comprato versando al governo una certa somma in denaro.

Comunità di Khmer Krom lungo le sponde del fiume Mekong. Foto Piergiorgio Pescali.

Cambogia versus Vietnam

Il destino dei Khmer Krom

Sono circa un milione e 200mila i Khmer che abitano nel delta del Mekong, nella regione meridionale del Vietnam, discendenti di quelle popolazioni che, seguendo l’onda dell’espansione dell’Impero khmer nel IX secolo, occuparono le fertili aree solcate da innumerevoli corsi d’acqua.

Pur conservando la stessa lingua, cultura, religione dei Khmer delle regioni del Tonle Sap e del corso superiore del Mekong, i Khmer Krom (Khmer meridionali) nel XVII secolo iniziarono a distinguersi dal ceppo originario. La dinastia Nguyen, da Hué dilagò verso Sud prima strappando Prey Nokor, la principale città Khmer Krom all’amministrazione cambogiana e rinominandola Sai Gon, poi favorendo la migrazione dei Kinh1 verso Sud lambendo la catena annamita. Nel 1845 il principe cambogiano Ang Duong fu costretto a cedere al Siam (l’attuale Thailandia) le province di Sisophon, Battambang e Siem Reap e al regno dell’Annam (parte dell’attuale Vietnam) la provincia di Kampuchea Krom. Mentre i territori occidentali, in cui tra l’altro si trovava sito di Angkor, il 23 marzo 1907 vennero riconsegnati alla Cambogia, allora protettorato francese, nulla di simile venne fatto per le 21 province orientali del delta del Mekong.

Le scelte dei colonizzatori francesi

Il 4 giugno 1949 la Francia confermò i confini politici vietnamiti cambogiani che aveva ereditato ed accettato nel 1862 e nel 1874, quando il regno di Annam cedette le province del delta del Mekong ai colonizzatori, che le chiamarono Cocincina.

A nulla valsero le proteste del re cambogiano, il giovanissimo Norodom Sihanouk, che ne richiedeva la restituzione: «La Francia ha ricevuto tutti i territori del Sud Vietnam dalla corte di Hue e con essi il diritto di condurre operazioni militari contro i mandarini annamiti e non contro le autorità khmer. […] La storia contraddice la tesi secondo cui la parte occidentale della Cocincina fosse, al tempo dell’arrivo francese, soggetta alla corona khmer», si legge in un documento inviato a Sihanouk in cui le autorità coloniali respingevano la richiesta avanzata dal monarca.

La colonizzazione francese non fece altro che sancire il definitivo affrancamento della cosiddetta Cocincina dalla Cambogia, che venne confermato nel 1954, quando il Vietnam del Sud ottenne l’indipendenza inglobando la regione meridionale a maggioranza khmer.

La Seconda guerra del Sud Est asiatico divise politicamente anche i Khmer Krom: gli Stati Uniti e il governo di Saigon organizzarono i Khmer del delta nel Mike Force, il corpo militare che comprendeva le minoranze etniche addestrate a combattere i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, in cui invece confluirono le «Sciarpe bianche», i Khmer Krom del monaco buddhista Samouk Sen.

Fiori di loto.

Le scelte del Vietnam

Dopo la vittoria del 1975, e ancora più dopo l’unificazione del Sud con il Nord nel 1976, il Vietnam, timoroso che l’omogeneità etnica delle popolazioni del Delta del Mekong potesse portare una rivendicazione delle regioni storicamente reclamate dalla Cambogia, adottò una politica di diluizione demografica, trasferendo milioni di Kinh (vietnamiti) verso Sud e concedendo loro larghe estensioni terriere e di sfruttamento da allevamento ittico che distrussero gran parte delle attività in precedenza appannaggio dei Khmer Krom.

I Khmer residenti in Vietnam iniziarono quindi a vedere i Khmer Rossi come possibile appoggio per le loro rivendicazioni e cominciarono a chiedere aiuto o asilo in Cambogia. Invece di trovare solidarietà, i Khmer Krom, sospettati di essere ormai troppo vietnamizzati, vennero sistematicamente massacrati. Solo dalla metà del 1978, quando Phnom Penh iniziò a guardare sempre con più attenzione quella che era definita dal governo come Kampuchea Krom e gli scontri di frontiera divennero più seri, i Khmer Rossi cercarono appoggi tra le comunità khmer oltrefrontiera.

La guerra che ne scaturì vide il Vietnam scalzare il gabinetto di Pol Pot dalla capitale dando inizio ad una guerra civile che si protrasse fino alla fine degli anni Novanta.

Oggi, dopo le difficoltà e le discriminazioni verso le minoranze compiute dal governo di Hanoi, l’attenzione verso i diritti delle popolazioni minoritarie è cresciuta, grazie anche all’attenzione internazionale portata dalla presenza di diverse associazioni che lavorano nel campo dei diritti umani.

Mancano comunque ancora le garanzie necessarie per la sopravvivenza della nazione Khmer Krom: la sola lingua riconosciuta ufficialmente dal governo è quella vietnamita e i Khmer in Vietnam sono spesso esclusi da posti pubblici. La vietnamizzazione include anche il cambio dei nomi, che devono essere traslitterati in vietnamita con una distorsione fonetica che spesso rende questi nomi difficilmente comprensibili agli stessi Khmer.

Nelle scuole si parla e si insegna vietnamita e con la crescente privatizzazione, le attività produttive appartengono o sono dirette da Kinh, che preferiscono escludere i Khmer dai posti dirigenziali. La percezione dell’inadeguatezza del carattere khmer nel condurre attività di amministrazione o di comando, già presente nella cultura kinh e rafforzata durante il periodo coloniale francese, è ancora comune e allontana sempre più la comunità dei Khmer Krom dalla vita economica, sociale e politica del paese.

La Chiesa buddhista

La Chiesa buddhista khmer, nel tentativo di mantenere vive le tradizioni della comunità khmer in Vietnam, organizza corsi di lingua khmer nei templi. La Costituzione vietnamita, pur garantendo la libertà di credo, aggiunge che «nessuno può utilizzare le fedi per contravvenire la politica e le leggi dello stato»2.

Questo porta a far intervenire le autorità governative che chiudono questi centri e a volte giungono anche a imprigionare gli stessi monaci, alcuni dei quali si sono rifugiati in Cambogia per evitare l’arresto. Inoltre, data la laicità dello stato, le Chiese non sono viste come tali, ma come organizzazioni religiose che devono confluire in associazioni controllate dal governo come la Viet Nam buddhist sangha (Vbs) in cui confluiscono i 454 templi khmer theravada della nazione3. La Vbs ha, tra le altre cose, la prerogativa di scegliere gli abati dei templi.

Il Cambodian people party di Hun Sen, che nel 1978 disertò dai Khmer Rossi rifugiandosi in Vietnam, ha sempre avuto buoni rapporti con Hanoi. Meno idilliaci, invece, sono le relazioni tra il Vietnam e le opposizioni cambogiane, in particolare con Sam Rainsy, il Funcinpec e il Cnrp, i quali hanno sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo khmer in versione antivietnamita per raccogliere consensi tra l’elettorato.

Piergiorgio Pescali

Note

  1. I Kinh sono l’etnia maggioritaria del Vietnam, quelli chiamati impropriamente Viet.
  2. Costituzione del Vietnam, Capitolo 5: Diritti fondamentali e doveri di cittadini, Articolo 70.
  3. National Vietnam Buddhist Sangha, The 16th United Nations Day of Vesak Celebrations 2019.

Vista del sito archeologico di Preah Vihear (su un’area di circa cinque chilometri quadrati), oggetto di un lungo contenzioso con la Thailandia. Foto Piergiorgio Pescali.

Cambogia versus Thailandia

Le rovine contese di Preah Vihear

Le rovine di Preah Vihear, al confine settentrionale della Cambogia con la Thailandia, non sono note quanto quelle del sito di Angkor. I resti tra cui possiamo camminare oggi, risalgono principalmente al complesso templare costruito tra il 1000 e il 1150 da Suryavarman I e Suryavarman II. Dedicato inizialmente a Shiva, come lo furono anche la maggior parte dei templi di Angkor, divenne uno dei centri religiosi più importanti dell’Impero khmer.

Arrivarci oggi è abbastanza semplice, ma fino a pochi decenni fa l’accesso dalla Cambogia, entro i cui confini si trova il tempio, era molto più difficoltoso di quanto fosse da quello thailandese. Preah Vihear, infatti, si trova sull’altipiano dei monti Dângrêk e domina la pianura cambogiana da una scarpata alta 500 metri. Questa sua particolare posizione ha fatto sì che il tempio sia stato l’ultimo lembo di terra cambogiana difeso dalle truppe governative di Lon Nol conquistato dai Khmer Rossi nel 1975, ma in più occasioni ha creato anche un contenzioso con la Thailandia che ne reclama il possesso, specie dopo il 2008, quando il sito è stato inserito dall’Unesco nella lista dei patrimoni mondiali dell’umanità.

Bangkok rivendica la continuità geografica dello spartiacque naturale su cui poggia il tempio, mentre Phnom Penh si rivale della linea di confine tracciata dalla commissione francese nel 1907, la cui validità è stata riconosciuta nel 1962 dalla Corte internazionale di giustizia, a cui la Cambogia si era rivolta sperando di porre termine alle pretese del vicino. In totale, l’area contesa è di 4,6 chilometri quadrati, ma il problema ha assunto un carattere di propaganda nazionalista sia dall’una che dall’altra parte.

Nazionalismi e scontri

Nel 2011 le truppe dei due paesi confinanti si sono confrontate per diversi mesi in battaglie che hanno visto l’uso di artiglieria pesante e carri armati causando diversi morti e l’evacuazione di migliaia di civili.

Il conflitto da una parte ha destabilizzato l’Asean (l’Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico fondata l’8 agosto 1967 proprio a Bangkok), a cui appartengono sia Cambogia che Thailandia, tra i cui compiti vi è quello di «promuovere la pace e la stabilità della regione»1, e dall’altra è servito a un terzo paese, l’Indonesia, per promuovere i propri interessi e uscire dal limbo di paese ai margini della politica internazionale, nonostante la sua preminenza geografica e demografica nell’associazione.

Secondo il trattato del 1904 stipulato tra la Francia (a cui la Cambogia era assoggettata come colonia) e il Siam, il confine avrebbe dovuto seguire lo spartiacque naturale, ma la commissione francese, incaricata nel 1907 di tracciare la frontiera, assegnò il tempio di Preah Vihear alla Cambogia.

La zona era allora disabitata, difficilmente raggiungibile e ritenuta poco importante dal Siam che non prestò attenzione al tracciato. Inoltre, mentre il confine dal mare fu marcato da 73 paletti per 600 chilometri, la frontiera lungo la zona di Preah Vihear venne disegnata solo sulle carte, visto che la commissione congiunta franco siamese non si addentrò sino al tempio.

Le prime discordie iniziarono nel 1954, quando le truppe thailandesi occuparono il sito fino al 1962, allorché la Corte internazionale di giustizia assegnò Preah Vihear a Phnom Penh, accettando la linea di confine tracciata dal trattato franco siamese del 19072.

Nei decenni che seguirono ci furono scaramucce e diverbi politici, ma fu principalmente dal 2006 che Preah Vihear divenne un motivo di scontro politico in Thailandia e, di riflesso, con la Cambogia. Il 3 ottobre 2008 iniziarono i primi scontri che si protrassero, tra momenti di pace e distensione, per i successivi tre anni. Hun Sen ne uscì decisamente rafforzato, sia perché sotto il suo governo la Cambogia aveva ottenuto un altro patrimonio Unesco, sia perché veniva visto come garante dell’integrità territoriale del paese3.

In Thailandia, invece, il caos politico in cui era precipitato il paese venne esasperato anche con la propaganda ultranazionalista delle camicie gialle del Pad (People’s alliance for democracy) contro il principale partito avversario guidato dalla famiglia Shinawara, che aveva legami politici ed economici con Hun Sen4.

Situazione in sospeso

Nel gennaio 2011 la Thailandia iniziò la costruzione di una strada carrozzabile sul territorio conteso e gli scontri furono inevitabili. Nonostante la contrarietà dell’Asean, la Cambogia portò la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu che diede all’Indonesia il compito di mediare tra i due contendenti. A causa dell’opposizione della Thailandia, la missione indonesiana non venne mai alla luce e, anzi, gli scontri aumentarono d’intensità. Solo dopo le elezioni thailandesi del 3 luglio 2011, che videro la vittoria di Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin, le relazioni tra i due paesi si fecero meno rigide. La questione di Preah Vihear è oggi di nuovo messa a tacere, ma rimane comunque pronta ad esplodere appena se ne presenterà l’occasione.

P.Pes.

Note

  1. The Asean Declaration (Bangkok Declaration), Bangkok, 8 Agustus (sic) 1967, Articolo 2, paragrafo 2.
  2. Case concerning the Temple of Preah Vihear (Cambodia v. Thailand), ICJ Reports , 15 giugno 1962.
  3. Survey of Cambodian Public Opinion, International Republican Institute, 22 ottobre-25 novembre 2008, 31 luglio-26 agosto 2009.
  4. Thaksin Shinawara, il principale esponente della famiglia, fu per un certo periodo consigliere speciale del governo di Hun Sen e la Cambogia rifiutò la sua estradizione in Thailandia.

Coltivazione del riso in cambogia. Foto Piergiorgio Pescali.


Hanno firmato questo dossier:

Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sud Est asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È autore dei libri: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, Nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015), La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019), Capire Fukushima (Lekton, 2021), Cappuccino bollente senza schiuma (Porto Seguro, 2021), Il pericolo nucleare in Ucraina (Mimesis, giugno 2022). Da anni è un assiduo collaboratore di MC.

Dossier a cura di Paolo Moiola.




Rom, rifugiati nei margini

8 aprile: Giornata internazionale dei Rom, Sinti e Camminanti


Antonio vive in un camper con la sua famiglia, costretto alla marginalità come decine di migliaia di altri Rom in Italia e in Europa.
Le radici della sua condizione affondano nella storia delle popolazioni romanì nel nostro continente, segnata da secoli di politiche di sterminio, sfruttamento, riduzione in schiavitù o assimilazione forzata.
Le prime tracce di Rom in Italia risalgono al XV secolo. Oggi si stima che siano tra i 130 e i 150mila, concentrati nelle grandi città. La gran parte (quella che non fa notizia) vive in case normali. Gli altri sono costretti, loro malgrado, a vivere in situazioni al limite dell’umano: nei «campi nomadi», quelli inventati dalle stesse istituzioni che a ogni campagna elettorale, li vogliono radere al suolo.



Rom, tra pandemia, sgomberi e roghi.

Una roulotte sotto casa

Antonio vive in un camper con la sua famiglia nella zona Nord di Torino. Costretto a stare per strada, è esposto ai pericoli del vivere isolato. Nei primi mesi della pandemia non può svolgere le attività informali che prima gli davano da mangiare e, in più, subisce continui controlli delle forze dell’ordine. La condizione di violazione dei diritti di centinaia di persone costrette, come Antonio, a vivere un nomadismo forzato, pare senza via d’uscita.

Tra fine febbraio e inizio marzo 2020, il numero dei contagi e delle morti provocate dal Covid-19 porta rapidamente l’Italia dentro il primo lockdown. Uscire di casa è proibito, a meno che non sia strettamente necessario. È obbligatorio compilare un’autocertificazione per qualsiasi spostamento. Se si esce di casa si può essere fermati, identificati e, nel caso di violazioni delle misure straordinarie, sanzionati.

Antonio e il nomadismo forzato

Conosciamo Antonio in un pomeriggio di marzo 2020. C’è il sole a Torino. Nei minimi spostamenti consentiti per le strade del nostro quartiere, Barriera di Milano, passiamo spesso vicino ai camper e ai furgoni di alcune famiglie. Sono persone sgomberate da «campi nomadi» legali e da baraccopoli illegali della zona Nord e disperse dalle forze dell’ordine in giro per la città.

Quello che potremmo chiamare il «popolo dei camper», è cresciuto nel territorio torinese nel giro di pochissimi anni grazie al «Progetto speciale campi nomadi» della giunta 5 Stelle che, a partire dal 2017, ha sgomberato e sfollato individui e famiglie da svariati insediamenti e baraccopoli formali, tollerate e informali in tutta la città.

Una pratica odiosa, parte di una campagna elettorale permanente sulla pelle di persone povere e senza casa, che ha provocato ulteriore sofferenza e nomadismo forzato dopo gli sgomberi della precedente giunta Pd, non ultimo quello di circa duemila persone dalla baraccopoli di Lungo Stura Lazio nel 2015.

Molti hanno deciso di vivere nei camper perché costretti dagli sgomberi, o perché in fuga dai campi autorizzati gestiti dal comune, dentro i quali i conflitti e la violenza sono intollerabili.

I campi autorizzati, infatti, non sono come gli insediamenti informali che si creano sulla base di gruppi e famiglie che si conoscono, hanno origini, lingua, tipo di attività informali comuni, e nei quali, in genere, ci sono reti di solidarietà e cooperazione. Quelli formati dal comune sono spazi di segregazione dove ogni tipo di convivenza è forzata e artificiale. Al loro interno sono costrette a convivere famiglie e gruppi che non hanno nulla da condividere se non la povertà, il mancato accesso a una casa, e l’etichetta etnica tanto cara agli uffici speciali per «nomadi» che li considera, appunto, «nomadi», e quindi adatti ad abitare nella precarietà ed emarginazione.

Fermati sei volte al giorno

I nostri vicini di casa in camper sono proprio tra quelle famiglie costrette a lasciare i campi.

Antonio vive per strada con la sua famiglia e parcheggia spesso da queste parti.

Nei giorni del lockdown ci capita di passare a salutarlo. A volte gli portiamo un pacco di mascherine difficili da trovare.

Una volta, mentre siamo con lui, veniamo avvicinati con fare aggressivo da vigili in borghese per essere identificati. Fermano solo noi, mentre altre decine di persone sostano o transitano indisturbate sullo stesso marciapiede.

Nelle settimane seguenti, Antonio, sua moglie e i suoi bambini, tutti molto piccoli, verranno identificati fino a cinque, sei volte al giorno da qualsiasi forza dell’ordine.

All’esasperazione procurata dalla cosa in sé, si aggiunge la preoccupazione per il contagio: essere avvicinati da estranei potenzialmente infetti così di frequente non lascia tranquillo Antonio.

Cosa succede in via Germagnano

Il primo lockdown stabilisce restrizioni alla libertà di movimento di tutta la popolazione.

Nel quartiere osserviamo che il comportamento delle forze di polizia diventa più aggressivo e che si concentra in particolare su chi non può «restare a casa» perché una casa non ce l’ha.

Oltre a colpire, in generale, le persone fragili o considerate problematiche, il lockdown toglie qualsiasi possibilità di reddito a chi abitualmente cerca oggetti da recuperare nei bidoni della spazzatura o ricicla e separa i metalli.

All’improvviso, a Torino, migliaia di persone che riuscivano a sopravvivere grazie alle attività informali legate al mercato di libero scambio di via Carcano e del Balon o a quello di Porta Palazzo, non possono più lavorare.

In queste stesse settimane in via Germagnano continuano le operazioni di sgombero del «Progetto speciale campi nomadi» sottoscritto nel dicembre 2019 da regione Piemonte, comune di Torino, prefettura e diocesi. Il progetto, che parla di «superamento dei campi», prevede, di fatto, di radere al suolo le baraccopoli di via Germagnano, sia quella formale costruita dal comune durante la giunta Chiamparino nel 2004 (la più grande di Torino dopo quella di Lungo Stura Lazio, sgomberata alla fine del 2015 dall’amministrazione Pd con il progetto «La città possibile»), sia quelle proliferate nell’arco di vent’anni, abitate in prevalenza da persone originarie della
Romania, e raddoppiate proprio in conseguenza dello sgombero del 2015.

Con le restrizioni dovute all’emergenza, nessuno al di fuori del campo può raggiungere le baraccopoli per capire cosa sta realmente accadendo. Alcuni amici sotto sgombero che abitano lì, possiamo solo sentirli al telefono.

Nonostante l’emergenza sanitaria, i controlli da parte del Rime, il Reparto informativo minoranze etniche, nuova denominazione politicamente corretta del «nucleo nomadi» della polizia municipale di Torino, sono continui e, non appena la persona o la famiglia non è presente, la baracca viene sequestrata e, spesso, distrutta. A volte le persone tornano a casa dopo poche ore e trovano la propria abitazione demolita con tutti i loro beni personali all’interno. Lo shock, il dolore, il senso d’impotenza, la sofferenza di fronte ad abusi che non saranno mai puniti né raccontati è terribile.

In quattrocento per strada

A metà aprile 2020, nelle varie baraccopoli di via Germagnano vivono più di 400 persone. Non possono uscire dal campo per andare ai bidoni o cercare cibo nei mercati di zona o chiederne davanti ai supermercati. Se lo fanno, ed è successo a molti, prendono multe di 400 euro e denunce penali per violazione del dpcm del 9 marzo 2020.

Varie persone, anche anziane, e famiglie intere, perdono la casa per essersi allontanate dal campo in cerca di cibo e per altre necessità.

Le baraccopoli devono essere distrutte ad ogni costo in vista delle elezioni amministrative del 2021, e quindi dell’imminente campagna elettorale. Ufficialmente, la distruzione delle baracche senza alternativa abitativa equivale, nei documenti del Comune, al «superamento dei campi» e al rispetto delle direttive dell’Unione europea.

Qualche mese dopo, nella settimana tra il 14 e il 21 agosto 2020, nel silenzio e nell’invisibilità più totali, viene distrutta la maggior parte delle baracche ancora in piedi di via Germagnano. I Rom e i poveri devono sparire. In meno di un mese vengono buttate in strada più di 200 persone.

Chi viene sgomberato si accampa dove può.

La tensione è fortissima, come la rabbia per i nuovi sgomberi di famiglie che erano già state sgomberate da poco. Nostri amici e conoscenti cercano rifugio in zone e margini invisibili ai più.

Il 1° settembre, un blitz della Rime caccia da Piazza d’Armi decine di persone che si sono accampate lì con le tende perché appena sgomberate. Mandano via anche altre persone senza casa, italiane e non, già presenti nel parco.

All’alba del 10 settembre, altre venti famiglie allontanate da via Germagnano pochi giorni prima, vengono sgomberate da un piccolo terreno nascosto e abbandonato da più di vent’anni in via Reiss Romoli. Nello stesso terreno vivono già tre nuclei famigliari sgomberati da Lungo Stura Lazio nel 2015. Loro vengono lasciati lì.

Una volta concluso lo sgombero di via Germagnano, la comunicazione ufficiale dell’amministrazione comunale e della sindaca non fa alcun riferimento alle persone buttate per strada, ma cita unicamente le operazioni di «pulizia e bonifica» della zona e la rimozione di rifiuti. Sulla stessa scia, molti giornali e media locali non parlano delle persone sfollate, ma solo, in modo paradossale, del numero di animali, cani, gatti e galline, che girano ancora tra le macerie.

Tra pandemia, sgomberi e roghi

Molte persone e famiglie si disperdono per la città in cerca di luoghi in cui poter stare, anche solo per qualche giorno, invisibili e nascosti. Non mancano nuove occupazioni di piccoli terreni e di appartamenti vuoti di proprietà Atc (l’Agenzia territoriale per la casa che gestisce il patrimonio di case popolari di Torino e Piemonte). Molte persone hanno perso tutto con la distruzione della baracca o della roulotte. Ad alcuni viene imposto di andare in altri campi.

Una roulotte, la casa di una famiglia che da vent’anni viveva in via Germagnano e che è stata sgomberata, posizionata nella «zona orti» di Lungo Stura Lazio seguendo le indicazioni della polizia municipale e in presenza della stessa, viene data alle fiamme di notte da qualcuno che non vuole «zingari» nei paraggi. Le minacce di dare tutto alle fiamme, comprese le persone, sono iniziate non appena la roulotte è stata posizionata nella zona demaniale, troppo vicina agli orti di Lungo Stura Lazio usati dai residenti della zona per grigliate e altre attività.

Malgrado la denuncia delle vittime sotto shock che, per puro caso, la notte non dormivano nella roulotte ma in una baracca di amici vicina al loro mezzo, al momento non è stata fatta alcuna indagine da parte delle forze dell’ordine. La famiglia ha perso nel rogo tutti i beni personali e i documenti.

Nell’estate del 2020 sono numerosi gli episodi di aggressioni fisiche e verbali ai danni di persone che si ritrovano di colpo per strada.

Per la grande distruzione di agosto 2020, i consiglieri di opposizione in comune – quelli che sarebbero diventati poi la maggioranza alle successive elezioni – fanno sentire la loro protesta. Non tanto, però, per la violenza degli sgomberi, avvenuti senza offrire alcuna alternativa abitativa a centinaia di persone, quanto perché, secondo loro, la giunta a 5 Stelle ha «propagato» i Rom in giro per la città. Come la peste.

Nascosti da tutti

Le segnalazioni di cittadini e imprenditori che, dalle loro case o uffici, chiamano vigili e polizia, sono continue. Anche in piena notte.

Molto spesso l’esito delle chiamate è l’allontanamento delle persone e del loro mezzo, che si sposteranno in qualche altro luogo nel quale, di nuovo, non saranno graditi.

Al pregiudizio e all’odio, poi, si aggiunge il clima pesante della pandemia. A chi ha bambini piccoli e minori, viene intimato di tenerli tutti rinchiusi dentro i camper. Diverse persone dentro pochi metri quadrati. Perché «i cittadini vedono dalle finestre i bambini giocare sul marciapiede».

Vale la pena raccontare un ultimo episodio risalente all’estate 2021 e passato sotto silenzio: il rogo notturno di un altro camper parcheggiato in un luogo isolato, alle Vallette, Torino Nord. Questa volta nel camper dorme un’intera famiglia di Rom, e viene sfiorata la strage. È il pianto di un neonato che salva tutti svegliando la mamma giusto in tempo perché si accorga del fuoco e metta in salvo i figli. Del camper non rimane nulla. Pare che, prima del rogo, sia stato cosparso di benzina con grande perizia. Sotto il mezzo sono rinvenuti due secchi colmi di combustibile e un’altra tanica piena viene trovata a pochi metri.

La richiesta delle istituzioni nei confronti di chi è Rom, di chi è povero e senza casa, è sempre la stessa, e produce i suoi effetti: devono essere invisibili, devono sparire appena arriva un controllo, parcheggiare lontano dalle case, nascondersi alla vista dei cittadini «perbene».

È fondamentale che siano lontani da tutto e da tutti. Anche per bruciare.

Manuela Cencetti


Il docufilm

La versione di Jean è la storia di un uomo che vive nel «campo rom» di Lungo Stura Lazio, nella periferia Nord di Torino. Jean mostra, con i suoi filmati e con quelli di altri abitanti della baraccopoli, un mondo precario, continuamente distrutto da «progetti speciali» per i Rom, da improvvisi sequestri giudiziari e sgomberi forzati. Un punto di vista che, per una volta, viene dall’interno.

Il film, prodotto nel 2020 da Manuela Cencetti, autrice di questo dossier, Jean Diaconescu e Stella Iannitto, ha partecipato al 38° Torino Film Festival.


Secoli di schiavitù, sfruttamento, esclusione.

Fino al «grande divoramento»

In Europa, la storia delle popolazioni romanì coincide con secoli di politiche di sterminio, sfruttamento, riduzione in schiavitù o assimilazione forzata. Dal loro probabile arrivo nel vecchio continente dall’India intorno al Mille dopo Cristo, la loro esclusione e persecuzione si fa via via sempre più strutturata e spietata, fino alla sciagura nazista che uccide 500mila Rom in quello che loro chiamano il «barò porrajmos».

Sul numero di individui e famiglie rom, o che si autodefiniscono tali, presenti in Europa, non esistono rilevazioni recenti o precise. Quantomeno, è difficile fare una stima attendibile. Anche perché, nei secoli, dichiarare le proprie origini rom ha sempre comportato il rischio, o la certezza, di essere stigmatizzati, perseguitati, banditi, ridotti in schiavitù. E nasconderle ha spesso garantito maggiori possibilità di sopravvivenza, specie dopo la Seconda guerra mondiale.

Storicamente, sotto la definizione di Rom si riunisce una varietà molto ampia di gruppi che mostrano tra loro diversità culturali anche notevoli, a cominciare dalla lingua. Se la lingua comune, infatti, è il romanés, nelle diverse regioni e paesi nei quali vivono, essa presenta molte varianti.

Il romanés è una lingua e al contempo un continuum di dialetti molto contaminati dalle lingue dei gagé (i non rom) presso i quali si trovano, per lessico, fonetica, grammatica.

Come sostiene l’antropologo Leonardo Piasere, al di là dei tentativi di determinare chi sia un «vero Rom», l’unico tratto davvero comune, persistente nel tempo e nello spazio, è la sua stigmatizzazione.

In Europa, la storia delle popolazioni romanì coincide con secoli di politiche di sterminio, sfruttamento, riduzione in schiavitù o assimilazione forzata. Questo continuum di violenta esclusione o di feroce inclusione ha generato nei Rom un rapporto ambivalente con la società maggioritaria dalla quale cercano di proteggersi e nella quale, al contempo, cercano di immergersi.

Tracce dei primi Rom in Europa

È difficile parlare di una supposta «vera» origine dei popoli rom. La lingua romanés porta con sé l’eredità di alcuni idiomi dell’India del Nord Ovest e delle successive migrazioni attraverso Persia, Armenia e Grecia.

È probabile che alcuni gruppi di Rom entrino nell’Impero Bizantino poco dopo l’anno Mille, e che si disperdano in Grecia e in Medio Oriente. Successivamente, dal Trecento, iniziano a migrare nello spazio europeo. Una parte di questi gruppi è ridotta in schiavitù nei principati di Valacchia e Moldavia, un’altra parte si spinge verso l’Impero Ottomano convertendosi all’Islam e migrando verso la penisola balcanica.

Come spiega Nando Sigona nel suo lavoro del 2002, Figli del ghetto, le prime tracce della loro presenza in Europa risalgono al 1362, nell’attuale Dubrovnik (Croazia). Nel Quattrocento, invece, la presenza di circa 20mila nuclei famigliari rom nei Balcani è attestata dai registri delle tasse dell’Impero Ottomano. La presenza di altri gruppi è documentata in Tracia, Macedonia, Kosovo.

Nel Basso Medioevo le comunità rom entrerebbero, dunque, in contatto con le popolazioni locali e si specializzerebbero in alcuni mestieri come la lavorazione dei metalli, l’allevamento di bestie e cavalli, l’ammaestramento di orsi e altri animali, la lavorazione di vimini e legno, le arti della danza e della musica, le arti acrobatiche.

Piasere osserva che nella zona balcanica il modello seguito è «quello dell’inserimento dei Rom nelle strutture socio economiche locali attraverso il sistema tributario e/o lo sfruttamento coatto della forza lavoro». Nell’Impero Ottomano i Rom non vengono banditi. Un altro trattamento, invece, viene riservato loro nei principati cristiani di Valacchia e Moldavia, per secoli vassalli degli imperatori ottomani. In essi è istituito il più grande sistema schiavistico di «zingari» dell’Europa moderna che durerà dal Trecento fino alla seconda metà dell’Ottocento. Nell’attuale Romania questa lunga storia di schiavitù è un argomento assente dai libri di storia.

Inizia la guerra al vagabondaggio

Nell’Europa occidentale, le persecuzioni contro i Rom iniziano nel corso del Quattrocento, quando si fortifica la struttura dello stato nazione e si iniziano a controllare maggiormente i confini. È a partire da questo periodo che per i Rom si fa sempre più difficile inserirsi nelle strutture socio economiche locali. Si trovano davanti a una scelta: l’annientamento della loro identità oppure la morte, la prigione o il bando.

