Bosnia. Se la miniera è a casa tua


C’è il litio, ma anche il carbone. Nuove e vecchie miniere potrebbero stravolgere il territorio del Paese balcanico. La popolazione locale non sta però a guardare.
La questione ambientale s’inserisce in un contesto in cui le divisioni della guerra civile sono ancora vive.

Estate 2024, montagna di Ozren, distretto di Doboj, Repubblica serba di Bosnia.

Oggi, in un campo normalmente adibito a rifugio di montagna e pista da lancio per parapendii, 36 persone – tra cui ingegneri, biologi, attivisti per l’ambiente – si sono riuniti per una missione di ricerca che durerà per tre giorni. Nella squadra, ci sono uomini e donne provenienti da Bosnia, Serbia e Montenegro. L’obiettivo è quello di raccogliere campioni di flora, di acqua, e tracce della fauna di specie a rischio. Si spera che i dati raccolti in questi giorni possano portare quest’area a essere annoverata tra i parchi protetti della Bosnia. Infatti, con questo inserimento si potrebbe forse fermare l’apertura di miniere di nichel, cobalto, rame e, soprattutto, di litio.

Il campo viene inaugurato dal discorso dei due coordinatori dell’evento: Peter Špullovič e Davor Tubič. Ospite, e osservatore speciale del progetto, è Brian Aggeler, capo missione dell’Osce (Organization for security and cooperation in Europe), l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.

Alcuni membri della spedizione all’interno della grotta di Mokra Megara. Foto Angelo Calianno.

Scoperta e mobilitazione

Grazie al monitoraggio di alcuni residenti e attivisti locali, nell’ottobre 2023 si è scoperto che alcune compagnie minerarie stavano effettuando ricerche per rilevare la presenza di minerali e metalli. Su tutti, il più importante è il litio, componente fondamentale per il funzionamento di molte batterie, soprattutto quelle dei veicoli elettrici.

Queste società di ricerca fanno capo al colosso svizzero Arcore e alla Lycos metal, compagnia con base in Australia e sedi operative in tutti i Balcani. Le ricerche, da parte di Arcore, sono andate avanti per quattro anni senza che nessuno della popolazione locale ne fosse al corrente. Le associazioni ambientaliste, inoltre, affermano che tutto è stato tenuto nascosto ai residenti, ma è avvenuto con il benestare di governo e autorità. Dopo essere stata smascherata, Arcore ha ammesso di aver effettuato queste ricerche e di aver identificato, in una zona che va da Doboj a Lopare, 1,5 milioni di tonnellate metriche di carbonato di litio. Se così fosse, sarebbe uno dei più grandi giacimenti d’Europa. La compagnia svizzera ha assicurato che le estrazioni avverranno usando tecnologie di ultima generazione e che l’impatto ambientale, soprattutto su acqua e suolo, sarà minimo. Nessuno però ha creduto a questa dichiarazione. A maggior ragione, dopo quello che è accaduto a pochi chilometri da qui, in Serbia, quando nel 2022 alla multinazionale Rio Tinto è stata revocata la licenza di scavo a seguito dei danni ambientali provocati nella regione dello Jadar (cfr, MC agosto-settembre 2023).

Agente delle forze di polizia locali scorta il gruppo all’uscita delle grotte, che oggi avrebbero tutti i requisiti per diventare area protetta. Foto Angelo Calianno.

Le grotte del ragno

Dopo la cerimonia iniziale, ci prepariamo alle prime esplorazioni. Indossiamo stivali ed elmetti per addentrarci nei boschi del Monte Ozren e all’interno delle grotte di Mokra Megara. Questo complesso di caverne è al centro del progetto di salvaguardia dell’ambiente. Le ragioni stanno nella sua storia, nella sua ricchezza di biodiversità, ma anche nella presenza di un ragno.

Il ragno Rhode Stalitoides, specie endemica dei Balcani, è una specie protetta. La sua presenza, in queste grotte, potrebbe diventare il criterio chiave per convertire l’area in un parco nazionale e impedire così i lavori di estrazione.

All’interno del nostro gruppo, si trova anche un sacerdote ortodosso: padre Gravilo Stevanovič. Padre Gravilo è un testimone della presa di posizione della Chiesa ortodossa serba sulla questione ambientale. Essa, infatti, si è apertamente schierata contro l’esplorazione mineraria, dichiarando anche la volontà di acquistare terreni, pur di salvarli.

Da quando non gli è più stato rinnovato il contratto presso un ente statale, a causa per il suo impegno per l’ambiente, Zoran è presente in tutte le attività di ricerca e protesta. Foto Angelo Calianno.

Insegnante di lingua e letteratura, Andrjana è una delle fondatrici dei movimenti di attivismo contro l’apertura delle miniere. Foto Angelo Calianno.

Montagne di acqua

Come si estrae il litio? Quali sono i pericoli per l’ambiente? Vladimir è uno dei partecipanti al campo di ricerca. In questi anni si è occupato delle campagne contro le estrazioni illegali di carbone e di metalli pesanti. Inoltre, lavora a soluzioni energetiche alternative che possano sostituire i combustibili fossili. Mi spiega: «L’estrazione del litio comporta dei lavori che durano anni. Una volta terminate le operazioni, quello che rimane del territorio è un habitat invivibile per tutte le specie animali e vegetali. Con il metodo tradizionale, si effettuano delle perforazioni nel suolo. In seguito, nei fori, viene pompata salamoia. I minerali estratti vengono quindi lasciati evaporare per mesi e poi filtrati in diverse vasche fino ad ottenere il carbonato di litio. Per queste operazioni serve tantissima acqua: quasi 190mila litri per tonnellata di litio estratto. L’acqua rimasta, dopo i vari filtraggi, viene poi riversata nuovamente nell’ambiente. Queste operazioni di estrazione, ad esempio ad Atacama in Cile, hanno causato la perdita del 65% dell’acqua dolce della regione».

Zoran, ingegnere ambientale e attivista contro l’estrazione di metalli pesanti, racconta la sua storia: «Lavoravo per una compagnia statale di manutenzione degli impianti energetici. Non mi è stato rinnovato il contratto, perché mi sono unito a una Ong per la protezione dell’ambiente.

Nichel e cobalto sono metalli pesanti. Pesanti vuol dire, in questo caso, che l’estrazione e la produzione sono molto dannosi per l’ambiente. Senza dire che contengono molti componenti cancerogeni. Dodici anni fa, in Serbia, si è verificata una situazione simile a quella che ora sta avvenendo qui. In quel periodo, professori universitari e scienziati hanno pubblicato diversi trattati dove si mostra, scientificamente, l’allarmante pericolosità che le estrazioni minerarie comportano per la salute. Per avere un esempio di quello che potrebbe avvenire qui, basta guardare i giacimenti in Australia, Canada e Russia. In queste nazioni, gli scavi si effettuano in aree remote, inabitate, perché appunto pericolosissimi per l’uomo. Nel caso della Bosnia, parliamo di luoghi a ridosso di fattorie e villaggi. Per estrarre i metalli pesanti ci sono due modi: si trivella nel sottosuolo o si usano gli esplosivi. Nel caso del cobalto, anche questo presente nel nostro territorio, viene introdotto nel suolo acido solforico al 100%. Occorrono, inoltre, grandi quantità di acqua durante l’estrazio- ne. Conosciamo tutti i danni che le miniere di cobalto causano in Congo. Lì, dopo l’estrazione, le acque di scarto vengono riversate nell’ambiente, avvelenando le falde. Per 12 anni, ho lavorato a contatto con gli enti che controllavano la qualità dell’acqua, e i danni che le miniere possono causare. Tutta la documentazione prodotta, e poi divulgata al pubblico, è falsa. Tutto dipende dagli investitori, e da quanto sono disposti a pagare per contraffare i dati».

La politica

Quando chiedo se si possa sperare in un appoggio da parte di qualche formazione politica, Zoran mi risponde: «Qui la politica è sempre una questione complicata. Dopo la guerra, nel 1995, i confini sono stati ridisegnati a tavolino. Oggi, quindi, metà di queste montagne si trovano nella Republika Srpska (Repubblica serba della Bosnia), e l’altra metà nella Bosnia Federale. Sono proprio i governi che hanno erogato i permessi alle compagnie straniere. Sono le autorità politiche, quelle che dovrebbero tutelarci, le prime a non farlo. Dal ‘96 abbiamo gli stessi partiti, i principali sono tre, e puoi considerarli tutti di destra, opposizione inclusa. Qualche volta nascono nuovi movimenti, ma sono piccoli e deboli, e comunque vengono visti sempre con sospetto dalla gente. Purtroppo, molti si allontanano dalla politica per rassegnazione. Anche per questo ci troviamo in questa situazione».

Le tre formazioni politiche menzionate da Zoran sono il partito nazionalista Sda (Partito azione democratica), l’Hdz (Unione democratica croata di Bosnia Erzegovina), partito conservatore cristiano e il partito Snsd (Unione dei socialdemocratici indipendenti) considerato più moderato.

Parola di ministra

Il ministro dell’ambiente e del turismo della Federazione di Bosnia Erzegovina, Nasiha Pozder. Foto Angelo Calianno.

Dopo una giornata di ricerche, gli attivisti tornano al campo base. Hanno riportato qui decine di contenitori con campioni di roccia, terra, piante e acqua. Tutto verrà inviato ai laboratori per le analisi. Per la notte, ci si accampa sia nelle baite di legno che nelle tende, allestite per l’occasione.

Il giorno successivo, riceviamo una visita speciale: la ministra per l’ambiente e il turismo della Federazione di Bosnia ed Erzegovina, in carica da circa un anno, la dottoressa Nasiha Pozder. Mi racconta: «Come sa bene, essendo lo Stato diviso in due entità, la situazione politica bosniaca è molto intricata. Io sono, diciamo, fuori dalla mia giurisdizione. Sono il ministro della Bosnia Federale, mentre qui ci troviamo nella parte della Republika Srpska. Mi dispiace essere qui senza la mia controparte locale. Abbiamo sempre un dialogo tra i vari organi politici ma, sicuramente, abbiamo priorità diverse. Io, nella mia carriera, ho sempre avuto a cuore il problema dell’ambiente. Sono qui perché, per noi, la campagna di pressione per ingrandire le aree protette in Bosnia Erzegovina è molto importante. Per legge, almeno il 16% delle nostre aree naturali dovrebbe essere protetto. Siamo appena al 3%. Per questo, annettere luoghi come il monte Ozren, e le grotte di Mokra Megrava, è fondamentale. Spesso, mi viene chiesto perché la politica non ha fatto nulla contro gli scavi e i rilievi illegali. Il perché bisognerebbe chiederlo a chi è stato in carica quando questi sono stati fatti. Non so se gli organi politici sono stati distratti, pigri o disattenti a riguardo, ma, in ogni caso, non hanno agito. Io, appena ottenuta la carica, ho presentato diversi piani per la protezione dell’ambiente. Sono stati tutti approvati dal governo, ma mai messi in atto.

Per natura sono una persona ottimista, anche se la realtà poi mi contraddice. Qualche volta penso di essere arrivata a questa posizione troppo tardi. Oggi, dobbiamo tenere in considerazione che, anche nel momento in cui riusciremo a proteggere un’area geografica, alle grandi compagnie basterà spostarsi di qualche chilometro per cominciare i lavori di scavo. Quindi, il danno ambientale ci sarebbe ugualmente. Una delle cose che potrebbe salvarci, sarebbe entrare in Europa. Facendo parte dell’Unione europea, le multinazionali straniere dovrebbero rispettare alcuni standard ecologici che qui non esistono. Far parte dell’Europa, inoltre, ci darebbe accesso ai fondi per il turismo. Quella potrebbe essere la svolta della Bosnia Erzegovina. Il turismo porterebbe beneficio a tutte le comunità, mentre l’estrazione di minerali solo alle grandi corporation».

Le miniere di litio

Dopo aver passato tre giorni insieme ai ricercatori sulle montagne di Ozren, mi sposto in direzione di Lopare. Questa provincia, se dovessero cominciare i lavori delle compagnie minerarie, sarebbe uno dei luoghi in assoluto più coinvolti dall’inquinamento. È stato qui, in queste valli, che i cittadini hanno scoperto i rilievi minerari segreti. Qui le campagne anti-minerarie e le proteste sono ancora oggi attivissime.

Andrjana, professoressa di lingua e letteratura serba, mi racconta com’è avvenuta la scoperta: «Prima dell’ottobre 2023, non sapevamo niente della volontà di estrarre il litio.

Quando abbiamo sentito le prime voci, abbiamo cominciato a fare ricerche ma non siamo riusciti a trovare nessun progetto ufficiale. Queste ricerche sono state fatte in segreto. Ma, anche se i dati sull’impatto ambientale fossero disponibili, sarebbero finti. Sono redatti dalle stesse compagnie che hanno effettuato le ricerche. Nessuno qui si fida più di quello che ci viene detto, tutti sanno che, al momento dell’apertura delle miniere, nessuno rispetterà gli standard per la tutela dell’ambiente. Subito dopo la nostra scoperta, abbiamo fondato un gruppo d’azione. Nella prima riunione, eravamo appena cinque. Ora siamo in 25. I politici locali all’inizio ci appoggiavano, ma lo hanno fatto solo per una questione di voti. Una volta eletti, sono spariti. Il litio esiste anche in Portogallo, Germania, Austria, ma di certo non vanno lì a scavare. Le compagnie minerarie scelgono la Bosnia perché qui non devono rispettare le norme ecologiche. Quindi, per loro è molto più economico. Qui, approfittano della mancanza di leggi, della facilità di poterle raggirare e del costo estremamente basso delle concessioni governative».

Le miniere di carbone

Già da diversi anni, i bosniaci conoscono bene i problemi che le miniere, ad esempio quelle di carbone, possono causare.

Mi metto in viaggio per Sanski Most. In quest’area sono sei i villaggi coinvolti nell’inquinamento dovuto alle miniere di carbone. Qui opera la compagnia Lager, finanziata in parte dal gruppo cinese Energy China group.

Arrivo a Bistrica, un piccolo villaggio di 700 persone, a pochi metri da un’enorme miniera.  Incontro Daniel, allevatore e contadino. Dai suoi concittadini, è stato eletto portavoce del movimento contro gli abusi delle miniere. Anche perché, come mi confessa, nessuna delle autorità ufficiali viene più a far visita qui.

«Abbiamo avuto problemi fin da subito, dall’inizio delle estrazioni. Le esplosioni e le trivellazioni, spinte dai venti, sollevano le polveri che ricoprono le nostre case, i prati dove mangiano le nostre mucche, e i nostri orti. I camion che trasportano il carbone sono spesso sovraccarichi, oltre le 15 tonnellate di eccedenza. Questo distrugge anche le nostre strade. Molto spesso, a causa dei lavori, rimaniamo per giorni senz’acqua e senza corrente. La gente è stanca, perché ha già tentato tutte le vie di protesta ufficiali. Ci hanno sempre ignorato. Quelle volte in cui sono arrivati gli ispettori governativi per l’ambiente, ci hanno detto che andava tutto bene, che tutto era in regola. Ma noi sappiamo benissimo che, anche questi ispettori, fanno parte dello stesso sistema corrotto.

Da circa un anno, la gente di Bistrica si è affidata a me per portare avanti le iniziative di protesta. Al momento, abbiamo intentato delle cause giudiziarie, perché alcune esplosioni hanno causato delle frane sulle proprietà di molti contadini. C’è anche da dire che tutta questa distruzione che vedi a noi non porta nessun beneficio. Il nostro carbone va in Serbia, da lì l’energia prodotta viene venduta agli stati europei. A noi non rimane nulla».

Parlando con molti abitanti di queste zone, tutti mi dicono di aver perso la pazienza e che, se non ci saranno cambiamenti, le proteste non saranno più solo pacifiche. Nei giorni scorsi, sulle ruspe delle miniere di carbone, sono stati trovati dei bossoli di fucile, lasciati come avvertimento. La provincia di Sanski Most, nella sua storia, è stata testimone di tante lotte e tragedie. Qui, nel 1941, c’è stata una delle rivolte più importanti della Seconda guerra mondiale contro l’occupazione nazista. Qui, nel 1944, si è tenuto il principale consiglio antifascista della Bosnia Erzegovina, evento che affermò l’uguaglianza tra musulmani, serbi e croati. Nel 1992, queste valli sono state testimoni del massacro sul ponte Vrhpolje, luogo dove venti uomini bosniaci vennero giustiziati. Questa strage è stata poi annoverata tra i crimini di guerra di Momčilo Krajišnik, leader serbo condannato per l’uccisione e la deportazione dei non serbi dalla Republika Srpska.

Il peso del passato

Durante la mia visita a questi villaggi, un uomo mi ha confessato: «È sempre difficile organizzare proteste qui. È difficile perché, ogni volta, l’opinione pubblica torna con la mente ai fatti accaduti durante la guerra degli anni Novanta. Sembra quasi che le stesse persone che vorrebbero essere più attive abbiano paura di farlo temendo che le loro proteste possano sfociare in una violenza simile a quella già patita durante la guerra. Si ha il timore di rompere un equilibrio di pace che rimane fragile.

Noi però vogliamo andare avanti. Vogliamo toglierci questo marchio di nazione che ha vissuto una guerra sanguinosa. Abbiamo voglia che il mondo venga a scoprire le bellezze di questa terra, e lo possa fare sentendosi al sicuro. Questo potrà accadere solo se il nostro territorio verrà protetto dalla distruzione che le grandi multinazionali stanno causando per i loro interessi economici».

Angelo Calianno

La moschea del sultano Ahmed III, a Trebinje. Foto Angelo Calianno.


Politica e religione. Musulmani e Ortodossi

La Bosnia Erzegovina è una repubblica presidenziale, a struttura federale, nata dagli accordi di Dayton del 21 novembre 1995, accordi che posero fine alla guerra civile del 1992-1995. Lo Stato è oggi diviso in due entità: la Federazione di Bosnia Erzegovina (occupa 51% del territorio e il 67% della popolazione) con capitale Sarajevo e la Republika Srpska (Repubblica Serba della Bosnia che occupa circa il 49% del territorio, con il 33% della popolazione) con capitale Banja Luka. La religione è un elemento fondamentale della Bosnia. Durante e dopo la guerra, molte persone hanno trovato nella fede un nuovo senso di appartenenza. Il 51% della popolazione è di fede musulmana, quasi interamente sunnita. I cristiani ortodossi sono al 31%, mentre i cattolici al 15%. Il resto della percentuale è diviso in altre minoranze, soprattutto atei e agnostici.

