Come negli altri paesi, anche in Venezuela nulla sembra fermare la distruzione dell’Amazzonia per mano dell’uomo. È l’attività mineraria illegale a produrre i danni maggiori. Il governo Maduro sembra non avere né la forza né la volontà per cambiare la situazione. Il prezzo di quest’anarchia lo pagano l’ambiente, i popoli indigeni e un esercito di disperati.
Il buco è una voragine gigantesca, profondissima e larga. Una decina di uomini, legati alle corde ma vestiti in modo del tutto inadeguato, sono abbarbicati alle pareti di terra rossa e lavorano di pala per scavare dei gradoni. L’intenzione è di costruire una sorta di via d’accesso alla voragine: non sia mai detto che la natura risulti vincitrice.
La voragine è quello che resta della miniera d’oro a cielo aperto conosciuta con il nome di Bulla Loca («giacimento matto»).
Siamo in località La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana (conosciuta anche come Guayana). Lo scorso 20 febbraio la miniera è franata facendo una trentina di morti tra le centinaia di minatori che vi lavoravano. Minatori illegali di una miniera illegale come moltissime altre. E gli incidenti sul lavoro sono una tragica consuetudine, come quello che il 3 giugno 2023 ha fatto 12 morti a El Callao, sempre nello stato di Bolívar. El Callao è un villaggio la cui vita gira attorno all’estrazione dell’oro: la maggioranza dei suoi 30mila abitanti partecipa direttamente o indirettamente a questa attività. La località è salita alla ribalta delle cronache anche per l’impiego di bambini (addirittura di soli sei anni) nelle sue miniere.
Un’invasione senza fine
Dell’Amazzonia venezuelana si parla poco. Eppure, è importante tanto quanto le Amazzonie più conosciute: quelle del Brasile, del Perù, dell’Ecuador, per esempio. Purtroppo, è anche afflitta dai loro stessi problemi: oltre che dalle attività minerarie, da deforestazione, incendi, inquinamento da mercurio, diffusione della malaria, violazione dei diritti dei popoli indigeni residenti, sfruttamento del lavoro minorile, presenza di gruppi armati.
La regione amazzonica del Venezuela si estende nel Sud del paese attorno al corso del fiume Orinoco (inclusi i suoi affluenti, escluso il delta) e copre quasi interamente gli stati Bolívar e Amazonas più alcune porzioni di altri due (Delta Amacuro e Apure) per un totale di circa 490mila chilometri quadrati (circa metà del Paese, una volta e mezzo la superficie dell’Italia). È abitata da oltre venti popoli indigeni. Secondo il censimento del 2011, gli indigeni sarebbero 54mila in Bolívar e 76mila in Amazonas. Le etnie principali sono i Pemón (30mila), i Uwottüja o Piaroa (20mila), gli Yanomami (15mila) e i Kariña (10mila).
La corsa all’oro uccide
La sfortuna vuole che nel sottosuolo dell’Amazzonia venezuelana si trovino minerali come ferro, bauxite e rame, ma soprattutto oro, diamanti e coltan. Sono questi ultimi tre ad aver scatenato una vera corsa all’attività mineraria, soprattutto quella illegale. Non da oggi, in verità. Da resoconti e cronache dei missionari Cappuccini e dei funzionari dell’epoca, si sa che l’oro venezuelano veniva estratto – con il lavoro forzato degli indigeni – già prima del 1800, e portato in Spagna. Oggi tutti parlano di una presenza di minatori illegali in crescita continua (le stime variano da 50mila a 300mila persone). Una parte importante sono garimpeiros (minatori) brasiliani, soprattutto nell’Alto Orinoco-Casiquiare, straordinaria regione che ospita la Riserva della biosfera dell’Unesco e il Parco nazionale Parima Tapirapeco. Tra l’altro proprio ai minatori brasiliani si deve il massacro di Haximú compiuto nel giugno del 1993 ai danni di un gruppo di Yanomami (anziani, donne e anche bambini) nativi del luogo.
Secondo un rapporto dell’organizzazione ambientalista «Sos Orinoco», molti garimpeiros entrano nella zona con elicotteri e piccoli aerei e – ultima novità – hanno iniziato a utilizzare droni per filmare il territorio. Gli invasori distruggono la foresta per costruire piste di atterraggio e basi operative. In cambio della complicità, la Guardia nazionale venezuelana riceverebbe una parte dei profitti.
«Horonami», l’organizzazione degli Yanomami del Venezuela (162 comunità), ha denunciato che membri della sua popolazione sono stati costretti a lavorare come schiavi dai garimpeiros, che, inoltre, hanno violentato e prostituito donne e ucciso membri delle comunità. Nella loro strategia per arrivare al controllo del territorio rientrano i regali alle comunità indigene: cibo, armi, fucili, machete. Alla gravità della situazione si aggiunge l’indifferenza dello Stato centrale e la complicità dei suoi organi locali, che può anche trasformarsi in violenza diretta.
Nel mese di marzo 2022 c’è stata una disputa tra i militari della base area B7 di Parima e membri della locale comunità indigena, che chiedevano l’accesso al servizio internet. L’alterco si è concluso con la morte di quattro Yanomami. Il tragico episodio riflette tensioni e problemi di una difficile convivenza tra indigeni e non indigeni. A due anni di distanza, la richiesta di giustizia da parte della comunità non ha trovato ancora alcuna risposta da parte delle autorità venezuelane.
Nella vasta regione amazzonica la violenza non è un’eccezione, ma una consuetudine sempre più diffusa. A fine giugno 2022, Virgilio Trujillo Arana, un indigeno Uwottüja di 38 anni, è stato ammazzato con tre spari alla testa a Puerto Ayacucho, capitale dello stato di Amazonas. L’uomo era un attivista ambientale. Nel municipio di Autana era, infatti, coordinatore di un gruppo di difesa indigeno contro le invasioni territoriali e le attività minerarie illegali.
Secondo l’Observatorio para la defensa de la vida (Odevida), «tra il 2013 e il 2021, 32 leader indigeni e ambientalisti sono stati assassinati, 21 dei quali da sicari minerari o membri di organizzazioni di guerriglia colombiane, e 11 da membri delle Forze armate nazionali bolivariane (Fanb)».
Tuttavia, non tutti i popoli indigeni dell’Amazzonia venezuelana affrontano il problema delle minerie allo stesso modo.
I Pemónes, il maggiore gruppo indigeno della regione, vivono nei territori di Sud Est dello stato Bolívar, a ridosso del confine con Brasile e Guyana. Il loro territorio è annoverato tra i più ricchi di oro al mondo e per questo estremamente attrattivo. Già un certo numero di indigeni lavora nelle miniere aurifere, altri chiedono al governo centrale di porre fine allo sfruttamento illegale del loro territorio e di istituire miniere legali sotto controllo Pemón.
Dall’anarchia all’«Amo»
Dopo la scomparsa di Hugo Chávez (2013), con la presidenza di Nicolás Maduro il Venezuela è precipitato in una crisi infinita. Anche per far fronte alla perdita di gran parte delle entrate petrolifere, nel 2016 il governo di Caracas ha varato il progetto «Arco minero del Orinoco», noto con l’acronimo di Amo. L’Arco minerario occupa un’area di 111.843 chilometri quadrati di territorio nel Nord e nell’Est dello stato di Bolívar, più grande del Portogallo o di Cuba, 12% della superficie del Venezuela.
Sul sito del ministero (dal nome altisonante: Ministerio del poder popular de desarrollo minero ecológico), gli obiettivi propagandati sono «pace, protezione ambientale e prosperità economica» da raggiungere attraverso il «controllo della catena produttiva mineraria» con «una delimitazione delle aree minerarie e la protezione delle zone sacre ancestrali».
A questa narrazione edificante si contrappone una realtà molto diversa. Come riassume «Sos Orinoco»: «I risultati sono stati catastrofici sia per la regione che per la sua popolazione e gli ecosistemi. Avrà effetti tragici e duraturi – forse irreversibili – in Venezuela e oltre i suoi confini». Se è vero che queste critiche sono fatte da un’organizzazione antigovernativa, è altrettanto vero che altri arrivano alle stesse identiche conclusioni. In particolare, Wataniba, gruppo socioambientale venezuelano, la Chiesa cattolica e la Repam (Red eclesial pan amazónica).
A oggi, nell’Amazzonia venezuelana vige l’anarchia con le mafie e i gruppi armati illegali a dettare legge. Gli investitori stranieri millantati da Maduro («35 paesi sono interessati», aveva assicurato il presidente) sono rimasti lontani. Anche la Cina – specialista in business strategici – e sempre privilegiata dal governo di Caracas è rimasta cauta. In compenso, la distruzione ambientale e l’avvelenamento da mercurio si sono diffusi andando ben oltre i confini teorici dell’Arco minero.
Oggi tutti i parchi e le aree protette dell’Amazzonia venezuelana sono sotto attacco. Come il Parque nacional cerro Yapacana (Amazonas) che, a fine 2023, è stato oggetto di una propagandata operazione – nota come Operación Autana – da parte delle Forze armate bolivariane con questi risultati ufficiali: 86 miniere sotterranee chiuse, 241 imbarcazioni sequestrate, 4.450 villaggi improvvisati distrutti, 14mila persone espulse. Tuttavia, come fossero vasi comunicanti, liberata una zona, il problema si ripresenta in un’altra, passando – ad esempio – dal Parco Yacapana a quello di Canaima (Bolívar).
Come quasi sempre accade, la ricchezza di un luogo naturale è anche la sua dannazione perché attrae appetiti umani senza limiti ed eserciti di poveri disposti a tutto pur di cambiare la propria esistenza. Succede in tutta l’Amazzonia e quella del Venezuela non fa eccezione.
Paolo Moiola
Africa. Fame di energia
Anche in Africa la corsa alle energie rinnovabili è aperta. Il continente è il maggiore produttore al mondo di minerali necessari alla transizione verde. Solitamente sfruttati da altri. Intanto anche il nucleare si sta facendo strada. Il caso Rwanda.
Negli ultimi anni, molti Paesi africani – come diversi altri nel mondo – hanno iniziato a investire in una diversificazione delle proprie fonti energetiche, guardando sempre di più all’introduzione delle rinnovabili. Una decisione derivante, da un lato, dalla necessità di garantire una fornitura sicura e capillare di energia elettrica a cittadini e imprese e, dall’altro, dall’esigenza sempre più pressante di sviluppare politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico.
A caccia di elettricità
In Africa subsahariana, la domanda di elettricità è in crescita, ma, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (organizzazione intergovernativa che coordina le politiche energetiche dei Paesi membri), circa 600 milioni di persone e 10 milioni di piccole imprese ancora non vi hanno accesso. La necessità di soddisfare questa richiesta sta quindi imponendo agli Stati del continente di ripensare il proprio mix energetico, introducendo nuove fonti. Per la generazione di elettricità, infatti, molti Paesi dipendono ancora da petrolio e gas naturale, i quali, oltre a inquinare, hanno spesso elevati costi di importazione per chi non li produce.
Nel mentre – di fronte all’accelerare del cambiamento climatico e alla crescente consapevolezza dell’irreversibilità dei suoi effetti -, crescono anche le pressioni occidentali sui Paesi del Sud globale affinché adottino politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico. Nei fatti, questo vuol dire che regioni come l’Africa – l’area che in tutto il mondo emette la minore quantità di gas serra e che però, con Asia meridionale e America Latina, subisce la maggioranza degli effetti del cambiamento climatico – devono sviluppare e realizzare piani di transizione ecologica.
Al di là delle difficoltà economiche che molti Stati del continente affrontano per ottenere i fondi necessari a sviluppare queste politiche o per ripagare i tassi di interesse – spesso elevati – posti sui prestiti di Paesi occidentali e organizzazioni internazionali, lo sviluppo delle energie rinnovabili sta diventando un punto imprescindibile delle agende politiche di molti governi africani.
Ricchezza fatale
Poche aree del mondo si collocano al centro della transizione ecologica mondiale come l’Africa. Da un lato, il continente è ricco di risorse minerarie essenziali per la produzione di dispositivi come pannelli solari, auto elettriche e computer, tanto da essere al centro di una corsa all’accaparramento da parte di multinazionali e Stati stranieri, interessati a sfruttare il più possibile i suoi giacimenti (vedi box).
Dall’altro, l’Africa ha un potenziale di generazione di energie rinnovabili enorme. Ad esempio, il deserto del Sahara è l’area del mondo che riceve la maggiore quantità di sole in un giorno. I numerosi fiumi che attraversano tutto il continente permettono la produzione di energia idroelettrica, mentre nella zona della Rift Valley (Africa orientale) il calore del sottosuolo è utilizzabile per l’enegia geotermica.
Tuttavia, lo sfruttamento di queste fonti energetiche ha una doppia faccia. In Paesi dove la rete elettrica non è capillare e le aree rurali sono spesso tagliate fuori dalla fornitura nazionale, la possibilità di installare piccole unità di generazione elettrica (soprattutto pannelli solari, ma anche piccole centrali idroelettriche e pale eoliche) renderebbe intere comunità autonome. Dall’altro lato, però, i costi da sostenere sono consistenti e spesso improponibili per gli abitanti delle aree rurali. Inoltre, sovente l’installazione di questi impianti priva le popolazioni di aree di coltivazione o pascolo. Essi quindi dipendono da sussidi statali, investimenti e progetti stranieri per l’installazione e la messa in funzione delle infrastrutture necessarie per sfruttare il potenziale energetico del territorio circostante.
Attrazione nucleare
Tra tutte le fonti di energia, ce n’è una sempre più apprezzata in Africa, benché non sia tra quelle universalmente considerate come rinnovabili: il nucleare. La costruzione di centrali, anche solo in numero limitato, offrirebbe infatti la possibilità di produrre un’elevata quantità di energia, indipendentemente da stagione, momento della giornata e condizioni meteorologiche, a differenza di altre fonti rinnovabili. In più, secondo i governi di molti Paesi, nel lungo periodo, il nucleare garantirebbe una maggiore quantità di elettricità a costi minori rispetto alle fonti attualmente utilizzate e senza produrre emissioni di anidride carbonica. Inserito nel mix energetico, a fianco delle fonti rinnovabili, il nucleare permetterebbe quindi agli Stati africani di accelerare nella transizione ecologica, garantire elettricità a un maggior numero di abitanti del continente, supportare la crescita industriale e creare nuove opportunità lavorative.
Attualmente, tre Paesi – Namibia, Sudafrica e Niger – estraggono uranio in quantità tali da soddisfare il 18% della produzione mondiale. Ma giacimenti significativi – in alcuni casi già parzialmente sfruttati, in molti altri non ancora – si trovano anche in altri Stati come Botswana, Malawi, Mauritania, Tanzania e Zambia. Tanto che diversi Paesi hanno iniziato a muoversi concretamente per avviare la costruzione di siti nucleari. Ben presto, quindi, la centrale sudafricana di Koeberg – dotata di due reattori da duemila megawatt ciascuno – potrebbe non essere più l’unica nel continente.
Quarantacinque Paesi africani stanno cooperando con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organizzazione per lo sviluppo del nucleare con finalità civili che definisce i perimetri operativi e infrastrutturali affinché i programmi siano sicuri, protetti e sostenibili. L’obiettivo è accertarsi che la costruzione e attivazione delle centrali permetta di affrontare le priorità energetiche, sociali ed economiche degli Stati interessati, oltre a verificare il rispetto delle misure di sicurezza necessarie.
Più avanti è invece l’Egitto che a el-Dabaa ha già iniziato la costruzione del suo primo impianto. Composta da quattro reattori da 1.200 megawatt ognuno, la centrale è frutto della cooperazione de Il Cairo con Rosatom, azienda statale russa per lo sviluppo dell’energia atomica.
Infatti, diversi attori stranieri – sia Stati che imprese – stanno contribuendo a rendere sempre più attraente lo sviluppo del nucleare in Africa. Paesi come la Cina, ma ancor di più la Russia, sono protagonisti della corsa al nucleare nel continente.
Isolata a livello internazionale, Mosca mira a rafforzare i propri legami con diversi alleati – tra cui i Paesi africani -, e il nucleare è uno dei suoi tanti strumenti di cooperazione. Rosatom offre infatti contratti all-in-one (letteralmente, «tutto in uno») particolarmente apprezzati: l’azienda si occupa di tutte le fasi del progetto, dalla costruzione dell’impianto alla formazione dei lavoratori locali, dalla fornitura di uranio alla gestione delle scorie.
Il caso Rwanda
Uno dei Paesi africani che più sta investendo in energie rinnovabili è il Rwanda. Con l’obiettivo di raggiungere il 100% dell’elettrificazione nazionale nei prossimi anni, il Governo sta puntando sempre di più sullo sviluppo della rete elettrica, di sistemi autonomi di accesso all’elettricità per le comunità rurali e di fonti energetiche alternative a petrolio e gas.
Secondo il ministero rwandese dell’Infrastruttura, già nel 2018, il 53% dell’elettricità nel Paese proveniva da fonti rinnovabili, una cifra che tre anni dopo era cresciuta al 62%.
Nel 2022, metà della produzione energetica nazionale era soddisfatta dalla generazione idroelettrica, grazie a 37 centrali connesse alla rete statale e ad altri undici piccoli impianti che garantivano elettricità alle comunità rurali non toccate dalla fornitura nazionale. Tra queste comunità, diffusi sono i pannelli fotovoltaici, utilizzati soprattutto per sostenere l’irrigazione e l’illuminazione nei contesti agricoli. Mentre ancora poco sfruttato è il potenziale geotermico che in prospettiva potrà esserlo, dato che il Paese si colloca nella Rift Valley.
