Messico-Guatemala. Migrazione al contrario

 

Hueuetenango, Guatemala. Ci vogliono sei ore di macchina da Città del Guatemala per arrivare a Huehuetenango, una delle più grandi città di questo paese centroamericano. Da lì, con un mezzo 4×4 e un autista di provata esperienza, si arriva a Cuilco, un piccolo e isolato paese di montagna. Un ulteriore percorso di due ore in strada sterrata, tra sassi, buche e posti di blocco della polizia di frontiera guatemalteca, conduce a Caserio Ampliación Nueva Reforma, un gruppo di case ritirato e difficile da localizzare persino su Google Maps. A oltre 2mila metri sul livello del mare, questo luogo sconosciuto ai più, è diventato uno centro di interesse per la cronaca nazionale, e pure internazionale.

Il 22 luglio scorso, oltre 300 messicani, tra uomini, donne e bambini, talvolta con animali domestici, sono partiti da Frontera Comalapa, in Messico, attraversando a piedi l’aspro passo montano che unisce il Messico al Guatemala. Questo esodo, frutto dell’ultima violenta sparatoria tra i cartelli del narcotraffico di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación, ha dato vita a un flusso continuo di persone in fuga, una «migrazione al contrario» mai vista prima in quest’area, solitamente teatro di viaggi di sola andata verso gli Stati Uniti, e quindi in direzione Nord.
Negli ultimi mesi, il Chiapas (stato più a Sud del Messico, ndr) si è trasformato in un nuovo campo di battaglia per il controllo delle rotte migratorie, rubando la scena addirittura a luoghi tristemente noti come Tamaulipas, lo stato messicano più ambito dai narcotrafficanti messicani per il controllo del traffico di droga che dal Sud si muove verso i floridi mercati di consumatori di sostanze stupefacenti negli Stati Uniti.

App per chiedere asilo
Il Chiapas non è solamente il collo di bottiglia del Messico, da cui sono forzati a transitare tutti i migranti che provengono dall’America Centrale e del Sud, ma ormai è diventato una sorta di sala d’attesa per la richiesta di asilo negli Stati Uniti. Dal 23 di agosto scorso infatti, è possibile richiedere un appuntamento per presentare la propria richiesta di protezione internazionale negli Stati Uniti direttamente dal sud del Messico attraverso una App per telefono che si chiama «CBP One». Questo sistema è un’arma a doppio taglio perché, sebbene permette di contattarsi a distanza con gli organismi migratori statunitensi, obbliga le persone a rimanere in Messico, spesso accampate in strada e sottoposte a violenze costanti da parte della polizia messicana e dei narcos che hanno trovato in loro un business più redditizio del traffico di droga. Da qui la guerra quasi fratricida tra cartelli per il controllo del territorio e quindi anche per il privilegio di poter derubare e sequestrare sia i migranti bloccati in Messico, sia i bus che trasportano verso Nord chi invece ha deciso di tentare la «suerte», ovvero attraversare il confine nordamericano in maniera irregolare, senza aspettare mesi prima di ricevere un appuntamento attraverso la App CBP One.

