Transizione, miti e realtà


Abbandonare i combustibili fossili è un’impresa complicata e costosissima. Trovare le materie prime sostitutive lo è altrettanto. Con queste premesse, non ci sono dubbi che la transizione «verde» sarà un’impresa.

Prima il carbone, poi il petrolio, dopo il gas, fatto sta che, più o meno, da 250 anni utilizziamo combustibili fossili per produrre energia. Il risultato è che abbiamo emesso così tanta anidride carbonica da avere provocato l’innalzamento medio della temperatura terrestre di oltre un grado centigrado. Con inevitabili ricadute sul clima che ormai ha perso la regolarità di qualche decennio fa come testimoniano lo scongelamento dei ghiacciai, i lunghi periodi di siccità, le piogge torrenziali che devastano agricoltura e territori. Quando ormai il danno è già stato fatto, i centri di potere stanno meditando di fare qualcosa per mettere un freno alla produzione di anidride carbonica. L’obiettivo universalmente dichiarato è il raggiungimento di emissioni nette uguale allo zero per il 2050. Come dire che per quella data la CO2 prodotta dovrà essere ridotta di circa due terzi rispetto a quella prodotta oggi in modo da riportarla nei limiti di capacità di assorbimento del sistema vegetale presente sul pianeta.

La transizione energetica

Per riuscirci bisogna cambiare radicalmente modo di produrre energia e la parola d’ordine a livello planetario è diventata «transizione energetica» che significa un altro modo di produrre energia elettrica, di produrre calore in ambito industriale e domestico, di alimentare i mezzi di trasporto.

In ambito elettrico le nuove strategie sono il solare, l’eolico, l’idroelettrico. Ma c’è anche chi insiste nel rilancio di tecniche azzardate come le centrali nucleari, mentre si stanno conducendo ricerche nel campo della fusione nucleare, che poi significa riproduzione sulla Terra di quanto avviene all’interno del sole. Quanto alla mobilità, la nuova frontiera è rappresentata dai mezzi elettrici alimentati a batteria o celle a idrogeno.

Tra il dire e il fare: chi paga il passaggio?

La transizione energetica (o green) è tanto facile a dirsi, quanto difficile da attuarsi perché si tratta di un’operazione mastodontica con ripercussioni enormi sia sul piano finanziario che ambientale. Ad esempio, rispetto al primo aspetto, quello finanziario, la European round table, l’associazione delle principali multinazionali europee, valuta che, da qui al 2030, solo in Europa servirebbero 700 miliardi di euro per rinnovare e ammodernare il sistema di produzione e trasmissione elettrica. Fino al 2050 il costo previsto a tale scopo è di 2.300 miliardi di euro. E siamo appena all’ambito elettrico. Nel contempo vanno rinnovati anche gli altri comparti energetici: i riscaldamenti interni alle abitazioni, le fornaci interne alle aziende, la propulsione dei mezzi di trasporto che devono passare dai motori a scoppio ai sistemi alimentati da batterie elettriche o da batterie a idrogeno. Il tutto, poi, va esteso a livello mondiale, considerando anche che ci sono continenti, come quello africano, dove centinaia di milioni di persone non godono ancora di alcun tipo di fornitura elettrica.

In conclusione, secondo i calcoli effettuati dalla banca d’investimento britannica Barclays Bank, da qui al 2050 servono fra i 100mila e i 300mila miliardi di dollari, a livello mondiale, per sostituire il parco energetico oggi basato sui combustibili fossili. Come termine di paragone, si tenga conto che 100mila miliardi corrispondono all’intera ricchezza prodotta in un anno a livello mondiale.

I soldi sono un problema e il primo nodo della transizione energetica è: chi deve sobbarcarsi la spesa? La risposta dipende dall’orientamento politico, ma è verosimile che, chi più chi meno, tutti dovranno fare la propria parte: governi, imprese e famiglie, sapendo che ai governi tocca anche l’attività di regolamentazione e di indirizzo. Tutte iniziative che presentano la propria complessità, ma che sono ampiamente superabili se sostenute da un’adeguata volontà politica. Ciò che invece è di difficile soluzione riguarda gli effetti sociali e ambientali che la transizione green è destinata a sollevare.