Stati italici e germanici di piccole dimensioni, già a partire dal Cinquecento, sviluppano una vera e propria ossessione «antizingara». Ne è testimonianza la produzione continua di decreti: quasi uno all’anno, tra il 1493 e il 1785, nei piccoli stati italiani, compreso lo Stato della Chiesa, con forze speciali e milizie dedicate all’applicazione delle norme attraverso vere e proprie cacce a «questa razza di gente», come vengono definiti i Rom nell’Italia tra Cinquecento e Settecento.

La lotta antizingara si inserisce in una più ampia guerra al vagabondaggio, utile a proletarizzare mendicanti, reietti e fuorilegge nella transizione epocale dal feudalesimo al capitalismo.

I Rom vengono considerati, però, una categoria a parte, dato che la loro marginalità è utilizzata dagli stessi Rom per sfuggire alla proletarizzazione e mantenere la loro autonomia.

Si determina in questo modo una spirale sanguinaria: alla violenza della società maggioritaria, i Rom oppongono forme di resistenza e disobbedienza.

Nel corso del tempo, con il rafforzamento dello stato moderno e dei suoi apparati, i Rom diventano l’emblema di quello che il buon cittadino non deve essere, e quindi etichettati come non cittadini, stranieri interni, privi di diritti. Come sostiene Piasere, «lo stato moderno nasce anche sull’antiziganismo».

Molti di questi gruppi o comunità, per secoli, sono perseguitati, mettendo a dura prova la loro stessa esistenza. Nel corso del Cinquecento e del Seicento, alcuni gruppi di Rom resistono anche attraverso le armi.

Il paradosso dell’Occidente risiede nell’uso della violenza contro i «risultati» delle sue stesse politiche: più perseguita i Rom per la loro organizzazione sociale «a polvere» (come la definisce Piasere), più i Rom la fanno propria, sparpagliandosi, incontrandosi, disperdendosi.

Fino al «grande divoramento»

Nel corso del Settecento inizia a svilupparsi lo studio delle razze e l’evoluzionismo. Ora non esistono più le razze «maledette», ma quelle «selvagge», considerate inferiori perché non evolvono e presentano limiti biologici.

Più avanti, nell’Ottocento, grazie ai contributi di Lombroso, gli «zingari» smettono di essere considerati «selvaggi di casa nostra», e iniziano a essere «razza delinquente atavica».

L’Ottocento è un secolo nel quale, a seguito di diversi conflitti, riprendono i movimenti migratori dei Rom. Nuovi flussi si muovono dai Balcani verso l’Europa occidentale. Con la fine della schiavitù in Moldavia e Valacchia, la presenza delle comunità rom si espande anche nelle regioni dell’Europa centrale e, con il tempo, in Austria e Germania.

A fine Ottocento, i contributi lombrosiani alla «razziologia criminale» iniziano a rendere gli «zingari» una categoria giuridica a sé, criminalizzandola. In Germania e Francia si creano uffici appositi per la gestione dei soggetti «zingari».

Tra il 1942 e il 1945, almeno 500mila Rom sono uccisi nei lager anche in seguito a queste teorie. La Germania nazista e i paesi dell’Asse mettono in atto lo sterminio delle popolazioni romanì, chiamato dalle comunità sopravvissute il «barò porrajmos», il «grande divoramento».

La Germania nazista elimina i Rom sulla base di genealogie e «diagnosi razziali» prodotte dai due antropologi eugenisti Robert Ritter e Eva Justin. Questi stabiliscono il grado di purezza dei Rom. All’inizio, per i «Rom puri» si pensa alla creazione di una riserva affinché non si mischino con le altre razze, ma alla fine vengono comunque tutti annientati. Dopo la guerra, i due antropologi non verranno mai processati.

Il caso del fascismo romeno

In Romania, nel corso della Seconda guerra mondiale, le popolazioni rom vivono una storia di annientamento ancor meno conosciuta e indagata dello sterminio nazista. Il regime fascista del maresciallo Ion Antonescu, tra il 1942 e il 1944, deporta 25mila Rom in Transnistria, nella regione tra i fiumi Nistru e Bug. Le persone sono costrette a viaggiare a piedi o su vagoni per lunghe settimane. Le autorità spogliano di ogni bene i deportati che muoiono nudi, a cielo aperto, di freddo, di fame, di malattie e di morte violenta. Molte donne e ragazze vengono stuprate. Se si oppongono vengono uccise.

In un rapporto governativo del 1942 si legge: «Per tutto il tempo che i Rom sono stati nella caserma di Alexandrudar, hanno vissuto in una condizione di miseria indescrivibile. […] Si davano 400 grammi di pane agli adulti e 200 grammi a bambini e anziani. Gli si davano anche un po’ di patate e raramente del pesce affumicato. Perciò molti sono dimagriti talmente che sembrano scheletri. Ogni giorno muoiono dieci quindici zingari. Sono pieni di parassiti. La visita medica non viene fatta e le medicine non ci sono. Sono senza vestiti, scarpe. Alcune donne hanno il corpo vuoto, nel vero senso della parola. Il sapone non gli è stato mai distribuito, perciò non possono lavarsi, né lavare i propri indumenti. In generale la situazione degli zingari è terribile, molto vicina all’impossibile».

Manuela Cencetti


Minoranza perseguitata

È difficile stabilire quanti siano i Rom nel mondo, in Europa e nei singoli paesi. Le stime più accreditate (ad esempio dal Consiglio d’Europa) parlano di circa 15 milioni di Rom nel mondo, di cui 12 milioni in Europa. Il 60-70% di questi ultimi risiede nell’Europa centro orientale, in alcune delle regioni più povere del continente. Il 15-20% vive tra Spagna e Francia. Nella loro eterogeneità, le popolazioni romanì rappresentano la più grande minoranza nel continente e la più discriminata. Semplificando molto, possono essere identificate in cinque gruppi principali: i Rom, o Romà, o Romi; i Sinti; i Kale o Kalos; i Manuś e i Romanićels.

Italia

Come riportato nell’ultimo report dell’Associazione 21 luglio (L’esclusione nel tempo del Covid. Comunità rom negli insediamenti formali e informali in Italia. Rapporto 2021), in Italia i gruppi rom sarebbero 22, associati a differenti flussi migratori:

  • i Rom italiani di antica migrazione, giunti nel nostro paese a partire dal XV secolo e suddivisi in cinque gruppi (Rom abruzzesi, celentani, basalisk, pugliesi e calabresi);
  • i Sinti, anch’essi di antica migrazione, che comprendono nove gruppi (Sinti piemontesi, lombardi, mucini, emiliani, veneti, marchigiani, Sinti gàckanè, Sinti estrekhària, Sinti kranària);
  • i Rom balcanici di recente immigrazione, suddivisi in almeno cinque gruppi, a loro volta divisi in quelli giunti in Italia tra le due guerre e quelli arrivati tra il 1960 e la seconda metà degli anni Novanta (Rom harvati, Rom kalderasha, Rom xoraxanè, Rom sikhanè, Rom arlija/shiptaira);
  • i Rom di recente immigrazione tra i quali i Rom rumeni e i Rom bulgari.
  • Il governo italiano include nella Strategia nazionale d’inclusione dei Rom, Sinti e Camminanti, questi ultimi che sono un gruppo originario di Noto, in provincia di Siracusa.

M.C.


Italia: il «paese dei campi».

Nomadi per forza

Le prime tracce di Rom in Italia risalgono al XV secolo. Oggi si stima che siano tra i 130 e i 150mila, concentrati nelle grandi città. La gran parte (quella che non fa notizia) vive in case normali. Gli altri sono costretti, loro malgrado, a vivere in situazioni al limite dell’umano: nei «campi nomadi», quelli inventati dalle stesse istituzioni che a ogni campagna elettorale, li vogliono radere al suolo.

Sono circa 12 milioni i Rom e i Sinti europei. Circa 9-10 milioni risiedono in stati membri dell’Unione europea.
In Italia, molti vi sono presenti da secoli. In termini numerici la loro presenza varia tra le 130mila e le 150mila persone, circa lo 0,23% della popolazione (una percentuale piccola se confrontata con quella di altri paesi, per esempio l’11,5% della Macedonia, il 9,3% della Bulgaria, il 9,2% della Slovacchia, il 9% della Romania). Circa la metà, cioè più o meno 70mila persone, ha la cittadinanza italiana. Si tratta dei discendenti di gruppi giunti nella penisola a partire dal XV secolo fino al 1950 circa. Il resto proviene, invece, da vari paesi dell’ex Jugoslavia, e dai più recenti flussi migratori provenienti da Romania e Bulgaria (dunque, cittadini comunitari). La gran parte di essi risiede nelle città di Milano, Torino, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Genova.

A causa delle politiche di esclusione, prima di tutto amministrative, il numero degli apolidi, soggetti privi di un regolare documento italiano o del paese di provenienza, è ancora alto.

Le città impossibili

Come osserva Nando Sigona, le città «incapaci di accogliere si barricano a difesa dei propri microsistemi». In questo tempo, attraverso politiche di sgombero e persecuzione, nelle città si cerca di far sparire gruppi «indecorosi» e «non docili» di poveri e senza casa, di fragili e ricattabili. Si tratta di un’umanità considerata in eccesso, sacrificabile, inutile, improduttiva, parassitaria, non adatta alle regole della società maggioritaria.

Eppure, tutta questa umanità vuole restare in città. Perché è nello spazio urbano che può sopravvivere chi non ha nulla: grazie ad attività informali come i mercatini dell’usato, il recupero di oggetti e vestiti, il riciclo di scarti e metalli, e grazie all’accesso più facile a servizi, sanità e scuola.

Le politiche di esclusione espellono persone etichettate come Rom, assieme agli altri «non recuperabili». La violenza dei continui controlli e degli sgomberi, delle pratiche amministrative che ostacolano, ad esempio, il riconoscimento della residenza e, di conseguenza, di diritti come l’iscrizione all’anagrafe, al servizio sanitario nazionale, alle scuole, rendono la vita quotidiana impossibile costringendo a volte le persone a spostamenti da un comune all’altro.

Dal Quattrocento al fascismo

I principali gruppi di Rom e Sinti in Italia, così come negli altri paesi, presentano molte differenze tra loro, sia sotto l’aspetto linguistico, sia in termini di autodenominazione.

Il gruppo più antico in Italia è quello dei Sinti. Come sostengono Tommaso Vitale ed Elena Dell’Agnese, è probabile che essi si siano stabiliti nelle regioni del Centro Nord della penisola a partire dal Quattrocento. Le comunità più numerose si trovano in Emilia-Romagna, Marche, Veneto, Lombardia e Piemonte. Probabilmente, quelle di più antico insediamento sono abruzzesi e molisane. Altre sono presenti in Campania, Puglia, Lazio, Umbria, Toscana e Alto Adige.

I Rom kalderasha e lovara (Rom danubiani) sono arrivati in Italia all’inizio del secolo scorso. La maggior parte dei Rom kalderasha ha la cittadinanza italiana, mentre il resto ha una provenienza più recente dai paesi dell’Europa centro orientale. Sono invece pochi i Rom lovara che hanno la cittadinanza italiana.

Per comprendere bene questi flussi di fine Ottocento, inizio Novecento, è importante ricordare la condizione di schiavitù in cui hanno vissuto per 500 anni le popolazioni rom nei principati di Valacchia e Moldavia, regioni molto estese che oggi fanno parte della Romania. «Gli zingari sono nati per essere schiavi, chiunque sia nato da una madre schiava non può essere altro che schiavo…», statuiva il Codice della Valacchia, all’inizio del XIX secolo. La riduzione in schiavitù dei Rom e il loro commercio è stata una prassi in quei territori a partire dal Trecento fino a metà Ottocento quando è stata ufficialmente abolita tra il 1855 e il 1856. Dopo la liberazione, un gran numero di Rom è migrato verso l’Europa centrale e occidentale, e oltreoceano, verso le Americhe.

Altri gruppi (circa 7mila persone) come i Rom harvati (croati), si sono stabiliti nel Nord Est dell’Italia a partire dal 1920. In particolare, molte comunità hanno cercato rifugio nel territorio italiano tra le due guerre mondiali per sfuggire alle persecuzioni degli ustasha e all’olocausto nazista. Gli ustasha erano un movimento nazionalista e clerico fascista croato guidato da Ante Pavelić, creato nel 1929 e alleato dei nazisti tedeschi e fascisti italiani nel corso della Seconda guerra mondiale. Le milizie ustasha hanno trucidato quasi l’intera popolazione rom allora presente nel paese, circa 25mila persone.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, quasi nessuna famiglia è ritornata in Croazia. La maggior parte dei Rom harvati, attualmente, ha la cittadinanza italiana.

È importante ricordare che in Europa, nel corso della Seconda guerra mondiale, come ricorda Sigona, citando Giovanna Boursier, gli «zingari furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, gasati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché zingari e, secondo l’ideologia nazista, razza inferiore, indegna d’esistere». Questo non è avvenuto solo in Germania, ma anche in Italia, Jugoslavia, Francia, Belgio, Olanda, Polonia.

Dal secondo dopoguerra

Dopo la Seconda guerra mondiale, in Europa si sono verificate altre crisi politiche, economiche e sociali, sono caduti regimi o si sono dissolti stati, mentre sono scoppiate nuove guerre e persecuzioni. In questo scenario, chi era più precario, povero e discriminato, ha faticato più degli altri a trovare pace e stabilità.

I Rom xoraxané, di religione musulmana e originari della Bosnia e del Montenegro, e i Rom dasikané e khanjára, di religione cristiano ortodossa, originari della Serbia, sono giunti in Italia tra fine anni ’60 e fine anni ’70. In questo periodo ne sono arrivati circa 40mila in seguito alla crisi economica causata dalla riforma finanziaria promossa da Tito che aveva portato alla chiusura di fabbriche storiche, collocate nelle aree più depresse del paese. La crisi, dopo il 1980, con la morte di Tito, si è ampliata e ha segnato la fine della convivenza interetnica in Croazia, Bosnia, Serbia e Macedonia. I flussi sono aumentati con la guerra in Bosnia scoppiata nel 1992 e, tra il 1998 e il 1999, a seguito del conflitto in Kosovo.

Dopo la caduta del regime di Ceaușescu, all’inizio degli anni ’90, la Romania ha vissuto una terribile crisi economica che ha colpito immediatamente le fasce più povere e discriminate del paese. Molti gruppi di Rom romeni sono fuggiti verso occidente a causa dei pogrom e della violenza razzista, e hanno iniziato ad arrivare anche in Italia.

Molti di loro hanno chiesto inutilmente lo status di rifugiati. Oggi sono presenti soprattutto nelle grandi città. Altre comunità rom originarie della Romania, che si autodenominano «Rom romenizzati», vivono in baraccopoli.

Come si diventa il «paese dei campi»

Per capire come si è arrivati alle politiche di segregazione abitativa e razzismo differenziale adottate in Italia nei confronti dei Rom nella seconda metà del Novecento, è utile fare riferimento alle narrazioni relative alla presunta «mobilità permanente» degli individui etichettati come «nomadi» nello spazio europeo.

Almeno fino all’inizio degli anni Settanta, in Italia, i Rom non erano oggetto di provvedimenti specifici: nel 1973, il presidente del Consiglio Giulio Andreotti affermava, infatti, che: «Nell’organizzazione giuridica italiana, non esiste alcuna disposizione che interdica il nomadismo, né delle norme particolari alle quali si debbano sottomettere i nomadi in ragione del loro modo di vivere».

Questa posizione del governo centrale, però, era ambigua, e lasciava ampia discrezionalità alle istituzioni locali che discriminavano e perseguitavano migliaia di individui rom e sinti che vivevano già in condizioni di esclusione e confina- mento nei primi «campi» e «aree sosta».

Il problema di ottenere la residenza anagrafica era già molto sentito negli anni ‘60. A questo tipo di discriminazioni amministrative, si aggiungevano pratiche già in voga da tempo, come le perquisizioni senza mandato e le espulsioni.

Risale al 1965 la costituzione dell’Opera Nomadi, associazione costituita per promuovere e tutelare gli «zingari» e favorevole all’istituzione dei «centri sosta». In quegli anni, le amministrazioni locali mettevano ovunque cartelli di divieto di sosta indirizzati ai «nomadi». Non era ancora stata emanata la prima circolare del ministero dell’Interno, datata 11 ottobre 1973, a tutela del diritto al nomadismo. Le carovane degli «zingari nomadi» erano costrette dalla polizia a spostarsi in continuazione da una località a un’altra, con effetti negativi sui loro commerci e sulle attività legate ai loro mestieri.

Nel 1970 l’Opera Nomadi è stata riconosciuta come ente morale, un passaggio che ha segnato, in qualche modo, il primo riconoscimento in Italia dell’esistenza delle popolazioni romanì. Allo stesso tempo, tuttavia, è stato la spia di una precisa tendenza politica: lo stato italiano delegava le condizioni di vita di Rom e Sinti a un’associazione privata che, man mano, ha realizzato un circuito sempre più strutturato di carità e mobilitazione di risorse, finalizzato all’assistenza e ai bisogni primari delle comunità romanì.

Questa situazione si è protratta per decenni, inducendo un po’ per volta gli stessi Rom a delegare a Opera Nomadi il ruolo di mediazione tra loro e le istituzioni. Questo ha provocato una crescente dipendenza dal circuito della carità.

Prima di arrivare agli anni ’80 e all’istituzione dei «campi», è importante capire come la segregazione spaziale, gli abusi, le persecuzioni si siano fondati su una politica nazionale di negazione del problema delle discriminazioni e, al contempo, di delega alle regioni e ai comuni. Per riprendere un’espressione impiegata dallo European Roma Rights Center in un Rapporto del 2000, l’Italia è diventata il «paese dei campi» attraverso la produzione di leggi regionali già a partire dagli anni ’80.

Due casi emblematici: Milano e Torino

Molto interessanti sono gli esempi, analizzati da Sigona, di interventi politici di due comuni del Nord nei confronti delle popolazioni rom: Milano e Torino. Nel 1965 il comune di Milano presenta un progetto pilota, definito come «innovativo e a favore degli zingari». Si vuole avviare un’azione globale per «civilizzarli», ma senza discriminazioni o paternalismi.

Secondo Leonardo Piasere, in Le pratiche di viaggio e di sosta delle popolazioni nomadi in Italia, si tratta di «un’azione concentrica di ordine educativo, sociale, sanitario ed economico (formazione al lavoro) centrata completamente sul nuovo campo sosta allestito». Proprio il campo sosta, quindi, già in questa fase, è il luogo strategico nel quale concentrare le azioni di integrazione dei Rom. Per vincere le resistenze dei «nomadi» è necessario ricorrere a un intervento su più fronti: da parte di insegnanti, assistenti sociali, datori di lavoro nei cantieri dove vengono addestrati per verificare «la loro resistenza alla fatica». La formazione al lavoro, in particolare, è considerata utile per abituare i Rom alla disciplina, agli orari, alla vita comunitaria, alla fatica.

Il problema abitativo non viene preso in considerazione: si dà per scontato che il luogo in cui i Rom devono abitare è il campo sosta.

Molti dei termini e delle «idee innovative» che caratterizzano il programma del comune di Milano del 1965 risuoneranno, pressoché identici, in discorsi politici, documenti e progetti degli anni Duemila, quando le amministrazioni locali del bel paese prevederanno spesso «iniziative a favore della popolazione Rom» (ovviamente solo in presenza di ingenti fondi da spendere). Nasceranno, quindi, a ripetizione, progetti pilota privi di qualsiasi continuità e coerenza, elaborati sempre senza interpellare o coinvolgere i beneficiari.

Questa gestione emergenziale di progetti, persone e campi, si affermerà sempre più nel corso del tempo, chiudendo ai Rom l’accesso ai percorsi normali che sarebbero predisposti per qualsiasi cittadino.

Prendono forma saperi «zingarologici» in apparenza altamente specializzati. Se «inclusione» è una parola chiave, di fatto si viene a creare una vera e propria «specializzazione dell’esclusione».

Se il caso di Milano è paradigmatico, quello di Torino lo è forse ancora di più.

Il capoluogo piemontese, infatti, vanta vari primati nella «gestione» delle popolazioni rom e sinti. Torino è stata la prima città a superare la fase transitoria: prima della legge regionale del 1993, aveva già più di un campo sosta. Alla fine degli anni ’70 se ne contavano due ufficiali e altri ufficiosi. Torino è stata anche la prima città a istituire un Ufficio stranieri e nomadi, che lo scorso anno ha cambiato nome in favore del più politicamente corretto Ufficio stranieri e minoranze etniche, sempre però all’interno del servizio Informa stranieri e nomadi della divisione servizi sociali.

Abitare nei ghetti per legge

Arriviamo quindi ai decenni nei quali, in Italia, le regioni iniziano a legiferare per tutelare il «diritto al nomadismo» e le amministrazioni delle medie e grandi città cominciano a costruire i cosiddetti «campi nomadi». Si tratta di una politica locale che si espande a partire dal Nord.

In nome dell’obiettivo dichiarato di tutelare la «loro cultura», si determina per legge una segregazione sociale e spaziale, un «abitare razzista» riservato a Rom e Sinti, considerati indistintamente «nomadi».

L’Italia, come evidenziato dal già citato report dell’European Roma Rights Center del 2000, diventa il «paese dei campi».

Uno degli esempi più tragici riguarda le popolazioni rom in fuga dalle guerre balcaniche degli anni ’90: una volta arrivate in Italia, comunità che da secoli erano stanziali in Jugoslavia e che vivevano in case, sono costrette a «riziganizzarsi» e a vivere in campi senza fognature, in abitazioni fatte di roulotte, container o baracche.

Per molti Rom, l’esperienza del campo rappresenta un vero e proprio shock. Le persone «riziganizzate» sperano che la vita in quel luogo, nella loro esistenza di profughi, sia transitoria.

I campi poi concentrano al loro interno gruppi e famiglie con origini e storie completamente diverse: non tutti, ad esempio, sono profughi di guerra, eppure, tutti sono costretti a vivere lì.

Tutte le comunità, sia quelle stanziali, sia le poche che ancora possono definirsi «nomadi», vengono accomunate da una «ragionevole» esclusione da forme abitative diverse dal campo. Tutti i campi, poi, devono essere luoghi isolati e invisibili, posti spesso nei pressi di fiumi, ferrovie e tangenziali, accanto a discariche o direttamente su terreni avvelenati di rifiuti tossici, in prossimità di svincoli autostradali e, soprattutto, con un valore fondiario molto basso.

In Piemonte, la giunta attualmente al governo ha proposto, grazie all’«ingegno» di un assessore leghista, una «nuova» legge regionale che prevede il ritorno alle «aree di transito»: i «nomadi» sarebbero autorizzati a soggiornare in queste aree per tre mesi al massimo. Per avervi accesso, essi sarebbero chiamati a soddisfare requisiti di «idoneità morale». Inoltre, è previsto un sistema di videosorveglianza in tutte le aree.

Il testo della proposta di legge regionale rende più che mai evidente quanto il processo di etnicizzazione e criminalizzazione delle popolazioni che abitano i campi sia profondo, radicato e normalizzato. E quanto sia funzionale alla propaganda politica, ossia a raccogliere qualche manciata di voti alimentando una crescente richiesta securitaria.

Manuela Cencetti


Il peso delle parole e l’emergenza abitativa

La presenza delle popolazioni romanì in Italia è molto variegata e complessa. La sua rappresentazione pubblica, veicolata spesso da personaggi politici e da un certo giornalismo, è solitamente negativa, stereotipata e pregiudiziale. Qualsiasi episodio di cronaca che riguardi più o meno da vicino una persona rom, o un insediamento nel quale vivono persone rom, rumene, slave, tutte indifferentemente etichettate come «nomadi», è sempre occasione per emettere condanne e riscuotere consensi.

La rappresentazione negativa di queste persone si è cristallizzata nell’arco di decenni anche nella produzione di leggi regionali che istituiscono i «campi sosta» come luoghi adatti alla vita di Rom e Sinti per via della loro presunta «cultura nomade», sinonimo, per secoli, di vagabondaggio, delinquenza e devianza.

Ma l’equazione «Rom = nomadi» è un’interpretazione falsa e antistorica. Essa continua a definire gruppi, famiglie, comunità intere, come non adatte al vivere «civile», asociali e sempre potenzialmente criminali. La loro presenza deve essere perennemente temporanea. Pertanto, l’unica politica abitativa pensabile per «loro» è un campo, possibilmente in un luogo isolato.

Il paradosso è che in questo modo, l’unico nomadismo che si può riscontrare in queste popolazioni è quello forzato, voluto dalle istituzioni.

È importante ricordare che dietro a ogni etichetta esiste un mondo di politiche e di pregiudizi. Attraverso le etichette si costruiscono ruoli, definizioni, identità burocratiche che servono a gestire e categorizzare «l’altro», «lo straniero», oppure gruppi o soggetti considerati devianti. Le parole tracciano confini tra la società maggioritaria e il «nemico interno», tra chi è civile, un buon cittadino, e chi non lo è.

Oltre alle etichette che definiscono soggetti o gruppi interi, esistono gli «spazi», in questo caso i «campi nomadi», che a loro volta producono gruppi precisi. Ossia, insiemi di persone che, per il solo fatto di essere residenti nel campo, vengono etichettate in un certo modo. Abbiamo, quindi, un’ulteriore equazione: le persone rom, dopo essere definite nomadi per natura, coincidono con chi vive in un campo. Non importa se gli abitanti di un campo si autodenominano Rom oppure no: vivono in un campo, quindi sono Rom e, naturalmente, nomadi. Al di fuori del campo, non godono della stessa cittadinanza né degli stessi diritti di cui godono tutti gli altri cittadini.

Baraccopoli d’Italia

Secondo l’Associazione 21 luglio la gran parte delle popolazioni romanì in Italia vive in case o in altre soluzioni abitative sicure e regolari.

Circa 17.800 Rom e Sinti, di cui più della metà minori, vivono invece in baraccopoli, legali o illegali, edifici occupati, capannoni abbandonati, casolari fatiscenti, ecc.

Usiamo il termine baraccopoli anche per riferirci ai cosiddetti «campi nomadi» formali (costituiti da baracche, roulotte, tende, container), la maggioranza dei quali si trova nelle città di Torino, Genova, Milano, Brescia, Pavia, Padova, Bologna, Reggio Emilia, Roma, Napoli, Foggia e Bari.

Essi rientrano nella definizione di baraccopoli dell’Agenzia delle Nazioni Unite Un-Habitat perché «luoghi in cui gli abitanti non hanno sicurezza di possesso, dove le abitazioni risultano estromesse dai principali servizi base e non conformi ai criteri stabiliti dai regolamenti comunali o situate in aree pericolose dal punto di vista geografico e ambientale. […] gli abitanti delle baraccopoli [inoltre] non hanno a disposizione spazi pubblici e aree verdi e sono esposti a sgomberi, malattie e violenza».

In Italia esistono 109 baraccopoli istituzionali presenti in 63 comuni e in 13 regioni. In esse vivono 11.300 persone. Di queste, il 49% ha cittadinanza italiana e il 10% cittadinanza rumena. In questi luoghi l’aspettativa di vita è di 10 anni inferiore a quella del resto della popolazione italiana. Il 55% dei loro abitanti ha meno di 18 anni.

Nelle baraccopoli informali e nei microinsediamenti la quasi totalità delle persone presenti risulta essere di origine rumena.

In base all’analisi dei dati elaborati dall’Associazione 21 luglio tra l’inizio del 2020 e la fine del primo semestre del 2021 l’Italia si conferma il «paese dei campi», il paese europeo che impiega la quantità più alta di risorse umane ed economiche per il mantenimento di questi ghetti.

M.C.


Rom «ziganizzati» in fuga dalla Romania.

Il caso Torino. Da lavoratori a zingari

Data la precarietà e il razzismo strutturale di cui sono destinatari, i Rom romeni, sedentari in patria, arrivati in città non trovano altri luoghi nei quali vivere che non siano baracche in zone periferiche e «invisibili». È il nomadismo forzato di cui sono esempi formidabili i campi di Lungo Stura Lazio e di via Germagnano nel capoluogo piemontese.

Le migrazioni internazionali di comunità rom dalla Romania diventano consistenti dalla fine del regime comunista, benché siano già iniziate a partire dai primi anni Ottanta.

Nel periodo socialista le popolazioni rom dei paesi dell’Europa centro orientale erano generalmente oggetto di politiche di assimilazione e di sedentarizzazione forzata. Questo rappresentava una grande differenza con le politiche segregazioniste o apertamente persecutorie degli stati dell’Europa occidentale nello stesso periodo.

Nei paesi dell’Europa dell’Est, migliaia di Rom erano impiegati nel sistema economico socialista, lavoravano quindi nelle fabbriche come operai poco o per nulla qualificati, confusi con gli altri lavoratori, o nelle grandi cooperative di produzione agricola. Altri erano riusciti a rimanere al di fuori delle unità produttive socialiste e lavoravano nell’economia informale: piccolo commercio ambulante, riparazioni di utensili e calzature, artigianato, commercio e allevamento di bestiame, lavorazione e commercio di metalli, ecc.

Durante il regime di Ceaușescu, in particolare tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, quando conobbero un’importante crescita demografica, i Rom furono fatti oggetto di politiche di sedentarizzazione, proletarizzazione e «romenizzazione» (i Rom «romenizzati» sarebbero Rom con «stili di vita» rumeni, o che non parlano più il romanés, e che a volte prendono le distanze da alcuni «stili di vita» degli altri Rom rumeni).

Dal punto di vista abitativo, a molti di coloro che non erano sedentari, vennero assegnati appartamenti popolari o terreni. Molte comunità vennero disgregate. È importante sottolineare che la maggior parte della manodopera rom era impegnata in occupazioni non qualificate o in lavori molto pesanti, e che i loro salari erano più bassi di quelli del resto della popolazione.

Da lavoratori socialisti a «zingari»

A partire dal 1989, dopo la caduta del regime di Ceaușescu, la Romania attraversa un periodo di profonda crisi economica che peggiora con il passare degli anni e provoca i primi flussi migratori verso l’Europa occidentale. Le cause che spingono le persone a partire dopo il 1989 stanno nella trasformazione del sistema economico che fa ricadere gli effetti devastanti del capitalismo selvaggio innanzitutto sulle comunità rom. In pochissimo tempo migliaia di lavoratori e lavoratrici, primi tra tutti quelli meno qualificati, perdono il posto di lavoro. In particolare, nel primo anno successivo al crollo del socialismo rumeno, i Rom senza lavoro arrivano all’80%.

L’impoverimento è pesantissimo e con la mancanza di lavoro aumenta anche l’esclusione sociale. In breve tempo, la popolazione rom viene per l’ennesima volta colpita dal razzismo. Si verificano episodi di violenze collettive, di discriminazioni da parte delle stesse istituzioni statali, si moltiplicano casi di detenzioni illegali e maltrattamenti. Nel 1993, durante la sommossa di Hădăreni, nel distretto di Mureș, tre persone rom vengono assassinate, diciannove case bruciate e cinque distrutte.

Come ha ben descritto la studiosa romena Eniko Vincze: «Accanto ai cambiamenti post-socialisti durante gli anni ’90 […] e il neoliberalismo trionfante degli anni 2000 […], l’assimilazione è stata gradualmente sostituita da politiche di razzializzazione. Nel caso della politica assimilazionista, i Rom rappresentavano un problema culturale che si sarebbe dovuto risolvere non appena avessero adottato le norme culturali della società socialista (lo stato socialista ha utilizzato questo modello di ingegneria sociale per l’intera popolazione premoderna e rurale della Romania, cercando la sua necessaria trasformazione in lavoratori urbani). Dopo il 1990, la razzializzazione dei Rom, come conseguenza involontaria e perversa del loro riconoscimento come minoranza etno nazionale che avrebbe dovuto godere di diritti culturali e linguistici, e la necessità di spiegare perché vivevano in povertà senza riconoscerne le cause economiche e politiche, ha trasposto la differenza e la disuguaglianza tra romeni/ungheresi da un lato e Rom dall’altro nel regno della biologia e della fisiologia»1.