Fuga dai narcos
A far le spese di una violenza in strada a colpi di fucile e pistola, spesso imprevedibile, sono i residenti della zona, che a fine luglio sono scappati in Guatemala in cerca di rifugio.
Ad accogliergli c’è stata la comunità della zona di Cuilco. Nonostante su questo confine, 9 persone su 10 vivano in condizione di povertà, secondo l’Insituto Nacional de Estadistica, la popolazione non si è tirata indietro e ha aperto le sue porte, offrendo cibo e allestendo la piccola scuola comunitaria con letti di fortuna. Alcune organizzazioni internazionali hanno fornito prodotti di prima necessità, tra cui medicine. Da parte sua, il governo del presidente guatemalteco Bernardo Arévalo ha dato supporto immediato, regolarizzando la presenza sul territorio attraverso visti umanitari, ma dall’altra ha aumentato i controlli in frontiera per monitorare l’inusuale flusso migratorio in entrata.
Il Governo messicano ha contribuito installando una cucina comunitaria a Caserio Ampliación Nueva Reforma, fornendo un apporto economico per il mantenimento dei connazionali e ha offerto a chi lo desiderasse la possibilità di ritornare alle proprie case con una garanzia di sicurezza, ma solamente una settantina di persone ha accettato. Gli altri hanno rifiutato perché temono per la loro vita e sono convinti che le loro case siano già state saccheggiate, per cui comunque dovranno ricominciare da zero.
«Negli ultimi giorni, altre 250 persone sono state alloggiate in altre comunità della zona di Cuilco – spiega un funzionario dell’Instituto nacional de migración (Inm) che preferisce restare anonimo per ragioni di sicurezza – In questa zona non esiste una vera e propria frontiera fisica. Siamo in montagna. È normale che chi fugge dai narcos cerchi rifugio in Guatemala, perché queste sono comunità transfrontaliere che, negli anni, hanno instaurato legami umani e commerciali con i vicini guatemaltechi».
La violenza dei cartelli rischia di trascendere oltre i confini del Messico, coinvolgendo sempre di più le zone di frontiera con il Guatemala che fanno parte di un’area naturale priva di qualsiasi controllo reale dello Stato. «Quando saliamo a Cuilco per rinnovare i permessi di permanenza sul territorio, scendiamo prima che faccia buio. Nessuno di noi dorme a Cuilco – continua il funzionario dell’Inm – Sarebbe come mettersi nella bocca del leone».

Simona Carnino




Guatemala. Rompere il ciclo della miseria


C’è un altro modo per migrare dal Centro America agli Stati Uniti. E senza mettere i propri soldi e la propria vita nelle mani dei trafficanti. Ottenere un visto è difficile, ma possibile. E si crea un ciclo virtuoso, ma non senza sacrifici. Ecco alcune storie di successo.

Sumpango e Santiago Sacatepequez. In piedi nel suo campo di more, Arnoldo Chile Recopachí si toglie il cappello, con la manica della felpa si asciuga il sudore dalla fronte e poi si concede un momento per osservare il sole scomparire dietro il vulcano Agua.

Sorride con la serenità di chi si trova esattamente dove vuole essere.

Arnoldo ha 33 anni e nella vita ha già realizzato buona parte di tutto ciò che ha sempre sognato. Da qualche anno è proprietario di un vasto terreno coltivato a more ed è riuscito a costruirsi una casa nel piccolo villaggio di El Rejón nella zona periferica di Sumpango, dove vive con sua moglie a un’ora di strada da Città del Guatemala.

Con un visto per lavoratori agricoli H-2A in mano, dal 2016 per Arnoldo è stato tutto un andirivieni tra Stati Uniti e Guatemala. Da allora trascorre otto mesi in California, dove è impiegato come responsabile dei lavoratori guatemaltechi nella logistica di un’azienda agro- alimentare, e quattro mesi a Sumpango, in Guatemala, dove si occupa del suo campo di more acquistato con le rimesse.

Arnoldo nel suo campo di more, nei dintorni di Aldea El Rejon, Sumpagngo, Guatemala. Foto Simona Carnino

 

L’imprenditrice

Nel frattempo, dall’altra parte di Sumpango, nella piccola comunità di Rancho Alegre, Roselia Canel Tejaxún intercetta gli ultimi raggi di sole che entrano dalla finestra della sua camera e che le sono necessari per finire di ricamare un güipil (o huipil), la blusa tipica dell’abbigliamento femminile maya. Anche lei sorride, pensando che presto avrà abbastanza soldi per aprire il suo atelier di moda nel terreno che ha appena acquistato. A quel punto, nonostante abbia solo 22 anni, sarà un’imprenditrice e potrà costruire una casa per la sua futura famiglia con i proventi dell’investimento. Mentre Roselia sta pensando a tutto questo, Juan Pacache e sua moglie, con la zappa in spalla, stanno tornando a casa dal loro campo di taccole situato nella zona più periferica di Sumpango, dopo un’intera giornata trascorsa a concimare la terra e controllare la crescita delle piante.