La transizione complicata: i microchip non sono immateriali. Foto Brian Kostiuk – Unsplash.

Il materiale dell’immateriale

L’affermarsi dell’informatica ci ha fatto credere di essere entrati nell’era dell’immateriale, il tempo in cui si riesce a operare a distanza senza bisogno di alcun mezzo di trasporto né di energia per il loro movimento. Ma si tratta di un’illusione. A questo mondo, d’immateriale non c’è niente, neanche il pensiero, perché, per funzionare, il cervello ha bisogno di nutrimento, ossia di materia. E così pure i nostri congegni elettronici: per funzionare richiedono non solo energia, ma anche materia per dare forma alla tecnologia da cui dipendono. Né tragga in inganno la leggerezza dei microchip, emblema della moderna tecnologia informatica. I microcircuiti all’interno dei nostri computer e dei nostri cellulari sono distillati di processi produttivi che hanno impiegato una quantità di materiale assai più elevato del risultato finale.

Più esattamente per ottenere un microchip di appena due grammi servono 1,5 chilogrammi di combustibili fossili, 0,073 chilogrammi di composti chimici, 31,9 litri d’acqua e 0,7 chilogrammi di gas (in particolare azoto). Come dire che per produrre un microchip ci vuole una quantità di risorse materiali 17mila volte più alta del suo peso finale. Risorse entrate nel ciclo produttivo, ma poi rimosse una volta assolta la propria funzione. E, si noti bene, rimosse, ma non dissolte, bensì gettate in qualche angolo del pianeta sotto forma di rifiuto. Ogni prodotto che usiamo nasconde da qualche parte la zavorra degli scarti di produzione che gli esperti chiamano «zaino ecologico».

I nuovi materiali sono «critici»

I rifiuti nascosti sono solo uno dei problemi che accompagnano i nuovi materiali su cui si basa la transizione energetica. Altrettanto preoccupante è la nuova dipendenza che si sta profilando: il vecchio sistema energetico dipendeva dai combustibili fossili, il nuovo dipende da pochi minerali su cui è già lotta aperta per il loro accaparramento. L’Unione europea ha stilato una lista di 34 minerali strategici ai fini della transizione energetica, di cui alcuni già ampiamente inseriti nella tradizione industriale, altri solo marginalmente. Fra i primi possiamo citare il rame, l’alluminio, il nickel, che nel nuovo corso diventeranno ancora più importanti per il posto occupato nei dispositivi utili alla produzione e alla trasmissione di corrente elettrica. Fra i secondi risaltano il litio, il cobalto, la grafite, ma anche le terre rare, un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, tra cui cerio, lantanio, scandio (vedi MC giugno 2024). Un insieme di materiali che trovano un’ampia applicazione in tutti i settori della tecnologia avanzata e delle energie rinnovabili. Fondamentali per costruire magneti, fibre ottiche, batterie ricaricabili, turbine eoliche, pannelli solari, sono elementi imprescindibili di apparecchiature di medicina avanzata, di computer, smartphone e tecnologia aerospaziale, compresa quella a fini militari.

I nuovi minerali a fini energetici sono intriganti anche per il lessico che li accompagna. Potevano essere presentati come salvifici, sostenibili, verdi o in qualsiasi altra versione positiva. Invece, sono etichettati da tutti come «critici». Valga come esempio l’Unione europea che in tutti i documenti dedicati all’argomento ne parla come «materie prime critiche». Altrettanto negativamente sono rappresentate dalle associazioni a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Ma per ragioni opposte: la società civile teme i rischi per la natura e le popolazioni locali; l’Unione europea teme quelli per la supremazia delle sue imprese. Un timore, quest’ultimo, dettato da due fattori: la scarsità dei minerali e la loro concentrazione in pochi paesi.

Per la verità il capitalismo non si è mai preoccupato della disponibilità di risorse. Ha eletto come zona di crescita economica una porzione ridotta di mondo: soltanto questa aveva il diritto di fare razzia per ogni dove. In altre parole, i paesi occidentali si sono sempre arrogati il diritto di perseguire la crescita infinita, certi che i limiti del pianeta non sarebbero mai stati un ostacolo. Ma oggi che molte altre aree geografiche si sono avviate lungo la strada della crescita economica, il vecchio capitalismo occidentale ha cominciato a capire che la crescita infinita non può esistere.