All’inizio degli anni ’90, con il trionfo dell’ordine neoliberale, le popolazioni rom della Romania e di altri paesi dell’Europa centro orientale sono colpite da un processo di pauperizzazione estrema che si combina all’antiziganismo storico fatto di episodi di aggressioni a singoli, gruppi o comunità, utilizzo di discorsi di odio, pratiche di sfruttamento, esclusione socio economica, segregazione abitativa e spaziale, stigmatizzazione diffusa, rappresentazioni negative da parte di politici e accademici.

I primi arrivi a Torino, una città a parte

La permanenza dei migranti rom rumeni sul territorio torinese a partire dagli anni Novanta è sostanzialmente illegale. Inizialmente sono stati numerosi i tentativi di richiesta di asilo politico, ma, dato il generale respingimento delle domande, questa modalità di ingresso in Italia è stata progressivamente abbandonata per conformarsi alla prevalente modalità di permanenza sul territorio in attesa di una delle numerose sanatorie che caratterizzano il governo dei corpi migranti in Italia. Nel corso degli anni Novanta, infatti, lo strumento principale mediante il quale lo stato gestisce i movimenti migratori è rappresentato dalle cosiddette «sanatorie», nell’assenza di una politica migratoria coerente complessiva. Per cui, anche i migranti rom provenienti dalla Romania rimangono in Italia in modo irregolare, andando a ingrossare le fila della manodopera precaria sfruttata nell’economia sommersa.

Data la loro estrema precarizzazione e dato il razzismo strutturale di cui sono destinatarie, queste persone non trovano altri luoghi nei quali vivere a Torino che non siano baracche autocostruite in zone della città periferiche e «invisibili». Va sottolineato che i Rom rumeni a Torino arrivano in un contesto di proliferazione di «campi rom», autorizzati e non, istituzionalizzata con la legge regionale n. 26 del 10 giugno 1993 che, così come accade nella maggior parte delle regioni italiane, cristallizza una forma abitativa razzializzata, giustificandola del tutto impropriamente come azione a salvaguardia di una supposta «identità etnica e culturale» dei Rom etichettati come «nomadi».

«In Italia nascono come campi nomadi […] e sono istituzioni regolate, in assenza di un quadro legislativo nazionale, da leggi regionali varate negli anni Novanta […]. Appena finiti di costruire si sono trasformati in insediamenti perennemente temporanei per i Rom in fuga dalle guerre dei Balcani e poi dalle zone depresse della Romania. Si sono evoluti da slums di baracche e roulotte a campi di container agli attuali villaggi, con un crescendo di sorveglianza e di dipendenza dalle istituzioni e una conseguente perdita di autonomia decisionale sulla propria vita»2.

Una vita «fuori luogo»

La presenza della migrazione rom rumena a Torino diventa visibile, e quindi automaticamente un problema per le autorità pubbliche, nella primavera del 1998 quando un gruppo di 350-400 Rom rumeni cerca un luogo in cui poter vivere, e si ferma in uno spazio alla periferia Nord Ovest, in un campo vicino a corso Cuneo, per poche decine di metri nel comune di Venaria.

I migranti provengono in maggioranza dai villaggi di Fetești e Țăndărei, zone in cui si sono verificati incidenti ed episodi di violenza contro le comunità rom. Inizialmente questo gruppo è intenzionato a raggiungere la Francia o la Spagna, ma viene respinto in base alle norme previste dal trattato di Dublino. A quasi tutti loro, lo stato italiano nega il diritto di asilo o qualsiasi altro tipo di permesso di soggiorno. Poi, come sempre, arriva la violenza dello sgombero.

All’alba dell’8 febbraio 1999, una cinquantina di persone del campo vengono portate via senza alcun preavviso dalla polizia con i soli indumenti che hanno indosso in quel momento, e deportate con un volo da Malpensa per Bucarest. Quella stessa notte, le poche persone rimaste, che si erano nascoste per sfuggire alla deportazione, scappano a Torino, in via Germagnano. Il 10 febbraio, il campo di corso Cuneo viene completamente raso al suolo dalle ruspe. A fine giornata, tutto quello che apparteneva agli abitanti del campo viene ammassato e dato alle fiamme dagli operatori del comune, richiedendo, dopo poco, l’intervento dei Vigili del fuoco per circoscrivere il rogo di vestiti, coperte, utensili, giocattoli che fino a poco prima erano stati utilizzati dalle persone che vivevano lì3.

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Nascita del Platz

Intorno al 2000 inizia la vita del «Platz», ovvero la prima baraccopoli illegale di Lungo Stura Lazio, a Torino. Cresce nell’arco di 15 anni e diventa la più popolata della città e forse dell’Europa occidentale, arrivando a contare circa 2.000 abitanti. Tutti etichettati etnicamente come Rom, benché non siano solo Rom, ma più in generale persone povere, provenienti dalla Romania e non solo, che non hanno accesso ad abitazioni dignitose. L’unico spazio dove vivere a Torino, per loro, sono le sponde del fiume Stura, dentro la città, ma in un punto poco visibile.

Un report del Consiglio d’Europa restituisce il livello di violenza istituzionale all’interno di questo insediamento: «Il 15 aprile 2004 un gruppo di circa 90 Rom rumeni, 70 dei quali avevano chiesto l’asilo e di cui 20 non l’avevano ottenuto, vennero sgomberati dalle baracche in riva al fiume in cui vivevano […]. La polizia distrusse le baracche insieme a tutti i loro beni. Venti Rom senza documenti vennero espulsi. Una donna rom senza documenti fu invitata a tornare in Romania. Lei non obbedì e […] le autorità le tolsero i figli ponendoli sotto custodia statale. I 70 Rom che avevano fatto richiesta di asilo occuparono l’Ufficio immigrazione di Torino […]. Dopo 48 ore, furono spostati in una scuola vuota dove avrebbero dovuto vivere temporaneamente. Dopo l’arrivo di 36 persone rom nella scuola, i residenti della zona protestarono, così venne predisposto un campo con tre grandi tende […]. Gli altri Rom usciti dall’Ufficio immigrazione chiesero di poter essere inseriti nel campo appena costruito, ma l’Ufficio immigrazione glielo negò. […] il gruppo, di cui facevano parte molti minori, aveva fatto ritorno alle sponde del fiume ricostruendo le baracche»4.

Fino all’ingresso della Romania nell’Unione europea nel 2007, a Torino sono frequenti gli sgomberi e gli spostamenti di rumeni rom e non rom da una baraccopoli all’altra. Essendo gli «ultimi arrivati» e non disponendo di mezzi di sussistenza, si adattano a vivere in baracche autocostruite in zone marginali e invisibili di Torino. All’assenza di risorse economiche e di tutela giuridica, si aggiunge la precarietà sanitaria, dato che non è possibile per loro iscriversi al Sistema sanitario nazionale e che l’unico mezzo per curarsi spesso è rivolgersi al pronto soccorso.

Prima del 2007, gli interventi di sgombero di piccoli insediamenti da parte delle forze dell’ordine sono quotidiani. Il loro principale effetto è quello di spingere centinaia di persone nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, uno spazio più facilmente controllabile dalle forze dell’ordine.

Il pogrom della Continassa

Il 9 dicembre 2011, una ragazza di 16 anni residente nel quartiere delle Vallette (periferia Nord Ovest di Torino) denuncia una violenza sessuale da parte di due Rom. Nel quartiere viene organizzata per la sera successiva una fiaccolata di solidarietà con la vittima. Il giorno dopo, la sedicenne confessa di aver mentito, ma, nonostante questo, alcuni manifestanti si staccano dal corteo e attaccano la Cascina della Continassa dove vivono circa 50 persone rom rumene. Nel corso dell’attacco vengono devastate e incendiate baracche e roulotte, messe in fuga tutte le famiglie e ostacolati i soccorsi dei Vigili del fuoco. Benché in seguito si parlerà di un’azione improvvisata, già nella redazione del volantino che invitava alla fiaccolata, risultava chiaro l’intento, «Adesso basta ripuliamo la Continassa».

Il processo per il rogo della Continassa durerà anni. Il 13 luglio 2018 la Corte di Appello di Torino pronuncia la sentenza di secondo grado: sono confermate le condanne per quattro persone, mentre una quinta viene assolta. La Corte conferma l’impianto accusatorio di primo grado e l’aggravante di «odio etnico e razziale».

Manuela Cencetti

Note

  • 1- �Enikő Vincze, Urban Landfill: A Space of Advanced Marginality, in «Philobiblon», vol. XVIII, 2013, n. 2. Traduzione nostra.
  • 2- �Francesco Careri, Una città a parte. L’apartheid dei Rom inItalia, introduzione all’inserto speciale L’abitare dei Rom e dei Sinti, de «Urbanistica Informazioni», n. 238, 2011, pp. 23-25.
  • 3- �Cfr. Marco Revelli, Fuori luogo. Cronaca da un campo rom, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
  • 4- �Consiglio d’Europa, Collective Complaint by the European Roma Rights Center against Italy, 27/2004.

Ha scritto questo dossier:

Manuela Cencetti

Torinese. Il cinema e il processo di creazione audiovisuale sono al centro dei suoi interessi e attività formative e professionali. È cofondatrice dell’Associazione culturale «i313». È coinvolta in nove edizioni del festival Cinemainstrada. Nel 2007 dirige il film Ato’ tzi tza’ (Aquì Estamos). Genocidio en Guatemala. Nel 2011 fonda il collettivo «Cine en la Calle» con giovani di Città del Guatemala, dove realizza laboratori di formazione e la prima edizione del Festival «Cine en la Calle». Nel 2013 monta il cortometraggio La casa è di chi la abita che racconta l’occupazione di una casa, a Torino, dal punto di vista dei bambini. Nel 2013 realizza assieme a Stella Iannitto per l’Associazione i313, La mia strada è il mondo intero, girato con un gruppo di ragazze rom bosniache e romene, residenti in due baraccopoli nella periferia Nord di Torino. La versione di Jean è il suo ultimo lavoro, diretto con Stella Iannitto e Jean Diaconescu.

  Dossier a cura di Luca Lorusso




Modi e la deriva maggioritaria

testo di Maria Tavernini |


Delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali è una tendenza sempre più frequente nell’India di oggi. A rimetterci, soprattutto poveri e minoranze.

«Il vero buio all’orizzonte è la svolta che sta prendendo la democrazia indiana, come se fosse sulla strada della perdizione», si legge nel duro editoriale dello scrittore Pratap Bhanu Mehta, sul quotidiano Indian Express, all’indomani della storica marcia di trattori che il 26 gennaio scorso – 72ª festa della Repubblica – ha sfilato nella capitale indiana in parallelo alla parata militare ufficiale.

È stata una manifestazione enorme, con centinaia di migliaia di contadini e contadine provenienti da tutta l’India.

Dopo due mesi, accampati ai confini di Delhi, hanno invocato (e ancora oggi, mentre scriviamo, invocano) il ritiro delle liberalizzazioni decise a settembre dal governo nazionalista guidato dal Bharatiya Janata Party (Bjp). Riforma considerata lesiva dai lavoratori della terra che rappresentano oltre la metà della forza lavoro indiana, in quanto favoriscono i colossi dell’agroalimentare ai danni dei piccoli produttori.

Una protesta che ha raccolto enorme sostegno dalla società civile, anche internazionale, alla quale il governo ha risposto con indifferenza prima, e con la repressione poi.

Nuova India intollerante

La tendenza a delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali, è sempre più frequente nell’India di oggi, tanto che lo svedese V-Dem Institute a marzo ha declassificato l’India come «autocrazia elettorale», rilevando che gran parte del declino delle libertà democratiche è avvenuto dopo la vittoria di Narendra Modi.

Lo schema usato contro il movimento dei contadini è lo stesso impiegato contro altri movimenti precedenti: screditare l’agitazione, sobillare le violenze e accusare manifestanti e giornalisti di attività «anti nazionali».

Il buio sembra davvero calare sul subcontinente, su quell’idea di democrazia laica e inclusiva che prese corpo quando, nell’agosto del 1947, l’India Britannica ottenne l’indipendenza dalla Corona, smembrandosi in un Pakistan musulmano e un’India a maggioranza hindu.

Per capire il lento e inesorabile declino delle istituzioni democratiche indiane e la svolta autoritaria e maggioritaria dell’esecutivo, bisogna raccogliere elementi sparpagliati in un arco temporale di diversi anni. L’instabile democrazia indiana, che ha resistito a passate derive autoritarie, è oggi messa a repentaglio dal suprematismo identitario del governo guidato dai nazionalisti hindu; ma, soprattutto, dall’ascesa di una «nuova idea» di India: intollerante e sciovinista.

Quella dei contadini – una mobilitazione senza precedenti, ancora in corso – è stata la prima grande protesta dopo la sospensione imposta dal coronavirus.

Foto iconica di gioventù induista sul tetto della moschea Bari del 16° secolo, pochi minuti prima che fosse totalmente distrutta nel 1992. (Photo by DOUGLAS E. CURRAN / AFP)

Islamofobia hindu

La pandemia in India si è innestata in un periodo molto delicato: a dicembre 2019, il governo aveva varato il Citizenship amendment act (Caa), un emendamento alla legge sulla cittadinanza, considerato discriminatorio verso la comunità musulmana e in netto contrasto con i principi costituzionali in quanto avrebbe reso l’appartenenza religiosa un prerequisito per la naturalizzazione.

Il Caa era solo l’ultima di una serie di azioni volte ad alienare la popolazione musulmana dell’India e a consacrare il suprematismo hindu, ma aveva avuto il merito di riunire le minoranze del paese – musulmani, Dalit, comunità tribali, donne, lgbt – in una protesta trasversale e pacifica che era stata però da subito repressa.

A fine febbraio 2020, poi, la capitale – epicentro nazionale della mobilitazione – era stata travolta da un’ondata di violenza settaria in risposta alle proteste che avevano riempito le strade del paese.

Le responsabilità del pogrom contro la comunità musulmana a Delhi Nordest erano state fatte ricadere sulle vittime, anziché sulla destra hindu, nonostante alcuni esponenti del partito avessero intimato di «dare una lezione ai traditori». Poi è arrivata la pandemia. Le proteste sono state sgomberate, ma non la criminalizzazione del dissenso.

Covid e repressione

Quando il coronavirus ha raggiunto l’India, il lockdown nazionale si è tramutato in una tragedia tristemente annunciata.

Il contesto di forte povertà, e un’economia già in forte recessione, basata per oltre l’80% su scambi informali, ne hanno amplificato l’impatto sociale.

Quando il 24 marzo 2020 il premier Narendra Modi ha annunciato la chiusura, 1,35 miliardi di persone hanno avuto quattro ore per prepararsi. Molti dei cosiddetti urban migrants, centinaia di milioni di persone che negli anni si erano trasferite dalle campagne impoverite alle grandi metropoli nel tentativo di sfuggire alla fame, ingrossando le fila dei poveri urbani, non hanno avuto altra scelta che affidarsi alla rete familiare tornando nei villaggi di origine.

Il caso dell’India – il terzo paese al mondo per numero di contagi in termini assoluti, ma i cui numeri vanno letti in rapporto alla popolazione – è particolarmente drammatico anche a causa della repressione che si è abbattuta come una scure sulla società civile, proprio nei mesi in cui si consumava una gravissima emergenza sanitaria, sociale e umanitaria.

Una famiglia nello slum di Sonagachi, Kolkata, India. / Photo ID 451906. 20/06/2010. Kolkata, India. UN Photo/Kibae Park.

Dissenso sotto la lente

Il 2020 ha visto sconvolgimenti epocali in tutto il mondo – soprattutto in termini di distruzione dei mezzi di sussistenza e aumento della povertà -, e l’India non ha fatto eccezione.

Il lockdown indiano è stato disumano, almeno per i più poveri.

Il governo, quando interrogato, non ha fornito i numeri di quanta gente sia morta di stenti nel tentativo di tornare a casa, di quanti posti di lavoro siano andati perduti per il lockdown, di quanti milioni di persone (ri)sprofonderanno nella povertà, in barba al millantato Indian dream.

La mancanza di dati sui migranti e le fasce deboli, e in generale sulla tragedia in corso, a fronte di migliaia di pagine e dati raccolti per incastrare attivisti e manifestanti accusati di sedizione e attività anti nazionali, dà la misura della distanza dell’esecutivo da una fetta di popolazione politicamente invisibile.

Nessuno tocchi il governo

https://www.flickr.com/photos/duncan/49631159326/ India – dove le mucche sono più sicure dei musulmani foto del marzo 2020

Proprio nei mesi dell’emergenza Covid, centinaia di persone sono state arrestate o accusate ai sensi della legge sulle attività illegali o di quella sulla sicurezza nazionale: due norme in base alle quali si può essere incarcerati per un semplice sospetto.

Tra gli arrestati, c’erano diversi studenti e attivisti legati alle proteste di fine 2019, incolpati di aver istigato i Delhi riots.

Altri, invece, almeno 16, sono stati fermati sulla base di accuse mai provate, per il caso di Bhima Koregaon, gli scontri tra alte caste e Dalit del gennaio 2018.

La repressione in questi mesi si è abbattuta sulle voci libere e su chi difende i diritti degli ultimi: dietro le sbarre delle sovraffollate carceri indiane in tempo di Covid sono finite attiviste incinte, anziani poeti, stimati frati, leader contadini, studenti, attivisti anticaste, noti giornalisti e docenti. La lista dei prigionieri politici è lunga: un esempio su tutti, padre Stan Swamy, gesuita che difende i diritti dei popoli tribali nelle foreste più remote del paese. Il sacerdote 83enne e gravemente malato, è in cella, in condizioni terribili, accusato di sostenere il maoismo.

La repressione del dissenso oggi, in India, non fa distinzioni: chiunque osi criticare il governo, rischia di essere accusato, intimidito, perseguitato. Anche i media e la Corte suprema hanno perso, pezzo dopo pezzo, indipendenza e imparzialità.

Declino graduale

L’ascesa del suprematismo identitario hindu è stato un processo graduale, accompagnato dal progressivo smantellamento delle istituzioni e delle salvaguardie democratiche.

Una tendenza – quella verso il nazionalismo maggioritario e militante – iniziata già dal primo mandato del Bjp.

Alle elezioni del 2014, Narendra Modi si era presentato come l’uomo del progresso, colui che avrebbe dato all’India il posto che meritava nel mondo: la sua ricetta di neoliberismo e industrializzazione sfrenata era riuscita a conquistare un elettorato stanco di scandali e corruzione, affamato di riscatto.

Già durante il primo mandato, però, l’agenda dell’esecutivo si è gradualmente spostata dalla retorica dello sviluppo alle politiche maggioritarie, escludenti e islamofobe, fedeli alle frange più estreme della destra hindu.

La marginalizzazione e la stigmatizzazione della comunità musulmana – e delle minoranze più in generale – è stata graduale e inesorabile: in questi ultimi sei anni si è tradotta in leggi antislamiche, linciaggi pubblici, violenze settarie, arresti di «voci critiche», e un diffuso clima di impunità tra le squadracce hindu.

Hindutva, o hinduità

Se le avvisaglie del primo mandato Modi non fossero state abbastanza evidenti, con il secondo mandato è ormai chiaro che l’enfasi sul progresso ha ceduto il passo all’etnonazionalismo confessionale del Bjp.

L’hindutva, o «hinduità», teorizzata da Vinayak Damodar Savarkar nel 1923, è la forma prevalente di nazionalismo in India.

Quando il partito capeggiato da Modi è stato riconfermato alle politiche nella primavera del 2019 con un mandato senza precedenti, l’esecutivo ha accelerato il progetto di un’India a trazione hindu in cui le minoranze, soprattutto quella musulmana, saranno sempre più ai margini.

Il 2020 era considerato l’anno in cui l’India sarebbe diventata una «super potenza». Stiamo invece assistendo è una profonda crisi della democrazia, del pluralismo e del secolarismo indiano.

La questione Kashmir

Pochi mesi dopo l’inizio del secondo mandato Modi, New Delhi ha unilateralmente abolito l’autonomia del Kashmir, l’unico stato a maggioranza musulmana dell’India: un territorio al centro di un’annosa disputa territoriale con il vicino Pakistan, insanguinato da 30 anni d’insurrezione separatista e una brutale repressione delle forze dell’ordine.

Da allora, il Kashmir è sotto un assedio permanente – che si somma a decenni di presenza militare massiccia, percepita come un’occupazione dai civili – con leader politici locali arrestati, giornalisti e media silenziati, attivisti perseguitati e incarcerati e diffuse violazioni dei diritti umani, come dimostrano diversi rapporti e inchieste indipendenti. Al lockdown militare e digitale – il più lungo mai imposto in una democrazia – ha poi fatto seguito quello per il coronavirus.

Un tempio al posto della moschea

Poi, a novembre 2019 è arrivata un’importante sentenza della Corte suprema su un’annosa disputa legale: quella riguardante il caso di Ayodhya. La Corte ha dato il via libera alla costruzione del tempio di Rama sulle rovine della moschea di Babur, distrutta nel ‘92 dagli estremisti di destra, avallando il fanatismo hindu.

Infine, l’emendamento alla legge sulla cittadinanza del dicembre del 2019 ha concesso alle minoranze provenienti da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan che risiedono in India – tranne quella musulmana – di avere accesso preferenziale alle procedure per la naturalizzazione.

Tutto sembra andare nella direzione dell’Hindu Rashtra, la nazione a trazione hindu anelata dal Rashtriya Swayamsevak Sangh (l’organizzazione paramilitare volontaria della destra hindu apertamente ispirata al fascismo cui era appartenuto anche l’assassino del Mahatma Gandhi), in cui non c’è spazio per le minoranze, soprattutto per i musulmani, che in India sono 200 milioni, il 14,2% della popolazione.

Frattura insanabile

Negli anni ’90, la destra hindu aveva conquistato sempre maggior peso nel panorama politico indiano. Le organizzazioni della Sangh Parivar, la cosiddetta «famiglia» – la destra hindu militante e sciovinista -, credono nella superiorità degli hindu (l’80% della popolazione) sulle altre comunità religiose, e guardano a quella musulmana come a una minaccia, alimentando un senso di insicurezza utile per mobilitare le masse.

Gli scontri settari – come quelli che avevano accompagnato la partizione dell’India britannica e l’enorme migrazione delle minoranze religiose oltre l’allora neonato confine – non sono una novità in India, ma ad Ayodhya, una polverosa cittadina nello stato dell’Uttar Pradesh, nel 1992, con la distruzione della moschea costruita nel XVI secolo dalla dinastia moghul, e i successivi massacri compiuti dagli estremisti hindu che hanno portato a migliaia di morti, si è consumata una delle pagine più buie della storia dell’India repubblicana. Tutt’oggi una frattura insanabile tra hindu e musulmani.

Foto del 2002. Una donna cerca di rimettere in sesto quel che rimane della sua casa bruciata dopo pesanti scontri tra hindu e msusulmani a Ahmedabad / AFP PHOTO/Indranil Mukherjee /AFP

La carovana dei fanatici

In quegli anni, il Ram Yath Ratra, il movimento capeggiato dalle organizzazioni della destra hindu, sostenute da Lal Krishna Advani, tra i fondatori del Bjp e allora presidente del partito, mirava alla costruzione del tempio del dio Rama ad Ayodhya.

Gli hindu reclamavano la terra dove sorgeva la moschea di Babur del XVI secolo, perché considerata il luogo natale del dio hindu e perché, a detta loro, il luogo di culto musulmano era costruito sulle rovine del preesistente tempio hindu dedicato, appunto, a Rama.

Il movimento aveva organizzato un pellegrinaggio di kar sevaks, i volontari della causa hindu: una carovana di fanatici che raccoglieva adepti e seminava violenze al suo passaggio, tanto che Advani era stato arrestato infiammando ancora di più i suoi sostenitori.

Quando i militanti avevano raggiunto Ayodhya, nel dicembre del 1992, il comizio ai piedi della moschea era stato solo il preludio dell’azione: arrampicati sulle cupole, armati di mazze e picconi, gli estremisti avevano buttato giù l’edificio sotto gli occhi della polizia. La demolizione della Babri Masjid aveva poi innescato un’ondata di scontri tra hindu e musulmani che avevano portato ad almeno duemila morti. La recente sentenza del 2019 ha chiuso il cerchio: concedendo agli hindu quel terreno e dando il via libera alla costruzione del tempio, ha legittimato di fatto il fanatismo hindu.

Modi e il pogrom del Gujarat

Quando nel 2014 l’India ha messo il suo futuro nelle mani di Modi, che prometteva di essere l’uomo del cambiamento, in molti hanno chiuso un occhio sul suo passato: lui, «figlio di un umile venditore di tè», fin da ragazzo aveva militato nel Rss, scalando poi i quadri del Bjp fino a diventare il governatore dello stato del Gujarat ai tempi del pogrom antimusulmano che nel 2002 ha insanguinato lo stato Nord occidentale, facendo oltre duemila morti, quasi tutti musulmani.

I Gujarat riots avrebbero scosso profondamente l’opinione pubblica mondiale. La scintilla che aveva innescato le violenze era stata l’incendio di un treno carico di militanti della causa hindu che stava rientrando proprio da Ayodhya, dove si era tenuto un raduno per la costruzione del tempio di Rama. L’incidente del treno – le cui reali cause non sono mai state appurate – aveva scatenato la furia dei fanatici hindu che hanno messo a ferro e fuoco lo stato in tre giorni di violenze mirate: un vero e proprio pogrom, avallato dalla polizia e dalle autorità politiche dello stato. Modi, accusato di non aver fermato le violenze, sarebbe stato poi prosciolto.

Un personaggio così polarizzante e controverso a capo dell’esecutivo, forte di una legittimazione enorme, in soli sei anni di governo si è reso artefice di un preoccupante declino delle istituzioni e dei valori democratici e costituzionali che sta facendo dell’India un paese molto diverso da quello che abbiamo finora conosciuto e raccontato.

Maria Tavernini*


* Giornalista indipendente, ha vissuto per diversi anni in India, di cui scrive per «Altreconomia», «TRT World», «Reset Doc», «Q Code Magazine», «Osservatorio Diritti», tra gli altri, occupandosi di tematiche sociali, diritti umani, questioni di genere e ambientali, nel quadro dei più ampi cambiamenti politico sociali. Nel 2021 ha pubblicato il libro No going back, Prospero editore.

 




Cina, Xinjiang. Autonomia made in Pechino

testo e foto di Piergiorgio Pescali | A cura di Paolo Moiola |


Indice


Le scelte di Pechino

Unità e armonia: lo stato viene prima

Il paese deve muoversi all’unisono e sotto la stessa direzione. Gli obiettivi da perseguire sono gli stessi ovunque. Per questo non sono ammissibili spinte separatiste come ad Hong Kong, in Tibet e nello Xinjiang.

Nell’ottobre 2012 il New York Times pubblicò un articolo che rendeva noti documenti fuoriusciti dal Partito comunista cinese in cui si denunciava che la famiglia del primo ministro Wen Jiabao e il premier stesso avevano accumulato un’immensa fortuna pari a 2,7 miliardi di dollari. Wen Jiabao avrebbe dovuto lasciare la carica di primo ministro il marzo successivo (2013), quindi la fuga di documenti sembrava poco significativa. In realtà questo scoop funzionò da volano a un emergente Xi Jinping per fare piazza pulita di una classe politica cinese che, sin dal IV Plenum del XI Congresso del Pcc del settembre 1979, stava lasciando sempre più spazio ai privati.

Un mese dopo lo scoop del New York Times, Xi Jinping venne nominato segretario del Partito comunista cinese, presidente della Commissione militare centrale e, nel marzo 2013, presidente della nazione, ruoli che occupa tuttora.

Conversazione tra uomini al mercato degli animali di Hotan, città agricola nel bacino idrografico del Tarim, in gran parte occupato dal deserto di Taklamakan. Foto Piergiorgio Pescali.

La Cina di Xi Jinping

In sette anni Xi Jinping ha stravolto la Cina riproponendo una nazione al centro dell’economia mondiale, ha lanciato Pechino verso una contrapposizione militare nel settore dell’Oceano Pacifico e ha realizzato con successo ciò che Mao Zedong aveva iniziato negli anni Sessanta: diventare, specialmente per le nazioni asiatiche, un polo d’attrazione alternativo sia agli Stati Uniti che alla Russia.

Tutto questo è stato possibile concentrando su un unico nucleo il fulcro decisionale del paese. Comunque la si voglia guardare, Xi ha mosso, almeno sino a oggi, con sapienza e cinismo i propri pezzi sulla scacchiera geopolitica mondiale. Il pensiero di Xi Jinping, ufficializzato dal 19° Congresso del partito nel settembre 2017, ha elevato il presidente cinese a nuovo timoniere. Non un nuovo Mao, come spesso lo si preferisce definire, ma una nuova guida che miscela con attenzione il totalitarismo maoista con l’iniezione di liberismo economico introdotta da Deng Xiaoping. Carburando con cura le due idee, diluendole con mirati interventi economici statali, il razzo cinese lanciato da Xi è riuscito a decollare superando anche le prove più critiche che si sono via via frapposte: il programma nucleare nordcoreano, la crisi con gli Stati Uniti e, ultima in ordine cronologico, il coronavirus.

Per permettere la gestione ottimale della spinta economica e politica cinese al di fuori dell’orbita nazionale, occorre in primo luogo che tutto il paese cooperi all’unisono per gli stessi obiettivi e sotto un’unica direzione. Ogni tentativo di deriva nazionalista, di autonomia più accentuata, di critica verso la cabina di comando, potrebbe interrompere il flusso di carburante o il giusto equilibrio dei vari elementi, e deviare il missile cinese dalla propria traiettoria rischiandone la distruzione.

In un discorso chiave tenuto all’Università di Pechino il 4 maggio 2014, il presidente cinese affermava che «i valori fondamentali che la nostra nazione e il nostro stato devono difendere sono quelli di prosperità, democrazia, civiltà e armonia; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia al fine di coltivare e mettere in pratica i valori fondamentali del socialismo. Prosperità, democrazia, civiltà e armonia sono i valori richiesti allo stato; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge sono i valori richiesti alla società; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia sono i valori richiesti al cittadino».

La risposta alle rivolte centrifughe

Quelle parole invocavano maggiore unità dei cinesi a tutti i livelli (e, al tempo stesso, una maggiore responsabilità dello stato), ma anche la consapevolezza che, in un paese così diversificato, multiculturale e multireligioso come la Cina, occorreva sacrificare parte della propria libertà per progredire nel campo economico e sociale. Non era un concetto nuovo: la socializzazione e la cooperazione collettiva sono alla base dei valori asiatici, ma la volontà di democrazia, di benessere individuale, di edonismo portata dalle aperture politiche avvenute sin dagli anni Ottanta, avevano sfaldato parte di queste fondamenta e rischiavano di privare il gigante cinese delle solide basi su cui era stata costruita la nazione dopo l’avvento di Mao Zedong.

Da qui alle repressioni delle rivolte centrifughe nelle aree più delicate, come il Tibet, la Mongolia interna e Hong Kong, il passo è breve.