La fede più in crescita risulta essere l’islam. Negli ultimi 20 anni, le statistiche indicano un aumento dei fedeli musulmani dal 44 al 51% della popolazione odierna. Prima del 1990, i musulmani di Bosnia erano considerati poco praticanti. Molti non partecipavano al Ramadan e non osservavano i precetti della propria fede. Addirittura, nella zona di Mostar, molte moschee erano state trasformate in musei. Con il progredire del conflitto, l’islam divenne sempre più importante, tanto che, a un certo punto, quasi tutti i membri dell’armata Armija BiH – l’esercito della Bosnia Erzegovina – erano di fede musulmana. A quasi 30 anni dalla fine della guerra, anche se in alcuni casi la convivenza tra religioni sembra imposta, la tolleranza reciproca è uno degli obiettivi principali dello Stato. Nella Republika Srpska, dove sono state realizzate le interviste per questo reportage, la maggioranza della popolazione – quasi l’83 per cento – è cristiano ortodossa.

An.Ca.

Il monastero serbo ortodosso di Ozren; grazie al lavoro di padre Gravilo, che si occupa di tutta la manutenzione, il monastero oggi è tornato a nuova vita.. Foto Angelo Calianno.

 

 




Sostenibilità neocoloniale. Minerali e transizione ecologica


Congo katanga

Sommario

I minerali del Sud globale

La corsa del Nord ricco per prendersi le risorse altrui.
Il mondo in balia dei cambiamenti climatici necessita di quantità sempre maggiori di minerali critici per la transizione ecologica. Questi sono spesso presenti nei Paesi poveri. Le logiche neocoloniali dell’economia spingono questi ultimi a perdere il controllo sulle loro risorse. Si apre così la strada a progetti di sfruttamento indiscriminato delle grandi multinazionali.

Dagli anni Cinquanta del Novecento, il cambiamento climatico e i suoi effetti sono diventati sempre più evidenti e, soprattutto, irreversibili.

Come conseguenza delle crescenti emissioni di gas climalteranti (tra cui spicca l’anidride carbonica), negli ultimi 150 anni la temperatura terrestre è cresciuta in modo graduale, ma inesorabile.

Secondo il Climate change 2023 dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) – un gruppo scientifico fondato nel 1988 per studiare i cambiamenti climatici nel mondo -, attualmente ci sono 1,1°C in più rispetto al periodo preindustriale (convenzionalmente prima del 1851).

Nel mentre, gli eventi meteorologici estremi – diretta conseguenza dell’incremento delle temperature – sono diventati sempre più frequenti.

Glaciar Perito Moreno, El Calafate, Argentina, 2016 – Foto di Agustín Lautaro su Unsplash

Summit internazionali sul clima

Società civile e classe politica di tutto il mondo hanno iniziato ad assumere reale consapevolezza del cambiamento climatico e dei suoi effetti nel 1972, quando il Massachusetts institute of technology (Mit) pubblicò il famoso rapporto «I limiti dello sviluppo». Un documento nel quale gli scienziati denunciavano come la crescita della popolazione e dell’economia mondiale – senza le adeguate misure di tutela dell’ambiente – rischiassero di portare il pianeta al collasso entro la metà del Ventunesimo secolo.

Da quel momento, c’è stato un susseguirsi sempre più frenetico di conferenze internazionali su ambiente e clima senza mai andare oltre le parole.

Si è dovuto attendere a lungo per assistere ai primi tentativi di adottare delle misure concrete per mitigare e contrastare il cambiamento climatico e i suoi effetti. E finalmente si è arrivati al 1992, quando il Summit sulla terra di Rio de Janeiro ha iniziato a cambiare l’approccio.

La conferenza brasiliana ha sancito l’entrata in vigore della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), il principale trattato internazionale sul clima.

Il documento – pur non essendo legalmente vincolante – impegnava i firmatari a ridurre le emissioni di gas serra e le interferenze umane nei confronti dell’ambiente.

Dal 1994 poi, i Paesi che avevano ratificato la Convenzione hanno iniziato a incontrarsi annualmente nella Conferenza delle parti (Cop), che ancora oggi rappresenta l’occasione per monitorare lo stato di avanzamento degli impegni presi e per adottarne di nuovi, questa volta obbligatori.

Durante la Cop3 in Giappone nel 1997, è stato concluso il Protocollo di Kyoto che stabiliva la necessità, entro il 2012, di ridurre le emissioni di gas serra del 7% rispetto ai livelli del 1990.

Nel 2015, invece, nel corso della Cop21, sono stati firmati i famosi Accordi di Parigi che fissavano la soglia limite dell’incremento della temperatura terrestre «ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali», oltre a esigere che il picco di emissioni di gas climalteranti venisse raggiunto entro il 2050.

Con il passare degli anni, la comunità internazionale ha impresso una graduale spinta verso l’adozione di politiche risolutive nei confronti del cambiamento climatico. Le strategie messe in atto dai diversi Stati, però, sono ancora ampiamente insufficienti. Infatti, la realizzazione degli obiettivi di Parigi resta lontana: secondo l’Ipcc, con gli impegni assunti finora dai firmatari, entro il 2100 la temperatura terrestre aumenterebbe comunque di 2,7°C rispetto ai livelli preindustriali.

I minerali del Sud globale

Anche se più lentamente di come richiederebbe il pianeta, il mondo si sta dirigendo verso la transizione ecologica. Un’evoluzione complessa che, per essere realizzata appieno, comporta un ripensamento dell’intero sistema economico e sociale mondiale al fine di sviluppare processi sempre più sostenibili.

Pannelli solari, computer, auto elettriche e pale eoliche sono solo alcuni dei dispositivi al centro del cambiamento. Non a caso, la loro domanda è in rapida ascesa, soprattutto in Occidente.

Produrli, però, richiede ampi giacimenti di minerali critici, concentrati in un numero abbastanza limitato di Paesi, soprattutto del Sud globale.

È così che il tantalio estratto in Congo Rd è diventato essenziale per i condensatori di computer e cellulari in tutto il mondo.

Il «Triangolo del litio» (l’area che comprende i deserti salati di Argentina, Bolivia e Cile) è sempre più cruciale nella catena di produzione globale di auto elettriche.

Il nichel indonesiano è invece centrale per migliorare qualità e durata delle batterie.

Strategici sono anche le terre rare abbondanti in Vietnam, il rame diffuso in Sud America e Africa subsahariana, il cobalto proveniente da Repubblica democratica del Congo e Zambia.

Il neocolonialismo delle risorse

Lo scenario appena descritto mostra il profondo intreccio che lega Nord e Sud globale. In particolare, come quest’ultimo e le sue risorse siano il mezzo con cui il primo tenta di esaltare il proprio impegno nel contrasto al cambiamento climatico e i risultati raggiunti in termini di transizione ecologica e decarbonizzazione.

Mostra anche, e soprattutto, la corsa all’accaparramento dei minerali del Sud globale da parte di Stati stranieri e aziende multinazionali. Un processo dai chiari connotati neocoloniali.

D’altronde, nel Sud globale, il colonialismo non è mai scomparso. Semplicemente, ha assunto una nuova veste. Il controllo che ancora oggi l’Occidente esercita su molte delle sue ex colonie non è più di natura politica, ma economica.

Fin dalle indipendenze, numerose aziende europee sono rimaste nel Sud globale, giustificandosi con la necessità di supportare il consolidamento delle nascenti economie indipendenti. In realtà, ciò ha permesso agli europei di insinuarsi a fondo nell’economia di Stati fragili, prendendone il controllo e appropriandosi di molte delle loro risorse.

Le condizioni di sfruttamento che le multinazionali si assicurano sui giacimenti sono estremamente favorevoli (ad esempio le tasse molto basse), e le modalità per ottenerle (spesso la corruzione di funzionari statali), alquanto discutibili.

Il più delle volte, le popolazioni locali non sono consultate e, anzi, sovente vengono espropriate in modo unilaterale delle proprie terre. Mentre la tutela dell’ambiente naturale e della salute delle persone è completamente assente.

Aurora Guainazzi

Contro le miniere in Europa

Giacimenti di minerali critici sono presenti anche in Occidente.
Sebbene siano in quantità minore rispetto a quelli del Sud globale, stanno assumendo una rilevanza sempre maggiore in un contesto mondiale nel quale Stati Uniti e Unione europea hanno iniziato a puntare all’autosufficienza.

Sia gli Usa che l’Ue, infatti, guardano allo sviluppo di giacimenti interni e alla creazione di industrie di trasformazione proprie come a una strategia per dipendere sempre meno dalla Cina.

Pechino d’altronde controlla quasi interamente la catena di lavorazione di minerali cruciali come nichel, cobalto, litio e terre rare.

Aprire miniere in Occidente, però, è decisamente più complesso che aprirle nei paesi del Sud globale.

I tempi burocratici sono lunghi (in media, in Unione europea, sono necessari quindici anni per ottenere tutte le autorizzazioni), le regolamentazioni ambientali stringenti, le tutele da garantire ai lavoratori molto maggiori, e l’opposizione della società civile locale frequente.

Proprio quest’ultima, negli ultimi anni, ha avuto un ruolo centrale in molti Paesi europei nell’ostacolare o, addirittura, nell’impedire l’apertura di siti estrattivi.

Nella regione spagnola dell’Estremadura, cospicue riserve di litio si situano a soli due chilometri di distanza dalla città di Cáceres, sito Unesco e set del film Game of Thrones (cfr. Daniela Del Bene, Miniere «green», MC ago-sett 2021).

Fino agli anni Settanta, nell’area era attiva una miniera di stagno con effetti dannosi su ambiente e salute. Non stupisce, quindi, che l’attuale progetto, la miniera di litio di San José Valdeflórez, veda l’opposizione di politica e società civile.

«Infinity lithium», l’impresa australiana che guida le operazioni, ha promesso investimenti iniziali per 280 milioni di euro e la creazione di più di 200 posti di lavoro. L’azienda sostiene che la miniera possa produrre il litio necessario per dieci milioni di veicoli elettrici e prevede un’attività di trent’anni. Ma, nel maggio 2021, il comune di Cáceres ha approvato una mozione che ha blindato la zona dal punto di vista ambientale, oltre ad aver negato un permesso operativo alla multinazionale.

Già nella primavera del 2017 la società civile si era attivata con la nascita del gruppo di cittadini Plataforma salvemos la montaña per difendere l’ambiente naturale circostante Cáceres e impedire la creazione di una miniera con inevitabili effetti dannosi su ambiente e salute.

Dopo la conclusione degli studi di fattibilità nel 2019, era stato stabilito che l’estrazione sarebbe iniziata entro venti mesi, ma – al momento – la miniera di San José Valdeflórez non è ancora entrata in funzione.

Cáceres non è l’unico caso europeo dove la popolazione ha manifestato contro le attività estrattive. In Portogallo, le proteste dei cittadini di Montalegre stanno bloccando l’apertura di sei miniere di litio.

Scene simili si sono viste in Serbia: quando nel 2022 il governo ha tentato di dare il via libera a quella che sarebbe diventata la miniera di litio più grande d’Europa, la popolazione è insorta, costringendo le autorità a fermare il progetto (cfr. Daniela Del Bene, Il litio della Serbia. Un rio rosso sangue, MC ago-sett 2023).

Questi sono solo alcuni esempi – emblematici – di manifestazioni contro le attività estrattive nel continente europeo. In alcuni casi, le proteste hanno impedito l’avvio delle attività, in altri le stanno rallentando.

L’altra faccia della medaglia, però, è che – in un mondo dove i minerali per la transizione ecologica sono sempre più urgenti – un numero crescente di multinazionali si rivolge ai giacimenti del Sud globale. Di fatto, l’alternativa più «semplice» e da cui l’Occidente cerca di trarre il massimo guadagno al minor costo possibile.

A.G.

Multinazionali estrattive

Le concessioni minerarie. Ambiente e popolazioni impoveriti.

Interi territori devastati, a volte in zone protette con biodiversità uniche. Comunità sgomberate o avvelenate. Le enormi concessioni minerarie che molti Paesi del Sud globale offrono ad aziende transnazionali del Nord non sono quasi mai un affare per gli abitanti del posto, eppure crescono di numero ovunque.

Le grandi aziende multinazionali sono spesso le principali protagoniste della corsa ai minerali critici presenti nei paesi del Sud globale. Il più delle volte sono occidentali – Usa, Canada, Regno unito, Svizzera, Australia -, ma non mancano quelle cinesi (cfr. box pag. 38).

I loro progetti estrattivi sono enormi – sia per l’estensione del territorio coinvolto, sia per i volumi di materie prime estratte – e non si curano dei danni causati a popolazione e ambiente. L’unico obiettivo è massimizzare i profitti, soddisfacendo la galoppante domanda occidentale.

Violazioni ambientali e sociali

Corruzione, frodi e cavilli legislativi sono spesso utilizzati dalle multinazionali per aggiudicarsi vaste concessioni nei Paesi del Sud globale.

Capita che le imprese ottengano permessi di esplorazione e sfruttamento in aree protette o ad alto rischio ambientale.

È successo nelle Filippine, nell’isola di Sibuyan, soprannominata «Galapagos d’Asia», che dal 1996 è un parco naturale la cui biodiversità e bellezza sono riconosciute e apprezzate in tutto il mondo.

Lì, l’impresa Altai Philippines mining corporation, succursale locale della canadese Altai resources inc, si è aggiudicata una concessione di nichel proprio all’interno dell’area protetta con danni ambientali irreversibili per una biodiversità unica.

Le attività estrattive e di lavorazione, infatti, causano una considerevole distruzione ambientale.

Lo sversamento di rifiuti tossici nei fiumi, la dispersione di metalli pesanti nell’aria, nel suolo e nell’acqua, sono azioni che minano la biodiversità, causano malattie tra la popolazione e ne mettono a repentaglio le fonti di sussistenza.

Nel gennaio 2022, un report dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha definito la città peruviana di Cerro Pasco una delle quattro «zone di sacrificio» dell’America Latina. Il documento denunciava «un’enorme cava a cielo aperto adiacente a una comunità impoverita ed esposta a elevati livelli di metalli pesanti». Già nel 2009, l’Ong Source international aveva rilevato quantità di arsenico, mercurio e cadmio ben al di sopra dei limiti stabiliti dal governo peruviano e dagli standard internazionali. Metalli che erano presenti non solo nell’acqua e nel suolo, ma anche nel cibo e negli spazi pubblici frequentati dai bambini.

Nonostante le evidenze, però, nessuna misura concreta e realmente efficace è stata ancora presa.

Le popolazioni indigene generalmente sono le più colpite dall’avvio delle attività estrattive. In molti casi sono costrette ad allontanarsi dalle proprie terre e spesso non vengono preventivamente informate e consultate sull’apertura delle miniere. In Indonesia, ad esempio, l’impresa francocinese Weda bay nickel non ha informato il popolo seminomade degli O Hongana Manyawa dei potenziali impatti negativi dell’estrazione del minerale, né l’ha consultato prima dell’apertura della miniera nel suo territorio.

E questi sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di devastazione ambientale e sociale causata dalle attività estrattive messe in opera in modo incontrollato da multinazionali di diversa bandiera nei paesi a basso reddito.

Operaciones y trabajadores de Minera Zaldívar, ubicada en la pre-cordillera de los Andes, en la segunda región de Chile, a unos 1.400 kilómetros al norte de Santiago y 175 kilómetros al sudeste de la ciudad de Antofagasta. La mina está ubicada a una altura promedio de 3.000 metros sobre el nivel del mar. Zaldívar es una mina de cobre a rajo abierto, con pila de lixiviación.
Foto de Roberto Candia para AMSA 2023

Nessun guadagno

Se non prendiamo in considerazione le élite politiche ed economiche, i Paesi e le popolazioni locali ottengono ben poco da questo processo di sfruttamento. Quasi tutte le ricchezze sono drenate: i contratti garantiscono alle aziende condizioni estremamente favorevoli, tali da massimizzare i profitti e ridurre all’essenziale quanto lasciato nel paese di estrazione.

Ne sono il segno le poche royalty (quote di prodotto lordo) e le basse aliquote sugli utili netti che le imprese versano agli Stati concedenti.

Nel 2021, ad esempio, l’impresa Minera Panamá, sussidiaria panamense della canadese First quantum minerals, ha pagato solo 61 milioni di dollari di royalty sulla produzione di oltre 86mila tonnellate di rame. Solo con una recente revisione degli accordi (in vigore dal 2023), il governo panamense è riuscito a innalzare le aliquote dal 2% al 12% dei profitti della miniera (quindi ora corrispondenti a circa 375 milioni di dollari).

Altre aziende invece optano per l’evasione fiscale. Dichiarano guadagni molto più bassi del reale (o addirittura perdite) per versare meno imposte di quanto dovrebbero. «War on want», un’Ong inglese per la tutela dei diritti umani, ha denunciato che tra il 2010 e il 2011 solo due delle cinque compagnie minerarie attive in Zambia avevano dichiarato guadagni positivi. Ne è risultata una perdita di entrate fiscali per tre miliardi di dollari l’anno, il 12,5% del Pil annuo del Paese.

Infine, quel poco che resta nel Sud globale, spesso finisce nelle tasche di politici corrotti, invece di essere investito in politiche di welfare e crescita economica. Non è un caso che le due aree più ricche di minerali in tutto il mondo siano anche la più diseguale – il Centro e Sud America – e la più povera – l’Africa subsahariana.

Shellfish fishermen cross the Laa River which floods almost every year due to extractive industrial waste in North Morowali, Central Sulawesi.

In opposizione alle miniere

Sebbene nei Paesi del Sud sia ben più difficile, rispetto all’Occidente, impedire l’apertura di siti minerari – soprattutto in contesti nei quali la corruzione è dilagante -, non mancano esempi di mobilitazione della società civile locale. Proteste che in alcuni casi hanno avuto successo, arrivando a impedire lo sfruttamento dei giacimenti o a costringere le multinazionali a risarcire le popolazioni colpite dagli impatti ambientali e sociali.

In Madagascar, il sito di Ampasindava è considerato uno dei maggiori giacimenti di terre rare fuori dalla Cina. Ma finora la mobilitazione degli abitanti dell’area e delle associazioni per la tutela dell’ambiente – preoccupati da deforestazione, dispersione di metalli pesanti e rilascio di rifiuti tossici – è stata tale da impedire l’inizio delle operazioni estrattive.

In Sudafrica, invece, dopo un lungo processo giudiziario e complessi negoziati, la Corte suprema di Johannesburg ha stabilito che i minatori locali colpiti da silicosi e tubercolosi avevano diritto a ricevere indennizzi. Un obbligo gravante su diverse aziende – African rainbow minerals, Anglo American sa, AngloGold ashanti, Gold fields, Harmony e Sibanye stillwater – tenute a compensare migliaia di lavoratori e famiglie di minatori che, tra il 1965 e il 2018, hanno manifestato queste malattie.

Aurora Guainazzi

A number of land clearing and nickel mining activities in Towara Petasia Timur Village, North Morowali Regency, Central Sulawesi.

Aziende cinesi nel Sud globale

A fianco degli investimenti occidentali, nel Sud globale sono particolarmente diffusi anche quelli cinesi. La Cina, infatti, al di là delle terre rare, non dispone di significativi giacimenti di altri minerali critici. Tuttavia, grazie allo sviluppo di accordi tra le proprie aziende e i governi di diversi Paesi, Pechino riesce a mettere le mani su ingenti risorse che poi le sue imprese trasformano.