La transizione complicata: la produzione di energia elettrica. Foto Couleur – Pixabay.

Materie prime: chi le ha e chi le sa lavorare

A suonare il campanello d’allarme è perfino l’Ocse, l’ufficio studi dei paesi più ricchi incaricato di elaborare strategie di crescita economica per loro conto. Secondo le sue previsioni, da qui al 2060 la domanda mondiale di materie prime crescerà più del doppio, passando dagli attuali 79 miliardi di tonnellate a 169. Del resto, la pressione sui minerali è già evidente attraverso i prezzi.

Il litio carbonato, solo per citare un esempio, è passato da 20mila dollari a tonnellata nel 2018 a 80mila dollari nel gennaio 2023. Certo, i prezzi hanno sempre un andamento altalenante perché risentono della speculazione finanziaria, ma le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia rispetto alla domanda di minerali a fini energetici non ammettono dubbi. Secondo i suoi calcoli, nel 2040 la domanda di nichel sarà due volte più alta rispetto al 2010, mentre quella di cobalto cinque volte più alta. Quanto al litio, nel 2030 la sua richiesta sarà quattro volte più alta rispetto a oggi. Di conseguenza un quesito si pone con forza: nel futuro ci saranno minerali a sufficienza per tutti? E se non dovessero essercene, chi deciderà chi può averne? Sicuramente un grande decisore sarà il prezzo di vendita, destinato ad aumentare per tutti i minerali: chi potrà comprarli a qualsiasi prezzo sarà il vincitore, gli altri dovranno leccarsi le ferite. A fare da discrimine, insomma, sarà la ricchezza. Ma anche la nazionalità perché saranno avvantaggiati i paesi con riserve nel proprio sottosuolo e con capacità di raffinazione. Una situazione ad oggi molto sbilanciata.

Parlando di estrazione, ad esempio, si scopre che pochi paesi sono produttori di minerali critici. Spicca la Repubblica democratica del Congo per cobalto e tantalio, il Sudafrica per il manganese, la Cina per le terre rare, l’Australia e il Cile per il litio. E se passiamo all’attività di lavorazione e raffinazione delle materie prime, scopriamo che il livello di concenrazione è ancora più marcato.

Da questo punto di vista il primato spetta alla Cina rispetto a una grande quantità di metalli. La sua quota di raffinazione si aggira intorno al 35% per il nichel, al 50% per l’alluminio, al 60% per litio e cobalto, addirittura al 100% per le terre rare pesanti. Uno scenario che spaventa in particolare l’Unione europea, che fra tutte le potenze economiche è quella più sguarnita di minerali e di imprese siderurgiche.

Dalla globalizzazione all’autarchia

Ormai il tempo della globalizzazione, del consideriamoci tutti amici e lasciamo che il mondo sia un unico grande mercato dove ognuno va a comprare dove è più conveniente, è passato. Le imprese non fanno soldi solo per sé, ma sono anche garanzia di introiti per le casse statali e fonte di stabilità occupazionale. Di conseguenza, la politica ha scoperto che troppa globalizzazione fa male agli interessi interni e ha cominciato a tirare il freno. Anche su richiesta di tutte quelle imprese nazionali che dalla globalizzazione ci stavano rimettendo, tutte le grandi potenze economiche stanno virando verso un maggior senso di casa per ridurre la dipendenza dall’estero rispetto alle risorse strategiche. Hanno iniziato gli Stati Uniti ed è seguita a ruota l’Unione europea che, nel marzo 2023, ha varato un regolamento per rilanciare l’apertura di miniere dismesse e siti industriali utili a produrre metalli strategici per la transizione energetica. L’obiettivo dichiarato è che per il 2030 si estragga internamente almeno il 10% dei minerali strategici e si lavori nei paesi europei il 40% dei minerali utilizzati. È anche previsto che il 25% provenga da materie prime riciclate. In ogni caso, il regolamento più che obblighi per i governi, prevede facilitazioni finanziarie e normative per favorire il nuovo corso autarchico. Che, però, non tutti vedono con favore perché l’estrazione si accompagna spesso a processi di alterazione ambientale che inquinano il territorio, compromettono le falde acquifere, pongono a rischio la salute degli abitanti. Di questo tema, però, ci occuperemo nel prossimo articolo.