Tra tutte queste richieste di maggiore autonomia o addirittura di indipendenza, e il loro conseguente soffocamento, quella dello Xinjiang è la meno conosciuta al di fuori della Cina per i non addetti ai lavori. La storia che lega Hong Kong all’Occidente ha permesso ai media di cavalcare l’onda delle proteste, mentre la grande diffusione di pratiche legate al buddhismo e la fortuna della figura del Dalai Lama hanno permesso di mantenere vive le manifestazioni a favore del popolo tibetano. La stessa attenzione non è stata concessa agli Uiguri, la cui lotta non appassiona gli animi di chi accusa Pechino di ledere i diritti umani e di opprimere le istanze autonomiste di interi popoli.

Piergiorgio Pescali

Mappa della Cina con la suddivisione in province e regioni autonome. Immagine Pixabay.

Lo Xinjiang

  • Divisione amministrativa: regione autonoma dello Xinjiang.
  • Superficie: 1,66 milioni km2, con un’estesa parte desertica (deserto del Taklamakan).
  • Abitanti: 24,5 milioni.
  • Gruppi etnici (2018): Uiguri (46,4%), Han (39%), Kazaki (6,5%), Hui (4,5%), altri (Tagiki, Kirghizi, Russi, Mongoli; 2,67%).
  • Segretario Pcc locale: Chen Quanguo.
  • Città principali: Ürümqi (capitale), Kashgar.
  • Religione principale: islam (63%), praticata dagli Uiguri e dagli Hui.
  • Economia: agricoltura e allevamento, industria estrattiva (gas, petrolio, carbone, berillio, mica); produzione di energia solare, eolica e idroelettrica.
  • Siti web: www.globaltimes.cn;
    www.uyghurcongress.org;
    https://uhrp.org.

Yurte della popolazione di etnia kirghiza lungo la Karakorum Highway, a pochi chilometri dal confine con il Pakistan. Foto Piergiorgio Pescali.


Storia e attualità dello Xinjiang

Una frontiera tormentata

È il territorio più esteso e meno popolato della Cina, della quale fa parte dal 1884 con due (brevi) pause. Dal 1955 regione autonoma, un tempo trascurata, oggi lo Xinjiang è di fondamentale importanza.

Xinjiang – 新疆, «nuova frontiera» – è un toponimo relativamente recente, coniato tra il XVIII e il XIX secolo dalla dinastia Qing e inizialmente riferito a cinque regioni situate lungo le frontiere dell’impero. Solo nel 1884 venne a identificare quella che oggi è la regione più grande e meno popolata della nazione cinese. Nei secoli precedenti, il territorio era noto con il nome persiano di Turkestan, «luogo abitato dai turchi». Non una nazione, ma un’area occupata da un coacervo di popoli che assimilarono usanze e lingue di genti provenienti dalle steppe mongoliche di cui una parte, a partire dal I millennio a.C., si spostarono verso Ovest sino a raggiungere l’attuale Turchia

Le diverse popolazioni mantennero peculiarità che ancora oggi le differenziano tra loro: Kazaki, Kirghizi, Uiguri, Uzbeki, Kazari, Hazari. Erano per la maggioranza popolazioni nomadi, dedite alla pastorizia, eccellenti cavallerizzi che mantennero gelosamente la propria indipendenza per coalizzarsi tra loro solo in occasione di pericoli provenienti dall’esterno. In questo modo, almeno sino a pochi decenni fa, non vi fu nessun impero o stato centralizzato chiamato Turkestan. Certo, nel corso dei secoli, popoli turchi e turcofoni formarono imperi che, seppur molto fluidi nella loro amministrazione e nei loro confini, riuscirono a ritagliarsi grandi fette di territorio minacciando e sconfiggendo regni regolati secondo gestioni più ortodosse. Nessuno di questi imperi, però, si diede un’amministrazione centralizzata, se non dopo aver assorbito le caratteristiche della gerenza che avevano sconfitto. Il più delle volte, compiute le conquiste e gli obiettivi concordati tra i vari clan, ognuno di questi tornava poi a reggersi secondo regole e consuetudini proprie.

In questa situazione assai mutevole e incerta, tra l’inizio del VII e la metà del IX secolo d.C., un impero dominato dagli Uiguri, una delle tante stirpi turco-mongoliche, giunse a occupare il territorio tra i monti Altai e i monti della catena del Tien Shan includendo il bacino del Tarim. Per due secoli il khaganato (cioè il territorio governato dal khan, re, imperatore) uiguro gareggiò con la Cina dei Tang e con l’impero tibetano per il dominio dell’Asia orientale, ma l’organizzazione militare ed economica degli Han alla fine ebbero la meglio. Gli Uiguri si stanziarono nelle regioni attorno al deserto del Taklamakan sovrapponendosi alle popolazioni indoeuropee già presenti nell’area e sviluppandosi attorno a due centri culturali: Turpan a Nord e Kashgar a Sud.

Uiguri: una lingua, una religione

Proprio attorno alla città di Kashgar, tra il X e il XIII secolo, si affermarono quelli che sarebbero poi diventati due ingredienti essenziali dell’anima uigura moderna e che sono, ancora oggi, strettamente legati tra loro: la religione islamica e la lingua. Nel 934, dopo che il khan Abdulkarim Satuq Bughra si convertì all’islamismo, la nuova religione iniziò ad espandersi su tutto il territorio soppiantando il buddhismo. Al tempo stesso si venne a formare una lingua locale uigura che, pur mantenendo radici turcofone, adottò caratteri arabo persiani. Sei secoli più tardi, Afaq Khoja sviluppò il movimento sufi Naqshbandiya, fondato nel XIII secolo a Bukhara da Abd al-Khaliq Ghijduvani. Il sufismo si innestò nella religione islamica uigura sino a modellarne la dottrina e la visione del potere. Da una parte confermò e rafforzò la grande tolleranza religiosa e culturale già presente tra gli Uiguri e dall’altro invocò un regime di vita più austero per la classe nobile e amministratrice del paese. In una popolazione che faceva del nomadismo il proprio stile di vita, la frugalità espressa dal Naqshbandiya si inseriva a pennello.

In mancanza di un sentimento nazionalista, la lingua e la religione divennero gli elementi coesivi del popolo uiguro e la leva su cui i vari movimenti indipendentisti e autonomisti premettero per contrastare le interferenze esterne. Questo è uno dei motivi per cui ancora oggi il governo centrale di Pechino vede proprio in queste due espressioni culturali i due cardini contro cui focalizzare la sua repressione.

L’interno di una casa uigura nei pressi di Kashgar, la principale città nel deserto del Taklamakan. Foto Piergiorgio Pescali.

Anno 1884: l’annessione cinese

Nella storia dello Xinjiang un altro fattore determinante è la sua posizione geografica: un’immensa regione di sutura tra la Cina e l’Asia centrale, solcata dalle numerose vie commerciali che collegavano le coste orientali dell’Asia con le rive del Mediterraneo. Queste rotte, che nel 1877 il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen chiamò «Via della seta», si incontravano a Kashgar per poi diramarsi in una miriade di direzioni. Marco Polo, uno dei tanti mercanti che l’attraversò lasciandone ampia testimonianza ne Il Milione accennò anche a una comunità di cristiani nestoriani, presenti nella regione sin dal VI secolo e che sarebbe rimasta attiva fino al XIV secolo. Gli imperi europei e del Centro Asia vedevano lo Xinjiang come regione nevralgica, se non da sottomettere, almeno da sorvegliare per tenere sotto controllo la Cina; dal canto loro gli Han guardavano all’area come a una zona cuscinetto per respingere eventuali rivalse di altri. Al centro di questa regione c’era il cuore arido e terrificante del deserto del Taklamakan, uno dei luoghi più ostili in cui l’uomo potrebbe vivere e che molti definiscono come «il luogo dove si entra, ma da cui non si esce» (in realtà, il significato etimologico è incerto e varia da «posto abbandonato» a «posto di rovine»). Il deserto, frequentemente spazzato dai violenti venti del buran, occupa un quinto dell’intera provincia attuale dello Xinjiang (337mila km2 su 1.665mila km2) e le sue temperature oscillano tra i 40 gradi estivi e i -20 in inverno. Sino all’arrivo del treno, degli aerei e delle automobili, le difficili condizioni del Taklamakan erano un valido baluardo naturale che ponevano quasi al sicuro la Cina da un’invasione proveniente da Occidente. Nel 1895 lo svedese Sven Hedin fu il primo esploratore occidentale ad attraversarlo, ma dei quattro uomini, otto cammelli, tre montoni, dieci polli, un gallo e due cani che partirono da Kashgar, solo Hedin, un altro carovaniere e un cammello riuscirono a raggiungere il fiume Khotan-Daria.

Dal 1759 i Qing iniziarono a espandersi verso occidente inglobando sempre più vaste regioni e trasferendo nelle aree da loro controllate, specialmente nel Nord della provincia, popolazioni mongole e han. Il tentativo di ribellione dell’uzbeko Yakub Beg, all’inizio appoggiato da Russia e Gran Bretagna che speravano di poter gestire il nuovo stato entrando nel subcontinente cinese, si esaurì nel 1884 con la definitiva annessione dello Xinjiang all’impero Qing.

Fu certamente un intervento militare, ma gran parte della popolazione accolse il ritorno dei cinesi con sollievo dopo che Yakub Beg aveva respinto le offerte russe e britanniche di costruire strade che collegassero l’area con l’Asia centrale e meridionale gravando i commercianti di ulteriori tasse, e aveva imposto una sharia più restrittiva.

Il dominio cinese sullo Xinjiang continuò anche dopo il crollo dei Qing e l’avvento della repubblica. L’indebolimento della Cina a causa della colonizzazione giapponese permise al nascente movimento nazionalista uiguro di creare una prima Repubblica islamica del Turkestan orientale, che ebbe vita effimera (1933-1934) e una più longeva seconda Repubblica del Turkestan orientale di ispirazione vagamente socialista e appoggiata da Stalin (1944-1949) in funzione anticinese.

La vittoria delle forze comuniste guidate da Mao Zedong su quelle nazionaliste di Chiang Kai-shek riportò le truppe cinesi nello Xinjiang ribadendo il dominio di Pechino sulla regione. Per lo Xinjiang, che dal 1955 divenne regione autonoma, si chiuse un ciclo storico e se ne aprì un altro.

La moschea Id Kah, a Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli Uiguri, dal 75 al 46 per cento

Il processo di trasferimento di popolazioni Han e Hui, già iniziato sotto i Qing, venne potenziato da Mao Zedong inaugurando così il primo dei tanti problemi che, sommati l’uno all’altro, avrebbero scatenato il risentimento degli Uiguri nella provincia.

Nel 1949 la popolazione totale dello Xinjiang ammontava a 4.333.000 abitanti, di cui il 75% Uiguri, 7% Kazaki, 6% Han e il restante 12% suddiviso tra Tagiki, Kirghizi, Russi, Mongoli e Hui. Questi ultimi, pur essendo musulmani, appartengono all’etnia han e rimangono fedeli al governo centrale. Sono quindi spesso considerati dagli Uiguri come una sorta di cavallo di Troia, di collaborazionisti, diffidati dai loro correligionari.

La frontiera comune con l’Unione Sovietica, amica di nome, ma ritenuta pericolosa da Pechino che non aveva dimenticato l’appoggio dato da Mosca alla Repubblica del Turkestan orientale e la necessità di controllare un territorio non ancora completamente assoggettato, indusse il timoniere ad inviare, oltre ai circa 200mila militari di stanza nella provincia, altri 175mila lavoratori appartenenti ai Bingtuan, i Corpi di produzione e costruzione dello Xinjiang a cui si aggiunsero 300mila giovani con le loro famiglie e 200-250mila lavoratori «volontari» ed un numero imprecisato fra tecnici, insegnanti e antirivoluzionari.

Il flusso migratorio continuò a ondate alterne; non fu mai costante e anzi, in alcuni periodi (dopo il fallimento del Grande balzo economico all’inizio degli anni Sessanta e poi subito dopo la morte di Mao negli anni Ottanta), il saldo fu addirittura leggermente negativo. Alla ricerca di nuove prospettive economiche e attirati dalla liberalizzazione di Deng Xiaoping, molti giovani han, ma anche uiguri, preferirono lasciare lo Xinjiang per trasferirsi nelle città orientali.

La prima grande ondata migratoria si verificò alla metà degli anni Sessanta, quando, dopo il primo test atomico, si diede impulso al programma nucleare cinese. Migliaia di persone vennero spedite nella provincia e nel poligono di Lop Nur dove, dal 1964 al 1996, gli scienziati cinesi fecero esplodere 45 bombe, di cui 23 in superficie (un recente rapporto del dipartimento di Stato Usa afferma però che test a basso livello sarebbero ancora in corso). Tra il 1964 e il 1980 la popolazione immigrata crebbe molto più di quella uigura. Nel 1964 la popolazione dello Xinjiang ammontava a 7,4 milioni di abitanti, di cui 4 milioni Uiguri (54%), 2,4 milioni Han (32,8%) e 271mila Hui (3,6%). Nel 1982 su 13 milioni di abitanti, 6 milioni erano Uiguri (45,8%), 5,3 milioni Han (40,4%) e 567mila Hui (4,3%).

Il rapporto tornò a invertirsi nel decennio seguente, quando, nel 1990 la percentuale di popolazione di etnia han era scesa al 37,6% (5,7 milioni Han su 15,2 milioni di abitanti) e, viceversa, quella uigura era salita al 47,5% (7,2 milioni Uiguri). Con l’inizio della nuova industrializzazione dello Xinjiang che coincise con il passaggio dal XX al XXI secolo, la politica di reinsediamento voluta da Pechino riportò il rapporto Han e Uiguri ai livelli degli anni Ottanta rimanendo così stabile sino ad oggi.

Nel 2018 su 24,9 milioni di abitanti, il 46,4% erano Uiguri, il 39% Han e il 4,54% Hui, e il tasso di crescita demografica dovuta alla natalità era calato dal 10,71‰ del 2010 al 6,13‰ (contro un tasso nazionale del 3,81‰). In particolare, la natalità degli Uiguri nel 2018 era pari al 10,69‰ contro il 9,42‰ degli Han.

I soli numeri però non bastano per descrivere l’enorme differenziazione territoriale rappresentata nello Xinjiang. La regione è etnicamente spaccata in aree nelle quali vivono precisi gruppi di popolazioni. Se gli Han sono concentrati principalmente nelle zone che fanno capo a Urumqi, la città più grande e capoluogo della regione dello Xinjiang, gli Uiguri si disperdono attorno alla città meridionale di Kashgar, loro capitale storica e culturale, e a Hotan e Aksu. Più a Nord, al confine con il Kazakhstan nei distretti di Altay e Tacheng troviamo i Kazaki, mentre gli Hui vivono nel distretto di Ili e mischiati agli Han.

Sono divisioni che rispecchiano gli stanziamenti ancestrali, fissati ancora prima dell’arrivo dei Qing, e che generalmente non seguono un disegno geopolitico storicamente determinato o una precisa volontà di segregazione economica. Anzi, è esattamente l’opposto: è lo sviluppo economico dello Xinjiang che si è modellato sulla base della dispersione etnica.

La costosa strada del nucleare

Lo Xinjiang è la provincia più povera della Repubblica popolare e, fino alla fine degli anni Ottanta, anche tra quelle che ricevevano meno sovvenzionamenti statali. Pechino la considerava solo un ottimo cuscinetto per ammorbidire le tensioni con gli stati limitrofi, in particolare l’Unione Sovietica. Inoltre, l’esiguità della popolazione, in contrasto con l’ampiezza del suo territorio e la grande quantità di superfici disabitate, rendevano lo Xinjiang la base ideale per la ricerca e lo sviluppo nucleare. Il già citato poligono di Lop Nur fu il primo grande nucleo industriale che attirò investimenti economici da Pechino verso la periferia del paese e anche il primo argomento di scontro con gli Uiguri. Oggi i disastri ambientali e umani causati da questa corsa al nucleare cinese sono evidenti: una ricerca effettuata da Jun Takada della Sapporo Medical University ripresa anche dall’Iaea e dal Ctbto (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization – Organizzazione per l’applicazione del Trattato per il bando completo della sperimentazione nucleare) e pubblicata da Scientific American, stima che circa 194mila persone sarebbero morte nello Xinjiang a causa dell’esposizione a radiazioni dovute ai fallout nucleari e che altre 1,2 milioni avrebbero assorbito radiazioni tali da poter provocare danni genetici, leucemie e cancri. Inoltre il poligono di Lop Nur ospita ancora oggi parte delle scorie nucleari non solo degli esperimenti militari, ma anche dei quarantasei reattori in funzione nel paese (nel 2041 è previsto lo stoccaggio di tutti i rifiuti nucleari cinesi in un impianto in corso di costruzione nel deserto del Gobi).

Fedeli islamici nella moschea Altyn, a Yarkand, città-oasi che prende il nome dall’omonimo fiume, affluente del Tarim. Foto Piergiorgio Pescali.

Pechino e il pericolo islamico

 

Solo dopo gli anni Novanta il «caso Xinjiang» scoppiò in tutta la sua dirompenza: mentre in Occidente si festeggiava la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Urss, Pechino si preparava a fronteggiare la minaccia terroristica causata dai buchi neri lasciati dalle amministrazioni delle nuove entità nazionali con le quali lo Xinjiang si trovò a condividere i propri confini. I nuovi paesi, infatti, non avevano nessun controllo del proprio territorio, e cellule armate organizzate vi avevano stabilito i loro rifugi sicuri.

La Cina dovette fronteggiare una minaccia che considerava ancora più grave di quella tibetana perché minava l’impianto unitario dello stato, e lo faceva trovando linfa in quel crogiolo di ideologie e di melting pot religioso che andava sotto il nome di jihad islamica. I gangli della rivolta uigura si ramificavano all’esterno dei confini nazionali insinuandosi tra le pieghe di una rivendicazione di autonomia nazionale che fino ad allora era stata solo un accenno. Il nascente movimento autonomista tradusse le richieste sociali del popolo uiguro in una letteratura separatista puntellando le sue rivendicazioni sulle uniche due caratteristiche che identificavano una improbabile nazione uigura: l’islam e la lingua.

Pechino reagì nel modo più sbagliato: sperando di tranciare il cordone ombelicale con il nazionalismo e il movimento armato, chiuse gran parte delle moschee e vietò l’insegnamento della lingua uigura nelle scuole. Il risultato fu, come era da aspettarsi, una controreazione ben più violenta anche da parte di quella fetta di popolazione che guardava con diffidenza l’estremismo e il fanatismo.

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Le (troppe) organizzazioni uigure

Nel tentativo di catalizzare l’interesse internazionale sulla questione uigura nacquero diverse organizzazioni, alcune delle quali appoggiate – per motivi politici o strategici – da altre nazioni, in particolare Stati Uniti e Turchia. Quest’ultima si inserì nelle pieghe della dissoluzione sovietica riproponendosi come guida culturale e politica dei popoli panturchi dell’Asia centrale. L’idea di Ankara di espandere la propria influenza su una regione di cui ritenne avere dei diritti di discendenza genetica e linguistica trovò sfogo nella protesta uigura. Circa 40mila Uiguri ancora oggi vivono in Turchia, paese che ha sempre storicamente appoggiato i movimenti nazionalisti ospitando leader leggendari some Yusup Alptekin ed Emint Bugra. Seguendo l’emigrazione turca in Germania, anche la diaspora uigura ha spostato il proprio centro dirigente nel paese europeo esprimendosi in una miriade di movimenti che fanno capo al World Uyghur Congress e all’East Turkestan Information Center (Etic). Le forti divisioni in seno alla comunità uigura facilitano però il compito cinese di deplorare le organizzazioni nazionaliste e denunciare attività illegali.

Gli Stati Uniti, invece, conobbero un’immigrazione uigura solo a partire dagli anni Novanta del XX secolo. A differenza della Turchia, l’ospitalità di Washington si esprime maggiormente in termini politici e di diritti umani esponendo come figura di punta Rebiya Kadeer, appoggiando e finanziando movimenti estremamente politicizzati e anticinesi come la Uyghur American Association e la Uyghur Human Rights Project.

Pechino, dal canto suo, ha sempre cercato di contrastare queste attività extraterritoriali associandole al pericolo, più o meno reale, di un terrorismo di matrice islamica.

Sin dal 1990 le autorità cinesi denunciano numerosi incidenti collegandoli al separatismo uiguro. Tra questi diverse bombe esplose su autobus di linea, assalti a stazioni di polizia, a stazioni ferroviarie, a centri commerciali, scontri organizzati tra manifestanti e forze dell’ordine. La maggior parte di questi atti violenti sono attribuiti all’East Turkestan Islamic Movement (Etim), un gruppo separatista di ispirazione jihadista formatosi nel 1988, ma di cui non è mai stata chiarita la genesi e la storia e che nel 2004 fu iscritto nella lista delle organizzazioni terroristiche dalle Nazioni unite. Il 6 novembre 2020, quando ormai era chiara la vittoria presidenziale di Biden, l’amministrazione Trump, in un ultimo rigurgito anticinese, ha deciso di depennare l’Etim dalla lista nazionale di movimenti del terrore con la motivazione che l’organizzazione non dava più segni di attività da almeno dieci anni. La mossa è stata naturalmente deplorata dalla Cina la quale meno di ventiquattr’ore dopo, attraverso il Quotidiano del Popolo, organo del Pcc, ha salutato la dichiarazione di Trump «Ho vinto io queste elezioni e anche di molto» con l’emoticon ridens accompagnata da un esplicito «HaHa!».

Pochi giorni dopo, al meeting dello Shanghai Cooperation Organization (Sco), ha chiesto agli stati membri (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Uzbekistan, India, Pakistan e Russia) un livello di cooperazione e solidarietà più forte per opporsi alle interferenze provenienti dall’esterno.

Mercato degli animali a Hotan, centro agricolo nel bacino del Tarim. Foto Piergiorgio Pescali.

Case uigure contro case han

Nell’ottica di Pechino, il modo migliore per indurre gli Uiguri ad accettare la presenza del governo centrale e abbandonare le richieste di maggiore autonomia (o indipendenza) era quella dello sviluppo economico. Nel 1999 venne così inaugurato il Great Western Development, un programma di iniziative sociali, culturali ed economiche che avrebbe dovuto dare un forte impulso di modernizzazione all’intera provincia dello Xinjiang. Iniziarono ad essere costruite nuove infrastrutture, venne potenziata la linea ferroviaria, furono realizzate autostrade e nuovi aeroporti internazionali mentre attorno alle città sorsero fabbriche e industrie. Il governo investì in Xinjiang, nei primi dieci anni del XXI secolo, più che in qualunque altra provincia cinese. Inutilmente. Gli Uiguri, così come avevano fatto i Tibetani, accolsero il Great Western Development come un progetto per accelerare la distruzione della loro cultura.

Le vie di comunicazione? Un modo per spostare più velocemente i reparti dell’esercito per soffocare ogni tentativo di protesta secondo gli Uiguri. E in parte era vero.

Le fabbriche? Un modo per arricchire gli Han e gli Hui, visto che la gestione era affidata a loro e si preferiva assoldare manodopera che non fosse uigura. E in gran parte era vero.

Il potenziamento dell’istruzione scolastica? Un modo per costringere gli Uiguri a imparare il mandarino per svilire e dimenticare la propria lingua e le proprie radici. Parzialmente vero.

A Kashgar sorse un movimento che ebbe risonanza anche all’estero per arrestare la demolizione di edifici tradizionali abitati dagli Uiguri. Erano case singole in legno per lo più fatiscenti, fredde d’inverno e torride d’estate, senza rete idrica e fognaria. In cambio l’amministrazione cittadina concedeva a ogni famiglia uigura un appartamento nuovo dotato di tutti i confort moderni: corrente elettrica, bagno in casa, riscaldamento, ampie finestre, ascensori. Dal punto di vista cinese era un’offerta vantaggiosa che non si poteva rifiutare. Ma le case che venivano distrutte erano le case in cui gli Uiguri amavano abitare perché consentivano loro di instaurare un rapporto sociale porta a porta; in quelle case, vecchie, a volte pericolanti, con spifferi da tutte le parti si erano succedute generazioni di famiglie. In questa lotta, in questo modo di vedere il futuro e la socializzazione c’era tutto il divario e l’incomprensione tra le due culture: gli Han modellavano il futuro dello Xinjiang (e, quindi, anche degli Uiguri) secondo il loro modo di vedere, sulla base delle loro esigenze e di quelle nazionali. Logico, allora, che non ci fosse alcun incontro tra le diverse comunità.

Cammelli nella città vecchia di Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.

Chen Quanguo, dal Tibet allo Xinjiang

Un ulteriore drastico cambio della politica cinese nello Xinjiang avvenne tra il 2013 e il 2016. La prima data corrisponde all’ascesa di Xi Jinping alla presidenza della Repubblica popolare. Egli da allora avocò a sé sempre più poteri. La seconda data vide la nomina di Chen Quanguo a segretario del Partito comunista locale. Chen Quanguo si era fatto le ossa nel Tibet dove aveva rafforzato il sistema di sicurezza e di sorveglianza aumentando la presenza della polizia e dell’esercito, ma introducendo anche il sistema della sorveglianza di quartiere: semplici cittadini, possibilmente dello stesso gruppo etnico che doveva essere controllato, erano investiti del ruolo di vigilante riferendo tutto quanto accadeva attorno a loro. Il cambio al vertice del potere nello Xinjiang era assolutamente funzionale agli ambiziosi programmi lanciati a partire dal 2013 da Xi Jinping: la Belt and Road Initiative (Bri, nota come «nuova Via della seta») e il rilancio economico della Cina guardando con maggiore attenzione al rispetto ambientale.

La proposta della Bri era stata avanzata dal presidente cinese in due importanti conferenze: prima quella tenuta nell’Università Nazarbayev, in Kazakhstan (non a caso paese confinante con lo Xinjiang) nel settembre 2013, e poi al parlamento di Giacarta nell’ottobre dello stesso anno. Nella prima si prospettava una serie di collegamenti via terra con l’Europa e il Medio Oriente; nella seconda si lanciava l’idea di nuove rotte marittime verso l’Africa e l’Europa. Nel 2015 le due iniziative vennero accorpate nella Belt and Road Initiative e accolte nello statuto del Partito comunista cinese durante il 19° Congresso del partito nell’ottobre 2017.

Lo Xinjiang diventava, dunque, il baricentro necessario al programma di sviluppo e di espansione dell’economia cinese nel Medio Oriente e in Europa voluto da Xi Jinping per trasformare la Cina in una nazione forte dal punto di vista economico, militare, culturale, sociale, politico e diplomatico.

Per sostenere la propria espansione, il sistema produttivo cinese aveva disperata necessità di trovare fonti energetiche. Dall’inizio degli anni Novanta, lo Xinjiang si era rivelato una delle principali sorgenti da cui ricavare energia senza rivolgersi fuori dai confini nazionali. In pochi anni, la «Nuova frontiera» si trasformò, da arida terra e utile baluardo contro eventuali invasioni provenienti da Occidente, a uno dei cofani più preziosi a cui attingere per far funzionare la macchina economica.

Oggi la regione autonoma è il primo produttore nazionale di petrolio (22% dell’intera produzione cinese), di gas naturale (23%), di carbone (38%), di berillio (usato nell’industria nucleare e aerospaziale), di mica (usata nel settore edilizio e in agricoltura). È il secondo produttore in Cina di energia eolica (20%) ed energia solare e il quarto produttore di energia idroelettrica (5%).

Secondo la road map di Xi, le infrastrutture già esistenti dovrebbero fare da supporto per un ampliamento delle iniziative economiche e commerciali inserite nella Bri. Una ragnatela di oleodotti, gasdotti e reti ferroviarie attraverseranno lo Xinjiang per diramarsi a Nord verso la Russia e a Ovest verso il Mar Caspio, il Medio Oriente, l’Iran e l’Europa. Pur essendo lontano da ogni sbocco marino, dallo Xinjiang parte il corridoio economico Cina-Pakistan, un progetto da 57 miliardi di dollari che collegherà la Cina con il porto di Gwadar e con l’Iran per permettere alla provincia di aprire una via verso l’Oceano Indiano e attingere direttamente al petrolio iraniano.

È quindi iniziata un’intensa campagna di investimenti statali e di propaganda per favorire l’arrivo di industrie straniere e private, con il risultato che, dal 2012 al 2018, il Pil dello Xinjiang è aumentato del 38% (da 750 a 1.220 miliardi di yuan). Oggi una dozzina di industrie europee – tedesche, spagnole, ceche, slovacche, ungheresi e bulgare – hanno uffici, rapporti commerciali o stabilimenti nello Xinjiang.

Piergiorgio Pescali

Ronda di militari per le strade di Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.


La deriva tecnologica

Quando sorvegliare diventa oppressione

Forze di polizia, ma anche controlli biometrici e intelligenza artificiale. Nello Xinjiang si stanno sperimentando tecniche di tracciamento e identificazione molto invasive.

Affinché i progetti di sviluppo vadano a buon fine, occorre che lo Xinjang sia stabile e sicuro. E in questo campo l’esperienza di Chen Quanguo, segretario del Partito nella regione autonoma, è esattamente quel che Xi Jinping cerca. Alla fine del 2016, gli uffici della Pubblica sicurezza dello Xinjiang hanno iniziato a reclutare Uiguri come assistenti di polizia. I candidati venivano allettati dagli alti stipendi (sino a tre volte quello che guadagnava mensilmente un uiguro). Inoltre, l’altissima disoccupazione giovanile, in particolare tra neolaureati nelle università provinciali garantiva un ampio e costante bacino di manodopera da cui attingere tra gli strati medio alti della popolazione.

Molti di coloro che sono stati scelti per il nuovo lavoro si sono ritrovati a controllare direttamente i loro stessi conterranei scendendo nelle strade, frequentando i mercati, sorvegliando i vicini di casa o di quartiere. Si sono spesso dovuti spendere a convincere i loro conoscenti, amici, parenti ad accettare la campagna «Diventare una famiglia», lanciata da Pechino, e ospitare nelle loro stesse case quadri di partito per almeno cinque giorni ogni due mesi. Questi quadri hanno il compito di verificare l’affidabilità delle famiglie e di identificare eventuali elementi sospetti.

Altri Uiguri, invece, sono stati assoldati per una nuova mansione: esaminare e ispezionare filmati, fotografie, intercettazioni audio e video dei loro conterranei.

Chen Quanguo ha inaugurato un nuovo modo di controllo della popolazione utilizzando le più sofisticate tecnologie, compresi i controlli biometrici, e l’intelligenza artificiale (Ai). Lo Xinjiang sembra sia il test preliminare prima di allargare questo sistema di controllo sulle zone più calde della Cina, come Hong Kong.

Parte integrante del processo è un’infrastruttura di aziende hi tech di cui fanno parte, seppur indirettamente, anche aziende europee. La Hikvision, l’azienda specializzata in video sorveglianza e che ha installato telecamere usate dalla polizia nello Xinjiang, ha collaborazioni con la Sony, la Intel, la Texas Instruments. La China Electronic Technology Group, l’azienda che detiene la Hikivision, ha stretto legami commerciali con la Siemens nello sviluppo di tecnologie avanzate nella digitalizzazione, nel networking e nell’automazione. La Xiamen Meiya Pico Information Co, una compagnia del Fujian, ha ideato la «MFsocket», l’app che rileva immagini, audio, geolocalizza, individua contatti telefonici e registra numeri in entrata e in uscita. Dal 2019 si è specializzata anche in Ai e big data e, dal 2004 a oggi, ha addestrato cinquantamila ufficiali del ministero della Pubblica sicurezza nel programma National Cyber Police Training Center oltre che in Indonesia, Malesia, Myanmar, Thailandia, Sri Lanka, Russia, Hong Kong, Singapore, Brasile.

Un venditore di «naan» (pane uiguro) nel quartiere uiguro di Kashgar, in via di demolizione per lasciare posto a nuovi complessi residenziali di stampo cinese. Foto Piergiorgio Pescali.