A pochi chilometri di distanza, a Santiago Sacatepéquez, Vilma Lemus Chaval si occupa degli ultimi clienti della giornata nel suo negozio di frutta. Normalmente chiude le porte della frutteria intorno alle otto di sera, attraversa la strada e va a casa dove cena con sua madre, sua nipote e suo figlio di sette anni. Il giorno dopo si alza, si prepara e torna in negozio. Così fa tutti i giorni, almeno fino a quando non tornerà negli Stati Uniti.

Uscire dalla miseria

Roselia ricama un vestito tradizionale, a casa, RAncho Alegre, Sumpango, Guatemala. Foto Simona Carnino

Arnoldo, Juan, Roselia e Vilma hanno lavorato per circa quattro mesi come braccianti agricoli in una floricoltura del South Dakota, Usa. «Questo lavoro ci ha permesso di guadagnare circa 4mila dollari al mese – spiega Roselia -. Dopo quattro mesi di lavoro, io personalmente sono riuscita a risparmiare abbastanza da comprare una terra a poche centinaia di metri da casa dei miei. Inoltre, ho regalato parte dei miei guadagni agli anziani del villaggio che vivono in condizione di miseria e ne hanno davvero bisogno. Se riesco a farmi ancora tre o quattro stagioni di lavoro negli Stati Uniti, sono certa di poter mettere via i soldi necessari ad aprire il mio negozio di moda qui a Sumpango. Cucire mi rende felice ed è esattamente quello che voglio fare».

Arnoldo, Juan, Roselia e Vilma sono solo quattro delle migliaia di persone centroamericane costrette a migrare negli Stati Uniti per motivi economici, ma sono tra i pochi che hanno avuto la possibilità di farlo con i documenti regolari.

«Migrare con un visto in mano, ti salva la vita perché non sei costretto a viaggiare con un coyote (specie di trafficante, ndr) e non rischi di morire attraversando una frontiera o sequestrato da un narcos – spiega Arnoldo -. Io ho avuto questa fortuna perché sono stato coinvolto in un programma di invio di lavoratori agricoli temporanei di Cuatro Pinos, una cooperativa agricola di Santiago Sacatepéquez di cui mio padre è socio. Dopo un solo anno di lavoro negli Stati Uniti sono riuscito a comprarmi un campo di more qui in Guatemala. Normalmente un migrante non riesce ad avere delle rimesse utili prima dei due anni di lavoro, ma nel mio caso è stato possibile perché non avevo un debito da pagare a un coyote».

I numeri della migrazione

Secondo il Dipartimento di sicurezza interna degli Stati Uniti, nel 2022 circa 9mila persone provenienti dal Guatemala sono riuscite a entrare nel Paese con un contratto di lavoro temporaneo. Di queste, 2.982 sono arrivate con il visto agricolo H-2A e 5.999 con il visto H-2B per lavoratori temporanei non agricoli. In entrambi i casi i lavoratori sono stati selezionati da reclutatori privati, che fanno le veci del datore di lavoro statunitense, o attraverso il programma di mobilità lavorativa del ministero del Lavoro guatemalteco.

Nonostante negli ultimi anni si sia verificato un chiaro aumento dei visti temporanei regolari, questa tendenza contrasta con i dati della migrazione irregolare del 2023, per cui 55.302 persone guatemalteche sono state deportate via aerea dagli Stati Uniti, 19.665 via terra dal Messico e 222.085 sono state arrestate mentre tentavano di attraversare irregolarmente il confine con gli Usa. Sebbene mettersi in viaggio con un coyote abbia raggiunto il prezzo di circa 16mila euro per una traversata di sola andata attraverso il Messico fino alla frontiera Sud degli Stati Uniti senza nessuna garanzia di arrivo, questo continua a essere il modo più frequente per migrare verso il Nord America per un cittadino centroamericano, perché di fatto andarci in maniera regolare non è per nulla facile e tanto meno pubblicizzato né dagli Stati di origine né da quelli di destinazione.