Interessi nucleari
E poi ci sono gli investimenti nel nucleare. Secondo quanto dichiarato da Fidel Ndahayo al momento della sua nomina a presidente del Consiglio rwandese dell’energia atomica, l’introduzione di questa tecnologia – applicabile in numerosi ambiti come medicina, industria e agricoltura – è un tassello fondamentale «per raggiungere la totale elettrificazione del territorio nazionale, soddisfare la domanda di energia dei cittadini, stimolare la crescita del settore industriale e sviluppare un’economia resiliente al cambiamento climatico».
Finanziamenti russi – arrivati grazie a un accordo di cooperazione tra Kigali e Mosca firmato nel 2018 e approfondito negli anni successivi – stanno supportando la costruzione e messa in funzione di un Centro per la scienza e la tecnologia nucleare, finalizzato allo studio e allo sviluppo del nucleare nel Paese.
Inoltre, un’intesa da 75 milioni di dollari siglata a settembre 2023 con Dual fluid energy, azienda canado-tedesca del settore, è finalizzata a sviluppare e testare in Rwanda un reattore dotato di una tecnologia innovativa, ritenuta più efficiente e sicura di quella tradizionale e in grado di produrre una quantità minore di scorie.
Nel quadro di quest’ultimo accordo, Kigali ha accettato di fornire sito e infrastrutture dove realizzare la sperimentazione, mentre Dual fluid energy si è assunta la responsabilità dell’implementazione tecnica del progetto e della formazione degli scienziati locali.
Il governo rwandese non nasconde la propria ambizione di diventare, nei prossimi anni, un punto di riferimento per lo sviluppo del nucleare in Africa. Invece di limitarsi a siglare accordi per la costruzione di centrali per la produzione di elettricità, la sua strategia mira alla ricerca e allo sviluppo di soluzioni innovative per il futuro. Se la sperimentazione di Dual fluid energy, infatti, dovesse concludersi con esito positivo (ci si aspetta che il reattore sia operativo nel 2026, mentre i test dovrebbero terminare nel 2028), oltre ad aggiungere questa tecnologia al mix energetico già esistente, il Rwanda si porrebbe come riferimento per la produzione e la diffusione dei nuovi reattori in Africa centrale, ma anche nell’intero continente.
Investimenti e rischi
Investire nel nucleare però non è esente da rischi, a maggior ragione in Paesi con un contesto sociale, economico e di sicurezza fragile. Diversi sono gli interrogativi, a partire dai costi elevati e dai tempi lunghi per la costruzione degli impianti, fino ad arrivare alla garanzia di sicurezza delle centrali e del territorio circostante.
La sola costruzione di un reattore da mille megawatt richiede generalmente cinque miliardi di dollari statunitensi e dieci anni, dal momento dell’approvazione del progetto a quello di inizio della generazione elettrica. Uno sforzo economico e di tempo non da poco che la maggior parte dei Paesi del continente non è in grado di sostenere autonomamente. Dunque, la necessità di prestiti o finanziamenti – spesso erogati con elevati tassi di interesse da altri Stati o organizzazioni internazionali – crea una dipendenza nei confronti dell’entità finanziatrice che si può protrarre per diversi anni.
A ciò si affiancano i timori sulla sicurezza degli impianti e del territorio circostante. Se, nel primo caso, l’auspicio è che vengano seguite le direttive dell’Aiea; nel secondo, la preoccupazione è maggiore. Molti Paesi, che stanno investendo nel
nucleare, o sono interessati a farlo, sono caratterizzati da una situazione sociale, politica e militare altamente instabile a causa della presenza di movimenti armati e tensioni sociopolitiche. Un’escalation di scontri nelle vicinanze di una centrale nucleare avrebbe effetti – potenzialmente – devastanti.
Senza dimenticare il rischio posto da eventi meteorologici estremi o disastri ambientali, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico. Se poi l’evento destabilizzante dovesse verificarsi in un Paese ad alta densità abitativa – come, ad esempio, il Rwanda, dove per ogni chilometro quadrato vivono 547 persone -, le ripercussioni rischierebero di essere drammatiche.
È per questo che diversi studiosi si chiedono se effettivamente il nucleare – tra tutte le fonti energetiche – sia la soluzione per l’energia africana. La risposta che finora si sono dati non è così certa. Ma i Paesi africani sembrano pensarla diversamente: per loro il nucleare è il futuro del continente.
Aurora Guainazzi
Siglato un accordo Ue-Rwanda sui metalli strategici
Così si finanziano le guerre
Il 19 febbraio, l’Unione europea (Ue) e il Rwanda hanno siglato un accordo di cooperazione incentrato sui minerali essenziali per la produzione di molti dei dispositivi al centro della transizione ecologica. L’obiettivo dell’intesa è «rafforzare il ruolo del Rwanda nella promozione dello sviluppo durevole e delle catene di valore resilienti in Africa». Ovvero, si prevedono investimenti europei (realizzati nell’ambito del Global Gateway, la strategia dell’Ue per gli investimenti in settori critici) per lo sviluppo del settore minerario rwandese, con particolare attenzione a risorse come tantalio, stagno, tungsteno, oro, niobio, litio e terre rare. Nei fatti, l’obiettivo ultimo dell’Ue è garantirsi un approvvigionamento sicuro e durevole di minerali sempre più importanti per il futuro della transizione ecologica.
Ma buona parte delle risorse minerarie esportate dal Rwanda, in realtà, non è estratta nel Paese (i cui giacimenti sono limitati e poco sfruttati). Piuttosto, proviene dalle province orientali della Repubblica democratica del Congo (Rdc), dove la diffusa conflittualità e l’incapacità del governo centrale di essere presente efficacemente su tutto il territorio facilitano il contrabbando di minerali nei Paesi vicini, tra cui, il Rwanda. Flussi commerciali illegali che sono stati denunciati in rapporti delle Nazioni Unite e da organizzazioni come Global witness (un ente che analizza il legame tra conflitti e risorse). Proprio una recente indagine di Global witness ha evidenziato come, negli ultimi anni, solo il 10% dei minerali esportati dal Rwanda fosse stato realmente estratto nel suo territorio, mentre il restante provenisse dalla Rdc.
Non a caso, la reazione del governo congolese all’accordo è stata particolarmente dura. Kinshasa ha criticato l’Ue e denunciato che il Rwanda «non ha nel suo sottosuolo nemmeno un grammo di questi minerali». Invece, si appropria di quelli congolesi, grazie al contrabbando dei movimenti armati attivi nell’Est della Rdc e al saccheggio dei militari rwandesi presenti illegalmente nelle province orientali a supporto del Movimento del 23 marzo (M23). A inasprire ulteriormente la reazione di Kinshasa è stata anche la consapevolezza che l’accordo del 19 febbraio non è l’unica forma di collaborazione esistente tra Rwanda e Ue. Kigali è infatti un importante alleato politico, ma soprattutto militare dell’Occidente, tanto che Stati Uniti e Ue addestrano e riforniscono il suo esercito.
A questo proposito, un comunicato del Mouvement citoyen lutte pour le changement (Lucha), organizzazione della società civile congolese, denuncia che «i soldati rwandesi che l’Ue sta addestrando e finanziando probabilmente saranno mandati nella Rdc […] e che gli accordi minerari che l’Ue sta firmando saranno utilizzati per riciclare le risorse minerarie congolesi saccheggiate dall’esercito rwandese nella Rdc».
Una volta giunti a conoscenza dell’accordo, gli abitanti di Kinshasa hanno protestato di fronte alle ambasciate occidentali. Mentre a Goma, capitale del Nord Kivu, la notizia ha rinfocolato il persistente sentimento di malcontento nei confronti dell’Occidente (e dei caschi blu delle Nazioni Unite): molti abitanti sono scesi in strada, manifestando e bruciando le bandiere dei Paesi occidentali (in particolare di Francia e Stati Uniti) e del Rwanda.
A.G.
(Paesi di) Serie A e serie B
Mentre scriviamo seguiamo con apprensione la guerra in Repubblica democratica del Congo. All’Est, le milizie dell’M23 stanno prendendo d’assedio la città di Goma, capitale del Sud Kivu. Due milioni di persone sono prese in trappola e la situazione umanitaria è grave. A causa del conflitto nella regione, inoltre, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha censito 6,9 milioni di sfollati interni, la maggior parte dei quali sono in condizioni di necessità di tipo umanitario: «La Rdc sta vivendo una delle più grandi crisi umanitarie e di spostamento interno di popolazione del mondo».
L’inizio della guerra nell’Est della Rdc si fa risalire al 2 agosto del 1998, quando milizie di etnia banyamulenge attaccarono Goma appoggiate da Rwanda e Uganda, paesi confinanti. Da allora, alcuni conteggi parlano di almeno dieci milioni di morti. Oggi la situazione non è cambiata. I sedicenti «ribelli» si chiamano M23, sono sempre finanziati e dotati di armamenti moderni dal Rwanda. La Missione delle Nazioni Unite in Congo (Monusco), presente nel paese dal 2000, ha ammesso di non avere armi per fronteggiarli. Sullo stesso territorio è presente una missione della Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale) con militari sudafricani, tanzaniani e malawiti.
L’esercito ruandese è invece entrato nel Paese (con un’invasione) nella primavera 2022 per appoggiare l’M23, e recentemente si prospettava un’altra aggressione, poi non avvenuta, in quanto truppe erano ammassate a Gisenyi, città ruandese confinante con Goma. Nell’Est della Rdc gli interessi dei Paesi confinanti sono soprattutto minerari. L’area è ricca di coltan (niobio e tantalio) e di altri elementi, essenziali per la realizzazione di componenti elettronici e batterie, ovvero vitali per mettere in atto la «transizione verde». Minerali che prendono illegalmente la via del Rwanda, dove sono lavorati e venduti a paesi terzi. L’Unione europea, il 19 febbraio, ha firmato un accordo con Kigali proprio sulle «materie prime critiche e strategiche» che prevede, tra l’altro, investimenti nel paese africano per assicurarsene la fornitura. Il governo di Kinshasa e la società civile congolese hanno duramente criticato l’accordo, ricordando che il Rwanda non è produttore di tali minerali ma li «preleva» in Congo. L’Ue sta dunque finanziando indirettamente la guerra.
Le domande che sorgono spontanee sono le seguenti: perché una guerra tanto lunga e importante in termini di vittime non provoca un intervento internazionale di mediazione? Perché i paesi occidentali appoggiano il paese aggredito se è europeo, mentre in Africa chiudono gli occhi e finanziano il Paese aggressore? Siamo dell’idea che l’Unione europea e gli Usa dovrebbero fare pressioni sul Rwanda affinché cessi di «appoggiare» l’M23, e interrompere ogni cooperazione economica e militare. Altri Paesi sul continente africano vivono guerre che hanno poca voce in Europa, e non trovano sforzi di mediazione nelle cancellerie.
In America Latina, inoltre, alcune grosse crisi sono dimenticate, come quella interna al Venezuela, che ha già spinto circa sei milioni di venezuelani a lasciare il Paese, per andare a vivere in condizioni di miseria in altri Stati della regione. Oppure in Ecuador, nel quale si sta consumando una guerra civile tra Stato e narcotrafficanti. O ancora in Nicaragua, dove una dittatura famigliare sta tenendo in scacco quasi sette milioni di abitanti.
Noi pensiamo che la guerra sia sempre un errore, ma anche che non ci siano popoli e paesi di serie A e altri di serie B. Crediamo nel principio di autodeterminazione di tutti i popoli e nell’universalità dei diritti umani. Che le vittime dei conflitti in Rdc e in altri paesi africani e latinoamericani siano importanti quanto quelle europee e mediorientali.
Cambiamenti
Prendendo tra le mani il numero di MC di marzo avrete notato qualcosa di diverso. La novità sta soprattutto nel tipo di carta. Speriamo che vi piaccia. Abbiamo deciso per questo cambiamento sia perché occorre sempre rinnovarsi, sia perché ci consente di investire maggiori risorse nel settore digitale della rivista. In effetti, da alcuni mesi il sito web di Missioni Consolata (www.rivistamissioniconsolata.it) è diventato uno spazio nel quale sono pubblicati articoli settimanali, oltre a tutti gli approfondimenti del mensile. Questa operazione ci permette di fornire un’informazione più tempestiva e aggiornata, ma anche di aumentare con molti contenuti l’offerta per il lettore. Vi invitiamo dunque a seguirci anche sul web.
Il litio della Serbia: Un rio rosso sangue
La multinazionale mineraria Rio Tinto ha una lunga storia di conflitti ambientali e sociali. Uno degli ultimi riguarda la valle del Jadar in Serbia, dove, insieme al governo, ma senza consultare le popolazioni locali, vuole estrarre litio per la «transizione energetica».
Qual è il filo che unisce un villaggio spagnolo dell’Andalusia latifondista di fine Ottocento, una caverna nello Juukan Gorge dell’Australia occidentale e il fiume Jadar in Serbia?
La multinazionale mineraria anglo australiana Rio Tinto. Una delle più grandi al mondo, con 150 anni di storia, tutti tristemente macchiati da conflitti e ripetute violazioni di diritti umani e ambientali.
Rio Tinto rosso sangue
La storia dell’impresa iniziò a Londra nel 1873. Già pochi anni dopo, in Andalusia, Spagna, dove l’azienda estraeva la pirite da cui si ricavava il rame con un processo chimico che avvolgeva la zona di fumi tossici, fu coinvolta in una strage.
Il 4 febbraio 1888, infatti, dodicimila lavoratori manifestarono con le loro famiglie nella piazza del municipio di Rio Tinto, provincia di Huelva, al grido di «Abajo los humos» (abbasso i fumi), incontrando l’esercito che uccise, si stima, 200 persone.
Per quel massacro l’impresa non riconobbe mai nessun tipo di responsabilità e continuò a operare, esportare materiali e fare profitti in Spagna, anche durante la dittatura franchista, fino al 1954, quando ritirò i suoi investimenti e li rivolse altrove, in particolare nell’attuale Zambia, in Canada e Australia.
Alti profitti (e debiti ecologici e sociali)
Così inizia il curriculum di quella che è oggi un gigante minerario presente in almeno trentasei paesi, e con un fatturato, al netto delle tasse, da 10,4 miliardi di dollari nel 2020.
Durante i suoi 150 anni, la Rio Tinto è stata accusata di corruzione, violazione dei diritti umani e delitti ambientali.
L’EjAtlas (l’Atlante globale di giustizia ambientale) raccoglie almeno trenta casi di conflitti di questa azienda con popolazioni locali e organizzazioni sociali in tutti i continenti.
Sull’isola di Bougainville, in Papua Nuova Guinea, ad esempio, la miniera di rame di Panguna è stata la causa di una guerra decennale contro la popolazione che protestava per gli impatti negativi della sua attività estrattiva sulla salute umana e sull’ecosistema, e per l’accaparramento indebito dei benefici. Le vittime si stimano nell’ordine di 20mila. Rio Tinto ha beneficiato di connivenze con l’esercito e non ha mai riconosciuto nessuna responsabilità.
In Australia, nel 2020, Rio Tinto ha fatto esplodere una caverna nella gola dello Juukan, un sito archeologico di più di 4.000 anni, considerato un luogo sacro dagli aborigeni locali.
In Mongolia, l’acquisizione di terre e la contaminazione di riserve idriche sono al centro delle preoccupazioni in Oyu Tolgoi, dove ai pastori nomadi è impedito l’accesso a terra e acqua a favore della più grande miniera di rame e oro al mondo.
In Madagascar si accusa Rio Tinto di rilasciare acque contaminate, e persino materiale radioattivo, nella zona costiera.
La multinazionale ha un bilancio da capogiro, ma anche il suo debito ecologico e sociale lo è.
La jadarite di Serbia
Negli ultimi anni, come tutte le grandi aziende, anche Rio Tinto cerca di affermarsi nell’estrazione di materiali «critici» per la transizione energetica e digitale. Ed eccoci, dunque, giunti in Serbia: nel 2004, mentre la società conduceva nella valle del Jadar, culla del grano serbo, ispezioni geologiche alla ricerca di borati, usati nei fertilizzanti, trovò un nuovo minerale, fino a quel tempo sconosciuto, una combinazione di borati e litio, cui fu dato il nome jadarite.
Il litio è un minerale centrale per il modello energetico attuale e, in specifico, per le batterie delle auto elettriche.
Quello del Jadar fu destinato in gran parte all’industria tedesca. La sua domanda mondiale è raddoppiata negli ultimi tre anni e le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia ne indicano per il 2040 una crescita di tredici volte l’attuale.
I piani Next generation e di ripresa dell’economia post pandemia dell’Unione europea incalzano tale tendenza lasciando poco spazio al dibattito. Sarebbe, infatti, necessario ripensare la transizione energetica in termini diversi da quelli della crescita economica attraverso l’aumento di tecnologie. Invece, per ripartire, continuiamo a insistere sulla stessa ricetta che ha portato alla crisi.
La «miniera verde»
Rio Tinto ha costruito gran parte delle sue fortune sul carbone e sull’uranio. Ha venduto le sue ultime partecipazioni nel carbone nel 2018 e ha chiuso l’ultima miniera di uranio all’inizio del 2021. Tuttavia, l’azienda è ben lontana dal diventare un’«impresa verde». Le sue operazioni per l’estrazione di ferro, rame e alluminio causano enormi emissioni di gas serra, e, come detto, molte sono oggetto di critica per l’impatto ambientale e le violazioni dei diritti umani. Inoltre, è accusata dall’opinione pubblica e dai suoi azionisti di ritardare l’azione contro il cambiamento climatico rifiutando di fissare obiettivi di riduzione delle emissioni Scope 3 (quelle indirette derivanti dalle sue attività).