Terrorismo e campi di rieducazione

Accanto al controllo, al tracciamento e all’identificazione tecnologica dei cittadini, Chen Quanguo ha perfezionato e potenziato ciò che già da tempo esisteva: i campi di rieducazione, di cui Chen non è né l’ideatore e neppure l’iniziatore. Gli ormai celebri Xinjiang papers, pubblicati dal New York Times e che avrebbero svelato l’esistenza di campi di detenzione per i cittadini riottosi alle leggi emanate dal governo, hanno solo rivelato ciò che da tempo si sapeva. Già alla fine degli anni Novanta, si parlava diffusamente di zone, campi, villaggi dedicati alla rieducazione e dove confluivano quelli che il governo chiamava «terroristi» o banditi che erano stati «deviati» dai «tre demoni»: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. All’inizio del XXI secolo era stata ufficializzata la politica del «Colpisci duro, massima pressione» ipotizzata nel 1999 da Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro saggio Guerra senza limiti.

Nel 2006, la Laogai Research Foundation affermava che nello Xinjiang esistevano 69 istituti penali in cui gli internati erano obbligati a lavorare per conto di fabbriche, fattorie sia private che statali, tre campi di internamento riservati ai giovani e dieci campi di rieducazione tramite il lavoro. Gli Xinjiang papers, oltre a confermare questo arcipelago Laogai, hanno fatto scalpore perché erano carteggi fuoriusciti direttamente dal Partito comunista. Secondo i documenti, dal 2017 più di un milione di persone sarebbero state trasferite in un migliaio di campi all’interno dello Xinjiang. Questi erano suddivisi in quattro categorie: campi di rieducazione a bassa sicurezza, campi di rieducazione, centri di detenzione e campi di detenzione di massima sicurezza. Negli anni precedenti, gli attentati terroristici attribuiti agli Uiguri non solo erano aumentati, ma avevano valicato anche i confini dello Xinjiang. Nel 2013 un’auto con tre Uiguri a bordo si era scagliata contro gruppi di turisti in piazza Tienanmen uccidendo due persone e ferendone una quarantina; nel 2014 otto attentatori dello Xinjiang, muniti di coltello, erano entrati nella stazione ferroviaria di Kunming causando la morte di 33 persone e ferendone 140. Nel frattempo, all’interno della provincia si susseguivano altri atti terroristici: nel solo 2014 in totale ci furono una quarantina di morti e più di 100 feriti in diverse azioni compiute da Uiguri.

È in quell’anno che il governo ha deciso di intensificare quello che esso stesso definisce «programma di rieducazione». Pechino, dopo un primo blando tentativo di negare la realtà dei campi, ha ammesso la loro esistenza trovandone la giustificazione nella sicurezza nazionale: è innegabile, infatti, che dal 2017, anno in cui è stata rafforzata la politica di Xi Jinping e di Chen Quanguo, le violenze nello Xinjiang sono pressoché scomparse. Secondo le ormai numerose testimonianze raccolte da autori e ricercatori (molti dei quali con trascorsi decisamente ostili alla politica cinese), i cittadini sospettati di essere «infettati» da uno o più dei «tre demoni» hanno le seguenti caratteristiche: sono di etnia uigura, un’età tra i 15 e i 55 anni, disoccupati, credenti praticanti, hanno almeno un parente in uno stato straniero e hanno visitato o tentato di visitare uno dei 26 paesi considerati politicamente delicati. Particolarmente sotto osservazione sono i villaggi più poveri e isolati. La vita nei campi varia a seconda della persona che la racconta. Per alcuni, i campi sono caratterizzati dalle condizioni più misere e derelitte, una vita fatta di ingiustizie, violenze gratuite, torture, esecuzioni sommarie. Secondo altri, nei campi si vivono invece giornate abbastanza serene, passate effettivamente a studiare e lavorare nelle quali non manca anche il tempo libero.

Dopo essere stata per lungo tempo, terra ignorata e isolata, oggi lo Xinjiang da nuova frontiera si è trasformata in una nuova porta attraverso cui dovrebbe passare il futuro sviluppo economico non solo cinese, ma di tutta l’Asia.

Tuttavia, affinché questo progetto possa essere accolto positivamente, ci sarebbe bisogno che venga costruito coinvolgendo in modo attivo e propositivo tutti gli attori a cui Pechino afferma di rivolgersi.

Piergiorgio Pescali

Volti di etnia kirghiza. Foto Piergiorgio Pescali.


Archivio MC

Hanno firmato questo dossier:

  • PIERGIORGIO PESCALI – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.
  • A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.

Una statua di Mao Zedong, il «grande timoniere», a Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.




Myanmar:

Lotta alla polio sui monti dei Chin

testo e foto di Dan Romeo | www.iviaggididan.it |


Era il febbraio del 2016 quando per la prima volta ho visitato il «Chin state», un piccolo stato che fa parte di quello che, con il dominio coloniale britannico, era chiamato la Birmania e poi, sotto la dittatura militare, è stato ribattezzato Myanmar.

Gli abitanti del Chin sono di origine sino-tibetana e occupano quella catena montuosa che copre approssimativamente la Birmania (oggi Myanmar) occidentale fino a Mizoram, nel Nord Est dell’India, e piccole parti del Bangladesh. Non costituiscono un unico gruppo, ma hanno tra di loro diverse etnie come Asho, Cho, Khumi, Kuki, Laimi, Lushai e Zomi, ciascuna con la propria lingua appartenente alla famiglia linguistica tibeto-birmana.

Per circa l’80% sono cristiani, mentre la popolazione rimanente è buddhista o animista. Il loro numero in Myanmar è incerto a causa dell’assenza di statistiche demografiche affidabili sin da prima della seconda guerra mondiale. Oggi si stima che ci siano circa mezzo milione di Chin nello stato omonimo e nel Sagaing, nel Nord Ovest del Myanmar.

Poveri e accoglienti

La maggior parte dei Chin vive in villaggi o piccolissime città. Le loro case sono tradizionalmente costruite in legno e appoggiate spesso in maniera precaria su pilastri consumati dal tempo; hanno tetti di paglia e pareti di bambù. Nonostante le loro condizioni di vita siano estreme, i Chin sono sempre disposti ad aprire le porte delle loro case con il sorriso per accogliere i rari stranieri che riescono a raggiungere i loro villaggi remoti. Hanno un desiderio insaziabile di conoscere e scoprire tutto ciò che sta al di là delle loro montagne.

Lo stato di Chin è una delle zone più povere del Myanmar. Più di sette persone su dieci sono sotto la soglia di povertà e circa l’80% delle famiglie vive in condizioni al limite della sopravvivenza e con carenza alimentare. Recenti statistiche stimano che un bambino su dieci muoia entro entro i cinque anni di vita, con un tasso di arresto della crescita infantile pari al 41% e con il 20% dei bambini sottopeso. Basti pensare che qui solo il 15% dei bambini è nato in una struttura sanitaria.

I bambini protagonisti

Nel 2016 Unicef Myanmar mi affidò l’incarico di documentare la campagna di vaccinazione contro la poliomielite appena lanciata. Il team sul campo mi informò della difficoltà del viaggio, soprattutto durante la stagione dei monsoni, quando interi versanti delle montagne franano a valle rendendo le strade impraticabili. Ma la proposta costituiva per me un’opportunità più forte di qualsiasi difficoltà. Mi ritrovai nella capitale dello stato del Chin, Hakha, dopo tre settimane di viaggio estenuante, prima in aereo e poi in auto su strade sterrate, spesso ridotte a pietraie, che si inerpicano sulle montagne al confine con l’India e il Bangladesh. Tracciati di terra di un giallo intenso su strapiombi mozzafiato, con pareti di roccia, spesso segnati da frane, contro le quali lungo tutto il percorso sono pronti scavatori e camion durante tutto l’anno.

Per due settimane sono poi passato di villaggio in villaggio, di casa in casa con gli operatori sanitari per sensibilizzare sui benefici della vaccinazione contro la poliomielite e somministrare i vaccini. Una campagna che ha cercato di colmare i ritardi decennali causati da strutture inadeguate e soprattutto da anni di guerra civile che hanno provocato la fuga e la migrazione di gran parte della popolazione.

in basso, in primo piano, la cattedrale di Hakha, la capitale del territorio Chin.

Il racconto di Eint

Particolarmente toccante per me fu la testimonianza di Eint, una mamma di sette figli, che con il suo ultimo nato appena vaccinato in braccio, mi raccontò che non avrebbe mai dimenticato quanto era accaduto un anno prima, nell’ottobre 2015, quando suo figlio di circa due anni era stato in condizioni fisiche precarie e, nonostante le medicine, aveva continuato ad avere una febbre persistente. «Un giorno, dopo aver partecipato a una festa nel villaggio dei miei genitori, tornati a casa, notai che mio figlio era febbricitante e cadeva a terra ogni volta che cercava di alzarsi».

Per questo Eint lo aveva portato d’urgenza in ospedale. Dopo la visita medica, «i medici mi hanno detto che era la poliomielite. È stato un momento molto duro e complicato», mi disse Eint. «Mi sentivo una mamma inutile».

Suo figlio era uno delle decine di migliaia di bambini che ogni anno contraggono l’infezione da virus della poliomielite, ma era stato salvato grazie alla prontezza della madre che lo ha portato all’ospedale ai primi sintomi.

La sfida

I servizi di immunizzazione, specialmente nelle aree difficili da raggiungere come lo stato del Chin, rappresenta una sfida per il sistema sanitario del Myanmar. Di conseguenza, i bambini sono meno protetti dai virus. Nei villaggi dove la maggioranza della popolazione è musulmana, ci sono anche barriere linguistiche e culturali che aumentando la distanza tra la comunità e il personale sanitario e i volontari.

La violenza intercomunitaria scoppiata nel 2012 nel vicino stato di Rakhine – dove vivono i Rohingya – ha complicato ulteriormente la situazione e, di conseguenza, i bambini di tutte le comunità corrono rischi maggiori.

Sono stato testimone di come l’Oms, insieme a Ong internazionali e al ministero della Salute del Myanmar, stia cercando di debellare la polio, sia con l’informazione e campagne di sensibilizzazione che con la vaccinazione sistematica in tutto il Myanmar e in particolare nelle aree più remote come Rakhine, Chin, Magway, Bago e Ayeyarwady. Le immagini di queste pagine cercano di documentare l’ambiente nel quale vive la minoranza cristiana Chin e la campagna di vaccinazione rivolta a salvare bambini sotto i cinque anni dalla polio.

Daniele Romeo
dan@dan.ph

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Bulgaria. Un piede in Europa (e l’altro fuori)

Testi e foto di Piergiogio Pescali |


Indice

Introduzione:
Da quella provincia chiamata Tracia

Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato.

I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi

Ha firmato questo dossier:


Introduzione:
Da quella provincia chiamata Tracia

Editto bulgaro, maggioranza bulgara, il Pippero di Elio e le Storie Tese, i danzatori a piedi nudi sui bracieri ardenti di Franco Battiato: quando in Italia si parla di Bulgaria, le immagini che si materializzano nelle nostre menti sono divise tra autoritarismo, spettacolo e i braccianti di Mondragone, vittime di caporalato e coronavirus.

Eppure, con questo popolo balcanico, noi italiani abbiamo in comune insospettabili legami. Nel 46 d.C., Claudio inglobò la provincia della Tracia nel suo impero. Nel VII secolo d.C. l’Orda bulgara che, dalle steppe del Volga, si spostò nella pianura danubiana, si divise: una parte, guidata da Asparuh, fondò quello che è considerato il primo stato bulgaro, mentre altre frange si dispersero tra il Mar d’Azov e l’Europa. Una di esse, con a capo l’avaro Alcek, trovò rifugio nell’Italia meridionale, allora dominata dai Longobardi di Grimoaldo. Ancora oggi vi sono paesini nel Cilento, nel Salento, sulle montagne della Basilicata o tra le valli del Molise, i cui abitanti mostrano di avere origini bulgare. E a ricordo della migrazione, a Celle di Bulgheria, in provincia di Salerno, c’è anche una statua dedicata ad Alcek.

Numerosi personaggi dello spettacolo, della letteratura, della scienza e dello sport hanno origini bulgare: l’artista Moni Ovadia, la cantante Sylvie Vartan, lo scrittore Elias Canetti, l’artista Christo (morto lo scorso 31 maggio), il filosofo Tzvetan Todorov, il fisico Fritz Zwicky, la soprano Raina Kabaivanska. Spartaco era tracio e a lui sono dedicate le squadre di calcio denominate Spartak, particolarmente numerose nell’Europa dell’Est.

I cultori di Harry Potter non possono dimenticare Viktor Krum, il campione bulgaro di Quidditch, il cui cognome ricorda il sovrano che gettò le basi per la creazione di uno stato centralizzato, mentre gli appassionati di spionaggio restano ancora affascinati dall’«ombrello bulgaro» usato per iniettare la ricina con cui i servizi segreti uccisero a Londra, nel 1978, lo scrittore dissidente Georgi Markov. Un macabro regalo di compleanno per il presidente Todor Živkov, di cui Markov era scomodo oppositore.

Piergiorgio Pescali

Il teatro romano di Plovdiv dove ancora oggi si organizzano commedie e concerti. Foto di Piergiorgio Pescali.

Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato

Dopo 35 anni di governo comunista, dopo 13 anni nell’Unione europea, la Bulgaria rimane un paese nazionalista. Con politici inadeguati e corrotti. Piccola, la Bulgaria. Sul suo territorio, oggi solo una minima parte di quello che un tempo fu uno degli imperi più potenti d’Europa, vivono sette milioni di persone di cui meno dell’80% possono considerarsi discendenti di quei proto bulgari che, nel II secolo d.C., emigrarono dalla regione del Volga per innestarsi sulle popolazioni tracie già presenti sul territorio sin dal I millennio a.C..

Le montagne e le pianure bulgare erano il passaggio obbligato tra l’Europa centrale e l’Asia minore e questa posizione geografica ha portato una varietà culturale e culinaria tra le più fertili e gustose in Europa.

«La crocifissione di Cristo», icona al Museo delle icone di Plovdiv. Foto di Piergiorgio Pescali.

La chiesa ortodossa ha rivestito un ruolo decisivo nel modellare la società: poco dopo la conversione al cristianesimo, nel IX secolo d.C., il greco-bizantino Cirillo inventò in Moravia un nuovo alfabeto, il glagolitico. Dopo la sua morte, i seguaci del fratello Metodio, perseguitati dai Franchi, trovarono rifugio in Bulgaria dove San Clemente di Ocride trasformò il glagolitico nell’alfabeto cirillico tramandato sino ai nostri giorni. Fu quindi la Bulgaria, e non la Russia, come spesso di crede, la vera patria del cirillico, scrittura che oggi viene utilizzata in gran parte dei paesi slavi. Fu la Bulgaria la prima nazione ad adottare, nell’886, l’alfabeto cirillico. Nell’893 l’impero bulgaro abbandonò la lingua greca a favore del bulgaro decretando la sua volontà di indipendenza non solo politica, ma culturale, dai bizantini. Nel 917 Simeone I, sconfiggendo Costantinopoli si fece incoronare zar (titolo slavo che sta per Cesare), trasformando la Bulgaria in uno dei più grandi imperi d’Europa. Nel 927, pochi mesi dopo la sua morte, la chiesa bulgara ottenne l’autocefalia da quella di Costantinopoli.

L’ortodossia dell’esarcato di Sofia fu una delle caratteristiche principali su cui si modellò la società della Bulgaria: né con Costantinopoli né con Roma, ma fieramente autonoma. Questa sorta di sovranità religiosa ha evitato alla Chiesa ortodossa di Bulgaria i contrasti con Roma che invece caratterizzarono la storia della Chiesa greco ortodossa. È questo uno dei motivi per cui i pope bulgari hanno un atteggiamento molto più aperto e ospitale rispetto a quelli greci nei confronti dei cattolici. Nelle chiese e nei monasteri della Bulgaria, un cattolico non sente quella ostilità e quell’acredine che invece respira visitando i monasteri ortodossi greci o nella stessa basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.

Dalla dittatura di Živkov alla grande fuga

Le ricchezze storiche sparse in Bulgaria sono immense e – forse sorprende saperlo – tutte ben tenute: splendidi monasteri sperduti nelle valli, città medioevali come Veliko Tarnovo, moschee retaggio della dominazione ottomana (dal 1396 al 1878), musei che espongono elaborati oggetti traci d’oro cesellato, incomparabili icone venerate dai fedeli. Nel 2019 l’affascinante città di Plovdiv ha condiviso con Matera il titolo di «capitale europea della cultura».

Anche il periodo socialista, solitamente così parco di retaggi, qui ha tramandato i suoi lasciti: il museo dell’arte socialista di Sofia raccoglie statue che altrimenti sarebbero andate perdute dalla furia distruttiva e vendicativa del nuovo corso democratico. Il 17 giugno 2011 gli abitanti di Sofia si sono divertiti o indignati, a seconda dell’orientamento politico e della visione storica, trovando il monumento all’Armata rossa sovietica rielaborato in loco nottetempo da un gruppo di giovani artisti appartenenti al movimento di Distruzione creativa. I soldati erano stati dipinti in modo da risultare vestiti con indumenti della cultura capitalista statunitense: McDonald, Santa Claus, Superman, Wonder Woman, Capital America, The Mask, Wolverine, Robin e Joker.

Nel paese si trovano ancora lasciti dell’architettura socialista, come il memoriale di Buzludzha o diversi monumenti troppo mastodontici per essere smantellati.

Negli anni Settanta il paese ha conosciuto un revival culturale assolutamente unico nel mondo dell’Est Europa per volontà della controversa figura di Lyudmila Živkova, figlia di Todor Živkov, segretario del Partito comunista bulgaro dal 1954 al 1989. Sotto di lei il mondo artistico bulgaro godette di una libertà di espressione impensabile in altri paesi del blocco sovietico, ma al tempo stesso la Živkova introdusse una cultura new age che fece storcere il naso a molti materialisti, e non solo in Bulgaria. Ammaliata da figure come Baba Vanga o Nikolai Roerich, si appassionò alla teosofia e all’esoterismo sino ad entusiasmarsi per le pratiche mistiche degli Aztechi e dei Maya.

La piazza centrale di Panagyurishte e il centro multifunzionale «Videlina». Foto di Piergiorgio Pescali.

Questa apertura artistica però poco importava alla maggioranza dei concittadini di Lyudmila: dopo il crollo del regime socialista di Todor Živkov, migliaia di suoi connazionali si riversarono in Italia cercando fortuna, tanto che quasi 59mila (dati del 2016) di loro vivono nella penisola.

Dal «liberi tutti» segnato dall’arrivo al potere dell’Unione delle forze democratiche, la popolazione del paese è in continuo calo: nel 1989, alla vigilia della caduta di Živkov, i bulgari in patria erano nove milioni, due in più di quanti ce ne sono attualmente. Secondo un rapporto redatto dall’Open Society di Sofia, il saldo negativo è dovuto per il 52% alla denatalità e per il 48% all’emigrazione.

Tra il 1985 e il 2016 circa 880mila bulgari si sono trasferiti all’estero. Di questi, la metà (465mila) tra il 1985 e il 1992. Negli ultimi anni il flusso sta ritrovando un suo equilibrio: nel quinquennio 2011-2016 solo 25mila persone hanno lasciato il territorio nazionale e l’emorragia è stata in parte assorbita dal ritorno di 21mila emigrati.

Circa metà di chi ha abbandonato la Bulgaria era di origine turca: fu lo stesso Živkov, alla metà degli anni Ottanta a dare il via a questo esodo quando inaugurò il «Processo di rinascita nazionale» costringendo la popolazione di etnia turca a cambiare i loro patronimici in nomi bulgari e proibendo la fede islamica. In tre mesi, tra il maggio e l’agosto 1989, 360mila di loro preferirono spostarsi in Turchia approfittando di una temporanea apertura delle frontiere. Oltre ad essere stato un disastro economico (si privò l’agricoltura di manodopera preziosa), il piano fu una delle cause che costrinsero Živkov a rassegnare le dimissioni, e rappresentò una delle più grandi pulizie etniche nell’Europa del dopoguerra come riconobbe anche lo stesso governo bulgaro l’11 gennaio 2012.

Nesebar, la chiesa di Cristo Pantocratore. Foto: Piergiorgio Pescali.

Le minoranze rom e turca

I bulgari hanno sempre avuto un rapporto conflittuale con le etnie minoritarie presenti sul loro territorio. Durante la Seconda guerra mondiale, se da una parte consegnarono senza fiatare ai tedeschi 11mila ebrei residenti nei territori di Tracia e Macedonia che Berlino aveva assegnato a Sofia in cambio della sua alleanza, dall’altro ci furono singole figure e organizzazioni che cercarono di salvare i 48mila giudei presenti nelle province più interne. «Non sapevamo noi che cos’era il ghetto. Non abbiamo visto le mura alte, folle di ebrei – bambini, giovani, vecchi, donne – portati come merce viva», scrisse la poetessa bulgara di origine ebraica Dora Gabe evidenziando la situazione di privilegio in cui vivevano gli ebrei di Sofia rispetto a quelli di Varsavia.

Il merito fu da ascrivere soprattutto a Dimitar Peshev (vedi MC 4/2020) e alla Chiesa ortodossa, mentre il re Boris III, che guardava al fascismo con molta indulgenza (anche per aver sposato la figlia di re Vittorio Emanuele III), ebbe verso gli ebrei dei comportamenti ambigui che ancora oggi dividono gli studiosi.

Questo pezzo di storia, lungi dall’essere archiviato, è spesso seme di discordia tra la Bulgaria e i paesi confinanti. Recentemente stampa, governo ed alcuni storici nazionalisti hanno tacciato di falsificazione e di incitamento all’odio il film Third half realizzato dalle televisioni macedone, ceca e serba, nel quale si accusa la polizia e il governo bulgaro degli anni Trenta e Quaranta di collaborazionismo con i nazisti.

La diffidenza verso lo straniero si ripercuote sia all’interno che all’esterno della nazione, mascherandosi con connotati nazionalistici.

Plovdiv, architettura tipica del rinascimento bulgaro che celebra la città come «Capitale europea della cultura 2019» (assieme a Matera). Foto: Piergiorgio Pescali.

La forte presenza rom (il 4,4% della popolazione) e la convivenza forzata con la minoranza turca (8% della popolazione) sono forse gli elementi più evidenti di questa tensione sociale. Tuttavia, mentre i turchi sono concentrati principalmente nelle regioni Nord orientali del paese e nella provincia di Kardhali, i rom sono sparsi a macchia di leopardo e convivono porta a porta con i bulgari in ogni villaggio della nazione. Il che rende la coabitazione sempre più problematica.

Il movimento «Ataka» (Attacco), attualmente presente in parlamento in coalizione con altri due partiti a forte connotazione etnica e nazionalista, rappresenta forse la parte più estrema del fronte xenofobo e razzista. Il suo leader e fondatore è Volen Siderov, giornalista, fotografo e scrittore che, all’inizio degli anni Duemila, condusse un programma molto popolare sul canale televisivo privato Skat dal titolo, appunto, di Ataka.

Fortemente antisemita, antiturco, antieuropeo e pro Russia, Siderov è critico verso le clausole che hanno permesso alla Bulgaria di aderire all’Unione europea, come il forte ridimensionamento della centrale nucleare di Kozloduy. Ha definito l’adesione alla Nato un tradimento verso la nazione al pari del Trattato di Neuilly-sur-Seine che il 27 novembre 1919 aveva costretto la Bulgaria a cedere la Tracia alla Grecia e altri territori alla Yugoslavia. Secondo Ataka, Nato e Unione europea avrebbero permesso a non meglio precisati gruppi sovranazionali di redigere un piano per distruggere la Bulgaria e sterminare il suo popolo. Più volte Siderov ha definito i rom come «umanoidi» che sopravvivono «rubando ed ingannando». Nel 2014 è stato anche protagonista di un violento attacco verbale compiuto a bordo di un volo di linea Sofia-Varna contro Stéphanie Dumortier, una collaboratrice dell’ambasciata francese insultandola, tra l’altro, per il suo accento spiccatamente francese ed «effemminato».

L’incidente, che ha rischiato di creare una crisi diplomatica tra i due paesi, non è un isolato atto di fanatismo, bensì riflette la percezione sociale di una Bulgaria che si sente alla periferia di tutto: dell’Europa, dell’Asia, della Russia. Essendo ai margini, si sente al tempo stesso isolata, manipolata, ma anche pedina vitale (e, a volte, sacrificabile) nei giochi tra le potenze.

Il risultato è l’avanzata di un forte nazionalismo e settarismo con velleitarie nostalgie verso il passato dei grandi imperi.

L’Unione europea, dopo essere stata considerata la deus ex machina per lo sviluppo economico nel decorso post socialista, è ora sempre più spesso additata come causa dei problemi che affliggono la nazione, tra cui l’immigrazione.

La cattedrale ortodossa di Alexandar Nevski, a Sofia. Foto di Piergiorgio Pescali.

La storia del «cacciatore di migranti»

Dinko Valev è una delle tante figure oscure e preoccupanti di questa ondata revanscista. Accanto al suo lavoro di commercio di parti di ricambio per bus e camion che, a suo dire, già a 23 anni lo ha portato a guadagnare il suo primo milione di lev, ha organizzato un vero e proprio esercito personale di 1.500 volontari che dispongono di quattro veicoli corazzati, un elicottero militare e diversi droni e quad. Ogni giorno, a turno, decine di questi paramilitari pattugliano la zona di confine con la Turchia alla ricerca di migranti che scavalcano illegalmente la rete di filo spinato costruita dal governo di Sofia.

Valev si definisce «un uomo d’affari di successo, un padre di famiglia e un patriota. Difendo la mia madrepatria e i paesi slavi dall’invasione di migranti illegali. Migranti, lo ripeto, perché non sono rifugiati. Sono siriani, afghani, pakistani, somali, sudanesi, iraniani…».

Nonostante l’ufficio locale del Comitato Helsinki per i diritti umani abbia accusato Dinko di violazione dei diritti umani, giornali e Tv (tra cui anche la Tv di stato) lo hanno più volte incensato definendolo un «supereroe». La sua è ormai una presenza fissa nei reality show e nei varietà. Nei programmi a lui dedicati, lo si vede trattenere a forza migranti e chiedere loro documenti e informazioni sulla loro presenza in Bulgaria. A quale titolo lo faccia non è mai stato spiegato, ma questo ai bulgari interessa poco.

«Dinko ha fatto ciò che l’Unione europea non è stata capace di fare: ha chiuso i confini all’immigrazione clandestina», lo difende un suo ammiratore. Non è un giudizio isolato visto che, secondo un sondaggio condotto dalla televisione nazionale, verrebbe condiviso dall’86% dei suoi connazionali.

A pochi interessa sapere che il numero di rifugiati ospitati nei due centri di accoglienza di Busmantsi e Lyubimets (un terzo centro, quello di Elhoyo è stato chiuso nel 2018) era di soli 2.184 nel 2019 rispetto agli 11.314 del 2016.

Come l’Italia, anche la Bulgaria è considerata dai richiedenti asilo come semplice paese di transito. Quindi, i profughi che vi arrivano cercano di attraversarne al più presto le frontiere per dirigersi verso Nord.

Fedeli nella cattedrale di Alexandar Nevski durante le festività pasquali, a Sofia. Foto: Piergiorgio Pescali.

La Bulgaria e l’Unione europea

L’Unione europea è dunque ormai vista da molti come un peso, più che come un traino all’economia, o un’opportunità per cambiare un paese troppo ancorato al bullismo sociale e politico.

A tredici anni dall’entrata nella comunità europea (2007), le speranze dei bulgari in un cambiamento delle proprie condizioni sociali sembrano ormai essere svanite: in un sondaggio effettuato nel 2016, solo il 50% voterebbe ancora per l’accesso all’Unione. Nel 2013 era il 70%.

Eppure l’Ue ha giocato un ruolo determinante per lo sviluppo economico della nazione: tra il 2014 e il 2020, ha elargito fondi strutturali per 11,7 miliardi di euro, pari al 9% del Pil con un saldo attivo di 1,67 miliardi di euro per il solo 2018 (l’Italia, tanto per fare un esempio, ha un saldo negativo di 5,06 miliardi di euro e la Germania di 13,41 miliardi).

È un paradosso, ma i paesi che più si oppongono alle politiche di integrazione sociale ed economica dell’Ue sono proprio quelli che, dalla comunità, ricevono i maggiori benefici economici (cfr. articolo a pag. 47). È però altrettanto vero che rispetto all’Italia, la Bulgaria (così come gli altri paesi dell’Est Europa) riesce a gestire meglio i fondi europei: al 2019, degli 11 miliardi di euro stanziati, 9,3 avevano già una destinazione e 4,7 erano già stati spesi (a titolo di paragone, l’Italia ha ricevuto dall’Europa 75 miliardi di euro; ma solo per 54,6 miliardi – il 73% – è stato deciso l’utilizzo e solo 26,3, il 35%, sono stati spesi).

L’economia bulgara, dal 2007 a oggi, ha fatto passi da gigante: il lev è la moneta più stabile dell’Europa orientale, il Pil si sviluppa su una media del 3-4% annuo e la disoccupazione è del 4,2%, un livello paragonabile a quello dell’Austria e la metà rispetto all’Italia.

Questi segnali positivi però non sembrano ripercuotersi sul benessere individuale: la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è rimasta invariata rispetto al 2008 stabilizzandosi sul 22%. Deboli indicazioni di miglioramento sono le impercettibili variazioni al ribasso della percentuale di bulgari costretti a vivere sotto la soglia di 5,5 dollari al giorno, considerata dal governo come il limite minimo di sopravvivenza: 6,7% nel 2019 quando nel 2017 era il 7,5%.

Troppo poco per far innamorare di un’Unione europea che viene vista (o viene mostrata) sempre più come un intralcio alla libertà individuale che qui, dai palazzi del potere sino alle case del più piccolo villaggio, è sempre stata vista come libertà di farsi leggi ad personam. I bulgari, come la maggior parte dei popoli mediterranei, hanno un forte spirito anarcoide e, anche durante il periodo socialista, si sono ingegnati ad aggirare i proclami, più che a seguirli. L’Ue, con la miriade di leggi e restrizioni che emana in continuazione è un «di più» che poteva essere utile per permettere la libera circolazione delle persone in paesi sino ad allora considerati un miraggio nei sogni di molti bulgari o come mucca da mungere per sfamare cittadini allo stremo.

Le aspettative del popolo sono state mirabilmente descritte da Stefan Tzanev, uno dei poeti bulgari contemporanei più lucidi e critici della nuova società: «Tutto si aggiusterà. Restituiamo la terra alla gente. Avremo pane e carne a sufficienza. Uova e verdure. L’industria la faremo moderna ed ecologica. Avremo frigoriferi a bizzeffe, conserve, lavatrici e televisori. Domineremo l’inflazione. Avremo la valuta convertibile. Non mendicheremo qualche dollaro come bambini abbandonati davanti alle porte dell’Europa. Aggiusteremo i rapporti nazionali ed internazionali. Tutto aggiusteremo. Tutto decideremo». Tzanev conclude la sua poesia con un «Tremendo destino, quello di essere liberi… Salvate le nostre anime!».

Quando la crisi ha iniziato a farsi sentire anche nelle economie ricche, i fondi comunitari hanno iniziato ad essere elargiti con più parsimonia e, soprattutto, a Bruxelles hanno richiesto garanzie di spesa e di qualità che in molti casi non potevano essere date. E allora ecco svanire l’incanto dell’Unione europea.

Plovdiv, architettura tipica del Rinascimento bulgaro. Foto Piergiorgio Pescali.

Politici di ieri, politici di oggi

Un altro dei motivi per cui i bulgari mostrano sfiducia nell’Ue è la delusione nel constatare che quasi nulla nella politica nazionale è cambiato dopo le speranze emerse dal tracollo del precedente regime socialista.