 Francesco Gesualdi

 




Africa. Fame di energia


Anche in Africa la corsa alle energie rinnovabili è aperta. Il continente è il maggiore produttore al mondo di minerali necessari alla transizione verde. Solitamente sfruttati da altri. Intanto anche il nucleare si sta facendo strada. Il caso Rwanda.

Negli ultimi anni, molti Paesi africani – come diversi altri nel mondo – hanno iniziato a investire in una diversificazione delle proprie fonti energetiche, guardando sempre di più all’introduzione delle rinnovabili. Una decisione derivante, da un lato, dalla necessità di garantire una fornitura sicura e capillare di energia elettrica a cittadini e imprese e, dall’altro, dall’esigenza sempre più pressante di sviluppare politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico.

A caccia di elettricità

In Africa subsahariana, la domanda di elettricità è in crescita, ma, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (organizzazione intergovernativa che coordina le politiche energetiche dei Paesi membri), circa 600 milioni di persone e 10 milioni di piccole imprese ancora non vi hanno accesso. La necessità di soddisfare questa richiesta sta quindi imponendo agli Stati del continente di ripensare il proprio mix energetico, introducendo nuove fonti. Per la generazione di elettricità, infatti, molti Paesi dipendono ancora da petrolio e gas naturale, i quali, oltre a inquinare, hanno spesso elevati costi di importazione per chi non li produce.

Nel mentre – di fronte all’accelerare del cambiamento climatico e alla crescente consapevolezza dell’irreversibilità dei suoi effetti -, crescono anche le pressioni occidentali sui Paesi del Sud globale affinché adottino politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico. Nei fatti, questo vuol dire che regioni come l’Africa – l’area che in tutto il mondo emette la minore quantità di gas serra e che però, con Asia meridionale e America Latina, subisce la maggioranza degli effetti del cambiamento climatico – devono sviluppare e realizzare piani di transizione ecologica.

Al di là delle difficoltà economiche che molti Stati del continente affrontano per ottenere i fondi necessari a sviluppare queste politiche o per ripagare i tassi di interesse – spesso elevati – posti sui prestiti di Paesi occidentali e organizzazioni internazionali, lo sviluppo delle energie rinnovabili sta diventando un punto imprescindibile delle agende politiche di molti governi africani.

Nuclear power station, Koeberg, Western Cape, South Africa. (Photo by DR NEIL OVERY/SCIENCE PHOTO LIBR / NOY / Science Photo Library via AFP)

Ricchezza fatale

Poche aree del mondo si collocano al centro della transizione ecologica mondiale come l’Africa. Da un lato, il continente è ricco di risorse minerarie essenziali per la produzione di dispositivi come pannelli solari, auto elettriche e computer, tanto da essere al centro di una corsa all’accaparramento da parte di multinazionali e Stati stranieri, interessati a sfruttare il più possibile i suoi giacimenti (vedi box).

Dall’altro, l’Africa ha un potenziale di generazione di energie rinnovabili enorme. Ad esempio, il deserto del Sahara è l’area del mondo che riceve la maggiore quantità di sole in un giorno. I numerosi fiumi che attraversano tutto il continente permettono la produzione di energia idroelettrica, mentre nella zona della Rift Valley (Africa orientale) il calore del sottosuolo è utilizzabile per l’enegia geotermica.

Tuttavia, lo sfruttamento di queste fonti energetiche ha una doppia faccia. In Paesi dove la rete elettrica non è capillare e le aree rurali sono spesso tagliate fuori dalla fornitura nazionale, la possibilità di installare piccole unità di generazione elettrica (soprattutto pannelli solari, ma anche piccole centrali idroelettriche e pale eoliche) renderebbe intere comunità autonome. Dall’altro lato, però, i costi da sostenere sono consistenti e spesso improponibili per gli abitanti delle aree rurali. Inoltre, sovente l’installazione di questi impianti priva le popolazioni di aree di coltivazione o pascolo. Essi quindi dipendono da sussidi statali, investimenti e progetti stranieri per l’installazione e la messa in funzione delle infrastrutture necessarie per sfruttare il potenziale energetico del territorio circostante.