Ugualmente dannosi a livello ambientale e sociale, i progetti estrattivi cinesi si differenziano da quelli occidentali per la retorica.

Nei confronti del Sud globale, la Cina, infatti, ha sempre enfatizzato la ricerca di una collaborazione alla pari senza l’imposizione di condizioni di natura politica ed economica.

Dopotutto, Pechino stessa si definisce parte del Sud globale e aspira alla leadership del blocco.

Le compagnie cinesi – in cambio di concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti – promettono investimenti per lo sviluppo economico e sociale degli Stati concedenti, oltre che fruttuosi legami commerciali. In realtà, i Paesi del Sud globale ricevono ben poco in proporzione ai benefici che la Cina ottiene dalle risorse di cui si appropria. Ad esempio, nella provincia congolese del Katanga, le aziende cinesi si sono aggiudicate lo sfruttamento di giacimenti di rame e cobalto. Di tutti gli investimenti infrastrutturali promessi in cambio, però, ben poco è stato realmente realizzato (cfr. MC marzo 2024).

Ma, in Paesi stremati dalla spirale del debito e dove la democrazia fatica a farsi strada, la retorica cinese su una collaborazione alla pari senza l’imposizione di condizionalità politiche ed economiche fa presa.

A.G.

Catene produttive locali nel Sud

Nell’attuale sistema economico internazionale, il Sud globale è spesso visto come semplice fornitore di materie prime, le quali vengono poi lavorate in altri contesti, soprattutto in Cina. In questo modo, però, i guadagni e le opportunità lavorative legati alla raffinazione dei minerali in loco sono ben pochi.

Proprio con l’obiettivo di accrescere le entrate statali e creare nuovi posti di lavoro, molti Paesi si stanno muovendo verso la creazione di filiere produttive locali, in grado di lavorare le risorse direttamente sul territorio di estrazione.

Dall’Africa, al Centro e Sud America, passando per il Sud Est asiatico, questa è una tendenza diffusa, sebbene con intensità e stati di avanzamento differenti a seconda delle eredità storiche e delle criticità locali (come conflitti e limiti infrastrutturali).

Nella «Copperbelt», la cintura del rame che corre tra Repubblica democratica del Congo e Zambia, si trovano considerevoli giacimenti di cobalto. Perciò, l’African finance corporation, un’istituzione finanziaria multilaterale, ha siglato un memorandum d’intesa con l’azienda zambiana Kobaloni energy.

Investimenti per 100 milioni di dollari permetteranno di costruire in Zambia la prima raffineria africana di cobalto entro il 2025.

Si tratterà di una delle pochissime strutture di questo genere al di fuori della Cina – che attualmente controlla il 75% della lavorazione del minerale -. Essa permetterà di produrre componenti essenziali per le batterie al litio.

Il fatto che a investire non sia un’azienda straniera ma un’impresa africana non deve stupire: nel continente è sempre più forte la volontà di difendere le proprie risorse dallo sfruttamento delle multinazionali per trarne maggiori guadagni.

Non a caso, gli Stati africani stanno collaborando in seno all’Unione africana per delineare una strategia unitaria per uno sfruttamento vantaggioso dei propri minerali critici.

In Sud America invece, Cile e Perù, oltre a essere i due maggiori produttori mondiali di rame, sono anche leader continentali nella sua raffinazione. Dati alla mano, però, si tratta di capacità limitate: solo l’11% del totale del rame estratto nei due Paesi viene realmente lavorato sul posto. La maggior parte è esportata e processata in altri Paesi, tra i quali spicca, ancora una volta, la Cina.

A fine 2022, un rapporto della Commissione cilena sul rame, infatti, denunciava che «il Paese dispone di fonditrici vecchie, poco competitive e costose».

Migliorare le strutture per la lavorazione permetterebbe di ottimizzare i processi e ridurre gli sprechi, accrescendo le entrate nelle casse statali, e creerebbe nuove opportunità lavorative.

Il Burkina Faso invece sta guardando ancora più in là. La giunta militare al potere a Ouagadougou ha infatti annunciato la costruzione, alla periferia della capitale, del primo impianto nel Paese per il recupero e il riciclo di residui. In questo modo, i metalli, contenuti negli scarti derivanti dall’estrazione dell’oro, saranno lavorati internamente e non mandati all’estero.

Anche il riciclo sta diventando una componente importante della filiera dei minerali critici: dato che l’attuale trend di crescita dell’estrazione non sarà in grado di soddisfare l’incremento – ancora maggiore – della domanda, riciclare gli scarti o le componenti minerarie di dispositivi non più funzionanti è diventata una strada attraente.

A.G.

Lavoratore della miniera che frantuma il tungsteno, Ruanda

Sopravvivere da minatori

L’estrazione artigianale dei minerali critici.

In molti Paesi del Sud globale l’estrazione artigianale delle materie prime utili alla transizione ecologica è molto diffusa, con pesanti conseguenze ambientali e sociali. Nonostante i rischi elevati e i frequenti incidenti mortali, sono milioni le persone che scavano ed estraggono. Tra loro, anche molti bambini.

Al pari dei progetti delle multinazionali, anche l’estrazione artigianale è in continua espansione. Il prezzo abbastanza elevato dei minerali, e la loro richiesta consistente, fanno sì che molti abitanti dei paesi poveri decidano di lavorare nel settore minerario. Per quanto pericoloso e poco remunerativo sia, spesso però l’estrazione artigianale è il modo più semplice per assicurarsi la sopravvivenza quotidiana.

Nel 2020, in tutto il mondo, secondo la Banca mondiale, c’erano circa 45 milioni di minatori artigianali (oltre ad altri 120 milioni di persone che dipendevano indirettamente dal settore).

Impatti sociali e ambientali

I siti di estrazione informale, dove i minatori lavorano senza permessi governativi, sono sempre più diffusi. Così come aumentano le miniere illegali, spesso aperte sulle concessioni di grandi aziende che, per svariati motivi come insicurezza o mancanza di infrastrutture, sono incapaci di sfruttare il giacimento.

I minatori artigianali non si servono di particolari tecnologie o macchinari, non dispongono di protezioni e non godono di tutele.

Racconta Viateur, cooperante congolese e analista della regione dei Grandi Laghi, area dove l’estrazione artigianale è particolarmente diffusa: «Nella miniera di Rubaya nel Nord Kivu, almeno cento minatori sono morti asfissiati dopo che una frana li aveva bloccati a una profondità di cento metri.

Le frane sono frequenti a causa dei dispositivi di sicurezza di cattiva qualità: la maggior parte delle gallerie sono sorrette da pali di legno che non sono in grado di sostenere il peso del terreno e dell’acqua nei periodi piovosi». E ancora: «La contaminazione delle acque sotterranee causa malattie legate ai metalli pesanti come disturbi del sangue e tumori». Ma anche «le malattie croniche – come polmonite, dolori articolari e mal di testa – sono diffuse: i minatori sono esposti all’assorbimento di particelle e gas. Anche i bambini sono colpiti perché partecipano allo smistamento dei minerali in superficie».

Nelle aree di estrazione artigianale, infatti, il lavoro minorile è molto diffuso: nelle sole miniere congolesi di coltan nel 2021 lavoravano almeno 40mila bambini e adolescenti. Oltre che nello smistamento dei minerali, i bambini sono impiegati anche nell’estrazione nelle gallerie più profonde e strette, dove gli adulti non riescono ad andare.

Man mano che l’attività estrattiva in un territorio si consolida, «la produzione agricola diventa sempre più difficile a causa dei residui minerari riportati in superficie che inibiscono la crescita delle piante. Questo provoca fame e malnutrizione».

Parole che valgono per la Repubblica democratica del Congo così come per tanti altri contesti dove l’estrazione artigianale – così come quella industriale delle grandi multinazionali – porta con sé una serie di conseguenze sociali e ambientali notevoli: dalla devastazione dell’ambiente, alla diffusione di malattie tra la popolazione, ai frequentissimi incidenti sul lavoro.

CONGO RD. Il cobalto si trova spesso insieme al rame e alla malachite (pietre di colore blu-verde). Pertanto, queste catene di approvvigionamento e i relativi rischi sono spesso strettamente collegati tra loro.

Per la sopravvivenza quotidiana

L’estrazione artigianale è trainata dal mercato internazionale e dalla crescente domanda di minerali critici per la produzione dei dispositivi al centro della transizione ecologica.

L’obiettivo prioritario per le popolazioni che vivono in condizioni di povertà e diseguaglianza è quello di assicurarsi la sopravvivenza quotidiana.

In mancanza di fonti di reddito alternative, soprattutto in zone remote e lontane dai centri urbani, è facile che molti decidano di dedicarsi all’estrazione mineraria. «In queste aree – ricorda Viateur – le opportunità di studio e ascesa individuale e collettiva sono limitate per l’assenza di scuole di qualità e centri di formazione al lavoro». E l’attività mineraria, particolarmente redditizia in questa fase storica, diventa una scelta facile: «A differenza dei prodotti agricoli e forestali, le risorse minerarie – come oro, diamanti e coltan – hanno un prezzo di mercato molto elevato e il trasporto su grandi distanze è facile».

Aurora Guainazzi

Congo katanga

Sudafrica. Un piano difficile da realizzare

Nel corso della Cop26 a Glasgow, il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, ha presentato il Just energy transition investment plan (Jet-Ip), il piano quinquennale per la transizione ecologica del Sudafrica. Stando ai dati dell’Agenzia internazionale per l’energia, infatti, nel 2020 solo il 7% dell’energia sudafricana proveniva da fonti rinnovabili, mentre l’85% proveniva da quattordici vecchie centrali a carbone, soggette a frequenti problemi di manutenzione e blackout. Il Paese era responsabile di un terzo delle emissioni totali dell’Africa subsahariana.

Il Jet-Ip, dunque, prevede interventi per decarbonizzare economia e società attraverso lo sviluppo di una mobilità sostenibile e l’incremento delle energie verdi. Smantellare le centrali a carbone è un punto centrale: Eskom, l’azienda energetica statale, prevede che metà degli impianti cesserà di funzionare entro il 2034. Al contempo, verrà espansa e rafforzata la produzione di energie rinnovabili e idrogeno verde (nella cui esportazione il Sudafrica vuole diventare leader mondiale grazie a investimenti nelle infrastrutture portuali).

Realizzare questo piano e – più in generale – la transizione ecologica in Sudafrica, però, non vuol dire solo introdurre e utilizzare nuove tecnologie, ma anche un cambiamento profondo del sistema economico e sociale.

Il Paese è il settimo produttore mondiale di carbone e il quarto esportatore. Oltre 120mila persone lavorano nella sua estrazione o nella gestione delle centrali. Lo smantellamento degli impianti, quindi, avrà effetti sociali poco considerati da un piano che prevede semplicemente la riallocazione dei lavoratori in altri settori. Un problema non da poco in un Paese dove la disoccupazione – pari al 32%, la più elevata dell’Africa subsahariana – è da decenni un problema strutturale.

Infine, c’è il nodo dei costi, una questione emersa fin da subito a Glasgow. Il Jet-Ip prevede investimenti per 84 miliardi di dollari su cinque anni.

Durante la Cop26, il Sudafrica si è accordato con Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione europea per 8,5 miliardi di dollari di finanziamenti. Ma perché diventassero realtà ci è voluto un anno di negoziati.

Al momento, manca ancora il 44% dei fondi. Il governo auspica di ottenerli grazie a finanziamenti di Stati stranieri, banche di sviluppo multilaterali, settore privato e filantropi. Però, la maggior parte delle risorse sono fornite sotto forma di prestiti, su cui gravano considerevoli tassi di interesse, piuttosto che in termini di sovvenzioni.

Un peso notevole per le finanze di un Paese già in profonda difficoltà economica.

A.G.

Congo RD. Il suolo del Katanga è ricco di rame e cobalto, quest’ultimo utilizzato nelle batterie dei telefoni cellulari. L’equipaggio di Fairphone ha visitato diverse parti dell’industria mineraria, dai funzionari di alto livello ai minatori artigianali. Il suolo del Katanga è ricco di rame e cobalto, quest’ultimo utilizzato nelle batterie dei telefoni cellulari. L’equipaggio di Fairphone ha visitato diverse parti dell’industria mineraria, da funzionari di alto livello a minatori artigianali. Queste foto mostrano alcuni momenti salienti di una spedizione molto riuscita, anche se accidentata, verso il cuore della cintura di rame del Congo.

Chi non può resta indietro

La transizione ecologica dal punto di vista del Sud

I maggiori responsabili del cambiamento climatico sono i Paesi del Nord, mentre quelli del Sud ne subiscono gli effetti peggiori. Il principio secondo cui «paga chi inquina», però, non è applicato, e a decidere tempi, costi e fattibilità della transizione nel Sud rimane l’Occidente.

Nonostante il cambiamento climatico coinvolga tutto il mondo e – anzi – i suoi effetti peggiori si manifestino nel Sud globale, è l’Occidente a guidare la transizione ecologica. Sono i suoi decisori politici a determinare tempi, costi e fattibilità di questo processo per tutta la Terra. Chi riesce, si adegua. Chi non ce la fa è lasciato indietro e ne paga le conseguenze.

Eredità storiche

Storicamente, la responsabilità maggiore del cambiamento climatico – in termini di emissioni di gas serra – grava sulle spalle del mondo occidentale. Il carbone prima e il petrolio poi, infatti, sono stati i cardini dell’industrializzazione e della crescita economica del Nord globale.

Piano piano poi, si sono aggiunti alcuni Paesi del Sud globale. Ma non prima degli anni Novanta. Per circa 150 anni, quindi, è stato solo l’Occidente a produrre i gas climalteranti. Oggi, questa responsabilità è condivisa con alcuni Paesi come Cina e India, ma molti altri – di fatto la maggioranza – inquinano ancora ben poco. Mentre subiscono gli effetti peggiori del cambiamento climatico.

Proprio in virtù di questa differenza storica nelle responsabilità, a Rio de Janeiro nel 1992 è stato formulato il principio delle «responsabilità comuni ma differenziate». In poche parole: chi inquina di più, paga di più. Il principio si radicava nella consapevolezza che lottare contro il cambiamento climatico era un obiettivo comune a tutta la comunità internazionale, ma riconosceva anche che era necessario differenziare il peso sui diversi Paesi a seconda del loro contributo storico all’inquinamento planetario.

Infatti, durante la Cop3 di Kyoto del 1997, sono stati stabiliti obblighi differenti nella riduzione delle emissioni a seconda che i Paesi fossero classificati come «sviluppati» o «in via di sviluppo».

A Parigi nel 2015, però, questa distinzione è venuta meno e sono state introdotte regole comuni per tutti. I contributi, determinati a livello nazionale (piani quinquennali nei quali i paesi firmatari degli accordi delineano le proprie strategie di lungo periodo in termini di transizione ecologica e decarbonizzazione), sono diventati il cardine delle politiche di lotta al cambiamento climatico.

Anche i Paesi del Sud globale si sono impegnati a presentare e aggiornare questi documenti. Ma, data l’assenza di fondi e mezzi, non deve stupire se tra ciò che questi Paesi scrivono nei piani e ciò che sono realmente in grado di realizzare c’è un abisso. Ancor di più, se si considera che a Parigi era stato stabilito che il Nord del mondo dovesse fornire risorse tecnologiche e finanziarie per sostenere la transizione del Sud. Un onere che finora, però, è stato ampiamente disatteso.

Questione di soldi e approccio

Nel tentativo di dare seguito a questo obbligo, negli anni, l’Occidente ha provato a introdurre strumenti per sostenere i piani del Sud globale, ma i fondi destinati finora, oltre a essere molto in ritardo rispetto a quanto deciso, sono insufficienti.

Alla Cop21 di Parigi, i Paesi più ricchi avevano promesso di destinare, a partire dal 2020, 100 miliardi di dollari l’anno in aiuti climatici al Sud.

Solo nel 2022 poi, alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, è stato individuato uno strumento per canalizzare questo genere di risorse: il Fondo perdite e danni.

Un anno dopo, il meccanismo non era ancora operativo. Si è dovuta attendere la Cop28 di Dubai per raggiungere l’accordo su un finanziamento iniziale di 700 milioni di dollari entro gennaio 2024: lo 0,2% di tutte le risorse necessarie.

Il fondo è una sorta di palliativo che tenta di ammortizzare i danni, di mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Ciò che, ancora oggi, manca sono risorse adeguate per la transizione ecologica del Sud globale. Esso, infatti, con l’esclusione della Cina, secondo il report Finance for climate action, necessiterebbe di due trilioni di dollari l’anno entro il 2030 per rispettare gli obiettivi di Parigi.

Oltre alle risorse contenute in questi fondi, molti paesi del Sud devono ricorrere ai prestiti stanziati dalle istituzioni finanziarie internazionali (tutte a guida occidentale) o da Paesi stranieri. Finanziamenti spesso molto onerosi: raramente i tassi di interesse sono inferiori al 3%, e in molti casi raggiungono picchi del 9%. Con il risultato di creare una spirale del debito senza fine.

Dunque, a determinare tempi, costi e fattibilità della transizione ecologica nel Sud globale è sempre l’Occidente. Di fatto, un’altra delle sue tante manifestazioni neocoloniali.

L’attivismo

Anche sul piano dell’attivismo, la transizione ecologica è spesso e volentieri presentata come un processo a guida occidentale.

Eppure, nel Sud globale fioriscono movimenti per la difesa dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico.

In occasione del Forum economico di Davos del 2020, l’agenzia di stampa statunitense «Associated press» ha tagliato l’attivista ugandese Vanessa Nakate da una foto che la raffigurava con le colleghe europee Greta Thunberg, Luisa Neubauer, Isabelle Axelsson e Lukina Tille. Un anno dopo, alla Cop26 di Glasgow, la cosa si è ripetuta. Ancora una volta, Vanessa Nakate è stata eliminata da un’immagine che così mostrava solo volti bianchi.

La Cop26 è stata considerata la più escludente di sempre. Complici la pandemia da Covid-19 e l’iniqua distribuzione di vaccini nel mondo, infatti, diversi attivisti e rappresentanti della società civile del Sud globale non hanno potuto raggiungere la Scozia per partecipare ai lavori della conferenza e far sentire la propria voce.

Tra le comunità indigene colpite dagli effetti del cambiamento climatico e dell’estrazione mineraria, sono sempre più diffusi movimenti di protesta nei confronti dell’Occidente e delle sue multinazionali. Ma l’attenzione mediatica che ricevono spesso è molto limitata. Così come poca visibilità viene data alle richieste dei leader dei piccoli Paesi insulari del Pacifico, una delle aree del mondo più a rischio a causa dell’innalzamento del livello dei mari.

Dunque, rendere la transizione ecologica realmente accessibile a tutti, oltre che ascoltare le voci provenienti dal Sud globale, è fondamentale per costruire un futuro sostenibile.