Se solo il 33% dei bulgari esprime una fiducia nelle istituzioni gestite dall’Unione, la percentuale crolla ad un misero 10% per quelli che danno credito al proprio governo di Sofia.

Quasi tutti i politici succedutisi alla guida della nazione hanno avuto ruoli di responsabilità nel passato sistema e non solo all’interno del Bsp (Bălgarska Socialističeska Partija, Partito socialista bulgaro), erede in salsa democratica del vecchio Partito comunista.

Boyko Borisov, l’attuale primo ministro e leader del populista e conservatore Gerb (Graždani za evropejsko razvitie na Bălgarija, Cittadini per uno sviluppo europeo della Bulgaria) è stato guardia del corpo di Todor Živkov; Krasimir Karakachanov, attuale ministro della difesa e leader dell’Unione patriottica era consigliere di Živkov sui temi per la Macedonia; il già citato Siderov era fotografo al Museo di letteratura nazionale.

«C’erano una volta dei tempi più oscuri. C’erano una volta dei tempi più terribili, tempi di terrore, tempi di misteri sanguinosi. Ma la storia non ricorda dei tempi più vergognosi. Il mio tempo, il tempo della grande ipocrisia. I marescialli di ieri, che sventolavano manganelli e bastoni, oggi sono nelle prime file dei combattenti per la democrazia», scrive ancora con estrema trasparenza Stefan Tzanev.

Tutti i politici, collusi o no con il vecchio sistema, esprimono comunque un carattere spaccone e smargiasso che sembra essere apprezzato e premiato da una grande fetta di elettori. I bulgari non hanno avuto un Sessantotto o un Settantasette che hanno insegnato alle generazioni giovanili che opporsi al sistema non solo è possibile, ma conduce anche ad un rafforzamento della democrazia.

In Bulgaria, il «lei non sa chi sono io» è ancora una frase d’effetto che porta al risultato voluto: anziché suscitare la giusta indignazione, fa chinare la testa.

Il governo di Borisov, nonostante abbia mostrato un incredibile scenario di incompetenza politica, di sciatteria sociale e di corruzione, continua ad essere l’ago indicatore della bilancia politica bulgara assieme al suo partito, il Gerb. Non avendo seggi a sufficienza per formare un proprio esecutivo, Borisov non ha indugiato a chiedere aiuto alla coalizione ultranazionalista di estrema destra Unione patriotica e a chiamare attorno a sé figure vicine a Delyan Peevski, un enigmatico personaggio che negli ultimi anni è riuscito a monopolizzare la grande maggioranza dei media bulgari.

L’Unione europea, anziché cercare di contrastare la pericolosa deriva autoritaria e di decadimento morale ha preferito mostrare un colpevole atteggiamento di indifferenza, se non addirittura di complicità.

Nesebar, chiesa di San Giovanni Battista. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il paese più corrotto dell’Unione

La Bulgaria è quasi sempre agli ultimi posti negli indicatori economici e di sviluppo sociale dell’Ue,  ed è uno dei due paesi (l’altro è la Romania) soggetti al Meccanismo per la cooperazione e la verifica della trasparenza e la corruzione. Oltre ad essere il paese più corrotto nell’Unione, anche a livello mondiale non è messa bene occupando il 74° posto su 179 nazioni prese in esame.

Del resto, anche in caso non sia più possibile tenere sotto silenzio uno scandalo, non si rischia molto e questo favorisce il coinvolgimento dei politici bulgari in operazioni disoneste e criminali, sia di costume che finanziarie.

La Commissione anticorruzione nazionale è guidata da Sotir Tsatsarov, fedelissimo di Delyan Peevski e Boyko Borisov. Tsatsarov è stato eletto dopo che il suo predecessore, Plamen Georgiev, era stato costretto alle dimissioni per il suo coinvolgimento nello scandalo Apartmentgate quando nel 2019, alla vigilia delle elezioni europee, il Gerb era stato travolto da critiche per l’uso illecito dei fondi europei destinati a sovvenzionare agriturismi e hotel famigliari ed invece utilizzati per costruire ville private di politici e loro accoliti o per acquisti di appartamenti nei quartieri più esclusivi di Sofia a prezzi ridicoli. Naturalmente, il Gerb ha, comunque, vinto le elezioni con il 31% dei voti, mentre Georgiev non è stato mai ufficialmente accusato e oggi si gode il sole di Valencia, in Spagna, come console bulgaro.

Arbanasi, chiesa della Natività, La crocifissione, nel naos. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il secondo paese più inquinato

Nonostante la Bulgaria nel periodo 2007-2020 abbia ricevuto da Bruxelles 204 milioni di euro per il trattamento dei rifiuti urbani e industriali,  la situazione è disastrosa. Al di fuori di Sofia e di poche altre città, non esiste un programma di raccolta differenziata, col risultato che la nazione è, dopo la Grecia, la più inquinata d’Europa. Risulta così ridicolo il piano che prevede come richiesto dall’Unione europea, il riciclo del 50% dei rifiuti entro il 2020. Bruxelles lo sa, ma continua imperturbabile per la sua strada.

I fiumi e i terreni sono ricchi di metalli pesanti rilasciati dalle industrie metallurgiche, e l’aria nelle grandi metropoli è spesso irrespirabile: Sofia è la città con la concentrazione di PM 2.5 e di SO2 più alta in Europa e, assieme a Polonia e Slovacchia, la Bulgaria supera i livelli massimi consentiti dall’Ue di PM 10.

Il parco auto che circola nel paese è il più vetusto d’Europa: il 50% delle vetture circolanti hanno più di vent’anni e la maggioranza sono diesel privi di manutenzione e di certificato europeo. Solo lo 0,08% delle auto sono ibride e l’elettrico è praticamente assente.

Bruxelles continua a emanare leggi, raccomandazioni, multe, sapendo benissimo che Sofia continuerà per la sua strada. Eppure basterebbe all’Ue poco per dare un segnale ben preciso all’inefficienza di Borisov & Co.: sarebbe sufficiente vietare a paesi, come l’Italia, di esportare auto destinate alla rottamazione verso i paesi dell’Est.

L’Italia è in prima linea nel condividere la responsabilità del disastro ambientale in cui versa la Bulgaria.

Solo alcuni comitati cittadini (ancora pochi e poco ascoltati) hanno iniziato a criticare la politica ambientale nazionale chiedendo, ad esempio, una revisione della politica energetica. Sono stati proprio loro ad ottenere, nel gennaio 2020, una prima importante vittoria costringendo alle dimissioni il ministro dell’ambiente Nino Dimov, successivamente arrestato per avere deliberatamente costretto per due mesi al razionamento idrico circa 100mila persone nella provincia di Pernik deviando l’acqua del bacino idrico artificiale verso una industria compiacente.

Quella di Pernik era solo l’ultima malefatta di Dimov e dei suoi predecessori che avevano trasformato, tra l’altro, la Bulgaria in una discarica per i rifiuti tossici dell’Europa. Nel 2014 l’amministratore delegato della Lukoil Bulgaria, Valentin Zlatev, aveva concluso con il tandem italiano De.Fi.Am. ed Ecobuilding un accordo per importare rifiuti prodotti nel comune di Giugliano in Campania. Da allora è iniziato un giro d’affari miliardario per portare nel paese balcanico migliaia di tonnellate di pattume tra cui molti prodotti tossici il cui costo di smaltimento in Italia sarebbe stato troppo oneroso. Poco prima delle dimissioni di Dimov, la polizia bulgara aveva sequestrato 9mila tonnellate di rifiuti diretti al centro di smaltimento di Fenix Pleven Eood che lo stesso impianto non avrebbe potuto processare. Si era scoperto che il permesso di trasporto e di smaltimento era stato concesso dallo stesso ministero dell’ambiente bulgaro.

Tutto questo accadeva proprio mentre, nel 2018, Nino Dimov – che tra l’altro è un negazionista del cambiamento climatico causato dall’uomo – prendeva possesso della presidenza del Consiglio per l’ambiente dell’Unione europea. Un biglietto da visita poco onorevole per Borisov, che comunque non se ne cura poi molto.

Venditori di icone a Sofia; sullo sfondo, la cattedrale di Aleksandar Nevski. Foto di Piergiorgio Pescali.

Tanti media, poca libertà

Tra i primati negativi saldamente in mano al governo bulgaro c’è anche quello che riguarda la libertà di stampa e i diritti umani.

Il sistema giudiziario è fortemente dipendente e influenzato dalla politica. Nell’ultimo rapporto l’Ue ha evidenziato molto diplomaticamente e senza porre alcuna enfasi per non offendere il governo, che la Bulgaria non sta facendo abbastanza per i diritti umani, che continuano a deteriorarsi.

Meno diplomatico è il rapporto di Reporter san frontieres, che pone la Bulgaria al 111° posto su 180 paesi presi in esame per la libertà di stampa.  Un calo di ben 60 posizioni rispetto al 2007, quando entrò nell’Unione europea (allora occupava un onorevole 51° posto).

Chi giunge in Bulgaria sarà sicuramente impressionato dalla quantità di giornali, periodici, stazioni radio e televisive presenti nel paese. Per sette milioni di abitanti, nel 2017 c’erano 245 quotidiani, 603 riviste, 85 stazioni radio e 113 televisive. Ma quantità non è sinonimo di qualità e neppure di libertà.

In un regime di crisi economica, dove i proventi pubblicitari diminuiscono, molte testate sono costrette ad affidarsi sempre più ai finanziamenti statali che gestiscono i fondi europei a propria discrezione e senza alcuna trasparenza.

Il rapporto di sostenibilità per la libertà di stampa redatto dall’Irex (International Research & Exchanges Board) evidenzia che, dal 2014 al 2019, la libertà di parola è diminuita tanto da far aumentare l’autocensura dei giornalisti che preferiscono ammorbidire le loro posizioni di indipendenza etica.

Di esempi se ne possono fare molti: nel 2016 il sindaco di Blagoevgrad ha stipulato un contratto secondo cui il consiglio comunale avrebbe continuato a sovvenzionare i media locali a patto che non venissero pubblicate notizie non confermate (leggi non approvate dal consiglio stesso) che minassero la reputazione politica, sociale e privata della «Municipalità di Blagoevgrad, il Consiglio comunale cittadino, il sindaco, il presidente dell’ufficio comunale e le autorità municipali».

Nell’ottobre 2017 il deputato del Gerb Anton Todorov ha minacciato in diretta il giornalista della Nova Tv, Viktor Nikolaev, per aver avuto la sfrontatezza di criticare l’allora vice primo ministro Valeri Simeonov.

Lo stesso Borisov (ancora lui) e molti suoi ministri hanno più volte intimidito i giornalisti lanciando anche insulti poco consoni alla loro posizione governativa e pubblica, sulla linea del «lei non sa chi sono io».

La figura più sfrontata del panorama mediatico bulgaro è il già citato Delyan Peevski, membro del Movimento per i diritti e la libertà (Dviženie za Prava i Svobodi, Dps) e soprannominato da Radio Bulgaria come «l’incontrastato moghul della stampa della Bulgaria».

Il suo gruppo New bulgarian media group (Nbmg), oltre a possedere le due principali case editrici, controlla l’80% della carta stampata tra cui Borba, Monitor, Politics, Meridian Match e il Telegraph, il quotidiano più letto in Bulgaria.

Colluso con il Gerb e con Borisov, nel 2013 Peevski venne eletto presidente dell’Agenzia di stato per la sicurezza nazionale. In un raro impeto di rabbia, 10mila bulgari si riunirono di fronte al parlamento per protestare inscenando cori di «mafia» e «dimissioni», ottenendole il giorno dopo.

I giornali del Nbmg pubblicano spesso articoli cospirazionisti diretti contro Ong, società civile o organizzazioni che osano criticare il governo e le politiche xenofobe da lui varate. Il leit motiv seguito è sempre lo stesso: sono organizzazioni al soldo di Soros o di qualche potere forte straniero il cui unico scopo è quello di distruggere la cultura e la tradizione autentica bulgara.

Monumento a Cirillo e Metodio a Pazardžik. Foto: Piergiorgio Pescali.

Nel 2018 ha fatto approvare al parlamento una legge che obbliga i proprietari dei media bulgari a indicare i finanziatori esterni dei network di loro proprietà, in modo da avere un quadro preciso delle politiche intraprese da ogni sostenitore privato.

Il principale problema della libertà di stampa in Bulgaria è che manca una legge che regola la concentrazione della proprietà.

Nova, bTv e la statale Bnt (Bălgarska nacionalna televizija) generalmente sono considerate come media filogovernativi. Come accade in Italia, anche in Bulgaria i partiti al governo si spartiscono il servizio pubblico: in questo gioco poco edificante, il Bnt, considerato fino al 2017 indipendente, da quando è passato sotto la direzione di Konstantin Kameanrov, vicino al partito Gerb, ha avuto un cambio di rotta sottomettendosi all’esecutivo. Anche la qualità dei programmi ne risente: la bTv, il canale televisivo più seguito, nel 2017 ha riveduto la sua programmazione volgendosi verso l’intrattenimento per i giovani (leggi programmi social, varietà).

Al di fuori di Sofia, non vi è alcun tipo di giornalismo d’inchiesta: le storie che vengono trattate nella provincia vertono su gossip, crimini, violenze. Il giornalismo locale sta sparendo anche perché i bulgari preferiscono utilizzare siti di notizie provenienti da Facebook con un vistoso calo della qualità dei servizi e un aumento impressionante di fake news a cui i lettori si affidano senza dubitare. Così notizie quali la volontà dell’Unione europea di bandire la religione ortodossa, che l’acqua di Sofia fosse stata volontariamente inquinata, che i soldati bulgari erano stati costretti dalla Nato a sparare a obiettivi russi, o la notizia, sempre attuale, che il Sars-CoV-19 sia un virus prodotto artificialmente dalla Cina a cui si aggiungono miriadi di ricette autoprodotte per combatterlo, sono sempre più la fonte di informazione principale presso la società bulgara.

Una nuova Bulgaria?

L’inno nazionale bulgaro, splendidamente musicato da Svetan Radoslavov, elogia la Bulgaria come «cara terra natìa, tu sei il paradiso in terra, la tua bellezza e il tuo fascino, ah, non hanno fine».

Le bellezze artistiche e culturali di questa terra sono tra le più ricche e preziose che l’Europa possa offrire, ma affinché possano continuare a perpetuare la bellezza e il fascino cantato nell’inno nazionale, l’Unione europea deve adoperarsi affinché la classe politica e i bulgari stessi si mostrino più attenti al rispetto dei diritti umani e più corretti verso il proprio paese.

I bulgari dovranno cominciare ad essere meno ossequiosi e cerimoniosi verso chi si presenta con prepotenza ed arroganza. Da parte sua, Bruxelles dovrà abbandonare la politica, sino ad ora perseguita, della morbidezza e dell’accomodamento verso chi sta portando la Bulgaria nel baratro dello sviluppo umano e nella rovina ambientale.

Piergiorgio Pescali

Sofia, Museo d’arte socialista: il quadro ricorda una delle visite del leader sovietico Brežnev in Bulgaria accanto a Todor Živkov. Foto: Piergiorgio Pescali.


I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi

Tra il 2004 e il 2007, nove paesi dell’ex blocco sovietico entrarono a far parte dell’Unione europea. All’epoca c’erano alcune motivazioni politiche. Oggi il fallimento di quell’allargamento è davanti agli occhi di chi vuol vedere.

Nel 2004 l’Unione europea allargò in una sola notte i suoi confini inglobando dieci nuovi paesi, tra cui sette appartenenti all’ex blocco sovietico. Nel 2007 altre due nazioni, Bulgaria e Romania, entrarono a far parte dell’Unione portando a 27 il totale dei paesi aderenti.

I motivi che sostennero tale decisione furono diversi, non ultimo il tentativo di diluire i contrasti interni tra gli stessi stati fondatori che stavano minando l’unità continentale.

L’allargamento era però anche un modo per evidenziare la superiorità del mondo occidentale e dell’economia capitalista su quello orientale ad economia socialista. La «Cortina di ferro» era stata valicata e l’Unione europea aveva prevalso sulla Russia. Una vittoria storica che voleva essere ribadita dall’assimilazione di nazioni un tempo alleate di Mosca e dal tentativo di isolare il Cremlino.

A tre lustri di distanza sono in molti a lamentare che la politica intrapresa da Bruxelles tra il 2004 e il 2007 è stata, se non fallimentare, per lo meno improduttiva.

I paesi dell’Est faticano ad integrarsi al sistema Europa e, specialmente con la cosiddetta crisi dei migranti, tra il 2015 e il 2016 le divergenze all’interno dell’Unione si sono accentuate sino a generare un blocco dell’Ovest e un blocco dell’Est che si è aggiunto alle divergenze già esistenti tra paesi del Nord Europa e paesi del Sud, o del bacino del Mediterraneo. Anche in questo caso le cause addotte sono diverse. La differenza della struttura industriale e del sistema economico, accentuatosi a partire dal 1945, è quella più evidente, ma vi è anche una diversità culturale determinata dalla storia, dalla posizione geografica, dal differente alfabeto: latino per l’Ovest, cirillico per l’Est con una variante intermedia per gli alfabeti ceco, polacco e ungherese. Non ultima la diversità religiosa, che si innesta su quella storica: la Chiesa ortodossa ha profonde radici nella cultura slava e, si sa, non ha mai avuto buoni rapporti con la Chiesa romana. Inoltre non bisogna dimenticare che l’area balcanica rappresentata dalla Grecia, dalla Bulgaria e, in misura minore, da Romania e Ungheria, è stata sempre il primo baluardo cristiano contro la penetrazione islamica in Europa. Bulgaria e Grecia hanno sempre avuto rapporti difficili con il mondo bizantino e con l’impero ottomano, suo successore, e ancora oggi la Bulgaria ha una forte minoranza turca residente sul suo territorio.

Questo complesso tessuto storico, culturale e sociale che si differenzia così tanto dall’Europa ideata da Spaak, Schuman, Monnet e De Gasperi spiega come mai sia così difficile mantenere un rapporto di convivenza con queste nazioni e come mai, invece, il legame con i paesi baltici, più legati alla cultura del Nord Europa, sia molto più fluido e produttivo.

Sofia, Museo d’arte socialista: busto di Marx davanti a manifesti che celebrano Stalin. Foto: Piergiorgio Pescali.

Non solo Orban: sì ai soldi, no al resto

La miopia dei nostri governanti europei all’inizio del XXI secolo è stata più culturale che politica ed economica. Lo dimostra il fatto che, nonostante l’Unione europea continui a foraggiare con (troppa) generosità Polonia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, i governi di questi paesi continuano a criticare e a respingere le leggi emanate da Bruxelles in termini d’inclusione sociale, libertà di stampa e di diritti umani. Viktor Orbàn, è il caso più pubblicizzato sui nostri media a causa della sua amicizia con Salvini, ma non dobbiamo dimenticarci che in Bulgaria l’autoritarismo di Borisov non sfigura di fronte al collega ungherese, che in Polonia Morawiecki ha ormai imbavagliato la magistratura e che in Repubblica Ceca, Andrej Babiš è stato travolto da innumerevoli scandali finanziari e di corruzione.

Tutti questi capi di governo inoltre hanno negato il coinvolgimento dei propri cittadini nella deportazione di ebrei durante la Seconda guerra mondiale e, in alcuni casi, hanno anche contestato l’esistenza di campi di concentramento.

È inoltre utile far notare che le classi politiche (e quindi le popolazioni) di molte nazioni del vecchio blocco sovietico sono spaccate sull’opportunità o meno di aderire all’Unione europea o se orientarsi verso l’alleato storico, la Russia. Se fino alla metà della seconda decade del XXI secolo la prima opzione prevaleva, dopo il 2015 la politica di Bruxelles sull’immigrazione ha iniziato a essere vista troppo invasiva negli affari interni aumentando il consenso popolare e populista di una politica sovranista.

Tutto questo ha coalizzato tra loro i governi che si sono alleati nel gruppo di Visegrad a cui aderiscono Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Al tempo stesso l’Ue ha incominciato ad essere identificata con la Nato, che, in Bulgaria ad esempio, è vista come un vero e proprio esercito europeo orientato contro la politica slava e di Mosca.

Tutto questo è stato manipolato dagli organi di stampa per dare un’immagine negativa dell’Unione. L’isolamento dei capi di governo dell’Est Europa rispetto all’alleanza dei paesi dell’Occidente ha incanalato il malcontento popolare.

Dalla parte opposta, i governi ex sovietici sono quelli che hanno guadagnato maggiormente dall’ammissione all’Ue in termini economici. Hanno tutti ottenuto ingenti aiuti senza per questo cedere nulla sulla loro politica interna: Ungheria e Bulgaria, in particolare, sono le nazioni che continuano a snobbare i flebili e cauti richiami di Bruxelles in materia di diritti umani, corruzione e di politica ambientale.

È anche vero che, rispetto ai paesi mediterranei come Italia, Grecia e Spagna, queste nazioni sono quelle che riescono a gestire meglio i fondi provenienti dalle varie commissioni europee. Su questo tema ci sarebbe molto da scrivere e da argomentare, ma l’opposizione dei membri più attenti alla gestione finanziaria, come le nazioni del Nord Europa, ai prestiti a fondo perduto decisi da Bruxelles nei mesi scorsi è più che comprensibile.

Rispetto, ad esempio, all’Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno già stanziato una percentuale nettamente superiore al nostro paese dei fondi strutturali elargiti dall’Unione europea.

Piergiorgio Pescali

Sofia, Museo d’arte socialista: busto di Lenin. Foto: Piergiorgio Pescali.


Ha firmato questo dossier:

Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

Sitografia essenziale

La rete che separa il confine bulgaro da quello turco a Rezovo. Foto di Piergiorgio Pescali.

 

 




Li chiamavamo «pellerossa»

testo di Paolo Moiola |


A qualcuno potrà sembrare strano, ma gli «indiani d’America» non esistono soltanto nei film. Confinati nelle loro riserve, essi costituiscono una minoranza un tempo oppressa o sterminata, oggi impoverita ed emarginata.

Sono due i motivi per cui, in questi mesi, gli «indiani d’America» (american indians) sono usciti dall’oblio. Il primo è contingente: essi sono stati duramente colpiti dal nuovo coronavirus. Basti ricordare che nella riserva dei Navajo – la più grande e popolata degli Stati Uniti – si sono contati 8.142 casi e 396 morti (al 11 luglio), con un’incidenza dell’infezione maggiore che a New York.

ll secondo motivo riguarda invece una loro condizione esistenziale riemersa a causa della crisi razziale scoppiata a fine maggio con la minoranza nera del paese. Accanto allo slogan Black lives matter, è stato ricordato che Native lives matter. Anzi, i «nativi americani» – come normalmente vengono chiamati i popoli indigeni statunitensi – costituiscono la minoranza più povera ed emarginata dell’intera popolazione Usa.

Per rimanere in tema di rapporti tra popolazione e forze dell’ordine, già nel 2015 un dossier dei Lakota del South Dakota evidenziava l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia nei confronti dei nativi. E a supporto citava le considerazioni del Centre of disease control and prevention (Cdc, equivalente al nostro Istituto superiore di sanità): «Il gruppo razziale a maggior rischio di uccisione da parte delle forze dell’ordine è quello dei nativi americani, seguito dagli afro americani, dai latini, dai bianchi e dagli asiatici americani». Inoltre, il numero degli indiani rinchiuso in carceri federali o locali è varie volte più alto di quello di qualsiasi altra etnia. Secondo il rapporto dei Lakota, ciò è dovuto a pratiche discriminatorie indotte dal razzismo delle forze dell’ordine e alla povertà degli accusati che non possono permettersi di pagare un avvocato.

Per rimanere sull’attualità, va ricordata l’arroganza della Casa Bianca rispetto alle questioni che coinvolgono i territori dei nativi. Donald Trump – in lizza per un posto di rilievo nella classifica dei peggiori presidenti della storia Usa – a gennaio 2020 ha sbloccato il progetto del gasdotto Keystone XL, che lui stesso aveva riesumato con un ordine esecutivo nel gennaio 2017, dopo che il suo predecessore Barack Obama lo aveva accantonato.

Il progetto prevede un gasdotto lungo quasi 1.900 chilometri che dovrebbe trasportare il petrolio da Hardisty (Alberta, Canada) a Steel City, nel Nebraska, dopo aver attraversato Montana e South Dakota. Un altro gasdotto, già attivo e molto contestato da ambientalisti e nativi, è il «Dakota access pipeline» che percorre (interrato) il North Dakota, il South Dakota, lo Iowa e l’Illinois. Il petrolio vi scorre da tempo, ma le controversie non si sono mai fermate. Tanto che lo scorso 6 luglio un giudice distrettuale ha sentenziato che è necessaria una valutazione ambientale più accurata e che, nel frattempo, l’oleodotto deve essere chiuso e svuotato del petrolio entro il 5 agosto (New York Times).

A parte le pesanti conseguenze ambientali dei due progetti, quello che colpisce è l’assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle popolazioni native sui cui territori gli oleodotti si trovano o troveranno a transitare. Assenza di consultazione, rischio di inquinamento delle falde idriche, violazione dei luoghi sacri sono le principali accuse rivolte dai nativi alle autorità. Insomma, si tratti di comportamento della polizia o di sovranità territoriale, oggi come ieri la storia dei popoli nativi degli Stati Uniti continua a ripetersi sempre eguale tra discriminazione ed emarginazione.

Tre Sioux in una foto di Edward Sheriff Curtis (1868-1952), etnologo e fotografo dei popoli nativi nordamericani. Foto di Edward Sheriff Curtis.

Il cammino delle lacrime

Secondo il censimento del 2010 (quello del 2020 è ancora in corso), negli Stati Uniti ci sono 5,2 milioni di nativi, pari all’1,7 per cento della popolazione totale. Soltanto una piccola parte di essi (il 22 per cento) risiede nelle riserve (reservations, la prima risale al 1758) indiane. Probabilmente perché in esse le condizioni di vita sono «comparabili a quelle del Terzo mondo» (Gallup, 2004) con abitazioni inadeguate, mancanza di lavoro e di servizi.

La storia della sottomissione e del declino dei popoli nativi del Nord America iniziò subito dopo l’arrivo (1492) di Cristoforo Colombo. Con i conquistatori spagnoli che arrivarono in Florida, Juan Ponce de Leon (1513) e Hernando de Soto (1539). Con inglesi e francesi che arrivarono nei territori del Nord (dalle propaggini orientali dell’attuale Canada fino alla baia di New York) sotto la guida di navigatori italiani: nel 1497 Giovanni Caboto (per l’Inghilterra) e nel 1524 Giovanni da Verrazzano (per la Francia). L’invasione era ormai iniziata e, nonostante la resistenza (e molte guerre), per i popoli nativi la sorte era segnata.

Un bando pubblico del 1911 per la vendita di terre indiane: si elencano le caratteristiche delle terre, lo stato dove si trovano, la superficie, il costo medio per acro. Foto Library of Congress.

Uno dei leader statunitensi più risoluti nella lotta contro i popoli nativi fu Andrew Jackson (1767 – 1845), prima come generale e poi come presidente. Come comandante combattè per un biennio (1813-1814) contro i Creek, i quali alla fine dovettero cedere un territorio di oltre nove milioni di ettari (oggi facenti parte dell’Alabama centrale e della Georgia meridionale).

Apprezzato dai governanti di Washington, Jackson rivolse l’attenzione verso la Florida (1818), possedimento spagnolo abitato dai Seminole. Le guerre con questo gruppo proseguirono a lungo, soprattutto dopo che gli Stati Uniti acquistarono la stessa Florida dalla Spagna (1821).

Eletto presidente, Andrew Jackson proseguì la sua politica di segregazione dei popoli nativi. Nel 1830 firmò la «legge di rimozione» (Indian Removal Act), che avrebbe segnato l’esistenza dei popoli nativi per molti decenni. Tra il 1830 e il 1838 migliaia di Creek e di Cherokee furono spinti a lasciare («volontariamente») le loro terre e ricollocarsi in altre, soprattutto in Oklahoma. Questa deportazione è storicamente conosciuta come the Trail of Tears, «il sentiero delle lacrime» (cfr. mappa).

Andrew Jackson è considerato da Donald Trump non soltanto un eroe, ma un esempio da imitare. Oltre a citarlo spesso, il presidente si fa riprendere nello Studio Ovale con un suo ritratto alle spalle. Quando – lo scorso 22 giugno – un gruppo di manifestanti ha tentato di rovesciare la statua equestre di Jackson, posta nel parco Lafayette (a pochi passi dalla Casa Bianca), Trump – presidente «della legge e dell’ordine» – ha reagito con veemenza chiedendo dieci anni di prigione per i colpevoli.

A proposito di simboli, c’è un’immagine che meglio di ogni monumento o di ogni discorso fa capire con quale violenza e arroganza si sia arrivati alla sottomissione e all’emarginazione dei popoli nativi degli Stati Uniti. È un bando pubblico del ministero dell’interno risalente al 1911. L’oggetto dell’avviso è ben chiarito dalla sua intestazione: «Indian land for sale», terra indigena in vendita. Al centro dello stesso una foto di un leader indigeno con attorno e sotto una cospicua serie di dettagli. Si tratta di «ottime terre ad Ovest», irrigate o irrigabili, con pascoli e terre agricole. Pagamenti facilitati e possesso legale in soli 30 giorni. Più sotto l’elenco degli stati interessati e del prezzo medio per acro di terra: si va dai 7,27 dollari del Colorado ai 41,37 di Washington.

Insomma, dopo essere stati cacciati o deportati, i popoli nativi videro il loro diritto alla terra messo in vendita sul mercato. E ciò in base a una legge del 1887 – il Dawes Act (o General Allotment Act) – con la quale il governo centrale voleva assimilare i nativi al resto della popolazione facendo loro accettare i principi del capitalismo e della proprietà privata, inesistenti nelle culture indigene. La norma venne annullata nel 1934, ma ormai i danni materiali e culturali erano fatti. Secondo la Indian Land Tenure Fundation, i popoli nativi persero 364mila chilometri quadrati di terra (un’estensione superiore a quella dell’intero territorio italiano).

Supremazia bianca

La prima seduta del Congresso degli Stati Uniti ebbe luogo nel 1789. In 221 anni sono entrati nel Congresso soltanto 22 nativi. Le prime due donne sono state elette in questa legislatura. Si tratta di Sharice Davids (della tribù degli Ho-Chunk) e Deb Haaland (della tribù dei Puebloans), entrambe appartenenti al partito Democratico.

«L’amministrazione Trump – ha commentato la Haaland in un tweet del 25 giugno – non riconosce l’incredibile storia culturale delle popolazioni indigene in questo continente. La difesa  della supremazia bianca da parte del presidente è incredibilmente offensiva e le sue azioni riflettono la sua mancanza di rispetto per le comunità native».

Per gli indiani d’America «il sentiero delle lacrime» pare non aver mai fine.

Paolo Moiola
(prima puntata – continua)

L’ex presidente Barack Obama, attorniato da membri della propria amministrazione e da leader indiani, firma il Tribal Law and Order Act (29 luglio 2010). Foto Saul Loeb – Afp/Getty – Obama White House Archives.


Ritratto di indiano. Foto di Edward Sheriff Curtis.

Tab. 1 / Nativi americani*: i numeri

  • numero nativi* al 2010: 5,2 milioni
  • percentuale su popolazione: 1,7 per cento
  • numero nativi ante-Conquista: 10-12 milioni
  • entità tribali* riconosciute: 574
  • riserve indiane: 326
  • nativi residenti nelle riserve: 22 per cento
  • riserva principale: Navajo Nation
  • i 10 popoli principali: Cherokee, Navajo, Choctaw, Sioux,  Chippewa, Apache, Blackfeet, Iroquois, Pueblo, Creek.