Migranti regolari temporanei viaggiano in Messico per un periodo di lavoro, con intermediazione di Cierto Global. Foto Simona Carnino

Non è facile

Le principali difficoltà sono di tipo amministrativo e burocratico. In Guatemala, servono circa 120 giorni per richiedere un visto di lavoro temporaneo per gli Stati Uniti, e ottenerlo non è scontato.  Il procedimento inizia quando le grandi imprese agricole negli Usa richiedono al dipartimento del lavoro una certificazione che dimostri la necessità di assumere lavoratori stranieri a causa della mancanza di manodopera locale. Quando ottiene questo documento, il datore di lavoro deve comunque aprire le candidature prima ai possibili lavoratori locali e, se nessuno si candida per la posizione, allora può iniziare la selezione all’estero, facendosi aiutare dai reclutatori, organizzazioni che lavorano nei paesi di origine dei migranti e che si occupano di fare la prima scrematura dei profili.

«Ci occupiamo di selezionare la manodopera qualificata attraverso le organizzazioni contadine qui in Guatemala – spiega Johana Bustamante, direttrice di Cierto global, responsabile del reclutamento etico dei lavoratori agricoli -. Facciamo colloqui e valutiamo anche le competenze tecniche dei candidati. Per esempio, andiamo a vedere come se la cavano con la raccolta delle fragole o delle taccole. Poi, è sempre l’azienda negli Stati Uniti che fa la scelta finale dei lavoratori. Dopo questa fase, noi ci occupiamo di tutta la parte burocratica necessaria al rilascio dei visti».

Vilma nella sua cucina tradizionale. Guatemala. Foto Simona Carnino.

Evitare il «coyote»

Sebbene non ci siano limiti di numero per i visti agricoli H2-A, non si può dire lo stesso per il visto H2-B per lavoratori non agricoli. In questo caso ne sono previsti solo 66mila all’anno che in genere vengono concessi quasi esclusivamente a chi ha già avuto un’esperienza precedente negli Stati Uniti, in particolare proveniente dal Messico. Tutto ciò rende oggettivamente improbabile che una persona centroamericana ottenga questo tipo di visto, per cui alla fine preferiscono affidarsi a un coyote.

«La migrazione temporanea regolare dal Guatemala agli Stati Uniti è recente e ci sono pochi contratti con le aziende là – continua Johana Bustamante -. Le tempistiche per ottenere i visti sono molto lunghe, ma il problema più grave è che comunque tanti decidono di partire con il coyote perché ci sono parecchi reclutatori che truffano le persone, promettendo visti in cambio di denaro per poi sparire nel nulla».

Vilma Estela Lemus Chavac, 45 anni, di Santiago Sacatepéquez, è stata vittima di questa truffa. «Nel 2008, io e mia sorella abbiamo conosciuto una persona che ci ha promesso di darci un visto per lavorare negli Stati Uniti in cambio di diecimila quetzales a testa (circa 1.200 euro, nda) – racconta Vilma, guardando tristemente a terra -. Allora ho venduto l’unico pezzo di terra che avevo per racimolare i soldi necessari, ma alla fine quest’uomo è scomparso e io ho perso tutto. Per molti anni non ho pensato di partire, poi ho conosciuto Cierto global e ho ricominciato a credere nella possibilità di poter viaggiare regolarmente negli Stati Uniti senza indebitarmi e senza truffe».

Juan nel suo campo, Sumpango. Guatemala. Foto Simona Carnino

Pagare i debiti e investire

Così, nel marzo 2023, Vilma è partita alla volta degli Stati Uniti dove è rimasta quattro mesi a coltivare i fiori in un’azienda agricola del South Dakota. Ha dovuto pagare solo 400 quetzales (45 euro) per il passaporto, poiché il biglietto, il visto e l’alloggio sono stati coperti dal datore di lavoro, come avviene nella maggioranza dei casi di assunzione di lavoratori agricoli stagionali regolari. Una volta tornata a casa, Vilma è riuscita a pagare i debiti accumulati nel corso degli anni per tenere in piedi la casa che condivide con sua mamma di 83 anni, sua nipote e i suoi tre figli. «Grazie al denaro guadagnato negli Stati Uniti, sono riuscita a coprire le bollette e le spese necessarie alla nostra sopravvivenza. Inoltre, ho affittato un negozio dove vendo verdura, frutta e vestiti. Questo mi ha permesso di generare nuove entrate».