Aurora Guainazzi

Agbogbloshie è un suburbio della città africana di Accra, capitale del Ghana. Raccolta e riciclo di rifiuti tecnologici.

Hanno firmato il dossier:

Aurora Guainazzi. Si occupa di Africa subsahariana sia nell’ambito della cooperazione internazionale che dell’informazione. La sua attenzione si rivolge in particolare alle dinamiche economiche, sociali e politiche della regione africana dei Grandi Laghi.

A cura di Luca Lorusso, redattore MC.

Operaciones y trabajadores de Minera Zaldívar, ubicada en la pre-cordillera de los Andes, en la segunda región de Chile, a unos 1.400 kilómetros al norte de Santiago y 175 kilómetros al sudeste de la ciudad de Antofagasta. La mina está ubicada a una altura promedio de 3.000 metros sobre el nivel del mar. Zaldívar es una mina de cobre a rajo abierto, con pila de lixiviación.
Foto de Roberto Candia para AMSA 2023




Terre rare. Corsa globale


Sulla Terra si moltiplicano le «zone di sacrificio» dove, in nome di un supposto bene comune (tecnologico), si calpestano persone e ambiente. Le terre rare, minerali cruciali per ogni prodotto, dagli smartphone ai missili, sono contese dai grandi del mondo.

Forse state leggendo questo articolo nella versione cartacea della rivista, oppure dallo smartphone, o da un computer. In ambedue i casi, lo leggete grazie alle tecnologie che fanno funzionare i nostri apparecchi elettronici e le loro batterie, oltre ai sistemi di stoccaggio di dati e ai vari cloud. Queste tecnologie utilizzano una grande varietà di materiali. Tra essi, fondamentali sono le cosiddette terre rare. Non le vediamo a occhio nudo, ma sono cruciali. Impiegate nelle auto elettriche, in apparecchi medici di precisione, laser, schermi, lampadine led. Persino nella raffinazione del petrolio.

La tecnologia fa passi da gigante, e ne abbiamo bisogno. Tuttavia, alcune domande dovremmo porcele. Soprattutto alla luce dei cambiamenti tecnologici promossi, ad esempio, dall’Unione europea. E, di questi tempi, anche alla luce degli enormi investimenti in armamenti e tecnologie nucleari.

Da dove provengono le terre rare? Quanto rare sono? Come si ottengono e come si processano? Chi lo fa, e dove?

Per provare a rispondere a queste domande, il gruppo di ricerca dell’EJAtlas (l’Atlante della giustizia ambientale), insieme alla catalana Observatori del deute en la globalització (Odg), allo statunitense Institute for policy studies e al Craad-oi del Madagascar, membri del Global rare earths element network, hanno condotto una ricerca e documentato i conflitti socio ambientali in relazione alla filiera delle terre rare. Dalla ricerca sono nati un rapporto e una mappa che documentano più di venticinque casi in Cina, Cile, Brasile, Finlandia, Groenlandia, India, Kenya, Madagascar, Malaysia, Malawi, Myanmar, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna e Svezia.

Ma cerchiamo di rispondere alle domande passo a passo.

Terre rare ovunque

Oggi, quasi tutta la tecnologia utilizza le terre rare. La loro pervasività è esemplificata dall’automobile, uno dei prodotti che ne consumano maggiori quantità. La sua parte elettronica, per esempio, così come gli altoparlanti del sistema audio che utilizzano magneti permanenti al neodimio-ferro-boro. I sensori elettronici che utilizzano zirconio stabilizzato con ittrio per misurare e controllare il contenuto di ossigeno nel carburante. I fosfori dei display ottici che contengono ossidi di ittrio, europio e terbio. Il parabrezza e gli specchietti sono lucidati con ossidi di cerio. Anche i carburanti sono raffinati utilizzando lantanio, cerio o ossidi misti di terre rare. Le automobili ibride sono alimentate da una batteria ricaricabile all’idruro metallico di nichel-lantanio e da un motore di trazione elettrico, con magneti permanenti.

Anche dispositivi come telefoni, televisori e computer impiegano terre rare per i magneti degli altoparlanti, i dischi rigidi, i display. Le quantità di terre rare utilizzate, pur ridotte (tra lo 0,1 e il 5 per cento del peso), sono essenziali per farli funzionare.

Cosa sono e dove si trovano?

Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici. Il loro nome è piuttosto fuorviante perché non si tratta di «terre» e non sono neppure così rare.

I Ree – Rare earth elements – sono lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio, ittrio e scandio.

Siamo a conoscenza della loro esistenza dal 1787, quando il tenente dell’esercito svedese Carl Axel Arrhenius scoprì un minerale nero in una piccola cava di Ytterby (vicino a Stoccolma). Il minerale era una miscela di terre rare dalla quale il primo elemento isolato fu il cerio nel 1803. Allora sembravano degli ossidi rari. Da qui il loro nome. In seguito, invece, sono stati trovati in molti paesi.

Secondo l’Us geological survey (Usgs), nel 2022 la Cina ha fornito il 70% della produzione globale di Ree (210mila tonnellate metriche), seguita da Stati Uniti (14,3%), Australia (6%), Myanmar (4%), Thailandia (2,4%), Vietnam (1,4%), India (0,96%), Russia (0,86%), Madagascar (0,32%) e Brasile.

Le riserve sono invece documentate in oltre trentaquattro Paesi. Dopo la Cina (44 milioni di tonnellate), c’è il Vietnam (22 milioni), seguito da Russia e Brasile (21 milioni ciascuno).

La loro lavorazione avviene per l’87% in Cina, il 12% in Malaysia (dall’australiana Lynas rare earths) e l’1% in Estonia (dati della Agenzia internazionale dell’energia, Aie, del 2022).

Come abbiamo visto, le terre rare hanno proprietà magnetiche, ottiche ed elettroniche che le rendono cruciali per molti usi civili, tuttavia, esse sono strategiche anche per l’industria della difesa e aerospaziale: per produrre aerei, missili, satelliti e sistemi di comunicazione.

Infatti, la proposta della Commissione europea per la legge sulle materie prime critiche dell’Ue, pubblicata nella primavera del 2023, menziona la necessità strategica di questi minerali per la transizione verde e digitale, nonché per la difesa e l’industria aerospaziale.

L’Aie suggerisce che, per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero, l’estrazione di terre rare dovrebbe aumentare di dieci volte entro il 2030. In realtà, è già cresciuta di oltre l’85% tra il 2017 e il 2020, soprattutto per la domanda di magneti permanenti per la tecnologia eolica e i veicoli elettrici.

Tuttavia, serve sottolineare l’assurdità della speranza di arrivare a zero emissioni. Infatti, anche se le emissioni per combustione di gas o petrolio non avverranno nelle centrali elettriche o nei motori delle auto, ci saranno nelle miniere e nelle fabbriche di lavorazione di pannelli fotovoltaici o di turbine eoliche.

Se non in Europa o altri paesi opulenti, le emissioni avverranno laddove le imprese delocalizzano e producono con minori costi e controlli.

Come si estraggono?

Come già detto, le terre rare sono abbondanti. La loro disponibilità, però, è limitata, soprattutto perché i livelli di concentrazione sono bassi (meno del 5% in media).

Una fonte, per essere economicamente redditizia, dovrebbe contenere più del 5% di terre rare, a meno che non siano estratte assieme ad altri metalli, ad esempio zirconio, uranio o ferro. In questo caso avviene il recupero economico anche di corpi minerari con concentrazioni addirittura dello 0,5%.

La concentrazione bassa e spesso combinata rende l’estrazione delle terre rare molto costosa. Richiede grandi quantità di energia e acqua, e anche la generazione di molti rifiuti.

Inoltre, le terre rare sono spesso mescolate con diversi elementi pericolosi, come uranio, torio, arsenico e altri metalli pesanti che comportano elevati rischi per la salute e l’ambiente.

L’estrazione avviene a cielo aperto o in miniere sotterranee, tramite un processo chimico e fisico spesso attuato in situ.

Le terre rare non si possono riciclare da prodotti vecchi. Nonostante le grandi aspettative sul riciclo, esso rimane una fonte marginale (meno dell’1%): la difficoltà di separare i singoli elementi gli uni dagli altri è elevata. Inoltre, quella del riciclo è ben lontana dall’essere un’industria pulita, poiché richiede grandi quantità di energia e genera rifiuti pericolosi.

Le miniere di terre rare

I casi di conflitti socio ambientali per l’estrazione, lavorazione e riciclaggio delle terre rare documentati nel report citato, indicano tendenze preoccupanti per quanto riguarda gli impatti ambientali, sociali e sui diritti umani. Le preoccupazioni denunciate dalle comunità locali prossime a questi stabilimenti riguardano l’inquinamento dell’acqua, del suolo, dell’aria e il suo impatto sulla salute.

Le proteste sono generate anche dalla mancanza di trasparenza e di partecipazione alle procedure decisionali e ai controlli, compreso il mancato rispetto dei diritti delle popolazioni indigene.

Molti dei casi documentati dal report riguardano abusi dei diritti umani tramite diverse forme di violenza (repressione, persecuzione legale, criminalizzazione, violenza fisica) esercitate contro le comunità locali, i difensori dell’ambiente e dei diritti umani e le organizzazioni della società civile.

Cina, Usa e Malaysia

Il più grande sito di estrazione e lavorazione al mondo si trova in Cina, a Bayan Obo, nella provincia della Mongolia interna.

Decenni di attività hanno prodotto un massiccio inquinamento di terreni e acque con metalli pesanti, fluoro e arsenico che hanno avvelenato gli abitanti e gli ecosistemi locali.

L’inquinamento si è poi diffuso lungo il bacino idrografico del Fiume Giallo, da cui dipendono quasi 200 milioni di persone per l’acqua potabile, l’irrigazione, la pesca e l’industria.

In Cina sono anche attivi centri di riciclaggio dei rifiuti elettronici, come quello di Guiyu (Guangdong), nel cui territorio si sono registrati livelli preoccupanti d’inquinamento da metalli pesanti nel suolo, nell’acqua e persino nel sangue umano.

Negli Stati Uniti, la miniera Mountain Pass, chiusa negli anni 2000 per l’inquinamento (e per la concorrenza cinese), è stata recentemente riattivata per l’approvvigionamento di terre rare negli Stati Uniti.

In Malaysia, dal 2011, le comunità del distretto di Kuantan combattono contro lo stabilimento di Lynas Rare Earths Ltd e l’inquinamento associato, nonché i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi.

Myanmar e Madagascar

In Myanmar, principale esportatore verso la Cina, la miniera è controllata dal regime militare che ne beneficia. Le violazioni dei diritti umani, i danni agli ecosistemi locali e alle condizioni di vita degli abitanti della regione sono grandi. Precedentemente rinomata per le sue foreste incontaminate, la ricca biodiversità e i corsi d’acqua puliti, la regione di Kachin si sta ora trasformando in un paesaggio segnato dalla deforestazione e dalla presenza di pozze turchesi tossiche. Le attività estrattive stanno contaminando i corsi d’acqua, causando la fuga degli animali selvatici, incidendo sui mezzi di sussistenza delle comunità locali e causando molteplici problemi di salute.

Quando i leader dei villaggi hanno cercato di denunciare l’impatto dell’estrazione di terre rare sulla loro terra e sui loro mezzi di sostentamento, hanno ricevuto minacce e intimidazioni da parte delle milizie, o hanno subito arresti e omicidi.

In Madagascar, dal 2016, le comunità locali si oppongono al progetto minerario Tantalus rare earths malagasy in quanto violerebbe molti dei loro diritti, compresi quello alla terra e ai mezzi di sostentamento, dato che la maggior parte di loro vive di pesca e agricoltura. Fin dall’inizio del progetto, acquisito da Reenova e poi da Harena resources Pty Ltd nel 2023, le comunità locali hanno denunciato la natura irregolare dei permessi di estrazione, la trascuratezza dei lavori di riabilitazione dei pozzi, la mancanza di partecipazione dei locali e del loro consenso libero, preventivo e informato, nonché la mancata considerazione degli impatti sociali, sui diritti umani e sull’ambiente.

Il caso Lynas in Malaysia

In Australia occidentale, Lynas Rare Earths Ltd estrae minerali di terre rare dalla miniera semiarida di Mt Weld e li trasporta per processarli nello stato di Pahang in Malaysia. Qui, dal 2011, le comunità di Kuatan hanno lottato contro l’inquinamento e i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi della multinazionale. Le loro azioni hanno ottenuto il riconoscimento e il sostegno di alcune organizzazioni internazionali.

La Lynas ha promesso di rimuovere i rifiuti per ottenere la licenza dal governo, ma ha poi rinnegato l’impegno legale.

Mentre in Australia occidentale lo stesso tipo di rifiuti deve essere smaltito sottoterra, isolato dalla biosfera per mille anni, in Malaysia questo materiale radioattivo (ad oggi 1,5 milioni di tonnellate) è stato ammassato in una discarica priva di misure di sicurezza, vicino a complessi residenziali e località costiere.

La campagna «Stop Lynas», promossa dalla comunità, denuncia il green washing dell’azienda e la mancanza di applicazione della legge da parte dei governi, i rischi delle scorie radioattive, la riduzione di disponibilità di acqua e dei mezzi di sussistenza, e il rischio di cancro.

Svezia e India

Il continente europeo non è esente da simili preoccupazioni. È il caso di Norra Kärr, in Svezia. Nel progetto minerario vicino al lago Vättern, l’acido solforico viene utilizzato per separare le terre rare dagli altri minerali. I materiali di scarto vengono poi stoccati in bacini di decantazione. I gruppi ambientalisti temono che gli acidi e i minerali (tra cui uranio e torio) possano contaminare l’ambiente e in particolare il lago Vättern, inquinando l’acqua potabile di centinaia di migliaia di persone.

L’estrazione di terre rare è anche legata alla distruzione delle aree costiere e degli ecosistemi, ad esempio in India, dovuta all’estrazione intensiva di sabbia da cui vengono poi separate le terre rare, e ai potenziali impatti sugli oceani. In Nuova Zelanda e in Norvegia esistono progetti di estrazione in acque profonde, attualmente sospesi a causa degli incerti e gravi rischi ambientali e biologici che questa nuova frontiera mineraria comporta.

Le maggiori aziende

Le imprese estrattive hanno sede principalmente in Cina, Stati Uniti, Canada e Australia. La mega azienda China rare earths group controlla il 70% della produzione del Paese. Le altre principali società che estraggono terre rare a livello globale sono: Lynas Rare Earths Ltd (coinvolta nel più grande impianto di lavorazione delle terre rare al di fuori della Cina, in Malaysia e presto anche nel nuovo grosso impianto statunitense del Texas, con incarico diretto dal dipartimento di Difesa degli Stati Uniti), Iluka, Alkane resources (le tre con sede in Australia), Shenghe resources (con sede in Cina) e Molycorp (Stati Uniti).

Una corsa globale

Il dominio cinese del mercato suscita timori negli Stati Uniti e nell’Unione europea. Nel contesto delle crescenti tensioni tra Cina e Occidente, la guerra fredda dei minerali trasforma la geopolitica delle terre rare.

Negli ultimi anni, ad esempio, gli Stati Uniti hanno cercato di mettere in sicurezza le catene di approvvigionamento diversificando le proprie fonti. Ciò ha comportato un aumento dell’attività estrattiva nazionale – il rilancio del sito di Mountain Pass in California e la lavorazione del minerale in loco anziché in Cina – nonché l’esplorazione di nuovi giacimenti in luoghi come Bear Lodge nel Wyoming.

Anche l’Unione europea sta promuovendo lo sviluppo di progetti di estrazione in Svezia, Finlandia, Spagna e in Serbia.

Tra le altre politiche, l’Us inflation reduction act richiede che i produttori di auto elettriche si riforniscano dagli Stati Uniti o da paesi alleati (leggi: non dalla Cina) di almeno il 40% del contenuto minerale delle batterie. Questa percentuale dovrà salire all’80% entro il 2027.

Washington non sta solo cercando di assicurarsi i propri minerali critici, ma sta anche costringendo gli alleati a ridurre gli scambi con Pechino.

Allo stesso modo, la Commissione europea ha presentato la legge sulle materie prime critiche nel 2023. Essa ha obiettivi ambiziosi per il 2030: raggiungere il 10% dell’estrazione di minerali critici, il 40% della lavorazione in Paesi europei, un’importazione diversificata che preveda un tetto massimo di minerali provenienti da un unico Paese pari al 65%.

La Cina, nel frattempo si sta assicurando la fornitura tramite progetti di estrazione in Asia, Africa e America Latina e nell’estate del 2023 ha imposto controlli sulle esportazioni di gallio e germanio, componenti fondamentali delle celle solari, delle fibre ottiche e dei microchip utilizzati nei veicoli elettrici, nell’informatica quantistica e nelle telecomunicazioni.

Le esportazioni della Cina di questi minerali sono scese da quasi nove tonnellate metriche a zero. Questo sforzo per «garantire le catene di approvvigionamento» viene presentato ai Paesi del Sud globale come un’opportunità per loro di aumentare il proprio reddito e persino ottenere vantaggi nello sviluppo di ulteriori processi di lavorazione e produzione, cosa che permetterebbe loro di richiedere maggiori diritti di proprietà intellettuale nei futuri accordi. Tuttavia, gli impatti e i conflitti evidenziano un modello industriale basato su vecchie e nuove «zone di sacrificio», dove le comunità e gli ecosistemi sono distrutti per un supposto bene comune superiore.

Pensiamoci quando ci confortiamo con soluzioni, come la transizione energetica, basate su fonti che non mettono in discussione il livello di consumo e le priorità produttive.

Daniela Del Bene

 


Il rapporto e la mappa da cui sono ricavati i dati riportati in questo articolo sono disponibili al sito:
https://ejatlas.org/featured/rees-impacts-conflicts-map

 




Il sogno dello sciamano

 


Il sogno è difendere l’Amazzonia e i suoi popoli nativi. Senza farsi illusioni: cambiare una condizione sedimentata nei secoli e portata avanti dal potere dei bianchi è una lotta lunga, complicata e lastricata di speranze e sconfitte. Eppure, Davi Kopenawa Yanomami non si arrende.

Pian del Cansiglio (Belluno). La nebbia mattutina d’inizio aprile viene dissipata dai primi raggi del sole. Poco dopo, l’altopiano si mostra nella sua veste migliore: aria fresca, colori e il silenzio della natura. Attorno si apre la foresta – dicono sia la seconda d’Italia per estensione – e in lontananza si stagliano le montagne ancora innevate. L’ospite – Davi Kopenawa Yanomami – apprezzerà?

Lui arriva al tavolo della colazione preparata dalla signora Franca, la gestrice del rifugio Vallorch, indossando jeans, felpa blu e scarpe da ginnastica. Un abbigliamento che ci aiuta subito a vedere le cose nella giusta prospettiva. Troppo spesso, infatti, nella nostra testa ecomiti e stereotipi occidentali resistono come licheni sulla roccia. Mai dimenticare che un indigeno rimane tale anche se usa il cellulare, il computer o se gioca a calcio, come ricorda una preziosa campagna di sensibilizzazione – Menos preconceito mais índio (Meno preconcetti, più indigeni) – dell’Instituto socioambiental (Isa), trent’anni compiuti proprio quest’anno.