Attrazione nucleare

Tra tutte le fonti di energia, ce n’è una sempre più apprezzata in Africa, benché non sia tra quelle universalmente considerate come rinnovabili: il nucleare. La costruzione di centrali, anche solo in numero limitato, offrirebbe infatti la possibilità di produrre un’elevata quantità di energia, indipendentemente da stagione, momento della giornata e condizioni meteorologiche, a differenza di altre fonti rinnovabili. In più, secondo i governi di molti Paesi, nel lungo periodo, il nucleare garantirebbe una maggiore quantità di elettricità a costi minori rispetto alle fonti attualmente utilizzate e senza produrre emissioni di anidride carbonica. Inserito nel mix energetico, a fianco delle fonti rinnovabili, il nucleare permetterebbe quindi agli Stati africani di accelerare nella transizione ecologica, garantire elettricità a un maggior numero di abitanti del continente, supportare la crescita industriale e creare nuove opportunità lavorative.

Attualmente, tre Paesi – Namibia, Sudafrica e Niger – estraggono uranio in quantità tali da soddisfare il 18% della produzione mondiale. Ma giacimenti significativi – in alcuni casi già parzialmente sfruttati, in molti altri non ancora – si trovano anche in altri Stati come Botswana, Malawi, Mauritania, Tanzania e Zambia. Tanto che diversi Paesi hanno iniziato a muoversi concretamente per avviare la costruzione di siti nucleari. Ben presto, quindi, la centrale sudafricana di Koeberg – dotata di due reattori da duemila megawatt ciascuno – potrebbe non essere più l’unica nel continente.

Quarantacinque Paesi africani stanno cooperando con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organizzazione per lo sviluppo del nucleare con finalità civili che definisce i perimetri operativi e infrastrutturali affinché i programmi siano sicuri, protetti e sostenibili. L’obiettivo è accertarsi che la costruzione e attivazione delle centrali permetta di affrontare le priorità energetiche, sociali ed economiche degli Stati interessati, oltre a verificare il rispetto delle misure di sicurezza necessarie.

Più avanti è invece l’Egitto che a el-Dabaa ha già iniziato la costruzione del suo primo impianto. Composta da quattro reattori da 1.200 megawatt ognuno, la centrale è frutto della cooperazione de Il Cairo con Rosatom, azienda statale russa per lo sviluppo dell’energia atomica.

Infatti, diversi attori stranieri – sia Stati che imprese – stanno contribuendo a rendere sempre più attraente lo sviluppo del nucleare in Africa. Paesi come la Cina, ma ancor di più la Russia, sono protagonisti della corsa al nucleare nel continente.

Isolata a livello internazionale, Mosca mira a rafforzare i propri legami con diversi alleati – tra cui i Paesi africani -, e il nucleare è uno dei suoi tanti strumenti di cooperazione. Rosatom offre infatti contratti all-in-one (letteralmente, «tutto in uno») particolarmente apprezzati: l’azienda si occupa di tutte le fasi del progetto, dalla costruzione dell’impianto alla formazione dei lavoratori locali, dalla fornitura di uranio alla gestione delle scorie.

Gente in fuga in Congo Rd dopo scontri con l’M23 (legato al Rwanda) nella zona di Masisi, Nord Kivu. (Photo by Aubin Mukoni / AFP)

Il caso Rwanda

Uno dei Paesi africani che più sta investendo in energie rinnovabili è il Rwanda. Con l’obiettivo di raggiungere il 100% dell’elettrificazione nazionale nei prossimi anni, il Governo sta puntando sempre di più sullo sviluppo della rete elettrica, di sistemi autonomi di accesso all’elettricità per le comunità rurali e di fonti energetiche alternative a petrolio e gas.

Secondo il ministero rwandese dell’Infrastruttura, già nel 2018, il 53% dell’elettricità nel Paese proveniva da fonti rinnovabili, una cifra che tre anni dopo era cresciuta al 62%.