Progetto Jadar
Torniamo alla valle del fiume Jadar: nel 2017 il governo serbo e la Rio Tinto hanno firmato un memorandum d’intesa, considerato dai due cofirmatari come uno dei progetti minerari più innovativi del mondo, che avrebbe fatto della Serbia un paese leader nella «transizione verde».
La costruzione degli impianti sarebbe dovuta iniziare nel 2022, ma a gennaio dello stesso anno, la prima ministra serba Ana Brnabic ha annunciato la cancellazione del progetto da 2,4 miliardi di dollari a causa delle proteste che aveva generato. Va notato, per inciso, che il governo serbo, mentre sostiene gli investimenti privati nel litio, continua a sovvenzionare le operazioni di estrazione del carbone, una politica criticata dalla Energy community e denunciata dalla Ong serba Renewables and environmental regulatory institute (Reri) per il superamento dei livelli di inquinamento.
Le premesse dello stop
L’azienda è presente nell’area del Jadar da quasi due decenni, ma le informazioni cruciali sul progetto sono state divulgate solo quando il governo ha pubblicato una bozza del nuovo Piano territoriale che, nel novembre 2019, ha definito l’area come destinata all’esplorazione mineraria. Dopo 30 giorni di «approfondimento pubblico» senza alcuna modifica significativa, il Piano è stato approvato nel marzo 2020.
Le organizzazioni locali hanno sottolineato che la popolazione non era stata coinvolta nel processo di consultazione.
Da allora, le voci del malcontento si sono fatte più forti e si è assistito a una mobilitazione aperta a livello locale e nazionale. Il Piano territoriale, secondo i critici, presentava molteplici e gravi difetti che lo rendevano «illegittimo».
La Rio Tinto aveva commissionato la stesura del Piano territoriale al ministero delle Costruzioni, dei Trasporti e delle Infrastrutture, ma la bozza del Piano è stata prodotta, presentata e approvata dal Governo prima di una serie di altre procedure che l’azienda avrebbe dovuto seguire: ad esempio, la valutazione di impatto ambientale.
Nel frattempo, la società ha portato avanti i lavori di esplorazione fino al 2020.
La quantità e il volume di minerale da estrarre e lavorare non sono stati dichiarati in modo definitivo nel Piano. Esso, infatti, cita una stima, prodotta dalla società nel 2017, di 136 Mt (136 milioni di tonnellate). Successivamente, nel dicembre 2020, la società ha invece dichiarato che le risorse erano pari a 155,9 Mt.
Inoltre, il Piano territoriale è stato sviluppato per un periodo di funzionamento della miniera di 30 anni, mentre il direttore di Rio Sava (la sezione serba di Rio Tinto), in una successiva intervista, ha parlato di «più di 50 anni». Difficile dunque sapere a chi e a cosa credere.
Coltivare o estrarre?
La valle del Jadar si estende su pianure coltivate e colline punteggiate da ventidue villaggi che vanno da un centinaio di abitanti a poco più di 2.500.
Gli agricoltori locali coltivano diversi prodotti, soprattutto lamponi e prugne, si dedicano all’apicoltura, all’allevamento di bestiame, alla pastorizia ovina e caprina. Alcune Ong locali denunciano che gli abitanti della zona hanno saputo solo nell’autunno del 2020 che i loro appezzamenti erano stati riconvertiti da lotti agricoli a edificabili (per la futura costruzione degli impianti) e che sarebbe stato, quindi, impossibile per loro richiedere prestiti agricoli, oltre al fatto che avrebbero pagato tasse più alte.
Dal giugno 2020, l’azienda ha avviato il processo di acquisizione dei terreni che continua ancora oggi, nonostante lo stop al progetto. Gli abitanti del luogo hanno riferito di aver subito pressioni per vendere.
Lo sviluppo della miniera comporterebbe l’acquisto di appezzamenti da almeno trecento proprietari privati e lo spostamento di oltre cinquanta famiglie di agricoltori, con impatti imprecisati su molte altre aziende agricole nell’area circostante.
Rio Tinto sostiene di aver sviluppato «forti relazioni» con le comunità locali. Tuttavia, le organizzazioni territoriali e gli abitanti lamentano una scarsa comunicazione con l’azienda e la mancanza di informazioni sugli impatti socio ambientali e gli aspetti tecnici del progetto. I residenti hanno riportato di sentirsi «abbandonati» dallo stato nel trattare con una multinazionale il cui capitale è più grande dell’intero Pil del Paese.
Terra: storia e biodiversità
Nella zona interessata dal Piano territoriale ci sono cinquantadue siti del patrimonio culturale, tra cui località preistoriche, siti di epoca romana, insediamenti del Medioevo.
La zona mineraria era prevista tra due importanti aree naturali: il monte Cer e le pendici dell’Iverak.
La catena montuosa è una zona importante per la biodiversità e l’avifauna. Vi sono presenti tre specie inserite nella lista rossa dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura): l’assiolo eurasiatico, il picchio verde eurasiatico e il picchio rosso medio.
Il Cer è in procinto di essere riconosciuto come Landscape of outstanding features (panorama con caratteristiche eccezionali). A poco più di 5 km a est e a sudest dall’area del progetto si trova il «paesaggio di particolare pregio Tršić-Tronoša», abitato da 145 specie vegetali e animali protette.
La rete idrografica
Una delle preoccupazioni maggiori riguarda l’inquinamento delle fonti idriche.
Nella zona di estrazione prevista scorrono i fiumi Jadar e Korenita, e il sottosuolo è ricco di acque sotterranee. Venti chilometri a valle, il Jadar confluisce nel Drina, il principale fiume che scorre tra la Serbia e la Bosnia-Erzegovina unendosi poi alla Sava e al Danubio. In particolare, i bacini idrografici dei fiumi Jadar e Korenita e dei loro affluenti sono soggetti a un aumento della frequenza e gravità delle inondazioni improvvise, tra cui quelle devastanti del maggio 2014 e del giugno 2020.
La Serbia occidentale sta soffrendo un impatto del cambiamento climatico superiore alla media globale, con un aumento dell’intensità delle precipitazioni e delle inondazioni, oltre che dei periodi di siccità.
La terra ferita non dimentica
La miniera di Rio Tinto non sarebbe stata l’unica nel territorio. Nella più ampia regione intorno al Jadar e alla vicina città di Loznica, non si sono dimenticate le storiche miniere di stagno e antimonio che hanno lasciato problemi di tossicità e inquinamento. Drammatica è stata la recente lotta contro l’inquinamento causato dalla fonderia e dalla discarica di Zajača, con elevati livelli di piombo rilevati nel sangue dei bambini locali.
Nel bacino di Korenita, a seguito delle inondazioni del maggio 2014, 100mila tonnellate di rifiuti tossici sono fuoriuscite dalle strutture in disuso della miniera di antimonio di Stolice, contaminando 27 km di costa e 360 ettari di terreno coltivabile.
Poiché la società responsabile è fallita poco dopo (e il suo direttore è stato accusato di frode fiscale), la bonifica è stata lasciata nelle mani del governo.
La condizione problematica della democrazia, dello stato di diritto e dei media nel Paese, i numerosi problemi, soprattutto nell’ambito delle valutazioni di impatto ambientale e dei permessi di costruzione, sommati alla percezione di una mancanza di comunicazione da parte delle autorità e dell’azienda, hanno spinto i cittadini a pensare che il processo non si stesse svolgendo nel loro interesse ma a favore dell’investitore.
Resistenza e futuro
Con questa memoria che fa male e indigna, le Ong locali e di altre zone del Paese, hanno presentato appelli e petizioni alle autorità, organizzato dibattiti pubblici e proteste, e lavorato per attrarre l’attenzione dei media. Vale la pena di menzionare la raccolta di 38mila firme cittadine per proporre la discussione della legge che abolirebbe esplorazione ed estrazione di litio nel paese. L’iniziativa popolare è stata consegnata al governo nel maggio 2022. Un anno dopo, l’esecutivo non ha ancora inserito questo punto all’ordine del giorno, cosa che sarebbe obbligato a fare, dopo la verifica delle firme, entro trenta giorni.
Le firme paiono «scomparse» e alcuni rappresentanti dell’opposizione hanno presentato una denuncia penale contro i responsabili nel parlamento.
Azioni coordinate delle Ong locali e internazionali hanno portato rappresentanti della società civile presso l’assemblea generale annuale degli azionisti di Rio Tinto a Londra nel 2020. Diverse lettere aperte sono state inviate a dirigenti e investitori.
Le risposte, tuttavia, sono state considerate insufficienti.
Ad aprile 2023, nell’ambito della campagna internazionale «Rio Tinto: against people, climate and nature» organizzata in coincidenza con la settimana dell’assemblea generale di Londra, sono state consegnate 500mila firme contro l’estrazione del litio nella valle del Jadar, raccolte in Serbia e in altri paesi.
Questa lotta non è isolata: fa parte di un’ondata di proteste civili in tutta la Serbia contro l’inquinamento e contro la costruzione di piccole dighe.
Le recenti privatizzazioni di grandi imprese minerarie e di fonderie statali, assieme alle dinamiche non trasparenti attorno all’esplorazione geologica, hanno rafforzato la determinazione dei movimenti locali a rivendicare il loro «diritto di dire no» al progetto Jadar.
Gli abitanti dei villaggi e i loro sostenitori offrono alternative centrate sull’agricoltura diversificata e biologica, la conservazione ecologica, la cura e lo sviluppo ecoturistico del ricco patrimonio culturale, storico, naturale e paesaggistico.
Infine, ma non meno importante, chiedono il diritto all’aria, alla terra e all’acqua pulite per loro e le generazioni future.
Benché, per il momento, il progetto di Rio Tinto risulti «cancellato», l’impresa non demorde.
L’acquisto di terre non si è mai fermato e l’azienda continua a essere presente sul territorio concedendo piccoli fondi caritatevoli per ottenere consensi.
La pressione internazionale è alta, ma il presidente serbo rimpiange lo stop al progetto.
D’altra parte, il litio fa gola a molti. Se la cosiddetta «transizione energetica» non viene pensata in altro modo, la valle del Jadar diventerà un’ulteriore zona di sacrificio in nome di una illusione di sostenibilità.
Daniela Del Bene
Si ringrazia Mirko Nikolić per il suo supporto nella revisione dei contenuti e nella ricerca di foto dai territori del Jadar.
Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental justice atlas) per far conoscere ai nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante. • www.ejatlas.org • www.envjustice.org • https://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).
Celebrare le navi (ma dimenticare le origini)
testo di José Auletta |
In Argentina, essere indigeno è sempre difficile. I diritti sono più teorici che reali, a iniziare da quello alla terra ancestrale. Lo stesso presidente, Alberto Fernández, ha riassunto la storia del paese senza citare i suoi primi abitanti, i popoli indigeni.
«L’Argentina, la nostra, è di origine indigena – scrive Endepa, organizzazione cattolica al servizio dei popoli indigeni -. Deploriamo profondamente le parole del presidente della Repubblica argentina, Alberto Fernández, quando, nel contesto dell’incontro con il primo ministro spagnolo del 9 giugno 2021, ha detto che: “Noi argentini veniamo dalle navi”. Tra il 1881 e il 1914, la storia politica argentina guardava all’Europa e ci fu un’esplosione migratoria, ma già prima del XVI secolo il territorio che oggi chiamiamo Argentina era abitato. Quindi, ridurre la storia o raccontarne solo una parte implica rendere invisibile l’altra. L’immaginario bianco europeo come unico modello in America, provoca una tensione etnico – razziale, e acuisce una ferita ancora aperta. E la reiterazione di questo modello etnocentrico riproduce l’idea mitica di un’Argentina egemonica.
La realtà di un’Argentina ancestrale indigena multiculturale emerge, invece, dalla storia stessa. L’infelice frase rende invisibili anni di lotte delle comunità indigene per il rispetto della loro identità e del diritto ai propri territori, che negli ultimi anni stanno ottenendo riconoscimenti a livello mondiale. La Costituzione nazionale, nel suo art. 75, comma 17, ordina di “riconoscere la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini”, che il presidente non può ignorare. Nella riforma costituzionale del 1994 è stato espressamente affermato che l’Argentina ha origini indigene, con i popoli nativi soggetti di diritti, il che rende inaccettabile il pronunciamento del presidente.
Questa sfortunata menzione è riprovevole per le sue concezioni razziali discriminatorie. Essa coincide con i discorsi dei predecessori: Cristina Kirchner aveva affermato: “Siamo figli, nipoti e pronipoti di immigrati. Questa è l’Argentina” (aprile 2015) e Mauricio Macri: “In Sud America siamo tutti discendenti di europei” (gennaio 2018). Si tratta di una costante dei discorsi presidenziali, che si traduce in fatti e che permane nel tempo, di mandato in mandato, segnando un indirizzo discriminante del governo nazionale che va oltre i partiti politici.
L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) è solidale con i popoli indigeni che resistono in questo paese dove i loro diritti sono solo sulla carta, mentre nella realtà viene loro negata la proprietà dei territori ancestrali, l’accesso a un sistema sanitario adeguato, l’istruzione multiculturale, abitazioni consone, un’infanzia dignitosa e un’alimentazione adeguata dal punto di vista nutrizionale alle loro esigenze. Ci battiamo per il riconoscimento di un’Argentina multiculturale, nel contesto di una convivenza americana consapevole della propria preesistente ascendenza indigena.
Signor presidente, ci aspettiamo da lei non solo le doverose scuse, senza giri di parole, ma l’effettivo rispetto dei diritti menzionati nella Costituzione che lei ha giurato di rispettare».
Le scuse non bastano
Questo è il duro comunicato (datato 10 giugno) di Endepa, con la quale mi onoro di collaborare.
Pochi giorni dopo le sue infelici affermazioni (peraltro, erroneamente attribuite al premio Nobel Octavio Paz), Alberto Fernández si è scusato: «Non volevo – ha detto – offendere nessuno; in ogni caso, a chiunque si sia sentito offeso o reso invisibile, sin da ora offro le mie scuse».
Successivamente, il presidente ha aggiunto un nuovo tweet in cui ha citato parole di Litto Nebbia, un cantautore argentino di cui Fernández è un grande ammiratore, inserendo la strofa della canzone «Siamo arrivati dalle barche» (Llegamos de los barcos), perché «sintetizza meglio di me – ha detto – il vero significato delle mie parole».
Ha anche citato una frase simile attribuita allo scrittore argentino Julio Cortázar: «È stato affermato più di una volta che “gli argentini provengono dalle navi”. Nella prima metà del XX secolo abbiamo accolto più di cinque milioni di immigrati che vivevano con i nostri popoli nativi. La nostra diversità è un orgoglio».
Dopo lo scandalo dell’«Olivos Gate» (una festa presidenziale organizzata in piena pandemia) e del «Vacunas Vip» (le vaccinazioni in via privilegiata per la gente vicina al potere), un altro scandalo si è dunque abbattuto sul presidente argentino, peraltro da molti considerato come un mero esecutore delle volontà della vice Cristina Kirchner.
In aggiunta, le primarie del 12 settembre – che hanno anticipato le elezioni del 14 novembre – hanno portato a una pesante sconfitta della coalizione di governo (Frente de todos) nei confronti dell’opposizione (Juntos por el cambio) di Mauricio Macri (il quale, durante la sua presidenza, era stato a sua volta del tutto inadeguato).
La reazione della vicepresidente è stata la pubblicazione, il 16 settembre, di una durissima lettera contro Alberto Fernández, amplificando in tal modo la crisi politica interna al governo.
Leggi inattuate
In Argentina, non mancano le leggi a tutela dei popoli indigeni: manca la loro applicazione da parte dei governi. Ricordiamo, in breve, i riferimenti normativi più importanti.
La convenzione numero 169 del 1989 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) sui popoli indigeni fu sottoscritta dall’Argentina nel 1992 con la legge n. 24.071.
Due anni dopo, il paese varò un’importante riforma della Costituzione in cui l’articolo 75 inciso 17 chiedeva al Congresso di «riconoscere le radici etnico-culturali delle popolazioni indigene argentine; garantire il rispetto della identità di tali popolazioni e il diritto ad un’educazione bilingue e interculturale; riconoscere la personalità giuridica delle loro comunità e il possesso e la proprietà comunitaria dei territori che tradizionalmente occupano; regolamentare, inoltre, il conferimento di altri terreni adatti e sufficienti per lo sviluppo umano; nessuna di tali terre sarà alienabile, trasmissibile, né soggetta a gravami o sequestri. Assicurare la partecipazione di tali popolazioni alla gestione delle proprie risorse naturali e delle altre cointeressenze che le riguardino».
Come ha riassunto l’Equipo diocesano de pastoral aborigen (Edipa) di Formosa: «Le comunità indigene che abitano quella che oggi è l’Argentina sono state dichiarate preesistenti nella Costituzione nazionale dal 1994. I popoli indigeni si auto-determinano, hanno i loro modi e mezzi per organizzarsi; chiediamo che ci permettano di vivere in comunità, esigiamo il rispetto permanente della nostra diversità e la giusta applicazione dei nostri diritti già stabiliti a livello internazionale, nazionale e provinciale».