Al suo quarto viaggio in Italia, Davi è arrivato assieme a Carlo Zacquini, missionario della Consolata che con lui ha attraversato oltre mezzo secolo di lotte indigene condividendo speranze, vittorie e sconfitte.

Ovviamente, quella del Cansiglio non è la foresta amazzonica, e il rifugio Vallorch non è la casa comune di Watoriki, l’aldeia di Davi. Premesso questo, il leader degli Yanomami ha trovato qui un ambiente più familiare al suo e, comunque, certamente migliore rispetto a quello offerto da una città e da un albergo. Un’idea originale – oltre che un simbolico gemellaggio tra due foreste – uscita dal cappello degli organizzatori de «Il Mondo di Tommaso», la vitalissima associazione di Vittorio Veneto che ha portato in Italia i due ospiti.

A passeggio tra i boschi del Cansiglio, Davi racconta le differenze con la «sua» foresta amazzonica. Foto Paolo Moiola.

Raccontare gli Yanomami: da Cannes al Giappone

A tavola chiediamo a Davi se sia contento di viaggiare, di essere qui. «Più o meno», risponde con disarmante sincerità e con il suo consueto, tranquillo sorriso. Precisa: «Lo faccio per la causa del mio popolo».

Il suo libro A queda do ceu (La caduta del cielo) è stato tradotto in più lingue e adottato in molte facoltà universitarie. Da esso è stato tratto un documentario selezionato per il festival di Cannes 2024. Eppure, tutto ciò non basta: la realtà rimane complicata, drammaticamente complicata. Gli Yanomami del Brasile (ma la situazione è identica anche per quelli del Venezuela) stanno conoscendo anni molto difficili che possono mettere a rischio la loro stessa sopravvivenza come popolo indigeno autonomo e orgoglioso.

È una crisi dalle molte facce, tutte feroci e tutte tra loro collegate: sociale, sanitaria, ambientale, climatica. Per questo Davi non vuole tirarsi indietro. Pur avendo una moglie (Fatima) e cinque figli (Dario, Guiomar, Denisi, Tuila e Vitorio), continua a girare il mondo – dopo questo viaggio in Italia (con il clou di un incontro privato con papa Francesco) partirà subito per il Giappone – per perorare la causa degli Yanomami e dell’Amazzonia.

La maledizione dell’oro

Dopo colazione, ci incamminiamo verso il massiccio del monte Cavallo, ancora innevato (la cima supera di poco i 2.200 metri). La cosa che più attrae Davi è proprio la neve, l’unico elemento veramente nuovo rispetto all’ambiente amazzonico dal quale lui proviene.

«Mi piace questa foresta – dice mentre camminiamo lungo i sentieri -. Io non sono nato in casa, sono nato in foresta. Per questo è mia sorella».

Nulla di strano in queste parole: nella visione indigena, la foresta è viva, gli alberi sono vivi. E gli sciamani sono il tramite tra gli uomini e gli spiriti della foresta.

«Sì, mi piace – ripete Davi -. Anche se, a differenza della nostra, non è nativa ma piantata. Anche gli alberi sono differenti». E, vedendo gli abeti, aggiunge: «Pure le foglie sono diverse. Queste sembrano capelli» (riferendosi agli aghi). Quando passiamo a camminare su un tratto di sentiero pavimentato, Davi osserva con un sorriso: «Questo è il vostro “garimpo”».

Da tempo garimpos (miniere) e garimpeiros (minatori) sono l’ossessione di Davi Kopenawa. Perché rappresentano – con ragione – il peggio dell’uomo bianco: la violenza verso madre natura e i popoli indigeni.

L’invasione è dovuta alla ricerca dell’oro, che – purtroppo – è presente in abbondanza come già avevano scoperto i conquistatori spagnoli e portoghesi.

I garimpeiros cominciarono ad arrivare negli anni Settanta, quando iniziò la costruzione della Perimetral Norte (o strada federale Br-210, mai completata) e Davi era un bambino.

Con il ritorno di Lula alla presidenza del paese, gli invasori sono diminuiti di oltre il 60 per cento, ma ne rimangono almeno altri settemila (e molti altri sono pronti a entrare o rientrare nel territorio yanomami). L’ultima operazione militare allestita per cacciarli – chiamata Operação Catrimani II – ha avuto luogo in aprile.

Davi riconosce il ruolo positivo del presidente: «Lula è una buona persona, però è solo». La solitudine è dovuta a un Congresso brasiliano dominato da uomini dell’ex presidente Jair Bolsonaro, nemico dichiarato dell’Amazzonia e dei popoli indigeni.

Davi Kopenawa Yanomami in Pian del Cansiglio (Belluno), aprile 2024. Foto Paolo Moiola.

Oggi il mercurio si acquista su internet

Lo sciamano yanomami amplia il concetto di garimpeiros. Spiega: «Io considero garimpeiro anche chi compra l’oro dai garimpeiros e chi nei paesi dei bianchi lo vende». Purtroppo, la realtà racconta che la domanda di oro non pare destinata a ridursi visto che è considerato un bene rifugio e il prezzo dello stesso rimane molto alto (attualmente, oltre 70 euro al grammo).

Davi passa a elencarci tutto ciò che il garimpo porta con sé: «Si mettono sui fiumi con draghe e motori. Poi hanno bisogno di combustibile, cibo e alcol, mezzi di trasporto, armi da fuoco per sparare agli indigeni. Hanno schermi televisivi e soprattutto hanno internet».

Non sono esagerazioni di una vittima arrabbiata. Risponde al vero che i satelliti di Starlink – la società di telecomunicazioni di Elon Musk (tra l’altro, molto vicino all’ex presidente Bolsonaro) – hanno favorito soprattutto i garimpeiros che possono comunicare con tutto il mondo anche dalle zone amazzoniche più isolate. Tramite internet gli invasori possono interloquire con i propri referenti e acquistare tutto ciò che serve alla loro attività.

Per esempio, Infoamazonia ha scoperto che sulle piattaforme brasiliane Olx e Mercado livre si possono tranquillamente comprare balsas (draghe), mercurio liquido e ogni tipo di attrezzatura mineraria.

Chiediamo a Davi del mercurio e lui smette di camminare per mostrarci anche a gesti come viene utilizzato dagli invasori per ripulire l’oro dagli altri sedimenti. Mercurio che poi si disperde nei fiumi contaminando l’ecosistema: un avvelenamento grave e confermato da vari studi. Due degli ultimi sono quelli firmati dalla rivista Toxics (settembre 2023) e dalla prestigiosa Fundación Oswaldo Cruz (aprile 2024): secondo la rivista a Roraima il 40 per cento dei pesci contiene livelli di mercurio superiori alla norma, mentre secondo una ricerca della fondazione nello stesso stato l’inquinamento da mercurio colpisce quasi tutta la popolazione di nove villaggi yanomami.

Bianchi e garimpeiros

Davi Kopenawa Yanomami firma il proprio libro tra gli alberi della foresta del Cansiglio. Foto Paolo Moiola.

Davi va oltre nelle sue accuse. Il maggior pericolo viene da chi sta dietro i garimpeiros, anche grandi imprese di altri stati. Davi non fa nomi, ma l’affermazione trova riscontro nelle cronache giornalistiche che, per esempio, riportano i problemi causati dalle compagnie minerarie canadesi – tra esse Cabral gold, Equinox gold, Belo sun – operanti in Brasile. Tonnellate di oro illegale si confondono con quello legale originando un commercio internazionale dai contorni sempre opachi.

Davi è molto duro nei confronti dei bianchi («napëpë» in lingua indigena, ovvero non Yanomami, stranieri, nemici), che etichetta come «popolo della merce». Tuttavia, è magnanimo nei confronti dei garimpeiros. «Spesso gli invasori – precisa infatti – vengono in terra indigena perché non hanno una loro terra, un loro lavoro. A questo dovrebbe porre rimedio il governo federale».

A Watoriki – Davi ricorda sempre con nostalgia il suo villaggio in foresta – non ci sono garimpeiros: i suoi centocinquanta abitanti vivono ancora come la cultura yanomami insegna.

La mancanza di contatti con gli invasori ha tenuto lontano il pericolo della corruzione. Che, per esempio, è arrivata per una parte dei Kayapó (nel Pará).

Chiediamo a Davi se, al di fuori di Watoriki, ci siano Yanomami che sono diventati garimpeiros. «No», risponde secco, salvo poi precisare: «Una minoranza, soprattutto tra coloro che si trovano a vivere accanto ai garimpos. Si sono fatti convincere da qualche grammo di oro o semplicemente da forniture di alimenti».

Malattie e denutrizione

I garimpeiros sono anche responsabili primi del peggioramento delle condizioni di salute della popolazione indigena, che è molto vulnerabile e priva di vaccinazioni. La prima emergenza è data dalla diffusione della malaria, ma ci sono anche influenze, tubercolosi, patologie intestinali e i molteplici problemi di salute (anche neurologici) prodotti dal mercurio.

Con le malattie è arrivata anche la fame. «Perché – spiega David – gli Yanomami malati non hanno la forza per alzarsi, per andare a caccia, per preparare il cibo.

Personalmente, non ho mai sofferto la fame. Ho avuto la malaria ma non sono morto. Purtroppo, anche in materia di salute il governo è stato assente. Con Bolsonaro siamo stati abbandonati per quattro anni. Con Lula è diverso, ma lui non ha abbastanza appoggio per risolvere la situazione. La stessa Onu parla tanto, ma non fa nulla».

Nell’aprile 2021, una pubblicazione dell’Igarapé institute – noto istituto di ricerca con sede a Rio de Janeiro –  ha calcolato il «prezzo della devastazione»: all’epoca, l’estrazione di un chilo di oro produceva danni ambientali pari a dieci volte il suo valore. Quel calcolo però non includeva gli incommensurabili danni umani subiti dai popoli indigeni.

Un momento della passeggiata tra i boschi del Cansiglio organizzata da «Il mondo di Tommaso» in onore di Davi Kopenawa e Carlo Zacquini. Foto Paolo Moiola.

Abbracciare gli alberi

Al rifugio Vallorch è arrivata molta gente per ascoltare Davi e Carlo. Il leader yanomami ha indossato un «cocar», il copricapo di sgargianti piume di pappagallo ara (così anche la classica iconografia dell’indiano è salva).

Il pomeriggio sarà dedicato a una passeggiata comune tra i boschi di faggi del Cansiglio. Accanto agli ospiti brasiliani, a guidare il gruppo è Toio de Savorgnani, alpinista, scrittore e ambientalista di Mountain wilderness, la combattiva associazione per la difesa delle montagne.

La passeggiata tra i boschi del Cansiglio ritempra il fisico e la testa. Toio propone di chiudere l’immersione nella foresta con quella che i bianchi hanno chiamato «silvoterapia» (con le sue varianti forest bathing e tree hugging). Non basta respirare a pieni polmoni, occorre tornare al contatto fisico tra viventi abbracciando – sì, abbracciando – gli alberi. Pochi minuti per sentire e ascoltare la natura.

Dopo l’abbraccio, alcuni dei presenti si avvicinano a Davi con il suo libro tra le mani. Glielo porgono per un autografo e lui, quasi a giustificarsi, dice: «I bianchi non ascoltano. Per questo ho dovuto scrivere».

Chissà se basterà. Il sogno dello sciamano yanomami – un’Amazzonia senza invasori e il ripristino dell’equilibrio simbiotico tra uomo e natura – dovrebbe essere il sogno di tutti. Dovrebbe, ma purtroppo non è.

Paolo Moiola

SITI WEB

Fratel Carlo Zacquini in una sala del Centro di documentazione indigena (Cdi) di Boa Vista, a Roraima. Foto CDI.

Fratel Carlo Zacquini

Il sogno di Hokosi

Venezia. Dopo la foresta, l’acqua. E cosa meglio di una città che sull’acqua è nata e vive? Questo probabilmente hanno pensato Claudio Corazza (Il mondo di Tommaso) e Raffaele Luise (scrittore e vaticanista) nell’organizzare il convegno sull’Amazzonia a Venezia, nella splendida e affollata cornice del chiostro del Convento San Francesco della Vigna.

Al tavolo dei relatori Davi Kopenawa ricorda il suo ruolo e la sua battaglia, ma Carlo Zacquini detto Hokosi è senza voce. Altri possono tradurre le parole dello sciamano yanomami, ma soltanto lui può tradurne i concetti. Per questo Claudio e Raffaele gli vengono in soccorso dando la parola agli altri ospiti.

Come Marco Tobon, antropologo colombiano che insegna a Leticia, sulla triplice frontiera amazzonica tra Colombia, Brasile e Perù. Il professore parla di interazione tra esseri umani e ambiente, ma soprattutto della sfida che occorrerebbe affrontare: quella del passaggio dall’attuale «antropocentrismo» (l’uomo come centro dell’universo) a un auspicabile «biocentrismo» (al centro c’è la vita di uomini, animali e vegetali).

Verso la fine, si torna a Carlo Zacquini e al «Centro di documentazione indigena» (Cdi), il suo sogno realizzato ma oggi in pericolo. Occorre costruire una nuova sede che metta al riparo il materiale raccolto – settemila libri, riviste, ritagli di giornali, foto, un archivio digitale – da termiti, blatte, umidità, polvere. In questi anni il suo lavoro è stato indirettamente premiato con la progressiva presa di coscienza degli indigeni. Dopo tante umiliazioni, essi hanno finalmente scoperto che possono e devono essere orgogliosi di appartenere a un popolo indigeno. Nel parlare fratel Carlo si commuove: da tempo sostiene di avere un enorme debito di riconoscenza nei confronti degli indigeni. Il Cdi è la sua maniera di ripagarli per quanto ricevuto in quasi sessant’anni di missione in Amazzonia.

Pa.Mo.

Un frame del documentario «A queda do ceu» presentato al festival di Cannes 2024

Un film, una mostra

CONOSCERE L’AMAZZONIA

Torino. Conoscere l’Amazzonia è fondamentale per poter difendere i suoi popoli, le sue ricchezze, il suo essere patrimonio dell’umanità. Per questo, ogni iniziativa che vada in questa direzione va sostenuta. A Torino ne sono in corso due. La prima è stata organizzata da «CinemAmbiente», il più importante festival italiano di tematiche ambientali giunto all’edizione numero 27 (4-9 giugno). Gli organizzatori hanno reso disponibile un vecchio documentario – girato nel lontano 1918, considerato perduto nel 1930, ritrovato nel 2023 – sull’Amazzonia: un film in bianco e nero di grande interesse storico ritrovato dalla Cineteca di Praga e restaurato.

La seconda iniziativa è l’esposizione «Mater Amazonia», allestita presso «Cultures and mission» (Cam), il polo culturale dei Missionari della Consolata, nella nuova sala chiamata Urihi. La casa della terra. Si tratta di una parte della mostra ospitata dai Musei Vaticani durante il Sinodo amazzonico dell’ottobre 2019. La mostra si sviluppa attraverso oggetti, foto e filmati di tre ambienti amazzonici: la foresta, il fiume e la maloca. Inaugurata lo scorso 17 maggio, Mater Amazonia rimarrà aperta fino al 31 ottobre.

Pa.Mo.

Siti web:

 




Le tante febbri di Conakry


Un paese poco conosciuto in Europa, ricco di risorse naturali e minerarie, ma anche culturali e umane. Inserite in un contesto sociale e politico fragile, troppo spesso sfruttate da imprese multinazionali. Vi portiamo nelle sue contraddizioni.

Lontana dai riflettori dei grandi media, la Guinea sta vivendo un momento storico difficile sia sul piano sanitario che politico.

Con il colpo di stato avvenuto il 5 settembre scorso a opera del leader golpista Mamandy Doumbouya ai danni del presidente Alpha Condé, gli assetti politici del paese sono cambiati.

Sito in Africa occidentale, la Guinea ha 13 milioni di abitanti, ed è 178ª nella classifica Onu dello sviluppo umano (su 189). La situazione è ancora molto delicata, anche se non ci sono stati più grandi scontri o rivolte da parte della popolazione. In un primo momento, nel mese di settembre, la capitale Conakry era un via vai di polizia e militari. Piccoli gruppi hanno cercato di ribellarsi ai soldati, ma senza grandi risultati. Il tenente colonnello Mamandy Doumbouya ha giustificato l’operazione con la situazione economica del paese in caduta libera e il grave aumento della povertà.

Chi troppo vuole…

Il presidente Alpha Condé, eletto per la prima volta nel 2010 e rieletto nel 2015, aveva fatto in modo di cambiare la Costituzione che limitava i mandati a due, tramite un referendum il 22 marzo 2020. Si era quindi fatto rieleggere per un terzo mandato nell’ottobre dello stesso anno, provocando la contestazione di un vasto movimento composto dai partiti di opposizione e da gran parte della società civile. Le proteste di piazza, duramente represse, avevano causato decine di morti.

La popolazione è ancora oggi nettamente divisa in due, c’è chi sostiene Mamandy Doumbouya, autoproclamato presidente ad interim il primo ottobre, e chi ancora appoggia Alpha Condé, attualmente agli arresti.

I due, anche se non appartengono direttamente alla stessa famiglia d’origine, hanno legami, e questo è uno dei motivi che ha arginato le lotte a sfondo tribale nel paese.

Il concetto di famiglia in Guinea è molto esteso: la famiglia coincide con un gruppo tribale che mantiene un cognome e un’identità storica e culturale. Queste appartenenze sono estremamente importanti e significative.

La popolazione guineana si considera da sempre come una grande famiglia. I nuclei più forti a livello sociale e politico sono i Keita, i Touré e i Condé. Fortunatamente le varie famiglie si considerano come cugine tra di loro, e questo, negli anni, ha frenato molte rivolte e proteste. Il popo-lo guineano è d’indole pacifica e ha sempre cercato di rispettare gli accordi presi tra le varie fami-glie, molti secoli fa.

Dopo il colpo di stato, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) ha iso-lato la Guinea sul piano economico, chiedendo elezioni libere nell’arco di sei mesi e il ritorno del potere ai civili. Ma il nuovo uomo forte, Doumbouya, non sembra preoccuparsene, negando che ci sia una crisi nel paese.

Un governo costituito da militari spaventa gran parte dei guineani, ma anche i presidenti di molti stati limitrofi.

Risorse minerarie

La Guinea è uno dei paesi più poveri dell’Africa dell’Ovest, anche se il suo territorio è ricco di risorse minerarie. Pure l’agricoltura è una componente essenziale dell’economia del paese, in particolare le coltivazioni di riso.

L’oro e altri minerali preziosi, come la bauxite, dalla quale si trae l’alluminio, sono sfruttati dalle grandi compagnie minerarie europee o americane.