Tra i reclutatori riconosciuti dal ministero del Lavoro guatemalteco c’è la cooperativa agricola Cuatro Pinos, che dal 2016 gestisce un programma di migrazione regolare esclusivamente per i soci e i loro familiari. «Nell’ultimo anno abbiamo inviato 150 lavoratori, che insieme hanno accumulato un milione e mezzo di dollari in rimesse, reinvestite nella produzione agricola qui – spiega Vanessa García, direttrice esecutiva della Fondazione Juan García Comparini che si occupa della responsabilità sociale di Cuatro pinos -. La migrazione stagionale permette alle persone di migrare senza rischiare la vita durante il viaggio. Inoltre, non devono pagare il debito al coyote e possono mantenere i legami familiari perché tornano dopo pochi mesi».

Vilma nel suo negozio ei frutta e verdura e abiti. Santiago Sacatepéquez, Guatemala. Foto Simona Carnino

Non tagliare le radici

Secondo una ricerca del Pew research center, un migrante irregolare in media vive all’estero circa 13,6 anni, con il rischio di perdere i legami familiari e comunitari. La vita di Juan Pacache, però, mostra che è possibile vivere un’esperienza di migrazione lunga mantenendo gli affetti intatti. Gli ultimi 20 anni della sua vita li ha trascorsi andando e tornando più volte, inizialmente dal Canada, poi, negli ultimi anni, degli Stati Uniti. «La mia casa e il mio campo di taccole sono il frutto diretto delle mie rimesse – racconta Juan -. Dopo il primo viaggio in Canada, ho investito tutti i miei risparmi nell’istruzione dei miei figli, per cercare di rompere il circolo di povertà in cui eravamo e dare a loro una possibilità lavorativa migliore della mia. Ora che sono grandi, utilizzo le rimesse per comprare terra, fertilizzanti, sementi e per assumere persone che lavorino con me. Voglio reinvestire il denaro in un circolo economico virtuoso beneficiando chi della mia comunità non è potuto migrare come ho fatto io». In Guatemala, le rimesse sono aumentate dell’11,5% nei primi otto mesi del 2023 rispetto all’anno precedente e oggi rappresentano il 18,99% del Pil. Secondo l’ultimo report dell’Ong Acción contra el hambre realizzato in America Centrale, sia i migranti regolari che quelli irregolari inviano rimesse, ma i migranti regolari le inviano più frequentemente e con importi mensili più elevati.

Le donne sono un ridotto numero all’interno dei programmi di migrazione regolare, perché i datori di lavoro del settore agricolo normalmente preferiscono la manodopera maschile. «Mi sento fortunata a essere stata selezionata l’anno scorso – racconta Roselia -. Noi donne abbiamo dimostrato di poter lavorare anche più velocemente degli uomini. Per questo dovrebbero darci più opportunità di viaggiare, soprattutto perché per noi donne migrare con il coyote spesso significa subire violenza fisica e sessuale; quindi, darci un visto significherebbe salvarci la vita». Mentre Roselia sta aspettando che le venga rinnovato il visto per tornare negli Stati Uniti, Vilma e Juan sono nuovamente in South Dakota da marzo 2024, dove resteranno per alcuni mesi. Lavorano duramente tutta la settimana dal mattino alla sera e la domenica riposano. Ogni giorno chiamano le loro famiglie, per raccontarsi la giornata vicendevolmente e per sentirsi un po’ meno soli. Anche se a volte si sentono tristi perché lontani da casa, il pensiero di tornare presto e di migliorare la vita nel loro Paese d’origine li riempie di energia. «Le autorità guatemalteche dovrebbero considerare che le persone se ne vogliono andare dal Guatemala perché non c’è lavoro e quando c’è è mal pagato – conclude Juan -. Per questo motivo dovrebbero facilitare il processo di reclutamento in Canada e negli Stati Uniti, permettendo a tutti di migrare regolarmente. Stiamo costruendo il Guatemala con le nostre stesse rimesse, quindi lo Stato ha il dovere di rispettare i nostri diritti e darci la possibilità di viaggiare senza rischiare di morire».