Nel 2006 venne varata la legge numero 26.160 per affrontare l’emergenza territoriale delle comunità indigene: essa proibisce gli sfratti e ordina il rilevamento tecnico e catastale dei territori che appartengono ancestralmente ai popoli indigeni. La legge è già stata prorogata tre volte e scade di nuovo il 23 di questo mese di novembre.
In questi 15 anni di vigenza il rilevamento non ha però raggiunto il 50%, e gli sfratti continuano.
Attività mineraria e «zone di sacrificio»
Un esempio d’inadempienza da parte delle autorità pubbliche si è avuto, lo scorso giugno, nella provincia di Chubut dove vivono comunità di due popoli indigeni, i Mapuches e i Tehuelches. Qui la Corte d’appello di Puerto Madryn ha respinto, per una questione di tempi di presentazione, l’appello delle comunità indigene contro un progetto di legge (n. 128, novembre 2020) che sacrifica parte dei loro territori in favore delle imprese estrattive. La cosa è talmente palese che viene utilizzato proprio il termine «zonas de sacrificio».
Una delle zone di sacrificio dovrebbe essere quella conosciuta come «la Meseta».
«Come popoli in lotta – hanno scritto gli indigeni – contro il mega estrattivismo minerario, avvertiamo le persone mobilitate e la società in generale circa una nuova manovra per far prevalere la volontà politica di consegnare il territorio della provincia di Chubut alle compagnie minerarie transnazionali».
Raggiunto telefonicamente, il dottor Eduardo Hualpa, già consulente di Endepa e oggi funzionario pubblico, mi spiega: «Il progetto di “zonificazione mineraria”, promosso dal governo di Chubut, è stato deciso alle spalle delle comunità indigene e della società civile. Esso consentirà alle imprese minerarie un grande utilizzo di acqua, miniere a cielo aperto e uso di sostanze tossiche. Insomma, esso sarà una minaccia per la vita di tutti».
Gli Huarpe
Da alcuni anni lavoro nella provincia di Mendoza (regione di Cuyo) con il popolo degli Huarpe. La loro organizzazione è dovuta, in gran parte, al fatto che hanno mantenuto in vigore le loro istituzioni ancestrali, sia pure con alcuni cambiamenti. Così, il loro «Consiglio degli anziani» è quello scelto secondo gli statuti da ciascuna comunità.
Nel 1999, con la cosiddetta dichiarazione di San Miguel de los Sauces, gli Huarpe hanno spiegato: «Siamo membri della grande nazione argentina. Ci sentiamo e siamo orgogliosi del nostro gruppo etnico Huarpe Millcayac. Rispettiamo le diverse etnie che compongono la nazione argentina e le rispettive culture, e vogliamo collaborare con tutti per il bene comune. Chiediamo il riconoscimento e il rispetto della nostra identità, della nostra cultura e del diritto di possedere e vivere sulle nostre terre, che abbiamo occupato pacificamente e ininterrottamente da prima della colonizzazione, e che comprendono tutte le Lagunas de Huanacache, cioè i distretti: Asunción, San José, Lagunas del Rosario e San Miguel de los Sauces. I nostri antenati pacifici e operosi sono stati oppressi. Oggi, senza rancore o risentimento, vogliamo collaborare con i nostri valori per costruire un mondo migliore, un paese fraterno e solidale, una Mendoza prospera e ricca di culture diverse».
Arrivati al termine del 2021, gli Huarpe stanno ancora aspettando che sia loro riconosciuto il titolo comunitario del territorio che occupano ancestralmente, nonostante l’esistenza della Legge provinciale 6.920, approvata nel 2001 e il cui adempimento è stato più volte reclamato dagli interessati. Ciò ha permesso e sta permettendo che privati e agenti immobiliari usurpino diverse zone del loro territorio.
Il genocidio sconosciuto
Sul genocidio dei popoli indigeni dell’Argentina non è mai stata fatta luce. Per questo condivido l’idea della criminologa e professoressa Valeria Vegh Weis (11 giugno 2021, su Pagina 12) di istituire una «Conadep indigena», una Commissione nazionale sulla sparizione di persone per i popoli indigeni.
«La negazione delle radici indigene e la violazione dei loro diritti – ha scritto la Vegh Weis – non è un problema esclusivo dell’Argentina. Tuttavia, ci sono alcuni paesi che hanno compiuto progressi nel riconoscere i genocidi originari su cui sono state fondate le nostre nazioni. […] le commissioni sulla verità sono state globalmente fondamentali nel gettare le basi per una “svolta narrativa”. Cosa riguarda? La ricerca di una storia attendibile delle nostre radici che si costruiscano su processi di memoria collettiva e che finiscano per dare fondamento alla nostra identità e agli interessi della nazione. La svolta narrativa implica un nuovo accordo sociale sul cosa e sul perché del passato, del presente e del futuro […]».
Vale la pena di ricordare che Domingo Faustino Sarmiento, presidente tra il 1868 e il 1874, parlò di «barbarie» (le popolazioni locali) contro «civiltà» (gli immigrati europei). Secondo l’ultimo censimento disponibile (2010), oggi gli indigeni argentini, divisi in 40 etnie, sono circa un milione, il 2,3 per cento della popolazione nazionale. Tuttavia, il censimento – previsto nel 2020 e poi rinviato al 2022 a causa del Covid-19 – vedrà probabilmente una popolazione indigena in aumento. Il questionario, infatti, permette l’auto riconoscimento etnico, identificando una persona come appartenente a un popolo indigeno o a un gruppo di afrodiscendenti.
«L’esigenza di una svolta narrativa è solo l’inizio di un lungo viaggio verso la piena attuazione dei diritti indigeni, – ha scritto ancora la Vegh Weis -. L’Argentina ha già sperimentato, dopo l’ultima dittatura, quanto sia cruciale questa svolta narrativa per chiarire il ruolo degli oppressori, dei sopravvissuti, delle vittime e dei familiari. La sfida è ora pendente in relazione a una narrativa chiara sui popoli indigeni. Potrà una Conadep indigena fare questo lavoro?».
Alle tante leggi esistenti si aggiungerebbe così un nuovo elemento per il riconoscimento storico dei popoli indigeni. Perché sia finalmente chiaro a tutti che l’Argentina è un paese plurietnico e multiculturale di cui andare fieri.
José Auletta
Miniere «green»
testo di Daniela del Bene |
La domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050. L’estrazione di cobalto, litio e terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici crescerà a tassi senza precedenti. Viaggio nelle nuove miniere.
In un contesto internazionale di grandi incertezze e sfide sociali ed economiche, la questione ambientale ed energetica si impone come un’asse centrale di possibile cambiamento. Non solo per l’evidenza dei cambiamenti climatici, ma anche perché le risorse energetiche su cui è basata la società industriale sono sempre più scarse e di difficile accesso.
Come risposta alle attuali sfide energetiche, da anni si stanno studiando alternative basate sulle fonti cosiddette rinnovabili: dal solare fotovoltaico all’eolico, passando per varie altre tecnologie e per l’efficienza energetica.
Queste alternative, per importanti e imprescindibili che siano, hanno alimentato un clima di generale (ed eccessivo) ottimismo che sta scoraggiando una riflessione critica. Pur essendo necessario continuare a far ricerca sulle fonti rinnovabili, dobbiamo affrontare alcuni temi di fondo.
Tre temi ineludibili
La mole attuale di consumo mondiale di energia e di materie prime sta provocando un livello irreversibile d’inquinamento, di emissioni di gas serra e di degrado di ecosistemi. Questo mette a repentaglio le basi stesse della vita. La crescita economica infinita messa in relazione con i limiti biofisici «finiti» della Terra è dunque il primo tema di fondo da affrontare, come da anni sostiene il movimento per la decrescita e studiosi di tutto il mondo.
Il secondo tema è l’insufficienza delle fonti rinnovabili: anche se riempissimo di pannelli solari o pale eoliche tutti gli spazi disponibili, non potremmo comunque raggiungere l’attuale livello di energia generata dai combustibili fossili.
Il fisico spagnolo Antonio Turiel dell’Istituto de ciencias del mar di Barcellona, lo scrive nel suo libro Petrocalipsis: un sistema basato sulla crescita infinita non si può adattare alle rinnovabili. Esse producono energia in modo intermittente (solo quando c’è luce, o soffia il vento, etc); producono solo elettricità (che costituisce il 20% dell’energia totale che include il carburante per il trasporto o l’energia termica) e, infine, hanno un potenziale limitato: se tutti i governi del mondo si accordassero per consumare solo energia rinnovabile, questa coprirebbe appena il 30% del fabbisogno.
Il terzo tema da affrontare si riferisce alla quantità di energia e materiali necessari per la fabbricazione di pannelli solari e turbine. Da dove li prendiamo? Qual è il costo di estrazione? Quali sono gli impatti ambientali e sociali? Chi gestisce l’infrastruttura per la loro estrazione e lavorazione? I materiali sono solo in parte riciclabili e già sono sorti grandi cimiteri di pale eoliche. Cosa faremo di pannelli e pale dopo la loro vita utile?
Energia post Covid
I diversi piani di recupero promossi dall’Unione europea e da altre economie energivore come Stati Uniti, India, Cina, per affrontare la crisi economica post pandemia, stanno sostenendo con ingenti fondi progetti «green», tra cui le rinnovabili su grande scala e la conversione del trasporto verso mezzi elettrici.
Questi piani nascono dall’illusione di tornare alla famosa «normalità di prima», cioè ai livelli di consumo pre-pandemia, e omettono di considerare alcuni «dettagli» importanti, come il fatto, ad esempio, che il territorio occupato per il solare o l’eolico viene tolto ad altre funzioni, come la produzione agricola. Attualmente, infatti, è più remunerativo dare in affitto un campo a imprese di energia rinnovabile che coltivarlo.
La produzione energetica rischia, dunque, di mettere a repentaglio la già martoriata attività agricola e la nostra capacità di nutrire la popolazione. Quali saranno le conseguenze per le famiglie e le piccole imprese agricole? Quale sarà lo stato di salute del territorio tra vent’anni, quando la vita utile di questi mega progetti giungerà alla fine?
Secondo la rivista «Bloomberg new energy outlook», l’energia eolica e solare coprirà il 56% della produzione di elettricità entro il 2050. Secondo la Banca mondiale, la domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050, mentre l’estrazione di cobalto, litio o terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici aumenterà a tassi senza precedenti.
Questa tendenza già si registrava prima del Covid-19. Tuttavia, ora, le grandi imprese dell’energia si stanno accaparrando i fondi per la ripresa a un ritmo fuori controllo, e ciò impedisce una reale riflessione di fondo, cosa che sarebbe necessaria in ogni società democratica.
Miniere in fermento
L’attività mineraria in tutta la sua storia ha sempre provocato impatti ambientali e sociali negativi, tuttavia, oggi, le esplorazioni avvengono su scala più grande, controllata da imprese transnazionali che ne ricavano un profitto molto più elevato dei costi che sostengono, e con un livello di impatto ambientale incomparabile con quello di decenni fa.
Sono tristemente famose le miniere di oro, rame, carbone, bauxite sparse in Sud America, India, Filippine, Sudafrica, e in molti altri paesi. Ma la corsa all’accaparramento di minerali strategici «per la transizione energetica» sta portando all’apertura di nuove miniere, come quelle in Congo Rd e in Spagna.
Il cobalto del Congo Rd
La miniera di Mutanda, in Congo Rd, è attualmente la più grande produttrice mondiale di cobalto.
Si trova nella provincia di Lualaba, nel mezzo dell’area protetta di Basse-Kando.
La legge del paese vieta ogni nuova attività economica nelle aree protette, ma in questo caso non è stata rispettata. La prima impresa a esplorarla fu la congolese Gécamines negli anni ‘80. Dal 2013, la maggior parte delle operazioni sono controllate dalla svizzera Glencore Plc.
Diversi episodi associano le operazioni di Glencore in Congo all’inquinamento del suolo e dell’aria. Uno di questi è avvenuto tra luglio 2013 e settembre 2014, quando alcune sostanze tossiche hanno contaminato circa ventiquattro ettari di terreni nelle vicinanze, proprietà di ventisei famiglie di Moloka.
Ancora oggi è possibile vedere l’inquinamento del suolo dalle immagini satellitari. La vegetazione è completamente scomparsa e non ricresce nulla.
Le uniche azioni intraprese da parte di Glencore, dopo quattro anni dalle prime denunce, sono state quelle di ripiantare alcuni alberi (che si sono ammalati) e risarcire le ventisei famiglie con un totale di 65.330 dollari, una cifra ridicola a fronte della perdita dei mezzi di sussistenza.
Contaminazioni
Il Congo Rd è il paese con la maggior riserva di cobalto conosciuta. Essa fornisce circa la metà della produzione mondiale, e questo a scapito delle comunità locali e degli ecosistemi del paese, in modo simile a quanto accade per il coltan nel Kivu.
L’African resources watch (Afrewatch) e l’Associazione per lo sviluppo delle comunità del Lago Kando (Adclk) hanno lavorato per diffondere la loro preoccupazione per le violazioni dei diritti umani e per l’inquinamento nell’area di Mutanda.
Un altro episodio di contaminazione è avvenuto nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2017, un gasdotto è esploso rilasciando un acido tossico. Ancora una volta, gli agricoltori che vivevano vicino alla miniera sono stati colpiti e le loro terre distrutte. Da queste terre, le tossine sono entrate nel fiume Luakusha che sfocia nel lago Kando. Il disastro, quindi, non ha riguardato solo i terreni direttamente contaminati, ma anche l’attività di pesca, l’agricoltura della zona che dipende dalle acque del lago per l’irrigazione, e i cittadini in generale che non hanno più avuto accesso all’acqua potabile.
I residenti hanno iniziato ad avere anche problemi di salute.
La risposta della società mineraria è stata quella di spargere la calce nell’acqua per ridurne l’acidità, ma non è stata sufficiente. Inoltre, le comunità sono state escluse completamente dal processo decisionale.
Per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori della miniera, molti lamentano orari troppo lunghi, scarsa retribuzione degli straordinari, discriminazione tra dipendenti congolesi e di altri paesi, e la mancanza di sindacati. I dipendenti hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo ai materiali tossici con cui devono lavorare e alle poche misure di protezione adottate.
Mutanda non è l’unica miniera di cobalto nella provincia di Lualaba. Il deposito di Tenke Fungurume, ad esempio, è sfruttato da una compagnia cinese. Anche qui i problemi legati all’inquinamento, alla mancanza di trasparenza e comunicazione con la popolazione, la contaminazione di fonti d’acqua, l’abbandono di famiglie sfollate in tende per oltre due anni senza soluzioni abitative, e la precaria situazione dei lavoratori sfruttati, hanno portato a proteste che sono state represse con violenza, causando anche alcuni morti.
Il caso spagnolo
La domanda di metalli non spinge solo sulle frontiere estrattive dell’Africa o dell’America Latina, ma apre nuove aree di sfruttamento anche «a casa nostra».
Nella zona Sud Occidentale della Spagna, nella comunità autonoma dell’Estremadura, a 800 metri dal centro di Cáceres, città di 96mila abitanti, dichiarata patrimonio dell’umanità nel 1986 dall’Unesco, la società Tecnología extremeña del litio Sl, vuole realizzare una miniera di litio a cielo aperto.
La società è una filiale della joint venture promossa dalle società Valoriza Minería (una sussidiaria di Sacyr Sa) e Plymouth minerals Ltd (che ha cambiato nome in Infinity lithium corporation). Il suo progetto di 412 ettari (estendibile a 1.175) prevede una zona di estrazione di 1.100 metri di diametro e 500 di profondità, un impianto di arricchimento con forno per la tostatura acida, una vasca di evaporazione per il lavaggio dei minerali e 290 ettari di suolo per depositare i residui.
La miniera sorgerà nell’area naturale della Sierra de la Mosca, nella Valle di Valdeflores, un’area ad alta biodiversità di grande valore ecologico e sociale.
Dal punto di vista ambientale, questa catena montuosa collega spazi naturali protetti di grande importanza, è un corridoio ecologico fondamentale per gli ecosistemi della zona. Da un punto di vista sociale e culturale, essa ospita il santuario della Virgen de La Montaña (a 500 metri dalla prevista fossa della miniera), è una zona ricca di sentieri per l’escursionismo ideali per attività ambientali ed educative.
La zona ha un’economia tradizionale (frutteti, oliveti, mandorleti, bestiame, apicoltura e produzione di legna da ardere) e una massa forestale di boschi e prati mediterranei che costituiscono il polmone verde di Cáceres.
Batterie per l’Europa
Dietro il progetto della miniera di Valdeflores, si muovono interessi geopolitici per ridurre la dipendenza dell’Unione europea (Ue) dall’importazione di litio. L’Ue è il terzo consumatore mondiale dopo la Cina e gli Usa di questo minerale, per ora estratto principalmente in Australia e Sud America.
Per questo motivo, nel 2017 è stata creata la European battery alliance (Eba) per realizzare una catena strategica per le batterie in Europa che comporterà progetti di estrazione del litio anche in Portogallo, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca, e la costruzione di nuove fabbriche di batterie in diversi paesi, principalmente per gli impianti di assemblaggio di veicoli elettrici già esistenti o pianificati in Europa.
Un accordo firmato tra la società Infinty lithium e Eit inno energy, la piattaforma di investimento pubblico-privata promossa dalla Commissione europea per un finanziamento di 800mila euro destinati alla prima fase del progetto e all’assistenza tecnica per ottenere i 300 milioni necessari per il resto del progetto, testimoniano la grande pressione per l’apertura di questa miniera.