La febbre dell’oro è un fenomeno che si è accentuato durante i primi anni 2000: con l’abbandono delle vecchie miniere di pietre preziose a causa dei cambiamenti del mercato globale, gran parte della popolazione e delle grandi compagnie minerarie si è indirizzata sulla spasmodica ricerca del metallo giallo.

Oltre alle grandi miniere gestite dalle multinazionali, l’estrazione dell’oro avviene in maniera artigianale. Queste piccole miniere sono un rifugio per molte persone che vivono situazioni di grande difficoltà economica e cercano nell’oro una speranza di riscatto, che il più delle volte non si realizza.

Questo sogno raramente ha un finale a lieto fine, ma al contrario porta disagio, fatica e malattie.

L’estrazione aurifera è sviluppata prevalentemente nell’alta Guinea, in particolare nella prefettura di Kouroussa. È proprio in queste terre rosse che ogni giorno centinaia di uomini e donne entrano nelle viscere della terra per cercare fortuna.

Il più delle volte l’oro è polverizzato e mischiato al terreno. Abilmente i minatori tradizionali riescono a dividere le particelle d’oro da quelle del terreno per poi fonderle insieme. Tutto avviene grazie all’utilizzo del mercurio. Purtroppo questa attività è svolta molto spesso vicino ai fiumi, soprattutto al Niger, e il risciacquo dell’oro con il mercurio sta gravemente danneggiando le risorse idriche e non solo.

Anche le miniere tradizionali hanno le loro cooperative che cercano di difendere gli interessi dei minatori. Molto spesso però le grandi compagnie sono interessate ai terreni nei quali lavorano i minatori artigianali e questo genera conflitti. Il più delle volte questi ultimi hanno la peggio. Lo stato quasi sempre appoggia le compagnie per un ritorno economico che però non va mai a sostegno della popolazione locale.

Oro e salute

Il processo di estrazione dell’oro causa molti danni, oltre che all’ambiente, anche alla salute. Svolgendosi vicino a delle risorse idriche, la malaria è una delle malattie più comuni tra i minatori. Per non parlare degli incidenti legati a tali attività. Molti uomini prima di entrare negli stretti cunicoli alla ricerca del prezioso metallo usano psicofarmaci e alcol per farsi coraggio, e questo non fa altro che aumentare la frequenza di comportamenti inadeguati che possono destabilizzare la vita sociale e la salute dei minatori.

In Guinea esiste una popolazione viandante (nomade), che si sposta continuamente alla ricerca di nuovi filoni. Questo crea villaggi temporanei e fatiscenti dove le condizioni igieniche e sanitarie sono disarmanti.

Negli ultimi anni molti burkinabè si sono uniti a questi gruppi, il che ha creato problemi a livello d’integrazione ed episodi di razzismo e intolleranza.

Le donne che appartengono a queste comunità sono solite lasciare i loro figli soli al villaggio mentre vanno nelle miniere vicine. Molto spesso, se queste donne non trovano nulla, la sera si prostituiscono con gli uomini che lavorano alle miniere. La promiscuità fa aumentare fortemente i casi di infezioni da Hiv nella popolazione.

In questi villaggi fatti di materiali di recupero, i bambini si trovano loro malgrado a vivere una vita difficile e piena di pericoli. La mancanza di acqua è una delle cause maggiori di malattie come la disidratazione o la dissenteria e i bambini più piccoli molto spesso non sopravvivono. Sono molti i bambini che non possono frequentare le scuole, lontani da ogni confort e con la responsabilità di curare la casa e i fratelli più piccoli.

Una sanità che fa acqua

La situazione del paese, a livello sanitario, è molto complessa e non riguarda solamente le popolazioni che lavorano in miniera.

L’età media della popolazione è di diciassette anni e la mortalità infantile è ancora molto alta.

La fascia più vulnerabile è quella dei bambini dai zero a cinque anni. Mentre il governo e le istituzioni sanitarie non riescono a garantire una salute pubblica efficiente. Tutte le cure sono a pagamento e la forte corruzione degli organi amministrativi e sanitari fa peggiorare la situazione.

Il 2021 è stato un anno molto complesso a livello sanitario. Già durante i primi mesi ci sono stati dei casi, fortunatamente isolati, di ebola, e un caso di febbre emorragica Marburg. Entrambi questi episodi sono nati nella prefettura di Nzérékoré, nella Guinea Forestiére, ai confini con la Costa d’Avorio, zona con scarsissime risorse economiche.

La regione della Guinea Forestiére è molto diversa dal resto del paese, sia a livello culturale che religioso. Mentre la maggioranza nel resto del paese è musulmana, nella prefettura di Nzérékore prevalgono i cattolici. Anche se non ci sono forti contrasti tra i credenti delle due fedi, a livello culturale chi appartiene al mondo cattolico viene considerato più soggetto ai vizi. Il fatto che proprio in questa zona nascano molte delle epidemie è sintomo di grande povertà e permeabilità dei confini. Il controllo sanitario di chi entra nel paese, infatti, è pressoché inesistente.

Inoltre, intorno all’epidemia di ebola sfortunatamente è nato un grosso business ed è difficile delle volte avere dati sicuri su cui lavorare. Questo complica ulteriormente la situazione e molti speculatori cercano di intercettare i soldi destinati alla cura e alla prevenzione di questa malattia.

Malaria & co

Come se non bastasse, ogni anno la Guinea deve affrontare le conseguenze della malaria che uccide periodicamente centinaia di bambini. L’alta letalità di questa malattia è legata al costo eccessivo delle cure, inoltre molti villaggi del paese sono completamente isolati e, soprattutto durante la stagione delle piogge, è impossibile muoversi per recarsi nei grandi centri dove ci sono gli ospedali migliori. Per questo motivo la medicina tradizionale è ancora importante sia a livello culturale che sanitario, ma purtroppo non è sufficiente a curare i casi gravi.

Un altro virus che spaventa molto è quello del morbillo. Numerosi focolai vicino alla capitale Conakry sono stati isolati grazie all’aiuto di associazioni non governative, e la diffusione è stata arginata.

I vaccini non sono sufficienti e sono costosi, e questo implica che anche per malattie infantili, debellate nei paesi ricchi, in Guinea si continui a morire.

Il Covid è arrivato

Negli ultimi anni, a questi problemi sanitari, si è aggiunta la paura del Covid-19.

L’espandersi della variante Delta sembra aver colpito maggiormente il paese, a differenza delle altre varianti. Anche se il tasso di mortalità non è elevato, la preoccupazione esiste sopratutto nelle aeree metropolitane.

L’Africa è stata colpita meno duramente rispetto al resto del mondo. Questo può avere numerose spiegazioni, tutte teoriche. L’età media della popolazione è molto bassa, mentre il virus uccide di più gli anziani, e alcuni virologi sostengono che nel genoma di alcune popolazioni africane c’è una resistenza maggiore a questo virus. Avere un quadro complessivo dell’andamento del Covid in Guinea non è semplice. La mancanza di tamponi e controlli adeguati ci offre dati imprecisi e parziali.

La campagna vaccinale anti Covid è iniziata a metà 2021, ma non ha avuto molto successo, sopratutto nei piccoli villaggi. La popolazione non è ben informata sulle reali conseguenze del virus e ha paura di farsi fare la vaccinazione. In un primo momento il siero più utilizzato è stato quello cinese, Sinovax, mentre ora sul mercato è possibile trovare anche Astra Zeneca.

Nella capitale Conakry, invece, gran parte della popolazione vuole vaccinarsi, poiché i casi e i decessi sono stati più numerosi. Il problema è che non ci sono sufficienti vaccini per coprire tutte le esigenze, e il ministero della Salute non ha attuato un piano idoneo per salvaguardare la popolazione più fragile. Misure di contenimento sono state attuate dal governo, e – mentre scriviamo – vige un coprifuoco che parte dalle 22 fino alle 5 del mattino.

Queste sono le febbri della Guinea, paese meraviglioso dove la natura ti accoglie calorosamente e dove gli ospiti, soprattutto occidentali, vengo trattati con enorme rispetto e riverenza.

Gianluca Uda




Miniere «green»

testo di Daniela del Bene |


La domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050. L’estrazione di cobalto, litio e terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici crescerà a tassi senza precedenti. Viaggio nelle nuove miniere.

In un contesto internazionale di grandi incertezze e sfide sociali ed economiche, la questione ambientale ed energetica si impone come un’asse centrale di possibile cambiamento. Non solo per l’evidenza dei cambiamenti climatici, ma anche perché le risorse energetiche su cui è basata la società industriale sono sempre più scarse e di difficile accesso.

Come risposta alle attuali sfide energetiche, da anni si stanno studiando alternative basate sulle fonti cosiddette rinnovabili: dal solare fotovoltaico all’eolico, passando per varie altre tecnologie e per l’efficienza energetica.

Queste alternative, per importanti e imprescindibili che siano, hanno alimentato un clima di generale (ed eccessivo) ottimismo che sta scoraggiando una riflessione critica. Pur essendo necessario continuare a far ricerca sulle fonti rinnovabili, dobbiamo affrontare alcuni temi di fondo.

Black Rock Solar’s first photovoltaic array was 90 kilowatts to power the school buildings in Gerlach, Nevada.

Tre temi ineludibili

La mole attuale di consumo mondiale di energia e di materie prime sta provocando un livello irreversibile d’inquinamento, di emissioni di gas serra e di degrado di ecosistemi. Questo mette a repentaglio le basi stesse della vita. La crescita economica infinita messa in relazione con i limiti biofisici «finiti» della Terra è dunque il primo tema di fondo da affrontare, come da anni sostiene il movimento per la decrescita e studiosi di tutto il mondo.

Il secondo tema è l’insufficienza delle fonti rinnovabili: anche se riempissimo di pannelli solari o pale eoliche tutti gli spazi disponibili, non potremmo comunque raggiungere l’attuale livello di energia generata dai combustibili fossili.

Il fisico spagnolo Antonio Turiel dell’Istituto de ciencias del mar di Barcellona, lo scrive nel suo libro Petrocalipsis: un sistema basato sulla crescita infinita non si può adattare alle rinnovabili. Esse producono energia in modo intermittente (solo quando c’è luce, o soffia il vento, etc); producono solo elettricità (che costituisce il 20% dell’energia totale che include il carburante per il trasporto o l’energia termica) e, infine, hanno un potenziale limitato: se tutti i governi del mondo si accordassero per consumare solo energia rinnovabile, questa coprirebbe appena il 30% del fabbisogno.

Il terzo tema da affrontare si riferisce alla quantità di energia e materiali necessari per la fabbricazione di pannelli solari e turbine. Da dove li prendiamo? Qual è il costo di estrazione? Quali sono gli impatti ambientali e sociali? Chi gestisce l’infrastruttura per la loro estrazione e lavorazione? I materiali sono solo in parte riciclabili e già sono sorti grandi cimiteri di pale eoliche. Cosa faremo di pannelli e pale dopo la loro vita utile?

Mutanda mining – RD Congo

Energia post Covid

I diversi piani di recupero promossi dall’Unione europea e da altre economie energivore come Stati Uniti, India, Cina, per affrontare la crisi economica post pandemia, stanno sostenendo con ingenti fondi progetti «green», tra cui le rinnovabili su grande scala e la conversione del trasporto verso mezzi elettrici.

Questi piani nascono dall’illusione di tornare alla famosa «normalità di prima», cioè ai livelli di consumo pre-pandemia, e omettono di considerare alcuni «dettagli» importanti, come il fatto, ad esempio, che il territorio occupato per il solare o l’eolico viene tolto ad altre funzioni, come la produzione agricola. Attualmente, infatti, è più remunerativo dare in affitto un campo a imprese di energia rinnovabile che coltivarlo.

La produzione energetica rischia, dunque, di mettere a repentaglio la già martoriata attività agricola e la nostra capacità di nutrire la popolazione. Quali saranno le conseguenze per le famiglie e le piccole imprese agricole? Quale sarà lo stato di salute del territorio tra vent’anni, quando la vita utile di questi mega progetti giungerà alla fine?

Secondo la rivista «Bloomberg new energy outlook», l’energia eolica e solare coprirà il 56% della produzione di elettricità entro il 2050. Secondo la Banca mondiale, la domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050, mentre l’estrazione di cobalto, litio o terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici aumenterà a tassi senza precedenti.

Questa tendenza già si registrava prima del Covid-19. Tuttavia, ora, le grandi imprese dell’energia si stanno accaparrando i fondi per la ripresa a un ritmo fuori controllo, e ciò impedisce una reale riflessione di fondo, cosa che sarebbe necessaria in ogni società democratica.

Miniere in fermento

L’attività mineraria in tutta la sua storia ha sempre provocato impatti ambientali e sociali negativi, tuttavia, oggi, le esplorazioni avvengono su scala più grande, controllata da imprese transnazionali che ne ricavano un profitto molto più elevato dei costi che sostengono, e con un livello di impatto ambientale incomparabile con quello di decenni fa.

Sono tristemente famose le miniere di oro, rame, carbone, bauxite sparse in Sud America, India, Filippine, Sudafrica, e in molti altri paesi. Ma la corsa all’accaparramento di minerali strategici «per la transizione energetica» sta portando all’apertura di nuove miniere, come quelle in Congo Rd e in Spagna.

Il cobalto del Congo Rd

La miniera di Mutanda, in Congo Rd, è attualmente la più grande produttrice mondiale di cobalto.

Si trova nella provincia di Lualaba, nel mezzo dell’area protetta di Basse-Kando.

La legge del paese vieta ogni nuova attività economica nelle aree protette, ma in questo caso non è stata rispettata. La prima impresa a esplorarla fu la congolese Gécamines negli anni ‘80. Dal 2013, la maggior parte delle operazioni sono controllate dalla svizzera Glencore Plc.

Diversi episodi associano le operazioni di Glencore in Congo all’inquinamento del suolo e dell’aria. Uno di questi è avvenuto tra luglio 2013 e settembre 2014, quando alcune sostanze tossiche hanno contaminato circa ventiquattro ettari di terreni nelle vicinanze, proprietà di ventisei famiglie di Moloka.

Ancora oggi è possibile vedere l’inquinamento del suolo dalle immagini satellitari. La vegetazione è completamente scomparsa e non ricresce nulla.

Le uniche azioni intraprese da parte di Glencore, dopo quattro anni dalle prime denunce, sono state quelle di ripiantare alcuni alberi (che si sono ammalati) e risarcire le ventisei famiglie con un totale di 65.330 dollari, una cifra ridicola a fronte della perdita dei mezzi di sussistenza.

Vision of the area Paumo-Banda_ Sud Isiro in Alto Conso in RD Congo, dove si vedere la foresta progressivamente distrutta dalle miniere illegali di coltan (da Google Earth)

Contaminazioni

Il Congo Rd è il paese con la maggior riserva di cobalto conosciuta. Essa fornisce circa la metà della produzione mondiale, e questo a scapito delle comunità locali e degli ecosistemi del paese, in modo simile a quanto accade per il coltan nel Kivu.

L’African resources watch (Afrewatch) e l’Associazione per lo sviluppo delle comunità del Lago Kando (Adclk) hanno lavorato per diffondere la loro preoccupazione per le violazioni dei diritti umani e per l’inquinamento nell’area di Mutanda.

Un altro episodio di contaminazione è avvenuto nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2017, un gasdotto è esploso rilasciando un acido tossico. Ancora una volta, gli agricoltori che vivevano vicino alla miniera sono stati colpiti e le loro terre distrutte. Da queste terre, le tossine sono entrate nel fiume Luakusha che sfocia nel lago Kando. Il disastro, quindi, non ha riguardato solo i terreni direttamente contaminati, ma anche l’attività di pesca, l’agricoltura della zona che dipende dalle acque del lago per l’irrigazione, e i cittadini in generale che non hanno più avuto accesso all’acqua potabile.

I residenti hanno iniziato ad avere anche problemi di salute.

La risposta della società mineraria è stata quella di spargere la calce nell’acqua per ridurne l’acidità, ma non è stata sufficiente. Inoltre, le comunità sono state escluse completamente dal processo decisionale.

Per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori della miniera, molti lamentano orari troppo lunghi, scarsa retribuzione degli straordinari, discriminazione tra dipendenti congolesi e di altri paesi, e la mancanza di sindacati. I dipendenti hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo ai materiali tossici con cui devono lavorare e alle poche misure di protezione adottate.

Mutanda non è l’unica miniera di cobalto nella provincia di Lualaba. Il deposito di Tenke Fungurume, ad esempio, è sfruttato da una compagnia cinese. Anche qui i problemi legati all’inquinamento, alla mancanza di trasparenza e comunicazione con la popolazione, la contaminazione di fonti d’acqua, l’abbandono di famiglie sfollate in tende per oltre due anni senza soluzioni abitative, e la precaria situazione dei lavoratori sfruttati, hanno portato a proteste che sono state represse con violenza, causando anche alcuni morti.

Il caso spagnolo

La domanda di metalli non spinge solo sulle frontiere estrattive dell’Africa o dell’America Latina, ma apre nuove aree di sfruttamento anche «a casa nostra».

Nella zona Sud Occidentale della Spagna, nella comunità autonoma dell’Estremadura, a 800 metri dal centro di Cáceres, città di 96mila abitanti, dichiarata patrimonio dell’umanità nel 1986 dall’Unesco, la società Tecnología extremeña del litio Sl, vuole realizzare una miniera di litio a cielo aperto.

La società è una filiale della joint venture promossa dalle società Valoriza Minería (una sussidiaria di Sacyr Sa) e Plymouth minerals Ltd (che ha cambiato nome in Infinity lithium corporation). Il suo progetto di 412 ettari (estendibile a 1.175) prevede una zona di estrazione di 1.100 metri di diametro e 500 di profondità, un impianto di arricchimento con forno per la tostatura acida, una vasca di evaporazione per il lavaggio dei minerali e 290 ettari di suolo per depositare i residui.

La miniera sorgerà nell’area naturale della Sierra de la Mosca, nella Valle di Valdeflores, un’area ad alta biodiversità di grande valore ecologico e sociale.

Dal punto di vista ambientale, questa catena montuosa collega spazi naturali protetti di grande importanza, è un corridoio ecologico fondamentale per gli ecosistemi della zona. Da un punto di vista sociale e culturale, essa ospita il santuario della Virgen de La Montaña (a 500 metri dalla prevista fossa della miniera), è una zona ricca di sentieri per l’escursionismo ideali per attività ambientali ed educative.

La zona ha un’economia tradizionale (frutteti, oliveti, mandorleti, bestiame, apicoltura e produzione di legna da ardere) e una massa forestale di boschi e prati mediterranei che costituiscono il polmone verde di Cáceres.

zona mineraria nel Sud della RD Congo tra le cittadine di Kiala, Kolwezi e Komoto (da Google Earth)

Batterie per l’Europa

Dietro il progetto della miniera di Valdeflores, si muovono interessi geopolitici per ridurre la dipendenza dell’Unione europea (Ue) dall’importazione di litio. L’Ue è il terzo consumatore mondiale dopo la Cina e gli Usa di questo minerale, per ora estratto principalmente in Australia e Sud America.