Simona Carnino

Vilma con la sua famiglia. Guatemala. Foto Simona Carnino

 




Desert dumps: migranti come rifiuti

 

Il 21 maggio è stata pubblicata un’inchiesta giornalistica che porta diverse prove di come i finanziamenti dell’Unione europea ai paesi del Nord Africa siano utilizzati per perpetrare violenze nei confronti dei migranti subsahariani.

Nell’inchiesta sono coinvolte alcune delle più importanti testate internazionali come il The Washington Post, Le Monde, El Pais, Lighthouse Reports e altre che hanno lavorato insieme per un anno per mostrare al mondo intero come i fondi dell’Unione europea e dei suoi paesi membri siano utilizzati nel Nord Africa per portare avanti operazioni violente e aggressive.

Viene raccontata la storia di François, trentottenne camerunense che è stato intercettato, insieme alla moglie e al figlio di 6 anni, su un barcone che stava solcando le acque del mediterraneo. Era la quarta volta che provava a imbarcarsi ma la Guardia costiera tunisina li ha fermati e riportati sulla terra ferma. Sono poi stati caricati su un camion che li ha obbligati a scendere in una zona remota del deserto vicino al confine con l’Algeria.

È proprio questa la pratica che dà il nome all’inchiesta, intitolata «Desert dumps», ossia discariche nel deserto, a indicare il modo in cui spesso vengono trattati i migranti che sono scaricati come rifiuti in mezzo al deserto. L’obiettivo è, nel caso le persone non muoiano, che desistano dal riprovare la traversata.

È la complicità dell’Unione europea il fulcro dell’inchiesta, vengono portate alla luce diverse prove di come in queste operazioni repressive abbiano avuto un ruolo i fondi europei. In teoria ogni finanziamento di Bruxelles dovrebbe essere vincolato al rispetto di certi standard di diritti umani, in pratica i soldi dei cittadini europei sono stati usati per finanziare gli addestramenti del personale di polizia e per fornire mezzi di trasporto, terrestri e marittimi, utilizzati in diverse di queste operazioni violente.

L’inchiesta si concentra su tre paesi: Tunisia, Marocco e Mauritania. Attraverso accurate ricostruzioni con le testimonianze dei protagonisti di queste storie, i video fatti dagli stessi e poi verificati analizzando le tracce Gps degli smartphone sono emerse situazioni preoccupanti. Ad esempio, dai video girati da François in mare, si distingue l’imbarcazione della Garde nationale maritime tunisina che lo ha intercettato, è una motovedetta di un particolare modello che era menzionato espressamente in un accordo stipulato tra Italia e Tunisia.

I video provenienti dal Marocco mostrano invece dei Toyota Land Cruiser, veicoli donati al paese dall’agenzia governativa spagnola FIIAPP che finanzia nel paese un progetto per combattere l’immigrazione irregolare. E veicoli analoghi sono stati identificati in Mauritania.

Sono questi quindi i contesti in cui si inseriscono i diversi accordi che l’Unione europea e i suoi paesi membri continuano a stipulare con i paesi del Nord Africa. Uno degli ultimi è stato fatto proprio con la Tunisia, si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci principali, di cui due rese disponibili da subito, che comprendono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del paese nordafricano e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori.

Questi soldi dati, con scarsi controlli su come verranno utilizzati, a un governo sempre più autoritario e che fa del razzismo uno dei suoi cavalli di battaglia, rischiano di diventare l’ennesima violazione dei diritti umani dei migranti portata avanti con la complicità dell’Unione europea.

Mattia Gisola