A sostegno degli interessi geopolitici, si fa sempre più forte la retorica ambientale che parla di «mineria verde» o di «climate smart». Un esempio ne sono le dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič che definiscono «ammirevole» il progetto minerario di Valdeflores.
«Salva la montagna»
I probabili impatti negativi del progetto hanno risvegliato un processo molto interessante di organizzazione cittadina nella popolazione di Cáceres preoccupata per la minaccia al territorio, alla salute e alla ricchezza bioculturale.
A partire dal 2017 si sono tenuti i primi incontri informativi della piattaforma cittadina «Salva la montagna di Cáceres». È iniziata una raccolta di firme e il primo percorso escursionistico a Valdeflores è stato realizzato per informare le persone e divulgare i valori del luogo. Nel corso dei tre anni successivi sono stati prodotti numerosi documenti sui rischi del progetto, video, mappe e manifesti.
Tutti questi materiali sono serviti come base per numerosi dibattiti, workshop, incontri di quartiere. Si è denunciata la vicinanza della miniera alla zona abitata, all’impianto di depurazione dell’acqua (solo 300 metri), all’ospedale e al campus universitario. Si è dato l’allarme circa il probabile impatto sulla salute delle polveri sottili e dei gas tossici prodotti dall’impianto di trasformazione, l’impatto sulle falde acquifere e sulle altre fonti d’acqua.
Grazie a questo lavoro, si sono scoperte molte irregolarità dell’impresa per ottenere permessi, insolvenze finanziarie e studi d’impatto ambientale molto carenti. Si sono così iniziate cause legali che hanno messo in luce una lista di illeciti e azioni compiute dall’impresa senza i dovuti permessi, come l’apertura di una via e l’abbattimento di alberi.
Il Comune di Cáceres, in un consiglio comunale del 2018, ha votato contro il progetto e contro le modifiche al piano generale municipale che erano state sollecitate dall’impresa.
Sono state inviate anche denunce alla Banca europea degli investimenti e alla Commissione europea.
Durante questi anni di mobilitazione, si sono stretti legami con altre realtà che affrontano problematiche simili in Spagna, come con il collettivo ContraMinAcción della Galizia.
Cambiare strada
Dall’Italia e dall’Europa, in molti guardiamo da lontano ciò che avviene lungo le frontiere dell’estrattivismo nel resto del mondo; ora è probabile che quegli scenari si faranno sempre più vicini.
Davvero vogliamo continuare a replicare lo stesso schema di sfruttamento, a scapito della base stessa della nostra vita?
Perché non cogliamo l’occasione per riprendere quei punti profondi di riflessione, a cominciare dal settore energetico, e non pensiamo a come ridurre i consumi, come risparmiare suolo dalla cementificazione, come rendere più resilienti i nostri territori, rigenerare i suoli, le acque, le foreste, come creare sinergie tra il settore agricolo ed energetico, e come rilocalizzare produzione e consumo energetico?
Non ci sono formule magiche, e non è neanche detto che questo basti a evitare scenari climatici molto difficili, ma ormai indietro non si può tornare. Possiamo solo cambiare direzione.
Daniela del Bene
RD Congo: Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?
Testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC
I pigmei bambuti sono il popolo originario delle foreste nell’Est del Congo. All’arrivo di altre popolazioni si sono inoltrati sempre più nella selva. Ma da alcuni anni i cercatori d’oro invadono il loro territorio, portando molte problematiche. Intanto anche lo sfruttamento del legname e la deforestazione stanno distruggendo il loro habitat. Ai missionari la grande sfida di come salvare la loro cultura.
«I pigmei non sono guerrieri, ecco perché all’arrivo di altre popolazioni nella loro terra, hanno adottato la politica di ritirarsi nella foresta più folta. Purtroppo oggi assistiamo a un’invasione della selva, operata dai cercatori d’oro alla ricerca di nuovi siti». Chi parla è padre Flavio Pante, missionario della Consolata con una ventennale esperienza di lavoro tra le popolazioni pigmee del Congo, oltre che con esperienze in Costa d’Avorio e Italia.
Parla del Nord Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), del distretto dell’Alto Uele, diocesi di Wamba: «I pigmei sono stati i primi abitanti di questa zona, tutti gli altri, quelli che chiamiamo genericamente bantu, sono arrivati in un secondo tempo». I missionari della Consolata lavorano da venti anni nell’area di Bayenga, dove c’è un’alta concentrazione di pigmei, in particolare la popolazione dei Bambuti. «La parrocchia lavora sulla realtà pigmea, e sulla realtà dei bantu e delle altre popolazioni».
Il «nuovo» flagello
La foresta è ricca di oro e altri minerali preziosi, che si trovano, in particolare, lungo i fiumi, un po’ ovunque. Così il popolo dei cercatori d’oro si inoltra sempre più nella foresta e costruisce vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti auriferi più promettenti. Dato che questi siti cambiano in continuazione, i villaggi di oggi potrebbero scomparire una volta esaurita la vena mineraria. Il risultato è una penetrazione della foresta sempre maggiore.
«Qualcuno paga la licenza di estrazione – racconta padre Flavio – e manda i più disperati a cercare l’oro. Questi sono i cercatori artigianali, lavorano manualmente e nessuno assicura loro il minimo di sicurezza. Si può dire che stanno peggio dei pigmei. Quello che trovano lo vendono per pochi soldi all’intermediario, che poi lo porterà al comptoir (ufficio di esportatori, ndr) in città dove sarà acquistato a un prezzo nettamente superiore.
Tutto quello che i cercatori d’oro consumano, come il cibo, gli attrezzi, viene da lontano, dalle città, e arriva con grossi camion. Per questo è molto costoso. In questi agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie, violenza. Tutti gli affari, in quest’area, seguono i siti di estrazione dell’oro».
Un fenomeno, che, pure se esisteva già 30 anni fa, come conferma padre Flavio che era in missione in Congo (all’epoca Zaire) nel 1978, negli ultimi dieci anni ha assunto una dimensione enorme, e tutto questo a scapito del territorio dei pigmei.
Legname pregiato
«Un altro fatto che sta contribuendo alla distruzione dell’habitat del pigmeo è il taglio degli alberi per il legname. I camion che portano mercanzie di ogni genere per i cercatori d’oro, ripartono carichi di tronchi. Spesso i pigmei stessi sono assoldati per trasportare gli alberi sezionati fuori dalla foresta, nei luoghi raggiungibili dai camion. I mezzi poi partono per l’Uganda, dove il legname sarà venduto e lavorato». Una foresta invasa dalle motoseghe, vuol dire non solo eliminare gli alberi, ma anche far fuggire la selvaggina, il principale sostentamento del pigmeo.
Si tratta anche di una invasione culturale, oltre che fisica: «Il pigmeo è entrato in contatto con un’altra realtà. Ha visto il mercato del villaggio bantu, ascoltato la radio, sperimentato gli alcolici. Ormai non riesce più a staccarsi da queste cose penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina alla popolazione di origine bantu e si accampa. Però è rimasto per indole raccoglitore e cacciatore, per cui può capitare che vada in un campo e raccolga del cibo: ma in questo modo, per la società bantu, diventa un ladro. Un comportamento dell’altro, non puoi criticarlo se non lo conosci. Devi cercare di metterti nei suoi panni. Il pigmeo ha rubato, o piuttosto, ha preso per fame?».
Il pigmeo che con la sua famiglia è uscito dalla foresta profonda e si è accampato nei pressi delle città, ha perso il suo habitat ed è a un passo dal perdere la sua identità.
«Una questione fondamentale – continua padre Flavio – è che le persone di altre etnie considerano i pigmei esseri inferiori. A causa di questo preconcetto si è creata una dipendenza perversa. Il bantu dice al pigmeo: “Io ti prendo come protetto. Tu coltiva il tuo campo e poi vieni a lavorare nel mio come mio servo”. Si crea una dipendenza servile che spesso è suggellata dal patto della circoncisione: “Io circoincido mio figlio con il tuo, per questo siamo quasi parenti”».
Ma nella mentalità del pigmeo coltivare è assurdo. Da cacciatore, lui si procura da mangiare nella giornata, abbastanza per quel giorno. Seminare, innaffiare e pensare di avere cibo dopo settimane o mesi è impensabile per la sua concezione. Occorre un cambiamento di mentalità, ma ci vuole tempo.
La scuola «inculturata»
Un aspetto che ha interrogato molto i missionari è stato quello dell’educazione. «Il contatto con le altre popolazioni impone che i pigmei imparino a leggere e scrivere – sostiene padre Flavio -. Dobbiamo però tenere sempre presente che vogliamo valorizzare quello che loro danno per scontato, ma che stanno per perdere, ovvero la loro cultura. Per questo occorre prepararli in modo che siano in grado di conservare le loro tradizioni».
I bantu si sono adeguati allo stile e ai costumi europei. Questo anche a livello di scuola, che è strutturata come quella dei paesi colonialisti. Ma se, ad esempio, per i belgi ci sono quattro stagioni, per i pigmei ce ne sono solo due, ovvero la stagione secca e quella delle piogge. Inoltre per loro non ci sono i mesi, ma le lune. Per la scuola del bambino pigmeo bisogna tenere in conto di tutto questo. Se da settembre a novembre può venire a lezione, da gennaio in poi è stagione secca, deve andare in foresta a cacciare e raccogliere il miele. Quindi partirà con i suoi genitori, tornando magari dopo tre mesi. Inoltre, quando frequenta, il bambino pigmeo non riesce a stare fermo tutta la mattina. La scuola deve essere diversa anche come tempistiche. Ecco perché i missionari della Consolata si sono inventati la «scuola itinerante».
Così la descrive padre Flavio: «È una scuola che si adatta ai periodi dell’anno e alla periodicità dei giorni. L’insegnante passa nell’accampamento dei pigmei e inizia a dare nozioni di base. Poi si integra con un cosiddetto “esperto” dell’accampamento, ovvero un adulto che tiene lezioni su elementi specifici, come la caccia, la tessitura, e tutti gli altri aspetti della vita pigmea».
Un’altra difficoltà nell’insegnare ai pigmei è il fatto che sono molto concreti e hanno difficoltà con l’astrazione. «È piuttosto complesso ad esempio insegnare i numeri. Per spiegare il numero 8, ad esempio, prendo otto pietre, otto unità. Ma non c’è il concetto di una entità che si chiama “8”. Quindi il calcolo resta molto difficile per loro. Così come per insegnare l’alfabeto occorre associare un suono a ogni lettera. Sono categorie che devono acquisire, non sono spontanee.
Noi ci prepariamo le lezioni in lingua kibutu, che è una lingua bantu parlata anche dai pigmei, simile al kiswahili. A volte proiettiamo qualcosa su un panno bianco. Abbiamo visto anche molto interesse da parte degli adulti, che lasciano le loro occupazioni per venire a vedere cosa stiamo facendo».
Il villaggio mobile
Il pigmeo non ha un villaggio stabile. La sua capanna si può costruire in un giorno e, normalmente, è un incarico delle donne. I gruppi sono composti da una trentina di persone, senza contare i bambini, e sono entità che si spostano.
Inoltre, tradizionalmente, fino a pochi anni fa, non c’era un capo. C’erano dei referenti, responsabili di alcuni ambiti della vita della comunità: chi per la caccia, chi per far nascere i bambini, chi per la tessitura, ecc. Adesso, che hanno contatti con i bantu, è nata l’esigenza di avere un capo, perché occorre un referente unico per il gruppo.
Un altro effetto della contaminazione è quello legato alla monogamia. «I pigmei sono tradizionalmente monogami, perché in foresta non puoi permetterti due mogli e tanti figli. Oggi, con il contatto con i bantu, stanno assumendo altre usanze. Anche per la dote. Il matrimonio veniva fatto tra due gruppi con scambio di ragazze. Se si porta carne è per la festa comune, ma una ragazza vale una ragazza. Per i bantu, invece, se tua figlia si sposa devi chiedere dei beni all’altra famiglia. Diventa quasi una vendita.
Tra i pigmei al servizio dei bantu iniziano a entrare le abitudini dei bantu».
Anche dare uno stipendio a un pigmeo è difficile: «Si pagano tutte le settimane, perché una volta al mese non riescono a tenere i soldi. Un funzionario si trova ad avere un salario, ma non sa gestirlo. Spesso beve. Oppure paga anche per gli altri, condivide, come se nel giorno di paga avesse cacciato un grosso animale. Ci sono stati maestri elementari pigmei, ma sono stati un fallimento. È una perdita di identità al 100%: dicono di non essere più pigmei, però si accorgono di non essere nemmeno bantu, perché vengono discriminati. Rifiutano i loro fratelli e sono rifiutati da quelli con cui si identificano».
Il lavoro dei missionari
«Ci sono villaggi bantu nei pressi dei quali sorgono due, tre accampamenti pigmei. Noi andiamo al villaggio, lasciamo la moto e poi entriamo in foresta a piedi, fino all’accampamento.
Tre anni fa, si era creato un accampamento grosso, fusione di due gruppi. Lì mi avevano fatto una capanna e io vivevo con loro tre giorni alla settimana.
Per preservare la loro cultura cerchiamo di raccogliere e conservare tutto quello che è il loro mondo, sia a livello di medicina tradizionale, sia di narrazioni. Ma è un lavoro agli inizi. Quello che manca, guardando altri casi simili, come il popolo Yanomami in Amazzonia, è la mancanza di una sensibilità al riguardo. Penso sia frutto di un lavoro, ma forse anche di una sensibilità latinoamericana diversa. I pigmei non dicono “la nostra tradizione, i nostri costumi”. Devi essere tu che indichi loro: “I vostri costumi”. A volte il pigmeo ha vergogna dei suoi costumi. Questo perché quando sei considerato inferiore, dopo un po’ ti convinci di esserlo».
Padre Flavio Pante sostiene che occorre anche lavorare sulla popolazione bantu per un cambiamento di mentalità nei confronti dei pigmei. Ma si tratta di un lavoro molto difficile, «perché i bantu si sentono i padroni della gente». Inoltre il missionario è sempre uno straniero, e i bantu hanno troppi interessi da difendere. Noi cerchiamo di fare un discorso con i cristiani: non possiamo accettare questa logica.
«Per i sacramenti e la preghiera, cerchiamo di celebrare con la comunità unita, ovvero insieme bantu e pigmei. I pigmei vengono a messa. La partecipazione nel canto e nella danza è più difficile: i bantu ridono dei pigmei che danzano. Inoltre la musica pigmea non ha parole, ha suoni anche con la bocca».
E conclude: «C’è in noi la volontà di continuare ad occuparci delle popolazioni pigmee. Ma gli africani, in genere, non sono molto attirati a lavorare con loro».
Dalle elezioni alla formazione di un nuovo governo
Alternanza? Sì, no, forse
Le elezioni del dicembre 2018 hanno dato al Congo un nuovo presidente, dal cognome famoso, ma senza maggioranza parlamentare. Da allora sono passati otto mesi alla ricerca di un difficile consenso tra gruppi politici, per governare uno dei paesi più ricchi di materie prime del continente.
Forse ci siamo. La Repubblica democratica del Congo avrà, infine, il suo nuovo governo. La lista dei suoi 65 membri è stata resa pubblica il 26 agosto. Da ormai sette mesi, dal suo insediamento, il 25 gennaio scorso (in seguito a elezioni presidenziali, legislative e amministrative), il nuovo presidente della repubblica Félix Tshisekedi, tenta di costituire il governo (l’Rdc è una repubblica presidenziale). Tshisekedi è il figlio di Etienne, l’eterno oppositore che non è mai riuscito a conquistare il potere, se non per alcune brevi esperienze di governo come primo ministro. Etienne dopo aver perso l’ultima sfida nel 2011 contro Kabila, è morto il primo febbraio del 2017.
Félix ha vinto a sorpresa le elezioni presidenziali, molto contestate in realtà, alla testa del partito fondato da suo padre, l’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (Udps), facente parte del più vasto gruppo politico Cap pour le changement (Cach). Nel frattempo il Fronte comune per il Congo (Fcc), la coalizione dell’ormai ex presidente Joseph Kabila, ha vinto massicciamente le legislative e le amministrative, assicurandosi una maggioranza confortevole all’Assemblea nazionale e al Senato (le due camere del parlamento congolese).
Tshisekedi ha dunque dovuto intavolare un negoziato con gli ex padroni del paese per tentare di creare un governo.
«Il contesto politico è cambiato in Rdc – scrive il Gruppo di studio sul Congo dell’Università di New York -. Joseph Kabila anche se è ancora potente, con una maggioranza parlamentare schiacciante, non è più l’uomo forte di Kinshasa. L’ex presidente non ha più l’ultima parola su tutto».
Joseph Kabila era salito al potere il 26 gennaio del 2001, alla morte di suo padre Laurent-Désiré Kabila, ucciso da una sua guardia del corpo in circostanze ancora da chiarire. Era in corso la cosiddetta Seconda guerra del Congo (1998-2003). Laurent-Désiré aveva guidato una ribellione appoggiata da Burundi, Rwanda e Uganda, che aveva portato a rovesciare il presidente-padrone del paese Mobutu Sese Seko nel maggio del 1997, durante la Prima guerra del Congo (1996-1997). In questa occasione Kabila padre aveva cambiato il nome dello Zaire nell’attuale Repubblica democratica del Congo.