Per questo motivo, nel 2017 è stata creata la European battery alliance (Eba) per realizzare una catena strategica per le batterie in Europa che comporterà progetti di estrazione del litio anche in Portogallo, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca, e la costruzione di nuove fabbriche di batterie in diversi paesi, principalmente per gli impianti di assemblaggio di veicoli elettrici già esistenti o pianificati in Europa.

Un accordo firmato tra la società Infinty lithium e Eit inno energy, la piattaforma di investimento pubblico-privata promossa dalla Commissione europea per un finanziamento di 800mila euro destinati alla prima fase del progetto e all’assistenza tecnica per ottenere i 300 milioni necessari per il resto del progetto, testimoniano la grande pressione per l’apertura di questa miniera.

A sostegno degli interessi geopolitici, si fa sempre più forte la retorica ambientale che parla di «mineria verde» o di «climate smart». Un esempio ne sono le dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič che definiscono «ammirevole» il progetto minerario di Valdeflores.

«Salva la montagna»

I probabili impatti negativi del progetto hanno risvegliato un processo molto interessante di organizzazione cittadina nella popolazione di Cáceres preoccupata per la minaccia al territorio, alla salute e alla ricchezza bioculturale.

A partire dal 2017 si sono tenuti i primi incontri informativi della piattaforma cittadina «Salva la montagna di Cáceres». È iniziata una raccolta di firme e il primo percorso escursionistico a Valdeflores è stato realizzato per informare le persone e divulgare i valori del luogo. Nel corso dei tre anni successivi sono stati prodotti numerosi documenti sui rischi del progetto, video, mappe e manifesti.

Tutti questi materiali sono serviti come base per numerosi dibattiti, workshop, incontri di quartiere. Si è denunciata la vicinanza della miniera alla zona abitata, all’impianto di depurazione dell’acqua (solo 300 metri), all’ospedale e al campus universitario. Si è dato l’allarme circa il probabile impatto sulla salute delle polveri sottili e dei gas tossici prodotti dall’impianto di trasformazione, l’impatto sulle falde acquifere e sulle altre fonti d’acqua.

Grazie a questo lavoro, si sono scoperte molte irregolarità dell’impresa per ottenere permessi, insolvenze finanziarie e studi d’impatto ambientale molto carenti. Si sono così iniziate cause legali che hanno messo in luce una lista di illeciti e azioni compiute dall’impresa senza i dovuti permessi, come l’apertura di una via e l’abbattimento di alberi.

Il Comune di Cáceres, in un consiglio comunale del 2018, ha votato contro il progetto e contro le modifiche al piano generale municipale che erano state sollecitate dall’impresa.

Sono state inviate anche denunce alla Banca europea degli investimenti e alla Commissione europea.

Durante questi anni di mobilitazione, si sono stretti legami con altre realtà che affrontano problematiche simili in Spagna, come con il collettivo ContraMinAcción della Galizia.

Cambiare strada

Dall’Italia e dall’Europa, in molti guardiamo da lontano ciò che avviene lungo le frontiere dell’estrattivismo nel resto del mondo; ora è probabile che quegli scenari si faranno sempre più vicini.

Davvero vogliamo continuare a replicare lo stesso schema di sfruttamento, a scapito della base stessa della nostra vita?

Perché non cogliamo l’occasione per riprendere quei punti profondi di riflessione, a cominciare dal settore energetico, e non pensiamo a come ridurre i consumi, come risparmiare suolo dalla cementificazione, come rendere più resilienti i nostri territori, rigenerare i suoli, le acque, le foreste, come creare sinergie tra il settore agricolo ed energetico, e come rilocalizzare produzione e consumo energetico?

Non ci sono formule magiche, e non è neanche detto che questo basti a evitare scenari climatici molto difficili, ma ormai indietro non si può tornare. Possiamo solo cambiare direzione.

Daniela del Bene




Isole Svalbard, l’ultima frontiera

Testo e foto di Valentina Tamborra


L’arcipelago delle Svalbard sono il lembo di terra abitato più a Nord del pianeta. Qui la vita è dura e domina una natura estrema. Storicamente area di miniere, oggi sta prendendo piede anche il turismo. Ci vivono circa 2.200 persone di 40 nazionalità diverse. L’autrice vi ha condotto un particolare lavoro di approfondimento fotografico.

Le Isole Svalbard sono un territorio amministrato dalla Norvegia ma soggetto a un trattato internazionale che ne riconosce l’autonomia.

Si tratta di un arcipelago del Mar Glaciale Artico, di isole posizionate fra il 74° e l’81° parallelo Nord. Sono la parte più settentrionale della Norvegia e le terre abitate più a Nord del pianeta. Le terre emerse coprono un’area di circa 62.000 km2 e si trovano a circa 1.000 km dal Polo Nord geografico. Per questo l’immaginario comune le vuole interamente coperte dai ghiacci e con poche forme di vita (orsi polari, renne, volpi artiche, foche, balene). Il termine Svalbard infatti, significa «costa fredda».

Un progetto fotografico

«Mi Tular» in antico etrusco significa «Io sono il confine». In questo lembo di terra ghiacciata incastonato nel Mar Glaciale Artico, orsi polari e uomini si contendono un confine invisibile. La parola Tular riporta alla mente il mito dell’Ultima Thule, l’ultima isola del mondo conosciuto.

Questa è l’idea di fondo del mio progetto fotografico, che mi ha portata a viaggiare fino alle Isole Svalbard.

Quando ho deciso di indagare queste isole, ad attirarmi è stata proprio l’idea di assenza di confine: il deserto artico, per sua natura, è un mondo di ghiaccio e luce assoluta. Luce che spesso inganna gli occhi, i sensi, rendendo impossibile indovinare l’orizzonte.

Alle Isole Svalbard l’unico confine è quello fra esseri umani e animali: sono infatti le terre dell’orso polare, 3.500 orsi contro circa 2.200 abitanti.

Sulla mappa, il confine sicuro è indicato da una linea rossa che mostra la zona entro cui si può girare non armati: oltre è necessario possedere un fucile. Camminando per Longyearbyen, la città più popolosa delle Svalbard (sede dell’aeroporto e della residenza del Governatore, qui chiamato Sysselmannen), è possibile imbattersi in cartelli che indicano la fine del confine sicuro proprio con il disegno di un orso.

E in effetti alle Svalbard tutti hanno un fucile e tutti sanno sparare ma è il luogo con il minor tasso di criminalità al mondo. Nessuno infatti, spara a cuor leggero, nemmeno a un orso polare, perché la legge prevede, in caso di uccisione di uno di questi meravigliosi animali, un’inchiesta del tutto simile a quella che si avrebbe in caso di omicidio.

Un luogo multiculturale

Queste isole sono anche il luogo con la più alta concentrazione di nazionalità differenti: ben 40, anche grazie al Trattato delle Svalbard, il cui articolo numero 3 sancisce la piena libertà di diventarne cittadino legittimo senza necessità di visto, e recita così: «I cittadini di tutte le nazioni aderenti dovranno avere uguale libertà di accesso ed entrata per qualsiasi ragione od oggetto, qualsivoglia fiordo e porto dei territori specificato nell’articolo 1 (confini territoriali Svalbard, nda); sono soggetti all’osservanza delle leggi e regolamenti locali, possono mandare avanti senza alcun impedimento qualsiasi attività marittima, industriale, mineraria e commerciale, sulla base dell’assoluta uguaglianza.

Saranno ammessi alle medesime condizioni di uguaglianza, all’attività marittima, industriale, mineraria e commerciale, sia a terra che in mare e nessun monopolio dovrà essere stabilito da parte di alcuno».

È quindi possibile ottenere la residenza permanente senza bisogno di avere visti o permessi di soggiorno, ma non si ottiene così la cittadinanza norvegese. Infatti, ci sono persone che pur vivendo alle Svalbard da più di 10 anni non posso restare in Norvegia continentale per un periodo superiore da quello concesso dagli accordi fra il loro paese d’origine e la Norvegia.

Ma chi sono dunque gli abitanti delle Svalbard?

È un luogo dove non si può nascere: per questioni di sicurezza infatti le donne incinte vengono mandate a partorire sulla terraferma, a Tromsø, città a Nord della Norvegia. Ma non si può neppure essere seppelliti: a causa del permafrost, che «rigetterebbe» il corpo. Il permafrost è un terreno tipico delle regioni dell’estremo Nord Europa, della Siberia e dell’America settentrionale e risulta perennemente ghiacciato. In realtà durante l’estate i primi due metri di profondità, a causa del riscaldamento superficiale che può raggiungere anche i 10 gradi, si sciolgono dilatandosi. Quest’attività di congelamento e scongelamento dello strato superficiale determina un movimento di contrazione del terreno che agisce su quanto è interrato nel suo primo strato, facendo sì che risalga.

In queste isole come è possibile creare una propria identità? Esiste una memoria condivisa?

Questi sono gli interrogativi che mi sono posta e a cui le persone che ho incontrato hanno saputo fornire una risposta.

Le Svalbard prima di tutto hanno una memoria storica legata all’attività mineraria. L’estrazione del carbone infatti, è stata per anni l’unica fonte di lavoro e l’unica ragione per decidere di stabilirsi qui, in uno dei luoghi più inospitali del pianeta.Basti pensare infatti che in inverno la temperatura scende fino a -35° e che la luce è completamente assente da novembre a febbraio. Tempeste di neve sono all’ordine del giorno e negli ultimi tempi, a causa del cambiamento climatico, ci si è trovati a fare i conti anche con il rischio di valanghe.

Passato e presente di miniere

Ad oggi due sono le miniere ancora attive alle Svalbard: la Mine 7, a Longyearbyen, e l’altra a Barentsburg, cittadina abitata da 500 minatori di nazionalità russa e ucraina.

Ho incontrato alcuni minatori e con loro sono scesa nelle viscere della montagna: 200 metri sotto il ghiaccio ho trovato un mondo nero, buio ma ricco di vita. Uno dei minatori, Tommy, lavora qui da oltre 20 anni. La miniera è «casa sua», nonostante sia originario di Oslo.

Tommy nel tempo libero compone canzoni e scrive fiabe per bambini: lontano dallo stereotipo del minatore rude e schivo, ha sempre il sorriso e la battuta pronta.

Mi racconta che oggi le Svalbard vivono prevalentemente di turismo e che per loro, i minatori, è sempre più difficile vivere qui.

Ogni mattina Tommy si sveglia alle 4,30 e alle 5 è già in miniera per preparare il caffè per i suoi ragazzi. Si prende cura degli altri minatori, come un padre, forse proprio perché conosce questo lavoro duro e antico che porta gli uomini a muoversi in cunicoli alti poco meno di un metro.

Ci sono dei passaggi infatti, in cui ci si può muovere solo carponi.

Eppure quello che mi viene raccontato dai minatori, non solo da Tommy, è l’attaccamento a questi luoghi: la miniera è una sorta di rifugio oltre che lavoro. È un mondo altro, nascosto sotto al ghiaccio, è forse la vera natura di questo luogo così remoto che sono le Svalbard.

«Ieri sera hai visto cosa faccio per divertirmi, oggi vedi cosa faccio per vivere». Questa è la frase con cui mi accoglie Daniel, 24 anni, uno dei ragazzi che lavorano con Tommy. Sì, perché la sera prima l’avevo visto cantare nel coro della compagnia mineraria Det store Norske.

Molti dei minatori cantano nel coro ma non solo loro: ne fa parte infatti, anche il direttore dell’unico ospedale dell’isola, il prete e uno dei capi della compagnia mineraria.

Un gruppo variegato che, come è normale su queste isole, non fatica a condividere provenienze e formazioni diverse ma anzi ne fa un punto di forza. Canzoni folk, ma anche repertorio blues e pezzi conosciutissimi come «sixteen tons» fanno parte dei loro concerti.

Turismo alle Svalbard

Ma c’è un altro lavoro che è diventato fondamentale alle Svalbard: la guida turistica. Con l’incremento del turismo infatti, è sempre necessario avere figure preparate che sappiano guidare le persone alla scoperta di un territorio selvaggio e pericoloso.

Incontro una di loro, giovanissima, Astrid: trasferitasi qui tre anni fa con l’idea di rimanere solo per una stagione, ha deciso di stabilirsi alle Svalbard e farne casa propria. Oggi lavora per Svalbard Husky e tutti la conoscono come «la fiamma» per via dei suoi capelli rosso fuoco che spiccano nel paesaggio bianco che ci circonda. Astrid insegna ai turisti come guidare una slitta trainata dai cani, e con loro raggiungere posti meravigliosi come la blue cave (una spettacolare grotta di ghiaccio azzurro che si confonde con il cielo). Mi racconta che qui non è così facile però trovare casa, soprattutto per le guide. I prezzi sono alti, le case poche e spesso le guide si ritrovano a condividere un piccolo appartamento in 3 o 4 persone.

Questa, dice, è la parte più difficile del vivere qui: non avere un posto proprio.

Pyramiden

C’è poi da raccontare di un altro luogo, ancora più isolato, Longyearbyen, ovvero Pyramiden, un insediamento minerario russo semiabbandonato ormai dal 1998.

Città fondata nel 1910 da minatori svedesi, venne venduta alla compagnia mineraria Russkij Grumant e in seguito, nel 1930, alla Arktikugol che tutt’ora ne è proprietaria pur rimanendo Pyramiden terra norvegese. Insediamento costruito per ospitare circa mille persone, non solo minatori ma anche le loro famiglie e un ufficio del Kgb, era fornito di ogni comodità: una biblioteca, un ospedale, una scuola, ma anche un cinema e una piscina pubblica. L’erba che ricopre il suolo era stata importata dall’Ucraina al fine non solo di abbellire il luogo, ma anche e soprattutto di consentire la coltivazione di frutta e verdura. Doveva infatti fungere da città modello del perfetto comunismo: l’insediamento mostrava al mondo la grandezza dell’Unione Sovietica.

Oggi in questo luogo a ridosso del ghiacciaio Nordenskjoldbree, dove comunicare è possibile solo grazie a telefoni satellitari o via radio, vivono undici persone fra cui un governatore: Petr Petrovich.

Qui il cibo viene portato tramite elicottero e paracadutato sulla comunità. La comunicazione con questa «porzione» delle Svalbard è possibile tramite motoslitta in inverno (con un viaggio di quasi un giorno) e tramite nave in estate. Ad oggi è possibile visitare Pyramiden con dei tour organizzati di qualche ora: si possono vedere gli edifici semi abbandonati e bere un caffè o una tipica grappa russa all’unico bar e hotel del luogo.

In pochi si fermano per più di poche ore nonostante l’hotel sia accogliente: è un luogo remoto, dove la natura domina e dove è facile infatti sentirsi in soggezione.

Eppure chi vive qui oggi, ha fatto questa scelta proprio per fuggire al «rumore» del mondo.

Zheka, la guida che mi ha condotta in giro fra edifici abbandonati e ghiacciai incontaminati, lascia Pyramiden solo una volta l’anno per uno o due mesi. Mesi in cui si dedica alla sua grande passione: la musica. Organizza concerti, suona diversi strumenti e viaggia in giro per il mondo. Poi, torna nel suo angolo di paradiso, o almeno lui così lo definisce.

C’è anche Barentsburg: l’altra «grande» città delle Svalbard. Cinquecento minatori russi e ucraini che difficilmente parlano inglese e che vivono solo e soltanto attorno alla miniera. Anche qui è presente un hotel e due bar (uno di questi però riservato ai soli minatori) ma davvero pochi turisti decidono di fermarsi a Barentsburg

Architettura tipicamente sovietica, Barentsburg fu fondata nel 1932 da una compagnia carbonifera olandese che la cedette in seguito alla sovietica Arktikugol’, che tutt’ora gestisce la miniera.

Dista circa 55 km da Longyearbyen ma non vi sono strade di collegamento fra i due centri abitati. Per raggiungerla infatti, ho compiuto un lungo viaggio in motoslitta: quasi 5 ore la sola andata.

Non ultima in termini di importanza, la cittadina di Ny-Ålesund è un insediamento situato nel Nord Ovest dell’isola, popolato da circa 200 abitanti in estate e soltanto 30 in inverno, per lo più ricercatori scientifici. Anch’essa è raggiungibile in nave durante il periodo estivo e in motoslitta (circa sei ore da Longyearbyen).

Un archivio mondiale

Ma c’è un altro fatto che caratterizza le Svalbard. Abbiamo detto che la memoria storica è legata al carbone e dunque l’identità del luogo è strettamente connessa al lavoro dell’uomo. Ma è proprio qui alle Svalbard che trovano sede due realtà interessantissime: Il Global seed vault e l’Arctic world archive.

Il primo è una sorta di «banca mondiale dei semi»: in caso di guerra, di disastro nucleare o carestia l’umanità trova qui una sua riserva per ripartire. Semi da tutto il mondo giacciono addormentati sotto il permafrost.

Ma se l’uomo per vivere ha bisogno di cibo è pur vero che ha bisogno anche di ricordarsi da dove viene: ed è con questa idea che la Piql, azienda norvegese, ha creato l’Arctic world archive.

Sito nella miniera numero 3, ormai in disuso, il container ospita, scansionati su un’apposita pellicola creata dalla Piql in un polimero segreto, alcuni fra i documenti più importanti della storia dell’umanità.

I primi a portare qui documenti sono stati l’archivio della Biblioteca apostolica vaticana, l’Esa (Ente spaziale europeo), l’archivio Alinari e la cineteca di Bologna.

In un luogo privo di confini e con una memoria recente dunque, nasce il tentativo di creare una memoria del mondo.

Questa è davvero forse l’ultima Thule.

Valentina Tamborra

 

 




Perú, mons. Baretto, la storia del vescovo ambientalista

Testo dell’incontro col vescovo cardinal Pedro Baretto e Mauricio López Oropeza di Paolo Moiola |


In Perú sono in corso centinaia di conflitti ambientali. Sia in Amazzonia (la selva) che nelle Ande (la sierra). La salvaguardia dell’ambiente e la salute delle persone costituiscono elemento centrale della missione pastorale di mons. Pedro Barreto?Jimeno, arcivescovo di Huancayo (Junín), vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana e neocardinale (dal 29 giugno). Da pochi mesi, in qualità di socio fondatore della «Red Eclesial Panamazónica» (Repam), il prelato è stato anche nominato membro della commissione vaticana che sta preparando il Sinodo amazzonico del 2019. Lo abbiamo incontrato nella sua Lima poco prima della sua nomina a cardinale.

@ Paiolo Moiola

Miraflores (Lima). Nelle giornate di sole da Miraflores, noto distretto di Lima, si può ammirare un magnifico panorama sull’Oceano Pacifico. Arriviamo al centro ignaziano della locale parrocchia di Fátima per approfittare della presenza di mons. Pedro Barreto Jimeno, gesuita e arcivescovo di Huancayo, capoluogo del dipartimento di Junín, regione andina nel centro Ovest del paese. In Perú il prelato è molto conosciuto per le sue battaglie in favore dell’ambiente (el obis­po eco­ló­gi­co).