Nel 2022, metà della produzione energetica nazionale era soddisfatta dalla generazione idroelettrica, grazie a 37 centrali connesse alla rete statale e ad altri undici piccoli impianti che garantivano elettricità alle comunità rurali non toccate dalla fornitura nazionale. Tra queste comunità, diffusi sono i pannelli fotovoltaici, utilizzati soprattutto per sostenere l’irrigazione e l’illuminazione nei contesti agricoli. Mentre ancora poco sfruttato è il potenziale geotermico che in prospettiva potrà esserlo, dato che il Paese si colloca nella Rift Valley.

Interessi nucleari

E poi ci sono gli investimenti nel nucleare. Secondo quanto dichiarato da Fidel Ndahayo al momento della sua nomina a presidente del Consiglio rwandese dell’energia atomica, l’introduzione di questa tecnologia – applicabile in numerosi ambiti come medicina, industria e agricoltura – è un tassello fondamentale «per raggiungere la totale elettrificazione del territorio nazionale, soddisfare la domanda di energia dei cittadini, stimolare la crescita del settore industriale e sviluppare un’economia resiliente al cambiamento climatico».

Finanziamenti russi – arrivati grazie a un accordo di cooperazione tra Kigali e Mosca firmato nel 2018 e approfondito negli anni successivi – stanno supportando la costruzione e messa in funzione di un Centro per la scienza e la tecnologia nucleare, finalizzato allo studio e allo sviluppo del nucleare nel Paese.

Inoltre, un’intesa da 75 milioni di dollari siglata a settembre 2023 con Dual fluid energy, azienda canado-tedesca del settore, è finalizzata a sviluppare e testare in Rwanda un reattore dotato di una tecnologia innovativa, ritenuta più efficiente e sicura di quella tradizionale e in grado di produrre una quantità minore di scorie.

Nel quadro di quest’ultimo accordo, Kigali ha accettato di fornire sito e infrastrutture dove realizzare la sperimentazione, mentre Dual fluid energy si è assunta la responsabilità dell’implementazione tecnica del progetto e della formazione degli scienziati locali.

Il governo rwandese non nasconde la propria ambizione di diventare, nei prossimi anni, un punto di riferimento per lo sviluppo del nucleare in Africa. Invece di limitarsi a siglare accordi per la costruzione di centrali per la produzione di elettricità, la sua strategia mira alla ricerca e allo sviluppo di soluzioni innovative per il futuro. Se la sperimentazione di Dual fluid energy, infatti, dovesse concludersi con esito positivo (ci si aspetta che il reattore sia operativo nel 2026, mentre i test dovrebbero terminare nel 2028), oltre ad aggiungere questa tecnologia al mix energetico già esistente, il Rwanda si porrebbe come riferimento per la produzione e la diffusione dei nuovi reattori in Africa centrale, ma anche nell’intero continente.

Investimenti e rischi

Investire nel nucleare però non è esente da rischi, a maggior ragione in Paesi con un contesto sociale, economico e di sicurezza fragile. Diversi sono gli interrogativi, a partire dai costi elevati e dai tempi lunghi per la costruzione degli impianti, fino ad arrivare alla garanzia di sicurezza delle centrali e del territorio circostante.

La sola costruzione di un reattore da mille megawatt richiede generalmente cinque miliardi di dollari statunitensi e dieci anni, dal momento dell’approvazione del progetto a quello di inizio della generazione elettrica. Uno sforzo economico e di tempo non da poco che la maggior parte dei Paesi del continente non è in grado di sostenere autonomamente. Dunque, la necessità di prestiti o finanziamenti – spesso erogati con elevati tassi di interesse da altri Stati o organizzazioni internazionali – crea una dipendenza nei confronti dell’entità finanziatrice che si può protrarre per diversi anni.

A ciò si affiancano i timori sulla sicurezza degli impianti e del territorio circostante. Se, nel primo caso, l’auspicio è che vengano seguite le direttive dell’Aiea; nel secondo, la preoccupazione è maggiore. Molti Paesi, che stanno investendo nel
nucleare, o sono interessati a farlo, sono caratterizzati da una situazione sociale, politica e militare altamente instabile a causa della presenza di movimenti armati e tensioni sociopolitiche. Un’escalation di scontri nelle vicinanze di una centrale nucleare avrebbe effetti – potenzialmente – devastanti.