Joseph ha quindi mantenuto il potere, conquistato con la forza, confermandolo con due elezioni successive (2006 e 2011). Il suo ultimo mandato, non rinnovabile, sarebbe scaduto nel dicembre del 2016, ma lui ha rinviato progressivamente le elezioni, eliminando anche i potenziali oppositori, come Moise Katumbi, costretto all’esilio in Belgio, e limitando la libertà di stampa.
Una deriva anticostituzionale che ha causato reazioni della società civile che, a più riprese, ha chiesto al leader di lasciare il potere. In particolare la chiesa cattolica si è posta inizialmente come mediatrice, tra il presidente e l’opposizione, ottenendo la promessa di Kabila di organizzare elezioni a fine 2017. In seguito, visto che l’impegno non veniva mantenuto, la chiesa ha organizzato manifestazioni pacifiche a cui hanno aderito molti cristiani e i leader dell’opposizione, per chiedere il rispetto degli accordi.
Il 31 dicembre 2017 una di queste manifestazioni è stata prima ostacolata e poi repressa dalle forze dell’ordine. Si sono registrati 6 morti, 57 feriti e 111 arrestati, secondo la Monusco (Missione della Nazioni Unite in Congo). Il confronto tra il potere di Kinshasa e la chiesa cattolica congolese si era fatto duro.
Finalmente, con molte difficoltà, anche logistiche, in un paese di 2,5 milioni di km2 scarsamente collegato e con 45 milioni di elettori, le consultazioni si sono svolte nel dicembre del 2018. Le urne, come detto, hanno restituito una situazione complessa e le due coalizioni hanno faticato a trovare un accordo. Nel maggio scorso il presidente ha nominato Sylvestre Ilunga Ilunkamba primo ministro, e questi ha lavorato per produrre una lista di ministri gradita a entrambi i gruppi politici. Su 65 posti ministeriali (ministri e sottosegretari), 23 vanno alla coalizione di Tshisekedi, Cach, e 42 a quella di Kabila, Fcc. Alla prima vanno i dicasteri dell’Interno e Affari esteri, alla seconda Giustizia, Difesa e Finanze. Intanto la società civile denunica un incremento di casi di appropriazione indebita di fondi a livello dei ministeri, negli ultimi otto mesi.
Ma.Bel.
Niger: Siamo in un mondo al contrario
Nei paesi del Sahel l’islamismo sta assumendo varie forme. Gli stati non riescono a controllarlo. La strategia (imposta dall’Occidente) è quella di fargli la guerra, senza tentare il dialogo. Inoltre, si tende ad assimilare jihadismo e migrazione. In questa confusione qualcuno ne approfitta per mantenere lo status quo. L’analisi di un grande intellettuale nigerino.
Testo e foto di Marco Bello
Sguardo vivace, voce calda e accogliente. Moussa Tchangari, ci riceve nel suo piccolo ufficio, alla sede dell’associazione che ha fondato nel lontano 1994, Alternative espaces citoyens (Asc). «Un’associazione apolitica senza fini di lucro, la cui missione è operare per l’avvento di una società fondata sull’uguaglianza dei diritti umani e dei sessi, preoccupata per la preservazione dell’ambiente e della promozione della gioventù, e la valorizzazione della solidarietà tra i popoli», si legge sul sito.
Conosciamo Moussa dal 2009, ma in questi anni il contesto è molto cambiato. Tutta l’area del Sahel è sconvolta come non mai dal fenomeno degli attacchi terroristici. Tanti sono i gruppi jihadisti sul terreno, come abbiamo descritto in precedenti articoli (vedi archivio MC). Inoltre, nell’area, è diventato cruciale il fenomeno dei flussi migratori. Fenomeno che già esisteva, ma che gli occidentali hanno scoperto solo da qualche anno. Così diversi eserciti delle potenze ricche sono ora presenti nei paesi del Sahel: Francia, Usa, Germania, Belgio, contingenti misti dell’Unione europea e perfino poco meno di un centinaio di militari italiani proprio in Niger (Cfr MC marzo 2018). I contingenti hanno la doppia scusa di combattere il terrorismo e bloccare i flussi migratori.
Moussa Tchangari è molto conosciuto nel suo paese, come leader della società civile, come uno che non si piega nel difendere i suoi ideali. E per questo negli ultimi anni è stato anche incarcerato più volte, da un governo, quello di Issoufou Mahamadou, che si dice socialista. Con lui abbiamo parlato delle grandi preoccupazioni dell’area e delle sfide della società civile.
Gli islamisti, perché?
Moussa ci spiega quali possono essere le cause profonde dell’insediamento dei gruppi jihadisti in tutta l’area. «Gli islamisti sono la forza antisistema più visibile, più evidente e più attiva in questo momento storico. Nella maggior parte dei paesi del Sahel, Mali, Burkina e Niger, sono loro che fanno parlare di sé. Sono armati e portano avanti una sorta di guerriglia, compiono attentati contro obiettivi civili e militari». Ma, ci spiega Moussa, con la sua voce calma e calda, non è l’unico fenomeno importante di questi anni. «Vediamo anche una corrente islamista non armata, che sta progredendo nella società. I suoi adepti fanno un lavoro paziente di educazione, formazione, sensibilizzazione, inquadramento».
Si tratta di un movimento più morbido, ma egualmente molto incisivo in un paese al 98% musulmano. Chiediamo a Moussa se si può parlare di radicalizzazione dell’islam.
«Non so se il termine radicalizzazione dell’islam sia appropriato. Il fenomeno che osserviamo è un ritorno in forza di religiosi, nella vita di ogni giorno, anche in ambienti dove non erano presenti. Ad esempio, nelle università i temi dominanti sono cambiati. Qualche anno fa i discorsi erano di sinistra, oggi sono sorte ovunque zone di preghiera, e gli studenti sono più legati a questo aspetto. Nella società ci sono alcune correnti che si stanno imponendo, come i Salafiti, che predicano il ritorno ai valori di base, alla “società islamica primaria”, così la chiamano. Una pratica che segue alla lettera il Corano e non ammette sincretismo. Prima dominava la corrente sufi della Tijanyyah, più incline a coabitare con altre pratiche, con una certa tolleranza. Adesso la corrente Izala1 (un movimento salafita originario della Nigeria del Nord), che era minoritaria, si è propagata e ha molti adepti. Vedete le donne velate in modo diverso, un differente stile di vestirsi, di portare la barba».
Ci chiediamo come sia successo questo. «Oggi c’è un reflusso della sinistra tradizionale. In passato c’erano correnti marxiste leniniste che proponevano qualcosa di diverso. Assistiamo quasi alla scomparsa di queste forze che erano quelle anti sistema. Si è creato un vuoto che gli islamisti stanno riempiendo».
Due movimenti dunque, uno che ha scelto la via della lotta armata e l’altro quella della penetrazione sociale. Che contatti ci sono tra di loro?
«Non osserviamo ancora un’unione tra queste due correnti. Se si unissero, l’islamismo costituirebbe una forza notevole nei nostri paesi. Entrambi si oppongono a chi è al governo e propongono un loro progetto, che è un progetto antisistema. Essi dicono di essere contro la democrazia, anche se non è proprio la democrazia quello che stiamo facendo qui, la chiamiamo così anche se è imperfetta. Loro propongono qualcosa di diverso. Anche dal punto di vista legislativo, vogliono delle società rette dalla legge islamica».
Islam e politica
«Ma è anche un movimento politico, incoraggiato dall’interno come dall’esterno. Osserviamo l’ampliamento di una dinamica riformista della religione che introduce nuovi modi di pensare, di vivere, di intendere i rapporti tra le persone. È una trasformazione nel campo delle pratiche religiose e una proiezione del religioso sul campo politico».
Queste correnti islamiste sono in forte crescita, con un numero di seguaci in aumento continuo e quindi un peso politico sempre più importante.
«Ma le Costituzioni dei paesi del Sahel impediscono che i partiti siano creati su base religiosa, mentre è possibile in altri, come quelli arabi e nordafricani. Questo vuol dire che il sistema degli esclusi si sviluppa al margine di quello ufficiale, il quale non offre loro la possibilità di una partecipazione politica.
E alcuni (degli esclusi) hanno fatto la scelta della lotta armata, perché non ci sono possibilità legali per loro. Presto o tardi, si andrà allo scontro, e secondo me siamo già un po’ a questo».
I governi della regione stanno facendo la guerra ai gruppi che hanno scelto la lotta armata, i cosiddetti jihadisti. Hanno costituito il «G5 in Sahel», un coordinamento degli eserciti di Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, con l’appoggio della Francia.
Ma Tchangari ci spiega: «Oggi gli stati saheliani sono molto deboli rispetto a tutte queste correnti sia armate che non armate. Questo perché non hanno la capacità di ingerenza negli affari religiosi. Forse non dovrebbero neppure farlo. In ogni caso non riescono a regolamentare questo settore, proprio perché questi movimenti non sono riconosciuti come entità legittime.
I problemi dei paesi saheliani si riassumono oggi in una formula: crisi di legittimità degli stati. Lo stato non è riconosciuto come entità legittima, quindi ci sono cose che non può fare, come intervenire sulle questioni religiose. Sarebbe criticato, perché tocca il sacro, e non ne ha la forza.
Gli stati hanno anche difficoltà ad adottare certi tipi di leggi, come il codice della famiglia in Mali, la legge sulla protezione delle ragazze qui, il dibattito sulla laicità.
Il Niger non è uno stato laico ma si definisce “non confessionale”. Ci sono stati dibattiti nei quali abbiamo visto l’influenza molto grande delle differenti correnti religiose sulla politica.
Se la crisi di legittimità dello stato non sarà risolta, esso non potrà regolamentare il settore religioso, che diventa una bomba a orologeria».
E questo fatto fornisce agli stati stranieri l’occasione d’ingerenza. Continua Moussa: «A livello politico si vuole continuare a tenere chiuso il sistema, senza offrire aperture a queste correnti. In alternativa si potrebbe dar loro un riconoscimento legale, al di là di associazioni apolitiche, caritative o culturali. Ma non so se sia la cosa migliore. Oggi non hanno la possibilità di avere un partito di tipo islamico». Ad esempio, in Algeria il Fronte islamico di salvezza (Fis), partito religioso, vinse le elezioni di fine 1991. Ma le forze laiche non lo lasciarono governare, così iniziò la guerra civile algerina con la nascita dei Gruppi islamici armati (Gia) che poi si propagarono, nel decennio successivo anche nei paesi saheliani. «Questa storia in parte spiega quello che è avvenuto qui. Ma almeno in linea teorica in Algeria le correnti islamiste hanno potuto avere un partito. Qui, invece, si fa la scommessa di vincere tutti questi gruppi unicamente per la via militare. Non si vuole riformare il sistema né politico né economico nel paese. Secondo me voler vincere senza cambiare nulla è una scommessa folle».
Quale può essere la soluzione? «Se possiamo avere cambiamenti politici importanti che vanno incontro alle aspirazioni profonde della gente, allora forse si potrebbe fermare l’avanzata di queste correnti, perché ci sarebbe un cambiamento che va verso quello che la gente chiede».
La doppia trappola
Ma questa non sembra essere la tendenza attuale. «Oggi i paesi del Sahel sono doppiamente in trappola: primo, i paesi occidentali dettano la condotta da seguire, non solo sul piano politico e pratico, anche dal punto di vista della riflessione. Ad esempio, nessun governo saheliano può cercare il negoziato con questi gruppi armati. Il solo momento in cui si attiva un dialogo è quando ci sono ostaggi occidentali. In quei casi si conoscono i nomi, gli indirizzi, si hanno contatti, ecc. Ma si considera che non ci siano discussioni politiche da fare.
Secondo: l’opzione di distruggere questi gruppi è irrealizzabile. Ma nessuno dei nostri governi osa dire che non abbiamo i mezzi per combattere i terroristi sul piano militare. Gli occidentali sono pronti a farlo, a dispiegarsi sul terreno, ma non a dare agli stati saheliani i mezzi per fare la guerra e neppure i mezzi per cercare altre soluzioni possibili, come il dialogo.
La strategia degli occidentali è mantenere lo status quo, che permette loro di essere presenti. Non hanno vinto, non hanno negoziato, ma sono qui. Questo è quello che interessa. Non so cosa vogliano fare nel futuro».
In realtà si dice che siano i jihadisti a non voler negoziare. «Loro dicono: noi abbiamo un progetto, opposto al vostro. Il rapporto di forza deciderà. Non hanno detto che vogliono negoziare. Vuol dire che sarebbero totalmente ostili a qualsiasi trattativa? Io penso di no».
La gente qui in Niger dice: visto che quello che chiedono è inaccettabile (ovvero la costituzione di repubbliche islamiche), cosa fare? «Si dice che è impossibile dialogare, e dunque facciamo la guerra. Però vediamo che altrove negoziano: in questi giorni gli Stati Uniti stanno negoziando con i Talebani (si riferisce ai negoziati in corso a Doha, in Qatar, per mettere fine al conflitto afghano, ndr). È normale: erano amici fino dall’inizio. Si conoscono hanno molti contatti, amicizie tra loro. Ed è la stessa cosa con i jihadisti nel Sahel: non sono certo caduti dal cielo, qualcuno li conosce e probabilmente è possibile discutere. Ma si preferisce fare la guerra. Ma la vinceremo questa guerra?».
Il business del secolo
Un altro tema fondamentale per il Sahel degli ultimi 5-8 anni è quello dei flussi migratori verso il Nord Africa e quindi l’Europa attraverso il Mediterraneo. Un tema che sta facendo muovere molti capi di stato e ministri degli esteri europei verso il Niger e non solo. L’Italia, ad esempio, ha aperto un’ambasciata in Niger (inaugurata nel gennaio 2018) e un’altra in Burkina Faso (entro il 2019), due paesi che erano sempre stati totalmente trascurati dalla nostra geopolitica.
«Per lo stato nigerino è una fortuna insperata, un’opportunità importante. L’interesse degli occidentali sulla migrazione è una risorsa diplomatica importante per il governo. Per essere più riconosciuto sul piano internazionale. Ed è pure una risorsa economica. Può negoziare dei fondi.
Ma il primo punto è quello che importa di più, perché questo governo è andato al potere con le elezioni del 2011 e poi è stato riconfermato con quelle dubbie del 2016, quindi è in cerca di legittimità internazionale. Oggi è riconosciuto come campione della lotta alla migrazione clandestina, minicampione della lotta al terrorismo. Inoltre, fa i discorsi che piacciono agli occidentali, come quello sul controllo demografico».
L’Europa non è la destinazione principale dei migranti (Cfr. Mc aprile 2019). I flussi migratori all’interno del continente africano sono molto più importanti. E anche i nigerini migrano per lavoro verso il Nord (Libia) e soprattutto la vicina Nigeria.
«Gli europei si sono imposti e il Niger ha messo in piedi un dispositivo per impedire ai migranti di circolare. Con Frontex, le cooperazioni, le basi militari. Così i militari lottano contro due pericoli, e si identificano migrazione e terrorismo come se fossero la stessa cosa. E si fa la caccia all’uomo. Ad esempio, anche Eucap Sahel Niger si interessa alla migrazione2.
Il Niger è diventato un paese tagliato in due: nel Sud le persone possono circolare liberamente, mentre il Nord è come facesse parte dell’Europa. Qui si cercano, si arrestano, si deportano migranti, in barba a tutte le leggi di diritto internazionale e nazionale».
L’attivista di lungo corso ha la sua idea precisa sulla migrazione: «Per me bisogna lasciare circolare la gente, le persone hanno il diritto di muoversi, andare dove vogliono. Abbiamo un pianeta per tutti gli esseri umani, non ci sono illegali, nessuno è straniero. Io difendo l’idea che le persone debbano poter circolare dappertutto. Le risorse ci sono per tutti, per fare vivere ognuno in modo felice».
Un mondo al contrario
Siamo in un mondo al contrario, analizza Moussa Tchangari: «È un peccato che oggi nei paesi ricchi siano i poveri a essere considerati una minaccia e non i potenti, ovvero quell’1% della gente che si accaparra l’essenziale delle ricchezze. Vedi il povero e pensi sia lui il pericolo, non quelli che posseggono fabbriche e banche, sfruttano e si arricchiscono sulla pelle degli altri. In passato era il contrario. Oggi si chiudono gli occhi sulle devastazioni del capitalismo e della borghesia mondiale che saccheggia e concentra la ricchezza nelle proprie mani e si guardano i poveri, che non hanno niente, come le minacce dell’umanità. È il mondo al contrario».
Oggi si sono fatti tanti progressi, ma al tempo stesso si è regrediti, sostiene l’intellettuale nigerino: «Esiste tanta informazione, ma la gente non è informata e può essere facilmente manipolata, e questo anche nei paesi dove esiste tutto. Dove si ha a disposizione tutta l’informazione che si vuole, stampa, libri, statistiche. Il sistema capitalista è capace di alienarti: osserviamo questa ondata di razzismo, xenofobia, il ritorno delle forze di estrema destra. Ma come è possibile, mi domando, nonostante tutti gli strumenti che si hanno per capire?
La questione essenziale – continua – è l’educazione: come educhiamo l’uomo, come formiamo l’uomo. Educhiamolo alla differenza, a comprendere, ad avere spirito critico. Senza questo, possiamo ancora rivivere tutte le cose gravi che abbiamo già vissuto in passato, le guerre.
Se accumuliamo tutte le guerre in corso oggi è come una guerra mondiale. Solo che non succede sul teatro europeo o nordamericano. Ma tutto il mondo vi partecipa».