Dal 2004 presta servizio tra le Ande, ma ci confessa quasi subito che il suo cuore «è amazzonico». Un sentimento nato durante i tre anni da vicario apostolico a Jaén, capoluogo dell’omonima provincia amazzonica (selva alta) del dipartimento di Cajamarca.

In quello stesso periodo entra nel consiglio permanente della «Conferenza episcopale peruviana» e nella «Conferenza episcopale latinoamericana» (Celam).

Jaén è la porta d’ingresso dell’Amazzonia Nord orientale del Perú. «L’Amazzonia – spiega mons. Barreto – comprende quasi otto milioni di chilometri quadrati e nove paesi, con il Brasile in testa (65% della superficie totale) seguito dal Perú. Come uomini di chiesa ci rendevamo conto che il lavoro da fare era tanto e disperso su un territorio immenso. Nell’aprile del 2013, a un mese dall’elezione del papa Francesco, il Celam si riunì in Ecuador per dibattere la questione. Nel settembre 2014 ci ritrovammo – vescovi, religiosi e religiose – a Brasilia e decidemmo di creare la “Rete ecclesiale panamazzonica”, la Repam. Che non è una vera istituzione, né una struttura, ma – come dice il suo nome – una rete che cerca di unire con il dialogo e l’aiuto reciproco popoli indigeni e non indigeni che vivono in Amazzonia. Ciò che ci sorprese fu l’immediato messaggio di felicitazioni del papa. Questo ci spinse a considerarne lui il fondatore».

A partire da quel momento la crescita della Rete panamazzonica è molto rapida.

«Il papa ci chiese di presentare al mondo la Repam. Lo facemmo il 4 marzo del 2015 a Roma, nell’aula Giovanni Paolo II. Poco dopo, il 19 marzo, tenemmo un’udienza tematica sulle attività minerarie in Amazzonia davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington».

Il ruolo e la visibilità della Repam prendono in seguito grande impulso da due eventi importanti: l’uscita, nel maggio 2015, dell’enciclica Laudato si’, interamente dedicata all’ambiente e, nell’ottobre 2017, l’annuncio del papa di un Sinodo panamazzonico per l’ottobre 2019.

© Malcom K.

Dall’Amazzonia alle Ande

Dopo l’esperienza a Jaén, mons. Barreto deve lasciare l’Amazzonia per le Ande: regione di Junín, nella cosiddetta sierra. «Fui nominato – racconta – arcivescovo di Huancayo, una città posta in una valle dentro alle Ande, la valle del rio Mantaro. È la valle interandina più grande del Perú: 77 chilometri di lunghezza e una media di 22 di larghezza».

Luoghi molto diversi dall’Amazzonia, ma afflitti da problematiche identiche: il difficile rapporto tra l’ambiente naturale e le attività umane e tra il diritto al lavoro e quello alla salute.

Nel dipartimento di Junín, le concessioni minerarie riguardano circa il 20% del territorio totale. Si estraggono rame, piombo, zinco, molibdeno, argento. Vi operano diverse imprese tra cui la cinese Chinalco, la canadese Pan American Silver, la peruviana Volcan, la brasiliana Milpo. La più famosa, per i disastri provocati, è la statunitense Doe Run, da anni in liquidazione. Queste attività minerarie danno un po’ di lavoro (sottopagato) alla popolazione locale, ma portano soprattutto tanti danni, all’ambiente e alla salute delle persone.

«Da secoli – racconta il vescovo (cardinale dal 29 giugno, ndr) – è una zona eminentemente mineraria. C’è una città che si chiama La Oroya, a 3.700 metri d’altezza, che è considerata una delle cinque città più inquinate al mondo. Da alcuni anni non vengono più emessi gas tossici perché il complesso metallurgico della Doe Run è fermo, ma se si vedono le foto dall’alto – su internet è possibile – si nota una massa bianca. Non è neve, sono particelle di piombo, rame, zinco, tutti metalli pesanti che in questi 90 anni di produzione (l’attività iniziò nel 1922, ndr) si sono accumulati sulle montagne». E nel sangue degli abitanti, soprattutto bambini e anziani. Acqua, aria e suolo presentano livelli di contaminazione decine di volte superiori ai limiti consentiti.

Venuto a conoscenza dei gravi problemi ambientali, mons. Barreto si dà subito da fare. Nel marzo 2005, a pochi mesi dal suo insediamento come arcivescovo, istituisce un tavolo di dialogo (Mesa de diálogo) con l’ambizioso obiettivo di trovare una «soluzione integrale e sostenibile al problema ambientale e lavorativo a La Oroya e il recupero della conca del fiume Mantaro».

Il dialogo è però lungo e complicato. In gioco ci sono gli interessi della multinazionale statunitense e il lavoro di ben 2.000 persone. A mons. Barreto arrivano minacce di morte e intimidazioni.

Il complesso metallurgico di La Oroya passa attraverso fasi di insolvenza economica (2009), contenziosi con lo stato per i mancati investimenti di adeguamento ambientale (Programa de Adecuación Medio Ambiental, Pama) e, infine, nel 2017-2018 alcuni tentativi di vendita, finora falliti.

Il Cardinal Pedro Baretto © Paolo Moiola

I cinesi di Morococha

Il problema – ancora irrisolto – di La Oroya non è il solo. A circa 40 chilometri di distanza sorge Morococha, cittadina cresciuta sopra un enorme giacimento di rame a cielo aperto. Dal 2008 il giacimento – noto come progetto Toromocho – è di proprietà della Chinalco, impresa appartenente al governo cinese. «Il primo problema da affrontare – racconta mons. Barreto – fu quello di spostare la popolazione. La Chinalco costruì una nuova città: Nueva Morococha. Il trasferimento delle 1.200 famiglie iniziò nel 2012 e ancora non si è concluso».

Nel frattempo, tra gennaio e luglio 2017, l’impresa ha estratto 106mila tonnellate di rame. «Anche nel caso di Toromocho – precisa mons. Barreto -, c’è un danno ambientale perché un’attività mineraria, per quanto si possa essere attenti, contamina sempre. Il problema è che nella regione non ci sono molte alternative lavorative. Anche se, come chiesa, abbiamo iniziato un piccolo progetto di produzione tessile che impiega soprattutto donne ma che comunque non basta».

Secondo l’Istituto peruviano di economia, l’attività mineraria genera circa l’11% del Prodotto interno lordo (Pil) del paese, la metà della valuta straniera che entra in Perú, il 20% delle entrate fiscali, oltre a migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.

«Il Perú – racconta mons. Barreto – è sempre stato un paese minerario. Però è anche un paese agricolo. Nella valle del Mantaro le miniere inquinano e, allo stesso tempo, in agricoltura si stanno utilizzando fertilizzanti che nel resto del mondo sono proibiti. Dovrebbe essere trovato un equilibrio tra un’attività mineraria responsabile e un’agricoltura egualmente responsabile».

Mons. Barreto, il vescovo (cardinale) ambientalista, non è a priori contro le miniere. «Io – precisa – direi che l’attività mineraria è necessaria. Non possiamo cioè dire “no” alle miniere. Quello che dobbiamo dire è: in questa riserva, in questo biotopo, in questo parco non può esserci attività mineraria. Un esempio: in questo momento un’impresa mineraria sta esplorando la laguna di Marcapomacocha. Qui occorre rispondere con un secco “no”».

Di certo, guardando al territorio peruviano, sembrerebbe che tutto il paese sia stato dato in concessione. «È vero – conferma il prelato -. Si parla della stessa piazza d’Armi di Cuzco. Un’assurdità. L’attività mineraria dovrebbe essere responsabile e con chiare restrizioni. Non possiamo opporci, ma dobbiamo dire: prima delle miniere sta la responsabilità per la vita e la salute delle persone».

Amazzonia, bioma universale

Dall’Amazzonia alle Ande l’impegno di mons. Barreto in difesa dell’ambiente non è mai cambiato. «A volte mi chiedono come mai un arcivescovo che vive in mezzo alle Ande sia entusiasta dell’Amazzonia. Il fatto è che qui si parla di un bioma che dà vita non solamente a noi ma a tutta l’umanità. Nella Laudato si’ – al numero 38 – il papa descrive l’Amazzonia come uno dei polmoni del mondo assieme alla conca fluviale del Congo».

In generale, però, la consapevolezza della sua importanza vitale è molto scarsa. Anche per questo gli attacchi alla sua integrità si fanno ogni giorno più numerosi. Come ammette anche mons. Barreto:?«Se si chiede a un peruviano della costa se il suo paese è amazzonico, questi risponderà che abbiamo la selva. In realtà, il 63 per cento del territorio peruviano è amazzonico. Abbiamo ancora zone intatte ma abbiamo anche zone infernali come a Puerto Maldonado (visitata dal papa a gennaio 2018, ndr), dove le attività minerarie illegali e informali hanno prodotto disastri. Quando si arriva in aereo si vedono nella foresta grandi fette di territorio dove ormai non cresce un solo filo di vegetazione, distrutta da mercenari che utilizzano il mercurio per cercare l’oro».

Da pochi mesi mons. Barreto, vicepresidente della Repam, è stato nominato membro della commissione (riquadro) istituita per preparare un’assemblea straordinaria sulla Panamazzonia.

«Quella di convocare un sinodo sulla regione amazzonica – chiosa il prelato – è stata una decisione sorprendente di papa Francesco. La prima volta nella storia della Chiesa. In precedenza e in più occasioni, il papa aveva detto che la Chiesa deve avere un volto amazzonico e indigeno (un rostro amazónico y indígena). Come va interpretata questa affermazione? Significa spingere per una conversione ecologica, un nuovo stile di vita, basato non su un paradigma tecnocratico ma su un nuovo paradigma che porti a soluzione il problema socioambientale e offra a tutti una vita degna e solidale».

Paolo Moiola

© Graham Styles


Il segretario esecutivo della Repam

«Vogliamo “amazzonizzare” il mondo»

In tanti parlano di Amazzonia, ma in pochi agiscono per contrastare la sua distruzione. Nata meno di quattro anni fa, la «Rete ecclesiale panamazzonica» (Repam) sta operando nei nove paesi amazzonici e tentando di coscientizzare il resto del mondo sul problema. Ne abbiamo parlato con Mauricio López Oropeza, segretario della Repam.

@ Paolo Moiola

Puerto Leguízamo (Colombia). «Da quando sono entrato in questo territorio, mi è stato rubato il cuore». Mauricio López Oropeza, 40 anni, è messicano e l’Amazzonia l’ha conosciuta in Ecuador dove arrivò dieci anni fa per completare gli studi. Oggi è sposato con Ana Lucía, cittadina ecuadoriana, lavora con la Caritas nazionale ed è segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) dalla sua fondazione.

Mauricio, come si può descrivere l’Amazzonia in poche parole?

«L’Amazzonia non è soltanto un territorio. È un bioma unico. Un sistema vivo in cui i fiumi rappresentano il sangue e le vene. Un sistema diverso e complesso di cui ancora oggi conosciamo pochissimo. I popoli originari che vi vivono rappresentano un modello distinto da quello occidentale».

Negli ultimi cinquant’anni è cambiato il modo di guardare all’Amazzonia.

«È vero. Prima l’Amazzonia era il patio trasero (cortile di casa) del pianeta. Era vista come una terra praticamente disabitata che occorreva dominare, controllare, colonizzare. Le sue popolazioni erano considerate composte da indios selvaggi da civilizzare. Oggi l’Amazzonia si è trasformata in plaza central (piazza centrale) su cui tutti si riversano a causa degli enormi interessi che su di essa si sono scatenati».

Quali sono le minacce principali che gravano sull’Amazzonia?

«La prima minaccia è il modello di sviluppo seguito. È un modello neoliberista che ha nell’estrattivismo la propria manifestazione più devastante. Essendo ricca di petrolio e di risorse minerarie, l’Amazzonia è colpita dalla “maledizione dell’abbondanza”. Ciò produce una pressione enorme a favore dell’estrazione. In questo modo è come bruciare un archivio naturale: non sappiamo quanta ricchezza genetica potrebbe perdersi.

La seconda minaccia è l’espansione della frontiera agricola (con la soia in prima fila) e dell’allevamento bovino in un territorio inadatto a queste attività. La capacità organica dell’Amazzonia è molto più bassa rispetto ad altri territori. Tuttavia, essendo considerata uno spazio disponibile (a dispetto di eventuali territori indigeni), il disboscamento è incessante (siamo ormai al 25% del totale) e questo sta mettendo a rischio tutto il sistema, in primis quello del ciclo dell’acqua».

Distruggere l’ambiente amazzonico significa implicitamente distruggere coloro che lo abitano.

«La terza minaccia riguarda infatti la sopravvivenza stessa dei popoli amazzonici. I più minacciati sono quelli in isolamento volontario (popoli non contattati). Sarebbero 140 nel mondo, 130 di essi nella Panamazzonia e 110-120 nella sola Amazzonia del Brasile. È una sfida enorme. Come salvare queste sorelle e fratelli che vivono in modo completamente distinto da quello occidentale? I popoli indigeni hanno tutto il diritto di entrare, qualora lo vogliano, nelle dinamiche del nostro mondo, ma debbono anche avere la possibilità di preservare il proprio territorio e la propria cultura.

In questo hanno fallito i governi – di destra e di sinistra – che sono andati contro le proprie costituzioni e accordi internazionali sottoscritti».

Qual è la situazione attuale nei paesi amazzonici?

«In tutti i nove paesi abbiamo situazioni problematiche. Il Brasile – sia con Temer che con Dilma – certamente ha fatto passi indietro rispetto al passato. Per esempio, rispetto alla demarcazione delle terre indigene. Il modello neoliberale e accaparratore sta dominando le decisioni politiche brasiliane. Anche in Bolivia, dove si parlava dei diritti della madre terra, si è fatta marcia indietro come nel caso del Tipnis. Qui si è tolta la intangibilità e una strada taglierà in due la riserva. Pare per favorire gli interessi dei produttori di coca con i quali il governo ha una relazione molto diretta. Infatti, il tracciato della strada non favorisce le comunità, ma segue proprio il percorso della coca.

Anche in Ecuador abbiamo fatto tanti bei discorsi, ma oggi – con il paese dipendente dal petrolio – si sta parlando sempre e soltanto di permettere l’esplorazione petrolifera in zone intangibili, naturali, ancestrali. Quando è uscito il primo barile di petrolio dal parco Yasuní hanno festeggiato. Dicono che ci siano standard elevatissimi per la sicurezza, ma sappiamo tutti che non esiste un impatto ambientale nullo.

Nel Perú ci sono continue perdite di petrolio nei territori delle comunità indigene. I popoli Awajún e Wampis sono stati criminalizzati per avere richiesto la consultazione preventiva, anche se essa è un diritto riconosciuto come costituzionale. E poi c’è la terribile situazione di Madre de Dios (vedere MC, giugno 2012).

In Colombia, come in Perú e in Brasile, c’è molta attività mineraria illegale che usa metalli pesanti che contaminano i fiumi. Già ci sono casi di popolazioni indigene malate a causa del pesce contaminato da mercurio. La condizione di postconflitto ha inoltre determinato dinamiche nuove e una situazione paradossale. Riserve naturali che ricadevano nei territori in mano alla guerriglia erano rimaste integre, ora sono esplorate e date in concessione anche per finanziare il processo di pace e dare alternative agli ex guerriglieri.

In Venezuela, c’è la questione legata al cosiddetto arco minero del fiume Orinoco (negli stati Bolivar, Amazonas e Delta Amacuro, ndr). Qui c’è il più grande progetto di estrazione mineraria del paese, proprio in un luogo di alta biodiversità e di presenza indigena. L’impatto sarà molto grave, come dimostrano varie ricerche. Infine, anche nei paesi amazzonici più piccoli – Guyana, Suriname e Guyana francese – ci sono gravi problemi a causa delle miniere. Insomma, il modello estrattivista si sta approfondendo praticamente ovunque».

I governi dei paesi amazzonici sostengono che non ci sia un’alternativa all’estrattivismo.

«Ma neppure si sforzano di trovare strade alternative. Questo modello ha generato un grande debito con le popolazioni originarie e soprattutto il costo della distruzione dell’Amazzonia è assai maggiore dei benefici e mette a rischio il futuro delle prossime generazioni».

Cos’è la «Red eclesial panamazónica»?

«La Repam è uno sforzo di articolazione di distinte istanze della Chiesa cattolica nel gran territorio amazzonico. Anche se è stata fondata soltanto tre anni fa, essa è il risultato di decenni, per non dire secoli, di presenza sul territorio. Una presenza che ha avuto matrici positive ma anche negative. Come dice papa Francesco, dobbiamo iniziare chiedendo perdono per gli errori storici, i peccati e i crimini commessi nel processo di colonizzazione. Oggi però esiste anche una Chiesa profetica con uomini che hanno dato la propria vita per l’Amazzonia. Approfittando della sua presenza capillare su tutto il territorio, la Repam si è posta al servizio della realtà amazzonica e dei suoi problemi».

In quanto «rete», quali modalità di comunicazione privilegiate?

«Come Repam abbiamo relazioni con varie istituzioni del territorio, tra cui anche quelle che si occupano di comunicazione. O meglio di comunicazione per la trasformazione. Come l’Asociación Latinoamericana de Educación Radiofónica (Aler) o Radialistas Apasionadas y Apasionados».

Con Radialistas (vedere MC, aprile 2016) avete collaborato per un lavoro sulla Laudato Si’.

«Vero. Con José Ignacio López Vigil e i suoi collaboratori abbiamo pensato come far arrivare la Laudato Si’, una delle encicliche più potenti in tema ambientale, al cuore della gente e delle comunità. L’enciclica è scritta in un linguaggio diverso, ma rimane anche un’impronta teologica, scientifica e politica. Il nostro obiettivo era di abbassare il tono per renderla comprensibile alle persone semplici. Per questo abbiamo creato una serie radiofonica di 20 puntate in cui San Francesco d’Assisi ritorna sulla terra e scopre i disastri prodotti dall’uomo. Sfruttando la sua abilità nel parlare con tutti, lo facciamo dialogare con il fratello petrolio, con la sorella soia transgenica, con il fratello mais e via dicendo, percorrendo tutta l’America Latina per far intendere l’impatto del cambio climatico e la gravità della situazione».

Mauricio, come avete accolto l’annuncio del Sinodo panamazzonico dell’ottobre 2019?

«Come una grande opportunità. Il nostro slogan è “amazonizar el mundo” (amazzonizzare il mondo). Che significa rendere cosciente il mondo intero dell’importanza vitale di questo territorio unico. Bellissimo, fragile e profondamente minacciato».

Paolo Moiola


Siti

• il sito della diocesi di Huancayo: www.arzobispadodehuancayo.org
• il sito dell’«Observatorio de Conflictos Mineros en el Perú»: http://conflictosmineros.org.pe/
• il sito della «Rede eclesial panamazónica» (Repam): http://redamazonica.org/