Senza dimenticare il rischio posto da eventi meteorologici estremi o disastri ambientali, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico. Se poi l’evento destabilizzante dovesse verificarsi in un Paese ad alta densità abitativa – come, ad esempio, il Rwanda, dove per ogni chilometro quadrato vivono 547 persone -, le ripercussioni rischierebero di essere drammatiche.

È per questo che diversi studiosi si chiedono se effettivamente il nucleare – tra tutte le fonti energetiche – sia la soluzione per l’energia africana. La risposta che finora si sono dati non è così certa. Ma i Paesi africani sembrano pensarla diversamente: per loro il nucleare è il futuro del continente.

Aurora Guainazzi

Impianto fotovoltaico da 50 Megawatt in Mauritania (Photo by MED LEMINE RAJEL / AFP)


Siglato un accordo Ue-Rwanda sui metalli strategici

Così si finanziano le guerre

Il 19 febbraio, l’Unione europea (Ue) e il Rwanda hanno siglato un accordo di cooperazione incentrato sui minerali essenziali per la produzione di molti dei dispositivi al centro della transizione ecologica. L’obiettivo dell’intesa è «rafforzare il ruolo del Rwanda nella promozione dello sviluppo durevole e delle catene di valore resilienti in Africa». Ovvero, si prevedono investimenti europei (realizzati nell’ambito del Global Gateway, la strategia dell’Ue per gli investimenti in settori critici) per lo sviluppo del settore minerario rwandese, con particolare attenzione a risorse come tantalio, stagno, tungsteno, oro, niobio, litio e terre rare. Nei fatti, l’obiettivo ultimo dell’Ue è garantirsi un approvvigionamento sicuro e durevole di minerali sempre più importanti per il futuro della transizione ecologica.

Ma buona parte delle risorse minerarie esportate dal Rwanda, in realtà, non è estratta nel Paese (i cui giacimenti sono limitati e poco sfruttati). Piuttosto, proviene dalle province orientali della Repubblica democratica del Congo (Rdc), dove la diffusa conflittualità e l’incapacità del governo centrale di essere presente efficacemente su tutto il territorio facilitano il contrabbando di minerali nei Paesi vicini, tra cui, il Rwanda. Flussi commerciali illegali che sono stati denunciati in rapporti delle Nazioni Unite e da organizzazioni come Global witness (un ente che analizza il legame tra conflitti e risorse). Proprio una recente indagine di Global witness ha evidenziato come, negli ultimi anni, solo il 10% dei minerali esportati dal Rwanda fosse stato realmente estratto nel suo territorio, mentre il restante provenisse dalla Rdc.

Non a caso, la reazione del governo congolese all’accordo è stata particolarmente dura. Kinshasa ha criticato l’Ue e denunciato che il Rwanda «non ha nel suo sottosuolo nemmeno un grammo di questi minerali». Invece, si appropria di quelli congolesi, grazie al contrabbando dei movimenti armati attivi nell’Est della Rdc e al saccheggio dei militari rwandesi presenti illegalmente nelle province orientali a supporto del Movimento del 23 marzo (M23). A inasprire ulteriormente la reazione di Kinshasa è stata anche la consapevolezza che l’accordo del 19 febbraio non è l’unica forma di collaborazione esistente tra Rwanda e Ue. Kigali è infatti un importante alleato politico, ma soprattutto militare dell’Occidente, tanto che Stati Uniti e Ue addestrano e riforniscono il suo esercito.

A questo proposito, un comunicato del Mouvement citoyen lutte pour le changement (Lucha), organizzazione della società civile congolese, denuncia che «i soldati rwandesi che l’Ue sta addestrando e finanziando probabilmente saranno mandati nella Rdc […] e che gli accordi minerari che l’Ue sta firmando saranno utilizzati per riciclare le risorse minerarie congolesi saccheggiate dall’esercito rwandese nella Rdc».

Una volta giunti a conoscenza dell’accordo, gli abitanti di Kinshasa hanno protestato di fronte alle ambasciate occidentali. Mentre a Goma, capitale del Nord Kivu, la notizia ha rinfocolato il persistente sentimento di malcontento nei confronti dell’Occidente (e dei caschi blu delle Nazioni Unite): molti abitanti sono scesi in strada, manifestando e bruciando le bandiere dei Paesi occidentali (in particolare di Francia e Stati Uniti) e del Rwanda.

A.G.