E continua: «Abbiamo risorse, intelligenza, capacità a sufficienza, eppure vediamo lo stato del mondo oggi: abbiamo creato una situazione in cui pensiamo che la minaccia per il mondo sia il fatto che la gente possa circolare. Ma per gli esseri umani è essenziale spostarsi, donne e uomini hanno sempre viaggiato. E non è solo la povertà che fa muovere la gente, ma anche la prosperità.
Nei paesi ricchi, abbiamo delle sacche di povertà, milioni di persone disoccupate, ma non è perché non si ha la possibilità di farli lavorare. Negli Stati Uniti ci sono 40 milioni di poveri che se si ammalano possono morire perché non hanno l’assicurazione sanitaria. Gli Usa non hanno la possibilità di fare qualcosa su questo tema?
Il grande problema è che «non stiamo facendo il vero dibattito, quello sul sistema, ma un dibattito periferico. La migrazione è il “cache sex” del capitalismo (letteralmente: perizoma, qualcosa che nasconde, ndr). È questo che si mostra per non parlare di problemi di fondo».
Che fa la società civile?
Moussa è impegnato per i diritti umani e per una società più equa dagli anni ‘90, quando con altri studenti nel 1994 fondò Asc. Gli chiediamo oggi che ruolo può giocare la società civile, ad esempio per far sì che si affrontino i veri problemi. «Informare, sensibilizzare e stimolare i dibattiti. Ma la società civile non è molto forte, ha diversi problemi, cerchiamo di fare delle piccole cose. Non è sufficiente, ma cerchiamo di parlare di questi temi, aiutare le persone a capire, dare dei nuovi orientamenti. È molto difficile. Occorre costituire una massa critica con un gran numero di organizzazioni e avere i mezzi per farsi sentire per portare avanti il messaggio. Esistono radio e televisioni, ma occorre avere accesso, organizzare discorsi strutturati. Tutto questo non è ancora acquisito.
Inoltre, dobbiamo essere capaci di portare il dibattito in posti dove non c’è, come nei nostri villaggi. È un lavoro di educazione, risveglio di coscienze, che presuppone molta mobilità, immaginazione, per riuscire a spiegare, convincere, coinvolgere.
Al tempo stesso il sistema ha la sua rete per fare il contrario. I paesi occidentali che vogliono diffondere un tipo di messaggio hanno i soldi, la tecnologia, le risorse. C’è molto da fare e dobbiamo intensificare questo lavoro. Dobbiamo sforzarci di essere creativi. È la grande sfida che abbiamo oggi».
Marco Bello con la collaborazione di Sante Altizio
NOTE
(1) Movimento salafita originariodel Nord della Nigeria e poi diffuso nel resto del paese e in Niger, Ciad e Camerun. Si contrappone all’innovazione
e alle correnti sufi.
(2) Eucap, European union capacity building, è un corpo misto europeo composto da forze di polizia con la missione di formare le forze di sicurezza nigerine – si legge sul sito ufficiale – allo scopo di combattere il terrorismo e il crimine organizzato, e di meglio controllare i flussi migratori e contrastare la migrazione illegale.
(3) Il Niger è il quarto produttore mondiale di uranio, lo precedono Kazakistan, Canada e Australia. Nel 2017 in Niger si sono prodotte 3.449 tonnellate di uranio (dati francesi) per il 7,5% della produzione mondiale.
Parla l’esperto in sfruttamento delle risorse minerarie
Paese ricco per gente povera
Il Niger è un paese dal clima ostile ma dalla grande ricchezza del sottosuolo. È poco abitato e ci sarebbero risorse per tutti. Ma perché si trova sempre tra i tre ultimi posti della classifica dello sviluppo umano, stilata annualmente dall’Onu? Incontriamo l’attivista Maman Sani a Niamey che ci spiega questo.
Maman Sani Adamou, si definisce militante altermondialista, collabora con diverse associazioni della società civile nigerina, ed è specializzato sulla tematica dell’industria estrattiva. Ma Sani è un signore pacato, tranquillo, con le idee chiare e competenza da vendere. Il suo lavoro ordinario è di ispettore al ministero dell’Educazione.
Dottor Sani, il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo3, perché è anche uno dei paesi più poveri del pianeta?
«Occorre partire dagli accordi di difesa dell’aprile 1961, che legano Niger, Benin e Costa d’Avorio alla Francia. In un allegato c’è un contratto di esclusività. I tre paesi si impegnano, nel caso non possano essi stessi utilizzare le risorse strategiche, come petrolio, berillio, uranio, a dare priorità alla Francia per sfruttarle. Sono inoltre autorizzati a cercare un altro partner solo nel caso in cui la Francia si dice non interessata. È un patto di tipo coloniale che ha fatto sì che dal ‘61 tutte le nostre risorse sono destinate in modo prioritario alla Francia.
Nel ‘68 è iniziata la realizzazione della prima miniera di uranio, la Somair ad Arlit. È stata firmata una convenzione di lunga durata, che dava alla Francia la possibilità di sfruttare tutto il minerale. È da notare che il Niger guadagnava molto poco, a livello forfettario solo un miliardo di Fcfa all’anno (circa 1,5 milioni di euro, ndr), quando i prezzi dell’uranio, sul mercato internazionale erano molto elevati. Nel ‘74 è stata aperta una seconda miniera, la Cominak. Il governo dell’epoca si era reso conto che dall’inizio dello sfruttamento dell’uranio nel ‘71 non aveva avuto abbastanza profitto. Tentò quindi di rinegoziare, per avvicinarsi al valore delle risorse come il petrolio. Si era fatto uno studio che equiparava le due materie prime: un kg di uranio produce tanta energia quanto 10mila kg di petrolio. Ma quel governo è stato rovesciato da un colpo di stato nel ’74. Dopo l’apertura della seconda miniera, si era riusciti ad avere 20 miliardi di Fcfa, ma senza negoziare sulla base dell’equivalenza energetica tra il petrolio e l’uranio.
La Francia prendeva tutto l’uranio, e pagava un prezzo fisso, anche se a livello internazionale c’era una fluttuazione, con prezzi nettamente migliori, il Niger non poteva chiedere un adeguamento.
Inoltre lo stato non aveva alcuna possibilità di controllare i prezzi e neppure il tonnellaggio definitivo estratto, che era controllato da Areva (la multinazionale francese che opera nel campo dell’energia in particolare nucleare. Dal 2017, in seguito a ristrutturazioni, prende il nome di Orano, ndr)».
Fino a quando il presidente Mamadou Tanja ha cercato di aprire il mercato…
«Questo fino a quando negli anni 2005-2006 con un aumento generale del costo delle materie prime, i dirigenti dell’epoca hanno voluto rivalorizzare l’uranio ed è stata promulgata una nuova legge mineraria che aumentava un po’ il livello delle royalties.
Ci sono stati tentativi di diversificazione dei partner di sfruttamento a partire dal 2006. Tutto questo spiega la fine del regime della VI repubblica con il colpo di stato di febbraio 2010. Ufficialmente il motivo è che il presidente Mamadou Tanja aveva forzato la Costituzione per ricandidarsi dopo due mandati, ma di fatto le ragioni del rovesciamento sono da cercare nel dossier uranio.
Dopo la caduta del regime e le nuove elezioni la legge mineraria non era ancora applicata. Possiamo parlare di sotterfugio, riferendoci all’accordo di partenariato strategico che rimpiazza la legge. Nell’accordo Areva propone qualche sussidio e realizza qualche opera intorno ad Arlit. Inoltre il mega giacimento di Imourarene, che avrebbe dovuto produrre 5mila tonnellate all’anno, la più grande miniera di uranio del continente, e doveva partire nel 2011-12 non è ancora in sfruttamento. Curiosamente il governo non cerca di riprendere il titolo di sfruttamento ad Areva per affidarlo a un altro potenziale concorrente».
Quindi nessun beneficio per la popolazione?
«Lo sfruttamento dell’uranio in Niger non ha permesso di creare sviluppo nel paese, al contrario, produciamo circa 3.500 tonnellate/anno di uranio, ma sono i dati di Areva, non possiamo fare una contro verifica nazionale. Possiamo dire che questa risorsa non ha permesso di avere un beneficio per la popolazione, ma al contrario ha aggravato alcuni problemi, come quello ambientale. Inoltre, il fatto che il mega giacimento di Imourarene non sia stato sfruttato ha causato delle perdite per i contratti delle società dell’indotto già firmati. Areva ha l’abitudine di dare in subappalto un certo numero di prestazioni perché le conviene economicamente non pagare direttamente i lavoratori.
Ad Arlit c’è del radon, rilevato da una Ong francese che ha fatto queste misure e ha trovato un tasso di radiazione anormalmente elevato. L’acqua è contaminata, la popolazione è malata, ma il Niger non si è creato nessuna competenza sull’energia nucleare. Siamo rimasti in una divisione del lavoro di tipo coloniale. Produciamo ma non trasformiamo, e consumiamo quello che non produciamo.
Lo sfruttamento dell’industria dell’uranio si è rivelato qualcosa di nocivo per il Niger, quando invece per la Francia che alimenta in elettricità nucleare la maggior parte del suo territorio è fondamentale.
(La Francia produce oltre il 70% del suo fabbisogno di energia elettrica con il nucleare, e detiene il primato al mondo con questa percentuale, ndr)».
Cosa ci dice del petrolio, scoperto dai francesi e ora sfruttato dai cinesi?
«Sono i cinesi che lo sfruttano sotto la forma di un “contratto di condivisione di produzione”, ma sfortunatamente anche in questo caso il Niger non è stato in grado di trarne il vantaggio che gli spettava. Il governo non ha saputo leggere tutto l’interesse geopolitico che il continente iniziava ad avere nel settore in quel momento e mettere in competizione i diversi attori. È la Cina che fa l’esplorazione, valuta le riserve e fa lo sfruttamento. Anche in questo caso il Niger non ha sviluppato alcuna competenza in materia e il peggio è che non siamo neppure stati capaci di onorare i nostri impegni. Ad esempio la Soras (società di raffinazione costruita dai cinesi a Nord di Zinder, vedi foto a pag. 17, ndr) è detenuta per il 40% dal Niger e il 60% dalla Cina, ma è stata costituta praticamente con fondi cinesi. La Cina ha pagato anche la parte nigerina. Non c’è alcuno sforzo per fare della nostra industria il punto di partenza di un decollo economico.
Il petrolio raffinato in Niger dà qualche beneficio allo stato, ma la popolazione che ha chiesto un abbassamento dei prezzi del carburante e del gas da cucina non ha avuto benefici.
Quando comprate benzina che arriva di contrabbando dalla Nigeria, spesso è benzina della Soras venduta in quel paese a un costo inferiore, che ritorna da noi e costa molto meno di quella alla pompa. Possiamo vendere all’estero a un prezzo basso, ma non all’interno.
Inoltre il petrolio ha creato degli appetiti e il Niger si è indebitato, perché si è lanciato in lavori di infrastrutture la cui scelta è dubbia e oggi ci troviamo richiamati da Fondo monetario e Banca mondiale che ci dicono che siamo molto indebitati.
I cantieri che vediamo a Niamey non hanno carattere strutturante perché quello che si sta costruendo non risolve i problemi della popolazione. Ad esempio nel campo dell’educazione abbiamo molte classi nella scuola secondaria con più di 100 studenti, seduti in terra, e ci sono ancora aule con il tetto di paglia. Qual è lo sviluppo in questo caso? Fare un’infrastruttura per dire che è molto bella, oppure risolvere dei problemi come l’accesso all’educazione e alla salute?».
Le risorse minerarie del Niger, sfruttate ormai da 50 anni, non hanno quindi prodotto sviluppo?
«L’industria estrattiva non è servita come leva per far partire un processo di sviluppo, ma è piuttosto il contrario, il paese continua a sprofondare nella povertà. Uno studio recente fatto per Afro barometre indica che c’è un peggioramento della situazione economica, un’esplosione della corruzione, e un continuo aumento delle disuguaglianze. Osserviamo inoltre una sorta di disaffezione della popolazione verso la politica, preparando così il terreno per altri tipi di problemi, come quello del jihadismo».
Congo RD: Denis Mukwege, il medico che ripara le donne
Testo di Mario Ghirardi |
È un medico africano, come tanti altri. Ma lui decide di restare nella sua terra, il Kivu, e di curare le donne vittime di violenze inaudite. Diventa il massimo esperto mondiale in materia. Rischia in prima persona, perde amici e stretti collaboratori in attentati. Si guadagna il soprannome di «medico che ripara le donne».
Denis Mukwege parla con ritmo cadenzato e con toni di voce pacati. Racconta della Repubblica Democratica del Congo (Congo Rd), di golpe militari, di mercenari senza scrupoli, di stupri elevati a sistematica arma di guerra, di minerali insanguinati, di coltan, di un’Europa spesso alla finestra, di bambini che muoiono in miniera perché noi possiamo lavorare o trastullarci con il telefonino. Mi viene voglia di scagliare lontano lo smartphone che pure in questo momento è il mio strumento di lavoro per registrare e fotografare. Ma sarebbe inutile e forse anche dannoso, visto che i telefonini andrebbero smaltiti ben diversamente.
Per capire l’accorato appello del dott. Mukwege, dobbiamo partire dal suo passato: laureato in medicina in Francia, è tornato in Africa, nella sua regione natale, il Kivu, attorno ai Grandi Laghi, per combattere una battaglia che è poi diventata bandiera di chi vuole scuotere l’opinione pubblica mondiale di fronte a un massacro che ha già coinvolto milioni di vite umane e che in quei luoghi, a cavallo dell’equatore, dura da decenni.
L’ostinazione premiata
La scintilla dell’impegno sociale a 360 gradi di questo cortese professionista, diventato oggi punto di riferimento anche politico, scattò quando si trovò, stesa sul tavolo operatorio del reparto di ginecologia dell’ospedale da campo da lui creato a Panzi, ai confini orientali della Congo Rd, una ragazza che aveva fatto nascere egli stesso una dozzina d’anni prima. Era stata orrendamente stuprata come centinaia di altre sue coetanee. Nel 1989 fece il suo primo tentativo di dare corpo a un reparto ospedaliero di maternità a Lemera. Distrutto dalla guerra. Ne fece un altro a Bukavu, sua città natale. Distrutto anch’esso. Infine ne mise in piedi uno a Panzi, dove dal 1999 ha curato ben 50mila donne. Un numero enorme, vittime di stupri e di violenze sessuali di ogni genere, la gran parte con ferite di arma da fuoco ai genitali.
«Identifico ognuna di loro con mia moglie», commenta. In questo trova la forza morale di proseguire nella sua opera, anche oggi che ha compiuto il giro di boa dei 60 anni.
Ormai il dottor Mukwege, soprannominato «l’uomo che ripara le donne», è riconosciuto come uno dei più grandi esperti a livello internazionale nel trattamento dei danni patologici e psicosociali provocati dalla violenza sessuale praticata in Congo Rd in modo sistematico. Un’arma di guerra per colpire le donne nell’intimo del loro essere, distruggere simbolicamente il futuro mutilando gli organi genitali con ogni tipo di oggetti inseriti nella vagina, anche di bimbe di pochi mesi, e praticando tagli ai seni. Squartare donne incinte e seppellirle ancora vive è un altro atto ricorrente durante le incursioni delle bande armate. Tanta crudeltà ha lo scopo preciso e immediato di annientare sul nascere qualsiasi tentativo di ribellione dei villaggi, facendo sprofondare anche gli uomini in uno stato di sudditanza.
Impunità totale
Pochissimi denunciano le violenze, non solo per la paura delle ritorsioni e dello stigma sociale, ma anche perché i casi in cui i tribunali hanno fatto giustizia sono sinora rari, visto che queste soldataglie senza volto aggrediscono i villaggi sconfinando dagli stati vicini e si spostano senza sosta. Un dato: a fronte di 15mila accuse formali, le condanne sono state 12. «Il silenzio è alleato degli stupratori – afferma Mukwege -. La vittima tace per vergogna e per paura di essere discriminata. Io devo combattere al loro fianco perché le donne sono forti, sono capaci di vivere per gli altri. Ho curato 50mila donne, ma pensiamo sempre che dietro a un numero c’è un essere umano, è questa consapevolezza che deve farci reagire. Avevo un successore, Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, l’hanno assassinato a fine aprile dell’anno scorso. Tuttavia non mi fermerò».
Oltre la medicina
Con mariti e figli traumatizzati, le donne, che in Africa continuano a essere il perno su cui ruota la vita sociale, sono costrette ad abbandonare famiglia e lavoro, portando con sé quelle profonde ferite che soltanto un personaggio come Mukwege è in grado di lenire.
Il suo aiuto oggi sta andando persino oltre, affiancandole nella ricerca di nuove competenze lavorative, offrendo l’opportunità alle più giovani di tornare a scuola e dando loro appoggio se intendono rivolgersi alla giustizia. Scelte pagate letteralmente sulla propria pelle. Mukwege è stato vittima di attentati, tra cui quello in cui è stata assassinata la sua guardia del corpo, e amico, Joseph Bizimana, e di irruzioni armate nella sua casa con minacce di morte e il rapimento della figlia. Costretto a fuggire in Scandinavia, è ritornato a Panzi non appena un gruppo di donne, che peraltro vivono con meno di un dollaro al giorno, hanno racimolato con una colletta i soldi per pagargli il viaggio aereo. È questo un comportamento che gli è valso il «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», voluto trent’anni fa dall’Unione europea per celebrare il ricordo del fisico nucleare russo e assegnato ogni anno in riconoscimento di chi combatte la sua personale battaglia a favore dei diritti dell’uomo. E non è un caso se il primo a riceverlo fu Nelson Mandela.