(*) «Natives», «native americans», «native american population», «native peoples», «indian tribes», sono i termini utilizzati negli Stati Uniti per «indigeni» e «popoli indigeni». Nel conteggio dei nativi sono inclusi gli indigeni dell’Alaska (100mila circa) ed esclusi quelli delle Hawaii (500mila).

(Pa.Mo.)

Fonti: Census Bureau (census.gov); National Congress of American Indians (ncai.org); Bureau of Indian Affairs (bia.gov).


Cosa dice la scienza

Vulnerabilità indigena

Capo degli Oglala Lakota nel 1899. Foto: Frank A. Rinehart – Boston Public Library.

La pandemia causata dal nuovo coronavirus ha confermato la maggiore vulnerabilità dei popoli indigeni. Secondo varie ricerche scientifiche, essa ha molte cause:

  • maggiore vulnerabilità alle malattie («virgin soil epidemics»);
  • indicatori sanitari peggiori (mortalità infantile e materna, speranza di vita);
  • più stress epigenetici (oppressione e violenza generazionali);
  • maggiore correlazione con il declino delle risorse ambientali (acqua, terre, foreste, biodiversità);
  • peggiori condizioni esistenziali (abitazioni, vita multigenerazionale, carenza di presidi minimi come l’acqua potabile);
  • carente accesso alle strutture sanitarie.

(a cura di Paolo Moiola)

Fonti: Indigenous populations: left behind in the Covid-19 response, in «Lancet», 6 giugno 2020; Protect Indigenous peoples from Covid-19, in «Science», 17 aprile 2020; Mortality from contact-related epidemics among indigenous populations in Greater Amazonia, in «Nature», settembre 2015.


Tab. 2 / Riserva «Navajo Nation»*

  • superficie: 71.000 km2*
  • stati interessati: Utah, Arizona, New Mexico
  • popolazione: 173.000*
  • presidente: Jonathan Nez
  • tasso di disoccupazione: 40 per cento
  • tasso di povertà: 40 per cento

(*)  La maggiore riserva indiana degli Stati Uniti sia per estensione che per popolazione.

(Pa.Mo.)

Fonti: www.navajo-nsn.gov; www.opvp.navajo-nsn.gov; BBC.


Ritratto di un Cherokee. Foto di Hernan Heyn – Library of Congress.

Tab. 3 / Principali norme di legge (Acts) tra governo Usa e popolazioni native

  • 1830: The Indian Removal Act
  • 1851: The Indian Appropriations Act
  • 1887: The General Allotment (Dawes) Act
  • 1924: The Indian Citizenship (Snyder) Act
  • 1934: The Indian Reorganisation Act (Ira)
  • 1968: The Indian Civil Rights Act (Indian Bill of Rights)
  • 2010: The Tribal Law and Order Act

(Pa.Mo.)

Fonti: www.law.cornell.edu; Andrew Boxer in «History Review», settembre 2009.

Cavalli nella Monument Valley, riserva della Nazione Navajo. Foto di Steen Jepsen – Pixabay.




RD Congo: Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?

Testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC


I pigmei bambuti sono il popolo originario delle foreste nell’Est del Congo. All’arrivo di altre popolazioni si sono inoltrati sempre più nella selva. Ma da alcuni anni i cercatori d’oro invadono il loro territorio, portando molte problematiche. Intanto anche lo sfruttamento del legname e la deforestazione stanno distruggendo il loro habitat. Ai missionari la grande sfida di come salvare la loro cultura.

«I pigmei non sono guerrieri, ecco perché all’arrivo di altre popolazioni nella loro terra, hanno adottato la politica di ritirarsi nella foresta più folta. Purtroppo oggi assistiamo a un’invasione della selva, operata dai cercatori d’oro alla ricerca di nuovi siti». Chi parla è padre Flavio Pante, missionario della Consolata con una ventennale esperienza di lavoro tra le popolazioni pigmee del Congo, oltre che con esperienze in Costa d’Avorio e Italia.

Parla del Nord Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), del distretto dell’Alto Uele, diocesi di Wamba: «I pigmei sono stati i primi abitanti di questa zona, tutti gli altri, quelli che chiamiamo genericamente bantu, sono arrivati in un secondo tempo». I missionari della Consolata lavorano da venti anni nell’area di Bayenga, dove c’è un’alta concentrazione di pigmei, in particolare la popolazione dei Bambuti. «La parrocchia lavora sulla realtà pigmea, e sulla realtà dei bantu e delle altre popolazioni».

Il «nuovo» flagello

La foresta è ricca di oro e altri minerali preziosi, che si trovano, in particolare, lungo i fiumi, un po’ ovunque. Così il popolo dei cercatori d’oro si inoltra sempre più nella foresta e costruisce vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti auriferi più promettenti. Dato che questi siti cambiano in continuazione, i villaggi di oggi potrebbero scomparire una volta esaurita la vena mineraria. Il risultato è una penetrazione della foresta sempre maggiore.

«Qualcuno paga la licenza di estrazione – racconta padre Flavio – e manda i più disperati a cercare l’oro. Questi sono i cercatori artigianali, lavorano manualmente e nessuno assicura loro il minimo di sicurezza. Si può dire che stanno peggio dei pigmei. Quello che trovano lo vendono per pochi soldi all’intermediario, che poi lo porterà al comptoir (ufficio di esportatori, ndr) in città dove sarà acquistato a un prezzo nettamente superiore.

Tutto quello che i cercatori d’oro consumano, come il cibo, gli attrezzi, viene da lontano, dalle città, e arriva con grossi camion. Per questo è molto costoso. In questi agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie, violenza. Tutti gli affari, in quest’area, seguono i siti di estrazione dell’oro».

Un fenomeno, che, pure se esisteva già 30 anni fa, come conferma padre Flavio che era in missione in Congo (all’epoca Zaire) nel 1978, negli ultimi dieci anni ha assunto una dimensione enorme, e tutto questo a scapito del territorio dei pigmei.

Legname pregiato

«Un altro fatto che sta contribuendo alla distruzione dell’habitat del pigmeo è il taglio degli alberi per il legname. I camion che portano mercanzie di ogni genere per i cercatori d’oro, ripartono carichi di tronchi. Spesso i pigmei stessi sono assoldati per trasportare gli alberi sezionati fuori dalla foresta, nei luoghi raggiungibili dai camion. I mezzi poi partono per l’Uganda, dove il legname sarà venduto e lavorato». Una foresta invasa dalle motoseghe, vuol dire non solo eliminare gli alberi, ma anche far fuggire la selvaggina, il principale sostentamento del pigmeo.

Si tratta anche di una invasione culturale, oltre che fisica: «Il pigmeo è entrato in contatto con un’altra realtà. Ha visto il mercato del villaggio bantu, ascoltato la radio, sperimentato gli alcolici. Ormai non riesce più a staccarsi da queste cose penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina alla popolazione di origine bantu e si accampa. Però è rimasto per indole raccoglitore e cacciatore, per cui può capitare che vada in un campo e raccolga del cibo: ma in questo modo, per la società bantu, diventa un ladro. Un comportamento dell’altro, non puoi criticarlo se non lo conosci. Devi cercare di metterti nei suoi panni. Il pigmeo ha rubato, o piuttosto, ha preso per fame?».

Il pigmeo che con la sua famiglia è uscito dalla foresta profonda e si è accampato nei pressi delle città, ha perso il suo habitat ed è a un passo dal perdere la sua identità.

«Una questione fondamentale – continua padre Flavio – è che le persone di altre etnie considerano i pigmei esseri inferiori. A causa di questo preconcetto si è creata una dipendenza perversa. Il bantu dice al pigmeo: “Io ti prendo come protetto. Tu coltiva il tuo campo e poi vieni a lavorare nel mio come mio servo”. Si crea una dipendenza servile che spesso è suggellata dal patto della circoncisione: “Io circoincido mio figlio con il tuo, per questo siamo quasi parenti”».

Ma nella mentalità del pigmeo coltivare è assurdo. Da cacciatore, lui si procura da mangiare nella giornata, abbastanza per quel giorno. Seminare, innaffiare e pensare di avere cibo dopo settimane o mesi è impensabile per la sua concezione. Occorre un cambiamento di mentalità, ma ci vuole tempo.

La scuola «inculturata»

Un aspetto che ha interrogato molto i missionari è stato quello dell’educazione. «Il contatto con le altre popolazioni impone che i pigmei imparino a leggere e scrivere – sostiene padre Flavio -. Dobbiamo però tenere sempre presente che vogliamo valorizzare quello che loro danno per scontato, ma che stanno per perdere, ovvero la loro cultura. Per questo occorre prepararli in modo che siano in grado di conservare le loro tradizioni».

I bantu si sono adeguati allo stile e ai costumi europei. Questo anche a livello di scuola, che è strutturata come quella dei paesi colonialisti. Ma se, ad esempio, per i belgi ci sono quattro stagioni, per i pigmei ce ne sono solo due, ovvero la stagione secca e quella delle piogge. Inoltre per loro non ci sono i mesi, ma le lune. Per la scuola del bambino pigmeo bisogna tenere in conto di tutto questo. Se da settembre a novembre può venire a lezione, da gennaio in poi è stagione secca, deve andare in foresta a cacciare e raccogliere il miele. Quindi partirà con i suoi genitori, tornando magari dopo tre mesi. Inoltre, quando frequenta, il bambino pigmeo non riesce a stare fermo tutta la mattina. La scuola deve essere diversa anche come tempistiche. Ecco perché i missionari della Consolata si sono inventati la «scuola itinerante».

Così la descrive padre Flavio: «È una scuola che si adatta ai periodi dell’anno e alla periodicità dei giorni. L’insegnante passa nell’accampamento dei pigmei e inizia a dare nozioni di base. Poi si integra con un cosiddetto “esperto” dell’accampamento, ovvero un adulto che tiene lezioni su elementi specifici, come la caccia, la tessitura, e tutti gli altri aspetti della vita pigmea».

Un’altra difficoltà nell’insegnare ai pigmei è il fatto che sono molto concreti e hanno difficoltà con l’astrazione. «È piuttosto complesso ad esempio insegnare i numeri. Per spiegare il numero 8, ad esempio, prendo otto pietre, otto unità. Ma non c’è il concetto di una entità che si chiama “8”. Quindi il calcolo resta molto difficile per loro. Così come per insegnare l’alfabeto occorre associare un suono a ogni lettera. Sono categorie che devono acquisire, non sono spontanee.

Noi ci prepariamo le lezioni in lingua kibutu, che è una lingua bantu parlata anche dai pigmei, simile al kiswahili. A volte proiettiamo qualcosa su un panno bianco. Abbiamo visto anche molto interesse da parte degli adulti, che lasciano le loro occupazioni per venire a vedere cosa stiamo facendo».

Il villaggio mobile

Il pigmeo non ha un villaggio stabile. La sua capanna si può costruire in un giorno e, normalmente, è un incarico delle donne. I gruppi sono composti da una trentina di persone, senza contare i bambini, e sono entità che si spostano.

Inoltre, tradizionalmente, fino a pochi anni fa, non c’era un capo. C’erano dei referenti, responsabili di alcuni ambiti della vita della comunità: chi per la caccia, chi per far nascere i bambini, chi per la tessitura, ecc. Adesso, che hanno contatti con i bantu, è nata l’esigenza di avere un capo, perché occorre un referente unico per il gruppo.

Un altro effetto della contaminazione è quello legato alla monogamia. «I pigmei sono tradizionalmente monogami, perché in foresta non puoi permetterti due mogli e tanti figli. Oggi, con il contatto con i bantu, stanno assumendo altre usanze. Anche per la dote. Il matrimonio veniva fatto tra due gruppi con scambio di ragazze. Se si porta carne è per la festa comune, ma una ragazza vale una ragazza. Per i bantu, invece, se tua figlia si sposa devi chiedere dei beni all’altra famiglia. Diventa quasi una vendita.

Tra i pigmei al servizio dei bantu iniziano a entrare le abitudini dei bantu».

Anche dare uno stipendio a un pigmeo è difficile: «Si pagano tutte le settimane, perché una volta al mese non riescono a tenere i soldi. Un funzionario si trova ad avere un salario, ma non sa gestirlo. Spesso beve. Oppure paga anche per gli altri, condivide, come se nel  giorno di paga avesse cacciato un grosso animale. Ci sono stati maestri elementari pigmei, ma sono stati un fallimento. È una perdita di identità al 100%: dicono di non essere più pigmei, però si accorgono di non essere nemmeno bantu, perché vengono discriminati. Rifiutano i loro fratelli e sono rifiutati da quelli con cui si identificano».

Il lavoro dei missionari

«Ci sono villaggi bantu nei pressi dei quali sorgono due, tre accampamenti pigmei. Noi andiamo al villaggio, lasciamo la moto e poi entriamo in foresta a piedi, fino all’accampamento.

Tre anni fa, si era creato un accampamento grosso, fusione di due gruppi. Lì mi avevano fatto una capanna e io vivevo con loro tre giorni alla settimana.

Per preservare la loro cultura cerchiamo di raccogliere e conservare tutto quello che è il loro mondo, sia a livello di medicina tradizionale, sia di narrazioni. Ma è un lavoro agli inizi. Quello che manca, guardando altri casi simili, come il popolo Yanomami in Amazzonia, è la mancanza di una sensibilità al riguardo. Penso sia frutto di un lavoro, ma forse anche di una sensibilità latinoamericana diversa. I pigmei non dicono “la nostra tradizione, i nostri costumi”. Devi essere tu che indichi loro: “I vostri costumi”. A volte il pigmeo ha vergogna dei suoi costumi. Questo perché quando sei considerato inferiore, dopo un po’ ti convinci di esserlo».

Padre Flavio Pante sostiene che occorre anche lavorare sulla popolazione bantu per un cambiamento di mentalità nei confronti dei pigmei. Ma si tratta di un lavoro molto difficile, «perché i bantu si sentono i padroni della gente». Inoltre il missionario è sempre uno straniero, e i bantu hanno troppi interessi da difendere. Noi cerchiamo di fare un discorso con i cristiani: non possiamo accettare questa logica.

«Per i sacramenti e la preghiera, cerchiamo di celebrare con la comunità unita, ovvero insieme bantu e pigmei. I pigmei vengono a messa. La partecipazione nel canto e nella danza è più difficile: i bantu ridono dei pigmei che danzano. Inoltre la musica pigmea non ha parole, ha suoni anche con la bocca».

E conclude: «C’è in noi la volontà di continuare ad occuparci delle popolazioni pigmee. Ma gli africani, in genere, non sono molto attirati a lavorare con loro».

Marco Bello


Archivio MC


Dalle elezioni alla formazione di un nuovo governo

Alternanza? Sì, no, forse

Le elezioni del dicembre 2018 hanno dato al Congo un nuovo presidente, dal cognome famoso, ma senza maggioranza parlamentare. Da allora sono passati otto mesi alla ricerca di un difficile consenso tra gruppi politici, per governare uno dei paesi più ricchi di materie prime del continente.

Forse ci siamo. La Repubblica democratica del Congo avrà, infine, il suo nuovo governo. La lista dei suoi 65 membri è stata resa pubblica il 26 agosto. Da ormai sette mesi, dal suo insediamento, il 25 gennaio scorso (in seguito a elezioni presidenziali, legislative e amministrative), il nuovo presidente della repubblica Félix Tshisekedi, tenta di costituire il governo (l’Rdc è una repubblica presidenziale). Tshisekedi è il figlio di Etienne, l’eterno oppositore che non è mai riuscito a conquistare il potere, se non per alcune brevi esperienze di governo come primo ministro. Etienne dopo aver perso l’ultima sfida nel 2011 contro Kabila, è morto il primo febbraio del 2017.

Félix ha vinto a sorpresa le elezioni presidenziali, molto contestate in realtà, alla testa del partito fondato da suo padre, l’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (Udps), facente parte del più vasto gruppo politico Cap pour le changement (Cach). Nel frattempo il Fronte comune per il Congo (Fcc), la coalizione dell’ormai ex presidente Joseph Kabila, ha vinto massicciamente le legislative e le amministrative, assicurandosi una maggioranza confortevole all’Assemblea nazionale e al Senato (le due camere del parlamento congolese).

Tshisekedi ha dunque dovuto intavolare un negoziato con gli ex padroni del paese per tentare di creare un governo.

«Il contesto politico è cambiato in Rdc – scrive il Gruppo di studio sul Congo dell’Università di New York -. Joseph Kabila anche se è ancora potente, con una maggioranza parlamentare schiacciante, non è più l’uomo forte di Kinshasa. L’ex presidente non ha più l’ultima parola su tutto».

Joseph Kabila era salito al potere il 26 gennaio del 2001, alla morte di suo padre Laurent-Désiré Kabila, ucciso da una sua guardia del corpo in circostanze ancora da chiarire. Era in corso la cosiddetta Seconda guerra del Congo (1998-2003). Laurent-Désiré aveva guidato una ribellione appoggiata da Burundi, Rwanda e Uganda, che aveva portato a rovesciare il presidente-padrone del paese Mobutu Sese Seko nel maggio del 1997, durante la Prima guerra del Congo (1996-1997). In questa occasione Kabila padre aveva cambiato il nome dello Zaire nell’attuale Repubblica democratica del Congo.

Joseph ha quindi mantenuto il potere, conquistato con la forza, confermandolo con due elezioni successive (2006 e 2011). Il suo ultimo mandato, non rinnovabile, sarebbe scaduto nel dicembre del 2016, ma lui ha rinviato progressivamente le elezioni, eliminando anche i potenziali oppositori, come Moise Katumbi, costretto all’esilio in Belgio, e limitando la libertà di stampa.

Una deriva anticostituzionale che ha causato reazioni della società civile che, a più riprese, ha chiesto al leader di lasciare il potere. In particolare la chiesa cattolica si è posta inizialmente come mediatrice, tra il presidente e l’opposizione, ottenendo la promessa di Kabila di organizzare elezioni a fine 2017. In seguito, visto che l’impegno non veniva mantenuto, la chiesa ha organizzato manifestazioni pacifiche a cui hanno aderito molti cristiani e i leader dell’opposizione, per chiedere il rispetto degli accordi.

Il 31 dicembre 2017 una di queste manifestazioni è stata prima ostacolata e poi repressa dalle forze dell’ordine. Si sono registrati 6 morti, 57 feriti e 111 arrestati, secondo la Monusco (Missione della Nazioni Unite in Congo). Il confronto tra il potere di Kinshasa e la chiesa cattolica congolese si era fatto duro.

Finalmente, con molte difficoltà, anche logistiche, in un paese di 2,5 milioni di km2 scarsamente collegato e con 45 milioni di elettori, le consultazioni si sono svolte nel dicembre del 2018. Le urne, come detto, hanno restituito una situazione complessa e le due coalizioni hanno faticato a trovare un accordo. Nel maggio scorso il presidente ha nominato Sylvestre Ilunga Ilunkamba primo ministro, e questi ha lavorato per produrre una lista di ministri gradita a entrambi i gruppi politici. Su 65 posti ministeriali (ministri e sottosegretari), 23 vanno alla coalizione di Tshisekedi, Cach, e 42 a quella di Kabila, Fcc. Alla prima vanno i dicasteri dell’Interno e Affari esteri, alla seconda Giustizia, Difesa e Finanze. Intanto la società civile denunica un incremento di casi di appropriazione indebita di fondi a livello dei ministeri, negli ultimi otto mesi.

Ma.Bel.

Felix Tshisekedi, nuovo presidente del RD Congo / Photo by ANDREW CABALLERO-REYNOLDS / AFP




Iran, viaggio tra le minoranze religiose


Sommario

Si chiamava Persia.
Armeni e assiri, una storia millenaria (i Cristiani).
Il candelabro rimane acceso (gli Ebrei).
I seguaci di Zarathustra.
Appendici

Si chiamava Persia

Erede dell’antica Persia, l’Iran affonda le sue radici in una storia millenaria che precede di molti secoli la nascita dell’Islam per mezzo della predicazione del profeta Maometto nel VII secolo. Il binomio «indissolubile» (per i nostri media) che lega l’Iran con l’Islam, diffusosi dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, è, perciò, in larga parte fuorviante, se non affatto da scartare.

Come ci insegnano gli storici, un influsso da rintracciare non è tanto quello dell’Islam nei confronti dell’Iran, ma, al contrario, quello delle religioni e dei culti della Persia antica nei confronti della religione musulmana e, in particolare, della sua componente sciita, maggioritaria nel paese.

L’Iran attuale, ben lungi da un’omologazione religiosa alla maggioranza egemone, è un territorio ricco di presenze cristiane ed ebraiche e di culti ancora più antichi, come quello legato alla religione di Zarathustra, con la quale gli stessi giudei sono entrati in contatto nel VI secolo a.C., durante e dopo il lungo esilio babilonese.

Chi, come il sottoscritto, abbia vissuto in Iran, sa quale pluralità di chiese, sinagoghe e templi del fuoco vi sia, ma sa anche che oggi la vita per le minoranze è spesso difficile, anche se meno che nei paesi limitrofi. Così, ad esempio, a settembre 2018 Amnesty International ha denunciato la condanna di quattro cristiani a un totale di 45 anni di carcere con l’accusa di «minacciare la sicurezza nazionale». In più, il governo iraniano, relativamente aperto verso le comunità religiose storiche come i cristiani, gli ebrei e gli zoroastriani, si dimostra spietato nei confronti dei convertiti. Questo dossier intende fornire al lettore un’idea dell’eredità storica delle minoranze religiose dell’Iran e della loro situazione attuale.

S.Z.


  • Ha firmato questo dossier: Simone Zoppellaro. Nato a Ferrara, è giornalista freelance e scrittore. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». È autore di due libri: «Armenia oggi» (2016) e «Il genocidio degli yazidi» (2017), entrambi editi da Guerini e Associati. I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato vari dossier.
  • Il dossier è stato curato da Paolo Moiola e Luca Lorusso, giornalisti redazione MC.


(C.C. Dynamosquito)


Armeni e assiri, una storia millenaria

Prima dell’arrivo dell’Islam, la Persia – nome usato fino al 1935 – vide l’affermazione di due gruppi etnici di religione cristiana, gli armeni e gli assiri. Dopo la conquista islamica (633-651), i due gruppi divennero minoranze, ma ancora oggi il loro ruolo nella società del paese rimane rilevante. In Iran la professione della fede cristiana è consentita, ma la conversione dei cittadini musulmani è vietata per legge.

(Photo by ATTA KENARE / AFP)

Dal Golfo Persico al Mar Caspio, dai suoi confini occidentali con la Turchia fino a quelli orientali con l’Afghanistan, non vi è città di questo paese vasto e bello che non abbia una sua chiesa, per quanto piccola, e almeno un pugno di fedeli che la animano, spesso con grande coraggio e amore. La storia e la cultura che il loro essere minoranza veicolano e rappresentano, è una ricchezza straordinaria anche dal punto di vista architettonico. I monasteri armeni del Nord sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco e le tredici chiese seicentesche di Isfahan (anche Esfahan o Ispahan) sono un vero capolavoro di sintesi fra diversi stili e culture.

Ma non parliamo qui solo del passato remoto: l’apporto dei cristiani e, in particolare, della loro componente maggioritaria, quella armena, è stato determinante anche nei secoli più recenti, nella modernità e nello sviluppo culturale, politico e tecnologico dell’Iran. Fu fondata da un cristiano la prima tipografia del paese, e il primo volume dato alle stampe nel 1638 fu quello dei «Salmi di Davide» in lingua armena. Determinante fu l’apporto armeno anche nella nascita del cinema. E non mancarono rivoluzionari, personalità dello sport, della musica e della cultura di origini cristiane: una ricchezza di interscambi e innesti con la maggioranza musulmana che neppure le pagine più cupe della storia iraniana sono riuscite a cancellare del tutto.

La chiesa nera

La storia del cristianesimo in terra di Persia affonda le sue radici alle origini stesse di questa fede.  La sua antica presenza è testimoniata, ad esempio, da quello che è forse il monumento più amato dai cristiani d’Iran ancora oggi: il monastero di San Taddeo (foto), situato nel Nord Ovest del paese, nei pressi del confine con la Turchia. È uno dei luoghi cristiani più suggestivi e belli per la sua raffinata architettura e per la perfetta sintesi fra arte e paesaggio che si possano ammirare in Iran.

Chiamato dagli iraniani Qara Kelisa, la «chiesa nera», a causa del colore scuro delle sue pietre, è meta, ancora oggi, e soprattutto d’estate, di pellegrinaggi da tutto l’Iran e dai paesi limitrofi, in primo luogo dall’Armenia. I cristiani che arrivano in pellegrinaggio, si accampano nel paesaggio lunare che circonda il complesso monastico, e la miriade di tende finisce per creare un’atmosfera magica, soprattutto di notte.

Secondo la tradizione, il monastero sarebbe nato sul sepolcro di san Giuda Taddeo, uno dei dodici discepoli di Cristo, molto caro agli armeni perché fu lui, insieme a san Bartolomeo, l’evangelizzatore di questo popolo, prima nazione ad abbracciare il cristianesimo. Il complesso risalirebbe al VII secolo, per quanto molti storici ne rintraccino l’origine addirittura al I secolo, ovvero all’epoca stessa del martirio dell’apostolo.

Divieto di conversione

Il cristianesimo iraniano è oggi molto vario, come testimonia la presenza di chiese e monasteri di riti e osservanze assai diversi. Fra le moltissime, stimate in circa 600 da alcuni studiosi, citiamo la Chiesa assira, quella cattolica, quelle riconducibili alla galassia protestante, quelle ortodosse greche o russe, la Chiesa autocefala armena, divenuta religione di stato grazie alla predicazione di San Gregorio l’Illuminatore all’alba del VI secolo.

Non mancano istituzioni cristiane come scuole, cimiteri, ospizi, teatri e centri culturali e ricreativi, ma anche locali e ristoranti gestiti dalla comunità cristiana, a testimonianza di una vitalità che, per quanto spesso spinta ai margini della vita cittadina, soprattutto nei centri minori, è tuttora lungi dall’essersi estinta.

Si è soliti dividere in tre gruppi fondamentali la presenza cristiana in Iran: armeni, assiri e i cosiddetti «cristiani non etnici», ovvero musulmani convertiti al cristianesimo. Questi ultimi sono soprattutto evangelici o pentecostali, essendo queste chiese più propense al proselitismo che ha interessato molte migliaia di persone a partire dagli anni Sessanta.

Se, da un lato, i cristiani sono liberi di professare il loro credo e hanno rappresentanti in parlamento, con un protagonismo di rilievo nella vita sociale del paese, va però ricordato che la legge iraniana vieta le conversioni dei cittadini musulmani di nascita. Così, se è legale e, anzi, incoraggiata la conversione di cristiani, ebrei e zoroastriani all’Islam, il contrario può costare il carcere. Una discriminazione che ha creato un conflitto molto duro con una parte del mondo missionario protestante, assai meno timido rispetto a quello cattolico nel ricercare nuovi fedeli.

(C.C. Alan Cordova)

I cristiani armeni: dal Nord a Isfahan

La componente armena del cristianesimo in Iran, oltre a essere la principale di oggi, è anche la più antica. Dal punto di vista etnico, la prima menzione dell’Armenia in Iran si trova nelle splendide iscrizioni di Bisotun (ritrovate sul Monte Behistun, nella provincia iraniana di Kermanshah; foto), databili intorno al 520 a.C. Il territorio stesso degli armeni, diverso da quello della Repubblica d’Armenia di oggi, era in parte iscrivibile all’interno dei confini dell’Iran contemporaneo. Ci riferiamo al Nord Ovest del paese dove, per secoli, e in buona parte ancora oggi, popolazioni di lingua e cultura persiana, armena, ebraica, curda, assira e turca hanno vissuto fianco a fianco, fecondandosi a vicenda e intrecciando i loro destini.

Ma è con l’epoca safavide (XVI-XVII sec.) che la presenza armena si fa rilevante fin nel cuore dell’Iran. La deportazione di armeni dal Nord fino alla capitale Isfahan, voluta da Shah Abbas il Grande (1557-1629) all’inizio del XVII secolo, apre una nuova fase nella loro storia in quei territori: mercanti e artigiani abilissimi, riuscirono a distinguersi e a eccellere, guadagnando uno status privilegiato fra le minoranze religiose del paese, ancora oggi immutato.

Proprio a quell’epoca risale l’introduzione della stampa in Persia per opera di un vescovo della chiesa armena. Una storia straordinaria che vale la pena raccontare.

Armeni nell’Iran del XVII secolo, deportati ma liberi

A Isfahan, sontuosa capitale dell’impero safavide, proprio di fronte all’entrata della cattedrale armena di San Salvatore (foto pag. 40), che gli iraniani chiamano Vank – con una parola armena che significa «monastero» -, si trova la statua di un uomo incappucciato che tiene in mano qualcosa.
Il visitatore distratto potrebbe non prestare attenzione al monumento e, tanto meno, a quel piccolo oggetto fra le dita della figura, indecifrabile in un primo momento. È un carattere mobile, di quelli che si usavano nel XVII secolo per la stampa. Il nome dell’uomo effigiato nel monumento è Khachatur Kesaratsi (1590-1646), vescovo della Chiesa apostolica armena di Nuova Giulfa, al tempo sobborgo di Isfahan, oggi riassorbito dall’espansione della città.

Negli anni Trenta del Seicento, Nuova Giulfa era sorta solo da pochi decenni, in seguito alla deportazione degli armeni ordinata dal già menzionato sovrano Abbas I: un evento doloroso che aveva costretto molti a lasciare per sempre la loro terra, distrutta a causa del perdurante conflitto fra ottomani e safavidi. Molti di loro erano morti durante l’estenuante marcia che dalla valle dell’Arasse e dalla piana del monte Ararat, alle pendici del Caucaso, li aveva condotti fino a Isfahan. Altri erano morti dopo l’arrivo a causa delle malattie sorte per il viaggio.

Quello di Abbas il Grande, a differenza di quelli dei suoi emuli novecenteschi, non era stato un intento di morte. In pochi anni, infatti, grazie al sostegno della corona safavide, gli armeni poterono costruire le loro chiese e le loro scuole, e creare, a partire da Nuova Giulfa, una rete di commerci assai florida, che dall’Atlantico sarebbe giunta fino all’Oceano Indiano, lasciando testimonianze che oggi si rintracciano abbondanti, ad esempio, a Venezia e in altre città italiane. Seta e spezie, pietre preziose e stoffe venivano vendute dagli armeni di Nuova Giulfa in ogni parte del mondo, a vantaggio loro, ma anche della dinastia safavide che in loro riponeva grande fiducia. La libertà vissuta dagli armeni in Persia, e la tolleranza nei loro confronti, erano impensabili in quello stesso periodo, ad esempio, in Europa, continente insanguinato da feroci conflitti religiosi.

Gli armeni: dalla stampa al cinema

In quel contesto, denso di luci e d’ombre, ebbe luogo la parabola umana e spirituale di Khachatur. Il suo tentativo di diffondere la stampa a caratteri mobili, la prodigiosa invenzione di Gutenberg, in Iran, non fu il primo. Prima di lui, nel 1628, i carmelitani Domenico di Cristo e Matteo della Croce avevano portato – da Aleppo a Baghdad, e poi ancora più a Est, fino a Isfahan, sul dorso di un cammello – una macchina da stampa a caratteri mobili, con l’intento di stampare libri in lingua persiana a fini di proselitismo. Ma il loro intento non prese corpo: nessuna traccia storica, infatti, rimane di un loro eventuale lavoro portato a termine.