Radici storiche
Il motivo fondamentale per cui il Congo Rd è squassato da tanta violenza lo ha denunciato lo stesso Mukwege durante il suo discorso alle Nazioni Unite già nel 2012, poco prima dell’attentato: lo sfruttamento delle sue risorse minerarie. Fenomeno che risale almeno alla metà dell’800, quando il Congo fu acquisito come proprietà personale dal re del Belgio Leopoldo II. Sfruttamento che è costato almeno dieci milioni di morti. «Se il Congo è ormai da 25 anni una polveriera – commenta l’antropologo Luca Jourdan che abbiamo incontrato a fianco di Mukwege durante un suo tour italiano di sensibilizzazione dell’opinione pubblica organizzato dal torinese Centro di Studi Africani (Csa) – le cause risalgono proprio all’epoca coloniale, quando prima i traffici di schiavi e avorio, e poi quelli della gomma favorirono gli interessi sfrenati dei signori della guerra, che già allora terrorizzavano i villaggi mozzando le mani a chi non produceva i quantitativi stabiliti, come punizione e monito». I belgi non portarono civiltà. «I primi ammutinamenti dell’esercito – prosegue Jourdan – produssero il tentativo di secessione della regione del Katanga, poi la presa del potere da parte di Mobutu nel ’65, con l’esercito che fornisce quadri e ministri, ma senza che il dittatore si fidi dei suoi generali perché non li controlla. Oggi è il tempo di Joseph Kabila, delle elezioni promesse ma rinviate (la presidenza di Kabila è scaduta il 19 dicembre 2016, ma lui resta capo di stato)». L’esercito congolese è in realtà un attore della crisi, poiché non esiste una sola catena di comando. È un esercito integrato con le fazioni ribelli, però i gruppi non si mescolano, ognuno risponde ad un proprio capo. Il risultato è che i «warlords» spadroneggiano ognuno nel suo ambito, controllando, in accordo col governo, l’estrazione del coltan e degli altri minerali indispensabili all’industria dell’elettronica, che costano alla popolazione le violenze combattute da Mukwege.
Mario Ghirardi
Miniere, eserciti e interessi globali
Stupri, figli del coltan
In Congo Rd permane una situazione di grande instabilità. In uno dei paesi con il sottosuolo più riccho al mondo, il 60% della popolazione vive nell’indigenza. Mentre nell’Est le milizie usano la violenza sulle donne come arma di guerra.
La regione congolese dei Grandi Laghi vive un conflitto internazionale tra i più complessi dell’Africa, aggravato dal precipitare della situazione nel confinante Burundi nel 2015, dai massacri nelle regioni del Kasai nel 2017 e dalla permanenza al potere in Congo Rd del presidente Joseph Kabila, ancora oggi, nonostante il suo mandato presidenziale sia scaduto nel 2016. La presa di posizione del dittatore nel far slittare le elezioni è tesa a voler accedere al suo terzo mandato presidenziale contro i dettami della Costituzione vigente che ha fatto saltare nell’anno anche la preannunciata visita di papa Francesco. Le ondate di profughi hanno alimentato ulteriori tensioni e conflitti tra gruppi armati ribelli per il controllo delle miniere superficiali. In esse uomini e bambini sono ridotti in schiavitù per l’estrazione del coltan, preziosissimo materiale, straordinariamente resistente al calore, senza il quale gli smartphone non potrebbero esistere e che qui si trova nelle maggiori concentrazioni al mondo (cfr. MC luglio 2015 e giugno 2016).
Il coltan, fondamentale anche per l’industria aerospaziale, fa gola a tutti, con i cinesi in prima linea alla ricerca di accordi commerciali, insieme a Stati Uniti ed Europa, per accaparrarsi quelli che sono ormai conosciuti come i «minerali insanguinati». La posta in gioco è altissima e nessuno vuole farsela scappare, ma il prezzo da pagare in termini di diritti umani è pure enorme, con vittime principali le donne e i bimbi anche di pochi mesi. Il Congo Rd ha arrestato la sua crescita economica, ma non demografica. È uno dei paesi più povero del pianeta con oltre 6 persone su 10 che vivono sotto la soglia di indigenza assoluta. I delitti sono in costante aumento, il numero di donne violentate supera il mezzo milione, con gli stupri usati come strumento per far nascere i figli dei vincitori oppure al contrario per rendere impossibile la nascita di una successiva generazione delle etnie sottomesse. Una situazione terribile attorno alla quale resta moltissimo da fare anche in termini di consapevolezza dell’opinione pubblica occidentale. Lo stupro di guerra come quello praticato in Kivu è stato riconosciuto infatti ufficialmente come crimine contro l’umanità e concausa di genocidio soltanto nel 2008, elaborando a livello legislativo con un ritardo smisurato quanto successe nel 1992, a danno dei bosniaci musulmani nell’allora Jugoslavia.
Chi estrae il coltan non gode di alcun diritto in cambio di un lavoro massacrante retribuito con spiccioli di dollaro. Bambini e uomini trasportano i secchi sulla testa sotto il sole a picco o sotto le piogge torrenziali, come schiavi di una società che non offre alcuna alternativa di sopravvivenza e nemmeno possibilità di scolarizzazione. I livelli di sicurezza sul lavoro sono infimi e si muore con facilità in quelle voragini della montagna, che diventano tombe, da cui i signori della guerra non si degnano nemmeno di portare alla luce i cadaveri per restituirli alle famiglie. La beffa sono i cartelli pubblicitari nei villaggi confinanti che promettono l’accesso gratuito a Facebook per tutti.
La tracciabilità dei materiali potrebbe essere un primo modo per limitare gli abusi. L’Unione europea nell’aprile scorso ha finalmente approvato un regolamento comunitario in questo senso, che però non sarà applicato prima del 2021. La normativa obbligherà tutti gli importatori europei di stagno, tungsteno, tantalio e oro a dichiarare le loro fonti di approvvigionamento con l’istituzione di un apposito registro e sistematici controlli sul rispetto degli obblighi di responsabilità, la cosiddetta «due diligence», in modo da mantenere elevati standard e garantire che non ci siano punti di contatto tra l’origine dei minerali e le bande armate. Dal patto però Bruxelles sembra aver escluso i minerali di cobalto, nonché il divieto di importazione di prodotti finiti che contengano il minerale, lasciando aperta la strada ai telefonini cinesi. Intanto contemporaneamente il presidente Usa Trump smantella il Dodd-Frank Act, un provvedimento per una volta in sintonia con quello adottato dalla Ue e promulgato dal predecessore Barack Obama nel 2010.
Negli ultimi tre decenni si sono intensificate le «resistenze» delle popolazioni locali che difendono i loro territori. Un caso emblematico è quello della più grande miniera del continente africano gestita, tramite una catena di società finanziarie, dalla famiglia del Re Mohammed VI. L’estrazione dell’argento avviene senza badare all’impatto ambientale e sociale. È necessario cambiare modello di sviluppo realizzando una sostenibilità che sia effettiva.
Nel 2004, la sociologa e femminista marocchina Fatima Mernissi (Fès, 1940 – Rabat, 2015), docente all’Università Mohammed V di Rabat, scriveva che, se si vuole vedere dove davvero le cose cambiano nel suo paese, ci si deve allontanare dai centri urbani di Casablanca o Rabat ed esplorare le montagne dell’Alto Atlante o i deserti di Zagora e Figuig. È lì che si possono trovare storie affascinanti di comunità che generano cambiamento tramite la loro resistenza nel Marocco contemporaneo.
Alcuni collaboratori dell’Ejatlas hanno tenuto bene a mente questo consiglio quando, lo scorso novembre, sono andati in Marocco per assistere alla Cop22, l’ultima grande conferenza internazionale sul cambio climatico, che aveva lo scopo di trovare le modalità per attuare gli accordi siglati durante la Cop21 di Parigi dell’anno prima (si veda MC maggio 2016, ndr).
Accaparramento e resistenza
Lasciando le grandi città sistemate per l’evento, le campagne e le zone semiurbane e costiere rivelano una realtà materiale segnata da grandi accaparramenti di terre, inquinamento da attività minerarie, violazione di diritti sociali ed espropriazioni. Spesso nel nome dello «sviluppo sostenibile», per far spazio a progetti infrastrutturali di produzione di energie rinnovabili.
In questi luoghi, grandi cartelli pubblicitari di colossi della costruzione e di grandi marche fanno pensare a fondi d’investimento che, in sordina ma dettando una legge spietata, stanno penetrando nel mercato marocchino con il beneplacito della monarchia. Allo stesso tempo però questi sono anche i luoghi in cui si incontrano storie di resistenza e ricostruzione di comunità.
L’argento del re
Nella provincia del Tinghir, nella regione amministrativa Drâa-tafilalte, Imider è una municipalità che si trova in un’oasi nel mezzo di terre desertiche. Essa raggruppa sette piccoli villaggi a 300 km da Marrakesh, per un totale di circa 4mila abitanti. Oggi è il sito della più grande miniera del continente africano, e la settima più grande produttrice di argento al mondo, presso il Monte Alebban.
La miniera è gestita dalla SociétéMetallurgique d’Imider (Smi), parte del gruppo Managem (managemgroup.com) che conta attività in diverse zone del Marocco, in Guinea, Niger, Sudan, Gabon, Congo RD. La Managem è controllata per l’81% dalla società finanziaria Société nationale d’investissement (Sni), la quale a sua volta è controllata dalla Siger, la holding della famiglia del re Mohammed VI.
La Smi estrae il prezioso metallo dal 1978. Fin da allora, le comunità che vivono nei dintorni della miniera si sono organizzate per fare pressioni sulle autorità perché preoccupate per i potenziali impatti ambientali, in particolare sulle falde acquifere.
Con il tempo, le loro perplessità si sono dimostrate fondate.
Danni ambientali e repressione
Lo scontro è stato particolarmente aspro nel 1986, durante la perforazione di un pozzo da parte dell’impresa. I leader della protesta in quell’occasione sono stati incarcerati e le richieste delle comunità ignorate. L’anno 1996 è stato segnato dalla privatizzazione dell’impresa e dalla violenta repressione di un sit-in che era durato 45 giorni lungo la strada nazionale bloccando la via d’accesso alla miniera.
Nel 2004 l’impresa ha scavato un nuovo pozzo, stavolta senza i permessi necessari, portando presto le riserve idriche a seccarsi e provocando così un grave pericolo per la popolazione locale Amazigh (berbera). Piccoli agricoltori e pastori, gli abitanti locali hanno dovuto affrontare una severa marginalizzazione economica e un livello preoccupante di contaminazione delle terre da pascolo e della poca acqua disponibile.
Secondo un report del Congresso di Amazigh (ong che mira a rappresentare le associazioni berbere di tutto il mondo), la miniera consumava 1.555 metri cubi d’acqua al giorno, dodici volte il consumo degli abitanti della zona. Il rapporto denunciava anche lo scarico illegale di liquidi tossici della miniera sulle terre da pascolo (inquinanti come mercurio, zinco, cianuro), nuove malattie tumorali e una diminuzione drastica della produzione agricola.
Un altro rapporto, pubblicato da Inovar, un gruppo di idrogeologi indipendenti di Temara, città costiera del Marocco, vicina a Rabat, parlava dell’impatto gravissimo subito dal sistema khettara di Imider, la rete di canali sotterranei che tradizionalmente distribuiva le risorse idriche ai campi coltivati fin dal 14° secolo.
Movement on the Road ’96
Nell’agosto del 2011, lo stesso anno delle proteste della cosiddetta Primavera araba, le comunità hanno deciso di trasferirsi in cima al monte e prendere il controllo della fonte d’acqua, tagliando il trasferimento alla miniera. È nato così quello che ancora oggi può essere considerato il più lungo accampamento permanente della storia moderna del Marocco. Gli abitanti hanno dato alla loro mobilitazione il nome di «Movimento sulla strada ‘96» (si può visitare la pagina Facebook del movimento cercando Amussu.96Imider), in ricordo dei 45 giorni di sit-in e della violenza subita quindici anni prima. Il movimento ha inaugurato un’assemblea generale secondo un tradizionale modello di governance conosciuto come Agraw, nel quale le decisioni vengono prese per consenso. Esso ha incorporato principi di democrazia radicale in cui le decisioni vengono prese in modo decentralizzato e con equità di genere. Alcuni suoi membri sono riusciti a entrare in contatto con media internazionali e a lanciare messaggi di solidarietà ad altre comunità resistenti nel mondo, tra cui quella dei Sioux della riserva Standing Rock in South Dakota, negli Usa, che protestano per un progetto di oleodotto che vorrebbe passare nel loro territorio.
Proteste socioambientali in aumento
Il caso di Imider dimostra come comunità in resistenza esistano da molti anni, e forse sono state importanti motori di propulsione per le contestazioni del 2011.
E non è un caso isolato. Si registra infatti un aumento delle proteste socioambientali in Marocco in questi ultimi due decenni: dalla recente mobilitazione di Bni Oukil, un comune nella regione di Tadla-Azilal situata nel centro del paese, contro l’estrazione di materiali da costruzione, alla resistenza della tribù Guicheloudaya contro progetti infrastrutturali a Rabat che hanno portato alla confisca delle loro terre, al Movimento delle Donne Soulaliyate che rivendicano pari diritti nella compensazione elargita per l’acquisizione forzata di terre.
Molte altre sono le piccole realtà, lontane dai centri urbani rimessi a lustro per l’arrivo dei delegati internazionali della Cop22, che finiscono purtroppo fuori dal radar dell’attenzione pubblica, rendendo difficile studiare e capire il fenomeno.
Molti di questi conflitti sono durati molto tempo, come gli scioperi contro la compagnia statale (Office chérifien des phosphates) che monopolizza la produzione di fosfati a Khouribga, città a 120 Km a Sud Est di Casablanca che conta quasi 200mila abitanti, il blocco del porto a Sidi Ifni, cittadina di 20mila abitanti sull’Oceano Atlantico e, appunto, l’accampamento sul Monte Alebban contro la miniera d’argento.
Povertà e problemi ambientali non sono inevitabili
L’aumento della protesta non si puó capire se non si mette sotto la lente d’ingrandimento il rapporto iniquo tra centri urbani e campagne nell’economia neoliberista del Marocco.
Il governo ha spinto negli ultimi tre decenni sull’industrializzazione delle aree costiere, su progetti speculativi infrastrutturali nelle grandi città, grandi complessi turistici, estrazione intensiva di risorse naturali, mentre i centri più piccoli soffrono per la mancanza di servizi basilari e opportunità di lavoro dignitoso, e, anzi, subiscono le conseguenze negative dell’inquinamento e della violenza repressiva.
Ciò che sta al centro delle contestazioni in Marocco oggi, dunque, è il fatto che povertà, marginalizzazione, problemi ambientali siano la precisa conseguenza dell’odierno capitalismo globale, delle politiche di classe e delle relazioni di potere nel paese.
Allo stesso tempo, Imider mostra come la società civile marocchina si è articolata fin dagli anni ’90 in tanti collettivi e organizzazioni per i diritti umani e la giustizia sociale che oggi pongono in questione il modello economico e di «sviluppo». Essi uniscono rivendicazioni che riguardano diritti umani, indigeni, ambientali, di genere, e li vincolano alla necessità di cambiamento del sistema produttivo capitalista e autoritario.
Non basta dire «sostenibilità»
In uno dei materiali di divulgazione diffusi durante la Cop22 da una di queste organizzazioni, si trova scritto che «parlare di sviluppo sostenibile non è più sufficiente. È una parola distorta e abusata da parte delle grandi imprese transnazionali e anche dalle fabbriche più piccole. È usata come un alibi. Oggi è necessario chiarire i limiti di ciò che viene chiamata sostenibilità. Non può essere imposta secondo criteri estranei al contesto culturale, sociale e ambientale. Oggi è necessario lavorare in una direzione congiunta e mantenere una comunicazione costante tra le risorse del territorio e i bisogni della sua gente».
Daniela Del Bene Coeditrice di Ejatlas
Altri tre casi emblematici
1. L’impatto ambientale dell’energia solare
Ouarzazate è il sito del più nuovo e grande progetto di energia solare del mondo (500 ettari). Tuttavia, il livello di accaparramento di terre, l’elevato costo di produzione, e i grandi interessi economici che lo sostengono non ci possono far rimanere indifferenti e acritici sul processo di transizione verso le rinnovabili. Chi decide, a quale scala e costo, per quali fini produrre energia?
2. Le donne Soulaliyate
Il Movimento delle Donne Soulaliyate è diventato popolare in Marocco nel 2007, quando in un contesto di massiva privatizzazione della terra, gruppi tribali di donne cominciarono a rivendicare i loro diritti al pari degli uomini. Seppur minore al principio, il movimento ora ha raggiunto scala nazionale e continua a sfidare le leggi di proprietà della terra che favoriscono gli uomini e le regole della societá patriarcale nell’accesso alla terra.
3. Land grabbing a Rabat
La comunità dei Guicheloudaya vede la propria terra minacciata dall’espansione della frontiera urbana di Rabat. Il processo di privatizzazione ha avuto un’accelerazione dal 2004 e le tribù hanno subito la confisca di terreni e case. Le proteste hanno incontrato una dura repressione da parte della polizia che ha portato all’autornimmolazione di un abitante nel 2015. A oggi non sono stati indicati chiari piani di compensazione e reinsediamento.