L’esperienza di Khachatur, pochi anni dopo, ebbe invece una sorte differente: il volume dei «Salmi di Davide» in lingua armena, stampato nel 1638, è riconosciuto come il primo libro a stampa nella storia dell’Iran. Al 1641 risale la stampa di un testo agiografico di 705 pagine sulle vite dei Padri della Chiesa armena. Infine, altri tre volumi stampati con mezzi autarchici dal vescovo Khachatur contribuirono a rendere imperitura la sua fama.

Come già detto, l’apporto degli armeni alla cultura iraniana non è da ascrivere solo a una storia remota. In epoca più recente, essi hanno avuto, ad esempio, un ruolo di primo piano nella nascita del cinema nel paese. Ricordiamo almeno Hovannes Ohanian, un armeno poliglotta che aveva studiato a Mosca e che fondò la prima scuola di cinema in Iran. Suo il primo lungometraggio: un film muto del 1930 intitolato «Abi e Rabi». A un armeno, Alex Sahinian, spetta anche il merito di aver aperto nel 1916 a Tabriz la prima sala cinematografica nella storia del paese, il Cinéma Soleil, sfruttando la sala di una missione francese.

In seguito, furono tanti i registi, gli attori e i produttori di origine armena che segnarono lo sviluppo del cinema iraniano. Un ruolo di primo piano celebrato anche dal «Museo del cinema» di Teheran, che nel 2004 ha dedicato una mostra, un libro e una serie di proiezioni a testimonianza del contributo artistico fondamentale degli armeni. Si può accennare anche la creazione, da parte di armeni, di alcuni degli studi cinematografici di maggior successo del secondo dopoguerra iraniano: il «Diana Film Studio», guidato da Sanasar Khachaturian, che produsse anche alcuni film di Khachikian, l’«Alborz Film Studio», o, ancora, lo «Shahin Studio» dei fratelli Ovedisian. Da ricordare, infine, il «Dariush Film Studio», aperto a Roma nel 1953 dall’armeno iraniano Alex Aqababian, specializzato nel doppiaggio persiano di film italiani, che diede un impulso fondamentale alla diffusione del nostro cinema in terra iraniana.

(© Andrea Moroni)

I cristiani assiri: la lingua aramaica e il cristianesimo nestoriano

La seconda anima del cristianesimo iraniano che vogliamo approfondire qui è quella assira. Un nome, quello assiro, che i cristiani di questo gruppo utilizzano per designare se stessi e rivendicare così un’origine antica.

Come gli assiri dell’antichità, anche quelli di oggi parlano una lingua semitica, cioè parte della stessa famiglia linguistica dell’arabo e dell’ebraico. Più precisamente, parlano (e scrivono con un proprio alfabeto) la lingua neoaramaica assira, evoluzione dell’aramaico usato da Gesù e dagli apostoli. Una lingua diffusa fra le popolazioni dell’impero assiro prima della sua caduta nel 612 a.C. Tale legame linguistico sta alla base dell’autornidentificazione, controversa, fra questa minoranza etnico religiosa e il grande impero mesopotamico del passato.

Più in concreto – e senza rischiare di cadere in errore – possiamo dire che gli assiri di oggi sono gli ultimi eredi, da un punto di vista culturale e religioso, della tradizione orientale del cristianesimo nestoriano. Dottrina cristologica predicata da Nestorio, Patriarca di Costantinopoli del V secolo, il nestorianesimo divenne un’eresia in seguito alla condanna del Concilio di Calcedonia nel 451. I suoi seguaci trovarono rifugio nell’Iran sasanide dove, unendosi alle comunità cristiane locali, diedero vita a una tradizione presente tutt’oggi, quella appunto dei cristiani assiri.

Quella nestoriana è una Chiesa che ha conosciuto nella sua storia momenti di notevole splendore. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che, all’alba dell’invasione araba, l’espansione del cristianesimo in Iran fosse tale da minacciare l’egemonia della religione ufficiale dell’impero: lo zoroastrismo. Secondo tale teoria, si fu molto vicini ad avere un altro grande impero cristiano, oltre a quello Romano: la Persia.

Dopo l’avvento dell’Islam, il cristianesimo rimase, per molti secoli, una presenza importante nel territorio. In concomitanza con i grandi stravolgimenti dell’epoca mongola, fra XIII e XIV secolo, i cristiani tentarono un ultimo colpo di coda, mettendo addirittura in discussione – seppur per un breve periodo – la supremazia religiosa dell’Islam.

Il cristianesimo in Iran è, in ogni caso, ancora assai vitale: è una cultura antichissima che si perpetua in liturgie, riti e lingue diverse dal persiano della maggioranza del paese. Non mancano negozi e aziende i cui proprietari siano cristiani, soprattutto nelle maggiori città, e celebri ristoranti, come il Club Arménien di Teheran, l’unico in Iran dove le signore non siano tenute a rispettare l’uso del velo e si respira ancora l’aria decadente dell’epoca Pahlavi, l’ultimo scià di Persia (1941-1979), tenendo magari in mano un bicchiere di vino, proibito per legge ai cittadini musulmani.

Cristiani in crescita?

Il cristianesimo sembra avere una vitalità sorprendente: nel 2015 l’organizzazione missionaria Operation World ha indicato, numeri alla mano, come l’Iran sia il paese al mondo in cui la popolazione protestante cresce più velocemente, con un +19,6% annuo. Secondo i dati forniti da Christian Solidarity Worldwide – organizzazione che si occupa della promozione della libertà religiosa – sarebbero addirittura oltre un milione gli iraniani convertiti al cristianesimo. Un dato che ci pare esagerato, ma indicativo di un fenomeno conosciuto molto bene in Europa da quanti si occupano di immigrazione: molti richiedenti asilo iraniani, infatti, adducono una loro conversione al cristianesimo come motivazione primaria della loro fuga dalla patria.

Al di là dei numeri è importante ricordare che è, per molti versi, ottimo il rapporto fra cristiani e musulmani in Iran, con un rispetto e una stima che neppure il khomeinismo e l’intolleranza di una parte del regime attuale sembrano aver scalfito nell’ambito della società civile del paese. Un segno di speranza da non trascurare, in un’epoca in cui il Medio Oriente è segnato da una lunga scia di sangue che si vorrebbe riconducibile a una matrice religiosa.

Simone Zoppellaro


Il candelabro rimane acceso

Presenti nel paese da 2.700 anni, gli ebrei iraniani hanno conosciuto periodi di splendore e altri di decadenza. Ancora oggi la comunità ebraica dell’Iran costituisce la più numerosa del Medio Oriente al di fuori di Israele. I suoi rapporti con il regime islamico sono altalenanti a seconda del momento storico, mentre sono buoni con larga parte della società civile iraniana.

(Photo by BEHROUZ MEHRI / AFP)

Iran ed ebraismo: due mondi che paiono inconciliabili per chi non abbia confidenza con la storia e il presente di questo complesso paese. Sembrano inconciliabili soprattutto se si pensa alle tristi uscite negazioniste dell’ex presidente Ahmadinejad che, alcuni anni fa, hanno avuto tanto risalto mediatico, o all’antisionismo della retorica del regime che spesso sfocia nell’antisemitismo. Quando il sottoscritto viveva in Iran e andava alla mensa dei docenti dell’università di Isfahan, sul pavimento dell’ingresso c’era una bandiera israeliana con la scritta «Morte a Israele». I professori dovevano entrare calpestandola. Un «piccolo» segno di un problema che non va sottovalutato, come fanno molti apologeti della Repubblica islamica, spesso poco informati. Eppure, è vero che, esclusa la comunità ebraica che vive nello stato di Israele, quella iraniana rappresenta oggi la più numerosa dell’intero Medio Oriente. Un dato importantissimo per un ebraismo che è ormai scomparso (o quasi) in larghissima parte della regione.

Le origini storiche

Questa minoranza ha origini antichissime, risalenti alla prima diaspora ebraica dell’VIII secolo a.C., quando il sovrano assiro Sargon II, in seguito alla conquista del Regno di Israele, deportò nel 722 a.C. parte delle tribù israelitiche nei territori dell’attuale Iran, contribuendo a una contaminazione religiosa che in seguito avrebbe avuto qualche influsso nello sviluppo e nella definizione delle religioni abramitiche.

Nei suoi 2.700 anni di storia, la comunità ebraica iraniana ha conosciuto alti e bassi, periodi molto bui e difficili, ma anche fasi di grande splendore, come durante l’epoca sasanide (224-641 d.C.), quella dell’ultimo impero persiano preislamico, quando essa rappresentava numericamente la prima comunità ebraica al mondo, sopravanzando persino la Palestina. A quell’epoca, si attesta la presenza in Iran di città a maggioranza ebraica.

Dopo la conquista islamica, gli ebrei continuarono per molti secoli a essere una comunità importante in Iran, a testimonianza del fatto che l’Islam delle origini – miti e pregiudizi a parte – fu tutto fuorché una religione incapace di convivere in modo pacifico con altre fedi.

In questo periodo, e fino al XIX secolo, si segnala lo sviluppo di una letteratura giudaico-persiana, scritta in caratteri ebraici e modellata, nelle sue forme, sugli stilemi della poesia persiana medievale.

Da un punto di vista politico, non mancarono figure capaci di distinguersi ai massimi livelli del potere, come Saad al-Dawla, gran vizir fra il 1289 e il 1291, all’epoca del sovrano ilkhanide Arghun. E, ancora, ebrei medici, intellettuali, commercianti e artigiani che contribuirono in modo determinante allo sviluppo culturale ed economico del paese.

Gli storici concordano nell’identificare nell’epoca safavide (1501-1722) l’inizio della decadenza della comunità ebraica in Iran. Le difficoltà aumentarono poi fra XVIII e XIX secolo, quando si registrarono diversi episodi di violenza e anche veri e propri pogrom nei confronti degli ebrei.

Fra questi episodi, è famoso quello bello ma doloroso raccontato da Daniel Fishman nel libro Il grande nascondimento. La straordinaria storia degli ebrei di Mashad, edito da Giuntina nel 2015. Era il 1839 quando, a partire da un oscuro fatto di cronaca, come spesso avvenuto anche in Europa, nacque un assalto al quartiere ebraico della città di Mashad dove una folla inferocita uccise sul posto una trentina di persone, saccheggiando le loro proprietà. Per sottrarsi a morte certa, i membri della comunità decisero di convertirsi all’Islam, ma solo in via formale. Nacque così una doppia identità e una doppia vita che segnò l’esistenza di questa comunità per oltre un secolo: musulmani osservanti in pubblico ed ebrei devoti fra le mura di casa e del quartiere.

Un’ultimo periodo positivo per la comunità ebraica in Iran è rappresentato dal regno di Mohammad Reza Pahlavi (1941-1979), l’ultimo scià del paese, durante il quale gli ebrei videro migliorare da molti punti vista il loro status. Per la prima volta, circa la metà dei membri delle nuove generazioni poté studiare in scuole di comunità nelle quali era previsto, fra l’altro, l’insegnamento dell’ebraico.

Da un punto di vista socioeconomico, diversi ebrei conobbero una rapida ascesa in campo imprenditoriale, accademico e medico, professione quest’ultima nella quale storicamente si erano sempre distinti qui come altrove. Si stima che, negli anni ’60 e ’70, la comunità ebraica iraniana fosse la più facoltosa dell’intero continente asiatico, al di fuori di Israele. Molti di loro lasciarono il paese dopo la rivoluzione del 1979 per trasferirsi in Europa, negli Usa e in Israele.

Dopo la rivoluzione islamica

Più complessa e, certo meno positiva, è la valutazione dell’epoca tuttora in corso, sorta in seguito alla rivoluzione islamica guidata da Khomeini.

Sebbene la nuova Costituzione della Repubblica
islamica, approvata nello stesso anno, riconosca e tuteli ufficialmente la religione ebraica, insieme a cristianesimo e zoroastrismo, non sono purtroppo mancati, soprattutto nei primi anni del nuovo corso, esecuzioni e gravi episodi di violenza nei confronti di diversi membri della comunità.

Spetta proprio a un ebreo, l’imprenditore milionario Habib Elqanian, il triste primato di primo uomo d’affari vittima del nuovo regime, nel maggio 1979. Seguirono, nel dicembre 1980, altre sette esecuzioni di ebrei iraniani, e altre due nel 1982. Su di essi gravavano accuse che andavano dallo spionaggio a favore di Israele e degli Usa, fino alla corruzione e all’alto tradimento. Un ulteriore duro colpo per la comunità si ebbe nell’agosto 1980, con la fuga del rabbino capo Yedidia Shofet dal paese, e con l’invito da lui rivolto ai suoi correligionari a fare altrettanto.

Eppure, anche in questa prima fase durissima, e a dispetto degli eventi traumatici di cui sopra, non è semplice parlare di un piano persecutorio preciso, né di una volontà, da parte del nuovo regime, di estirpare la comunità ebraica locale. Del novembre 1979, ad esempio, è la seguente affermazione dell’ayatollah Khomeini: «Gli ebrei sono differenti dai sionisti; se i musulmani vinceranno i sionisti, lasceranno in pace gli ebrei. Essi sono una nazione come le altre». È importante notare come tale distinzione fra ebraismo e sionismo sia alla base, negli ultimi anni, di molte dichiarazioni da parte dei rappresentanti della comunità ebraica iraniana. Affermazioni, certo, non libere da timori e da un’inevitabile necessità di tutelarsi in un ambiente in parte ostile, eppure, come detto, il semplice fatto che questa comunità nonostante tutto resista rappresenta un segno di pace e di speranza, da non trascurare in alcun modo.

Nonostante una grave flessione demografica fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, in Iran vivono ancora oggi diverse migliaia di ebrei, e sono in funzione diverse sinagoghe e scuole per i membri di questa comunità millenaria. Questi vivono soprattutto nella capitale, Teheran, e in città grandi come Isfahan e Shiraz, ma anche in alcune più piccole come Hamedan, Yazd e Sanandaj, dove sono presenti sinagoghe che servono le comunità locali.

Ad Hamedan si trova la tomba dei biblici Ester e Mordecai (Mardocheo), il luogo di pellegrinaggio più importante per gli ebrei iraniani, aperto anche ai turisti.

Tomba di Ester e Mordecai, (C.C. Alan Cordova)

Gli aspetti positivi di oggi

Oggi, un futuro per questa comunità in Iran sembra possibile innanzitutto grazie alla tolleranza di larga parte della società civile iraniana che è assai più avanzata del regime che la governa.

Negli ultimi anni, la presidenza Hassan Rowhani ha rappresentato una boccata d’ossigeno, dopo quella di Ahmadinejad, celebre per le sue tesi negazioniste sull’olocausto nazista. Rowhani si è dimostrato assai più aperto rivolgendo i suoi auguri agli ebrei in occasione delle loro festività e permettendo alla comunità, con una serie di disposizioni, di rispettare il sabato. È giusto poi ricordare i risultati della ricerca sull’antisemitismo Global 100, condotta fra il 2013 e il 2014 dall’Anti-Defamation League. I dati dimostrano come in Iran il pregiudizio contro gli ebrei sia meno diffuso che in qualsiasi altro paese del Medio Oriente o dell’Africa settentrionale.

I profughi ebrei durante il nazismo

Gli iraniani diedero prova di sé, della loro connaturata solidarietà e apertura, e anche del loro coraggio, in occasione dell’Olocausto. Si tratta di storie, purtroppo, assai poche conosciute, e che meriterebbero invece una grande risonanza e diffusione, dato il messaggio che veicolano.

Giunsero durante la seconda guerra mondiale, approdando nella città portuale di Bandar Anzali, migliaia di profughi e prigionieri polacchi appena liberati, provenienti dalla Russia. Fra questi, c’erano anche fra i cinque e i seimila ebrei, come riportato dall’enciclopedia dell’Holocaust Memorial Museum di Washington. Tra essi c’erano, come racconta il quotidiano «Haazetz», anche 800 bambini, molti dei quali finiti in seguito in Israele e protagonisti di un documentario del 2007. In un paese, l’Iran, ridotto alla fame più nera, occupato a Nord dai russi e a Sud dagli inglesi, non mancò una grande solidarietà nei confronti di quei cristiani e quegli ebrei giunti da lontano, e ridotti in condizioni ancor più misere della popolazione locale.

Un altro esempio di quella tolleranza che caratterizza, ieri come oggi, buona parte della società iraniana lo troviamo di nuovo nello stesso periodo. Ci riferiamo al caso del console iraniano Abdol-Hossein Sardari, onorato dal Simon Wiesenthal Centre di Los Angeles nel 2004. Diplomatico in Francia ai tempi dell’occupazione nazista, Sardari contribuì a salvare dalla Shoah 2.400 ebrei, iraniani e non, mettendo a repentaglio la sua carriera, il patrimonio e la sua stessa vita. Sfidò apertamente la Gestapo e diede fondo al deposito di passaporti della sua missione diplomatica, fornendo una nuova identità (e a volte una nuova patria) a moltissimi ebrei. Documenti che permisero a molti di fuggire dall’Europa e da una morte probabile. Il tutto in nome di un’umanità che aveva sentito risuonare in lui in quei momenti terribili, spingendolo ad agire e a mettere in discussione tutto.

Simone Zoppellaro


I seguaci di Zarathustra

L’Iran odierno deve moltissimo all’Iran preislamico. A iniziare dalla lingua: il persiano, idioma indoeuropeo. Pur ridotta nei numeri, resiste anche una fede antichissima: lo zoroastrismo, fondato dal profeta Zoroastro (Zarathustra) circa sei secoli prima di Cristo. Una religione monoteistica con tendenze dualistiche che ha alcune similitudini con l’ebraismo e il cristianesimo.

(C.C. Alan Cordova)

La Persia rappresenta una delle grandi culle dell’umanità, terra antichissima, crogiuolo di idee e culture che, attraverso i millenni, hanno trovato dimora anche nella nostra Europa grazie a viaggiatori, missionari e mercanti. Posta sulla via della seta che ha collegato per secoli il nostro continente alla Cina e all’Estremo Oriente, la Persia è stata fin dalla sua origine, ponte fra le civiltà, luogo di incontro e di rielaborazione di culti e credenze, terra di idee e innovazioni, anche da un punto di vista della religione.

 

Ben lungi dall’omologazione e dall’appiattimento, l’Iran di oggi reca ampie tracce di questo passato sul suo vasto territorio.

La Persia preislamica è ancora viva, per molti aspetti, nella vita quotidiana delle persone, e nella sua specifica cultura che rende l’Iran un luogo unico e affascinante.

Così, il capodanno persiano, il Nowruz, la principale delle festività dell’Iran di oggi, che cade in corrispondenza dell’equinozio di primavera, risale a prima dell’Islam, e il calendario tutto (solare) si differenzia da quello musulmano (lunare) usato da molti paesi limitrofi.

La stessa lingua, il persiano moderno, è un’evoluzione di quella antica dell’epoca preislamica, e si differenzia in tutto – fuorché nell’alfabeto e nella presenza di alcuni vocaboli – da lingue come l’arabo e l’ebraico, classificate come idiomi semiti. Il persiano è una lingua indoeuropea, come larga parte delle lingue del nostro continente.

Queste sopravvivenze culturali preislamiche permeano tutta la vita degli iraniani di oggi.

Buoni pensieri, buone parole, buone azioni

Nel caso della religione, l’esempio più eloquente di queste antiche sopravvivenze è senza dubbio rappresentato dagli zoroastriani, piccola comunità tuttora presente e attiva nella Repubblica islamica. Seguaci della religione fondata dal profeta Zarathustra (o Zoroastro) vissuto verosimilmente tra la fine del VII e la metà del VI secolo a.C., gli zoroastriani (chiamati in alternativa anche mazdeisti, dal nome del loro dio supremo, Ahura Mazda) sono gli ultimi eredi della grande tradizione religiosa autoctona dell’Iran preislamico.

La fede predicata da Zarathustra, nome che spesso conosciamo solo per l’uso che ne fece il filosofo Nietzsche in una sua celebre opera, è stata, per lungo tempo, religione di stato prima dell’invasione araba, ed è rimasta una presenza significativa nel panorama iraniano ancora fino al IX secolo della nostra era.

È un universo religioso, quello zoroastriano, che presenta alcune curiose e interessanti similitudini con l’ebraismo passate anche al cristianesimo. Si può supporre che ci sia stato un qualche contatto tra lo zoroastrismo e l’ebraismo sia durante il lungo esilio babilonese che dopo il 538 a.C. quando, in seguito alla conquista persiana e al decreto dello scià Ciro il Grande (il quale nel libro del profeta Isaia 45,1, viene definito «l’eletto del Signore»), molti ebrei, ma non tutti, ritornarono a Gerusalemme.

Fra gli aspetti che in qualche modo assomigliano ad alcuni elementi del cristianesimo: l’idea di un salvatore (detto Saoshyant) che, come il Cristo, giungerà alla fine dei tempi, sconfiggendo definitivamente il male prima della resurrezione dei morti; l’idea di un aldilà diviso in paradiso, inferno, e in una zona intermedia riservata a quelle anime le cui colpe e meriti si equivalgono, un po’ come il purgatorio; un angelologia assai ricca; l’idea del tempo come «storia della salvezza», che porterà a compimento il destino dell’uomo e del cosmo.

Tra le linee essenziali di questa antica fede c’è un dualismo metafisico al centro del quale vi è un dio supremo, detto Ahura Mazda (il Signore Saggio), creatore e benefico, che si oppone alle forze del male personificate da Ahriman (lo Spirito Maligno), destinate a soccombere dopo 12.000 anni di storia universale. Altro elemento è il forte senso morale che si riassume nell’osservanza della formula «buoni pensieri, buone parole, buone azioni». Gli zoroastriani credono inoltre in un giudizio individuale delle anime, per cui ognuno sarà giudicato in base ai suoi meriti e colpe.

Centrale nella riforma religiosa operata da Zarathustra è il fatto di aver retrocesso gli dei del pantheon iranico preesistente a semplici demoni. Ancora oggi, in persiano moderno, «demone» si dice «div», con una parola che in origine significava «dio» e che tradisce chiaramente la sua radice indoeuropea nella somiglianza, ad esempio, con il latino «deus».

La lotta fra il bene e il male riguarda anche gli aspetti della morale e della politica: lo scontro con i romani, ad esempio, viene spesso associato nell’iconografia persiana a quello fra Ahura Mazda e Ahriman, fra il bene e il male assoluto, appunto. Questa lettura politica della lotta tra bene e male avrà un influsso, attraverso il medioevo, anche nella politica moderna e nell’idea stessa di «scontro di civiltà». Da questo punto di vista è ironico pensare a George W. Bush che include l’Iran nel cosiddetto «asse del male», insieme agli altri paesi «canaglia».

(C:C: Jurriaan Persyn)

I morti e le «torri del silenzio»

Altro aspetto interessante dello zoroastrismo riguarda il corpo dopo il decesso: dato che la morte e la decomposizione devono essere tenute lontane dagli elementi della creazione divina, le salme non possono essere sepolte o bruciate. Vengono perciò esposte a diversi metri di altezza su apposite costruzioni (dakhma), note anche come «torri del silenzio», sulle quali gli avvoltorni e i cani ne divorano le carni. Le ossa invece vengono conservate in ossari.

Benché un editto dello scià Pahlavi, a metà Novecento, abbia vietato questo tipo di non-sepolture, ancora oggi, nei dintorni della città di Yazd, si possono visitare le torri del silenzio. Si tratta di luoghi assai suggestivi, anche per il paesaggio e i colori nei quali sono inserite: il deserto, sotto, e l’azzurro del cielo della Persia sopra.

Lo scrittore Alberto Moravia, che visitò Yazd e l’Iran, ne rimase molto affascinato, al punto da indicarlo come il paese più bello dove avesse viaggiato. Facendo un resoconto della sua esperienza sulle pagine del Corriere della Sera, raccontò del forte odore di cadaveri che ancora proveniva dalle torri del silenzio, nonostante gli zoroastriani avessero già iniziato a quei tempi la costruzione di un cimitero alla base di una di queste.

Un’ultima caratteristica che vale la pena di accennare di questa religione è il valore del «fuoco», il più importante tra i simboli zoroastriani, venerato dai fedeli come manifestazione tangibile della potenza divina. Ancora una volta a Yazd, ma anche in altri luoghi dell’Iran, si possono visitare i templi nei quali ardono fuochi ininterrottamente da millenni. Da ricordare è anche l’Avesta, il loro libro sacro, una raccolta di testi composti in diversi periodi, tradotto anche in italiano.

(C.C. David Holt)

Zoroastriani nel mondo

I seguaci di Zarathustra ancora presenti in Iran sarebbero, secondo i dati dei censimenti, l’unico gruppo minoritario in crescita. Come i cristiani, sia assiri che armeni, e gli ebrei, anche gli zoroastriani hanno un loro rappresentante fisso nel Parlamento iraniano, il Majles, e sono riconosciuti e tutelati dalla Costituzione del 1979.

La comunità zoroastriana numericamente più rilevante si trova oggi fuori dall’Iran, in India, dove nel VII secolo molti iraniani emigrarono in seguito all’invasione araba.

Tra i membri più celebri della comunità zoroastriana nel mondo si ricordano il direttore d’orchestra Zubin Metha e il vocalist dei Queen Freddy Mercury (al secolo Farrokh Bulsara).

Molti seguaci di Zoroastro si trovano oggi negli Stati Uniti, in Europa, in Australia e nei diversi altri centri della diaspora iraniana, portando avanti e reinventando quotidianamente il loro antichissimo credo.

Per fare un ultimo, breve, salto nel passato, un’evocazione di questa religione si trova nel racconto  dei Magi arrivati in Palestina per vedere Gesù appena nato. Per usare le parole di papa Benedetto XVI, riprese dal libro L’infanzia di Gesù (Rizzoli, 2012): «Si intende con il termine “magi” degli appartenenti alla casta sacerdotale persiana. Nella cultura ellenistica erano considerati come “rappresentanti di una religione” autentica […]. Possiamo dire con ragione che essi rappresentano il cammino delle religioni verso Cristo, come anche l’autosuperamento della scienza in vista di Lui».

Fu un cammino lungo e difficile quello dei Magi al seguito della stella, un cammino che non pare troppo dissimile da quello che aspetta l’Europa – persa nelle sue contraddizioni interne – dopo l’ascesa al potere di Donald Trump in Usa, che ha posto fine al riavvicinamento dell’Occidente a questa antica nazione che, nonostante tutto, le innegabili contraddizioni e la violenza del suo regime, è portatrice di pace, capace di una tolleranza che, nel contesto del Medio Oriente attuale, sembra dimenticata.

Le minoranze religiose dell’Iran di oggi, ma anche e soprattutto la società civile del paese, in larga parte aperta e inclusiva, sono lì a dimostrarlo.

Simone Zoppellaro

(C.C. Shiraz Ninara)


Appendici

L’uno per cento

Da un punto di vista demografico, la larga maggioranza della popolazione (89%) è musulmana sciita, il 10% sunnita e solo il restante 1% (o meno, a seconda delle stime) va diviso fra cristiani, ebrei, zoroastriani e baha’i.

Secondo il censimento ufficiale iraniano del 2011 (sicuramente al ribasso, stando alle comunità stesse), gli zoroastriani erano in quell’anno 25.271, gli ebrei 8.756 e i cristiani, invece, il gruppo più numeroso, 117.704. Manca il dato sui baha’i, in quanto non riconosciuti dalla legge.

In generale, si registra un calo numerico di tutte le minoranze religiose rispetto all’epoca prerivoluzionaria, con la sola eccezione degli zoroastriani: nel censimento del 1976, infatti (l’ultimo effettuato prima della rivoluzione islamica), ammontavano alla cifra tonda di 21.400.

La Costituzione

L’articolo 13 della Costituzione iraniana del 1979, nata con la rivoluzione islamica guidata da Khomeini, tutela zoroastriani, ebrei e cristiani, minoranze riconosciute dalla legge e ancora oggi ben radicate nel paese. Queste – rifacendosi anche a un’antica consuetudine musulmana di rispetto e tutela per le altre fedi – «sono le uniche minoranze che, nei limiti stabiliti dalla legge, sono libere di svolgere i propri riti e di regolamentare lo stato civile e l’istruzione religiosa secondo la loro religione» (art. 13).

Ciascuna di queste minoranze elegge un suo rappresentante nel parlamento iraniano. Più difficile, invece, da un punto di vista della legge, è la situazione delle minoranze non riconosciute, e, in primo luogo, dei baha’i, seguaci di un credo religioso nato nell’Iran del XIX secolo, ma oggi banditi in patria in quanto considerati musulmani apostati.

(Oleksandr Rupeta/NurPhoto)

La Cronologia

? Fine del VII-metà del VI secolo a.C. – Il profeta Zarathustra dà all’Iran una nuova religione, lo Zoroastrismo, un monoteismo con forte tensione al dualismo.

? 550-330 a.C. – La dinastia Achemenide porta la Persia a essere uno dei più grandi imperi della storia, con un’estensione che, partendo dalla Libia e dal Mar Egeo, arriva fino al fiume Indo.

? 633-651 – L’invasione araba pone fine alla dinastia Sasanide e dà inizio alla lenta ma progressiva islamizzazione della Persia.

? 1220 – I mongoli invadono la Persia.

? 1501-1722 – Apogeo della dinastia Safavide, che – cuius regio, eius religio – indirizza l’Islam del paese in direzione dello sciismo, fino a quel momento minoritario. Sotto il sovrano Abbas il Grande (1571-1629) la Persia torna a essere un grande impero, in cui le minoranze – e in primo luogo quella armena – godono di un ruolo privilegiato. Dopo la sua morte, tuttavia, questa stagione di grande apertura e di crescita entrerà in crisi.

(PhoTongueless / Mohammad Rezaa Ch.)

? 1921 – Il comandante Reza Khan prende il potere con un colpo di stato e si fa incoronare scià nel 1926, inaugurando la dinastia Pahlavi che durerà fino al 1979.

? 1953 – Il primo ministro (liberale e nazionalista) Mohammad Mossadeq viene rovesciato, in seguito alla nazionalizzazione del petrolio, da un colpo di stato orchestrato dalla Cia (Usa) e dai servizi britannici. Il generale Fazlollah Zahedi è proclamato premier, permettendo allo scià Mohammad Reza Pahlavi, secondo e ultimo sovrano della dinastia, di ritornare dal temporaneo esilio.

? 1979 – In Iran ha luogo la rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini, che pone fine al potere della dinastia Pahlavi e determina la nascita della Repubblica islamica. Nello stesso anno viene emanata una nuova Costituzione.

? 1980-1988 – Guerra Iran-Iraq. Saddam Hussein invade l’Iran, con il supporto degli Stati Uniti, ma non riesce a sfondare. La guerra, un inutile macello, durerà per otto anni. Alla fine i confini dei due paesi resteranno inalterati.

? 1997-2005 – La presidenza di Mohammad Khatami produce un’apertura di cui risentono, positivamente, anche le minoranze religiose, che ricominciano a crescere, anche numericamente, dopo la rivoluzione e la guerra. Ottimi anche i rapporti del presidente iraniano con il Vaticano: Khatami incontra Giovanni Paolo II a Roma nel 1999.

? 2005-2013 – La presidenza di Mahmud Ahmadinejad rappresenta una svolta in senso conservatore di cui risentono anche le minoranze. Tristemente celebri le sue affermazioni negazioniste, che contribuiscono a produrre un’escalation con Israele e a isolare l’Iran.

? 2013- oggi – Hassan Rohani è eletto presidente. Una nuova svolta riformista si impone sulla scena politica iraniana.

? 2015 – A Vienna viene raggiunto l’accordo sull’energia nucleare in Iran. Protagonisti, oltre all’Iran, anche i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti) più la Germania e l’Unione europea. Mai Teheran era stata così vicina a un riavvicinamento con Washington, dopo il 1979.

? 2017 – L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti fa entrare in crisi l’accordo firmato da Barack Obama sul nucleare iraniano.